Racconti gourmand. Nove.
Lui e lei sul sedile davanti, io dietro. L’auto tutto sommato era comoda. Avevo un appuntamento a Parigi con un giovane fiore d’Oriente. Pur di scroccare un passaggio mi andava bene anche la parte dello chaperon. Lui editore, lei critica d’arte, uniti dalla bava, uno dei tanti significati del titolo della rivista che li aveva fatti diventare amanti.
L’estate volgeva al termine, la vacanza di lei in Italia era finita. Lui la stava riportando dal suo compagno francese, un gallerista à la page. La tensione si poteva tagliava con il coltello. Per tutto il viaggio non fecero altro che litigare sul pugno di artisti che il compagno di lei rappresentava. Arrivati a Parigi intorno alle due del pomeriggio lui decise di alloggiare per quella notte nel mio stesso hotel. Ci salutammo. Si chiuse in camera con lei e fecero sesso per l’ultima volta. Lo rividi il giorno dopo, mi pregò di accompagnarlo ad una cena dove avrebbe dovuto concludere un affare. Era livido ed aveva gli occhi rossi. Mi raccontò che lei, in una delle tappe che facemmo prima di entrare a Parigi, aveva telefonato al suo compagno per assicurargli che sarebbe arrivata per le cinque, ma non era riuscita ad essere puntuale. Suonò il campanello della casa in cui viveva con lui con trenta minuti di ritardo. Lo trovò sprezzante e furente. Lei lo ammansì spogliandosi e offrendosi, sembrò che questo avesse dissolto la tensione, dopo quando lui andò in bagno per le abluzioni tornò da lei ancora distesa sul letto con un rasoio a lama libera e senza dire una parola la punì con una rasoiata su una spalla. Poi come se niente fosse la medicò. Lei la mattina del giorno dopo gli aveva mostrato il grosso cerotto sulla scapola, la ferita le faceva male, ma non era preoccupata, anzi, sembrava contenta della gelosia del gallerista e fiera di quello che le aveva inflitto. Una contentezza che rivelava un legame perverso e masochista di una donna ossessionata dal sesso. Lo dico con il senno di poi, considerato ciò che scriverà della sua vita intima in un libro che l’argomento trasformerà in un best-seller. A me affascinavano le circostanze. Questo gallerista aveva lasciato per due settimane la sua compagna nelle braccia di un altro senza neppure cercarla una volta, ma si era lasciato travolgere dalla gelosia per trenta minuti di ritardo. Sublime! Il tutto aveva il sapore di altri tempi, la piega amara della tragedia, la finezza di un feuilleton di Crebillon fils.
Il ristorante era nella rue Thérèse, vicino al giardino del Palais-Royal. Oggi porta il nome della sposa di Luigi XIV, un tempo era la rue Hazard, fucina di ristoratori e di amori da passo, Boileau scrisse, “On a vu le vin et le hazard / Inspirer quelquefois une muse grossière”.
L’ingresso era discreto, varcata la soglia le luci soffuse illuminavano appena le pareti ricoperte da una boiserie con parti in gesso ceramico dorato, per terra erano stesi dei tappeti Aubusson di gusto floreale che i francesi chiamano China. Camerieri in abito da sera, cameriere in gonna nera e camicetta bianca scollata e trasparente, reggiseno nero di pizzo leggero che esaltava le aureole dei capezzoli. Quando arrivammo ci accompagnarono subito di sopra dove gli altri ospiti stavano aspettando. I miei capelli lunghi e la giacca militare in panno verde erano fuori luogo, ma ero abituato a queste imbarazzanti situazioni. In una stanza arredata come un boudoir era stato apparecchiato un tavolo in modo principesco, tovaglia in fiandra, massicce posate argentate, due candelabri a quattro fiamme con candele rosse, un paio di servomuti per tenere lo champagne in fresco, i secchielli già riempiti di Gosset, Grande Réserve. Naturalmente bien frappé e non glacé, pronti a essere stappati. Negl’occhi di chi avevo accompagnato c’era lo sgomento, non capiva dove fossimo finiti. Mi spiegò rapidamente che era lì per trattare una commessa di un migliaio di borse portadocumenti in plastica grigia. Dei nostri ospiti, tre donne in vaporosi abiti da sera e cinque uomini elegantemente vestiti, conosceva solo chi l’aveva invitato. Rotto l’imbarazzo, la situazione surreale cominciò a divertirmi, ci mettemmo a tavola. Subito arrivarono i camerieri che in un angolo allestirono l’intera cena coprendo i vassoi con delle cloche, poi riempirono i bicchieri, chiesero di altri desiderata e se ne andarono chiudendo la porta con discrezione che all’interno ostentava un catenaccio a leva ottocentesco. La cena era pessima, il potage insipido, i crostacei senza aglio galleggiavano in una salsa dolciastra e indefinibile. La spigola (bass) sembrava cucinata nella mensa di un ospedale. L’unica cosa che si salvava era il dessert, delle isole flottanti (iles flottant). In compenso i vini erano all’altezza dei peccati che lì si consumavano! Era un ristorante per partouse, o meglio, visti i prezzi per partie carrée.
Me la svignai appena possibile, in un altro angolo di Parigi, in un’altra stanza, decorata di seta blu, di cigni e fiori di pesco, mi aspettava una giovane signora thailandese irata con il marito, un diplomatico sempre occupato in affari di Stato. L’avevo conosciuta davanti agli scaffali d’incensi e di spezie da bruciare in un negozio della Compagnia delle Indie, la mia incompetenza l’aveva fatta ridere ed io ne avevo approfittato per invitarla a bere un tè da Fouchet, poi da cosa era nata la “cosa”.
L’editore d’arte, che avevo accompagnato, non riuscì a concludere l’affare, il giorno dopo ripartì per l’Italia, la sua amante francese ritornò ai suoi vernissage, io restai ancora qualche giorno, sognando le tartarughe sulla spiaggia di Mai Khao e godendomi le ultime foglie dell’avenue de l’Observatoire dai tavolini della Closerie di Lilas.
Iles Flottantes.
Qualcuno le chiama anche oeufs à la neige (eggs in snow), ma non sono la stessa cosa, se non altro queste non prevedono la glassa al caramello. Negli anni Settanta erano ritenute il dessert ideale per chiudere una cena elegante, solo perché erano e sono difficili da realizzare come si deve.
Gli ingredienti che le compongono sono semplici, uova, latte, zucchero, vaniglia e poche altre cose, il resto è abilità. Gli albumi a neve ferma che dovrebbero galleggiare sul latte suggerirono il nome di questo dessert in cui trionfa la crème anglaise vanigliata. Sempre più spesso, però, questa crema è appoggiata su della panna liquida leggermente addensata. Da dolce delle mamme bricoleur che non buttano via niente a dessert di ristorante di lusso quello che le ha promosse è la “messa in scena”. A chi scrive è capitato di vederle servire in fiamme, altre volte rovinate da palline di gelato, ma è inutile cercare di migliorarle! Tra i centosessanta mila link a cui rimandano le immagini di Google non c’è ne una che sia quella che dovrebbe essere. Meglio così, lasciamole avvolte nel loro mistero.
Chi volesse cimentarsi a farle ricorra alle istruzioni del Larousse Gastronomique.