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Seconda Esercitazione

Politecnico di Milano, Anno Accademico 2012-2013

Cattedra di FOOD-DESIGN.

(Seconda esercitazione, mercoledì 13 marzo 2013)

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A building/a meal: analogies.

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A noir, E blanc, I rouge, U vert, O bleu: voyelles, / Je dirai quelque jour vos naissances latentes:
A, noir corset velu des mouches éclatantes / Qui bombinent autour des puanteurs cruelles,
Golfes d’ombre; E, candeur des vapeurs et des tentes, / Lances des glaciers fiers, rois blancs, frissons d’ombelles; /  I, pourpres, sang craché, rire des lèvres belles / Dans la colère ou les ivresses pénitentes; / U, cycles, vibrements divins des mers virides, / Paix des pâtis semés d’animaux, paix des rides / Que l’alchimie imprime aux grands fronts studieux; / O, suprême Clairon plein des strideurs étranges, / Silence traversés des Mondes et des Anges: / – O l’Oméga, rayon violet de Ses Yeux!

Voyelles, Arthur Rimbaud 1871.

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Alexandre Balthasar Laurent Grimod de La Reynière (1759-1837), parigino di nascita, è il padre e l’inventore della “scrittura gastronomica”.  Si vantava di aver ereditato dalla famiglia una piccola fortuna e un grande appetito con i quali realizzò molti dei suoi sogni e si costruì una solida fama di gourmet.

Divenuto avvocato cominciò a patrocinare, per principio, le cause della povera gente, insofferente alle tradizioni scrisse un libello contro la nobiltà, fu espulso dalla professione.  Ci rimase male, ma questo episodio gli salvò la testa durante la Rivoluzione Francese.

Amava accompagnarsi ai filosofi e alla gens de lettres, i suoi déjeuners bihebdomadaires divennero una tradizione nei salotti parigini.

Il 1 febbraio del 1783 organizzò una cena per diciassette amici convocati con un biglietto listato a lutto.  Voleva dimostrare che si poteva essere filosofi e materialisti, per l’occasione regalò ai suoi ospiti il suo ultimo libro, Réflections philosophiques sur le plaisir.  Par célibataire.

Amava i banchetti a tema soprattutto quelli “archeologici” con pasti che imitavano gli antichi baccanali.  Nonostante alcuni gravi handicap fisici ebbe una vita con molte avventure, compreso il carcere e l’esilio.  Rischiò anche di finire in manicomio.

Sotto il Consulat inizia la pubblicazione di L’Almanach des Gourmands, una guida gastronomica per gli appassionati della cucina.  Il successo fu enorme e la piccola storia racconta che se ne approfittò per “minacciare” con i suoi giudizi ristoratori, pasticceri e cuochi.

Nel 1808 diede alle stampe il Manuel des amphitryons.  È un libro brillante e arguto.  In esso il suo autore mescola l’arte della tavola, al teatro e all’architettura.  “Luoghi” in cui regnano la commoditas e la voluptas, come già qualche secolo prima aveva scritto Leon Battista Alberti.

La Reynière espone e definisce il pasto come l’architettura di un palazzo suntuoso dove ciascun servizio ne costituisce un elemento.  Leggiamo.

“ Il potage sta a una cena come il portico o il peristilio a un edificio.  Vale a dire non solo è l’entrata del pasto, ma deve essere progettato in modo di dare un idea di ciò che seguirà.  Esattamente come in un’opera comica l’ouverture deve annunciarne il soggetto.  Le entrate formano il primo piano e gli appartamenti più importanti.  A questo proposito gli Horsd’oeuvre, come piccoli cabinets o boudoirs, valorizzano i piatti più importanti e li completano.  Possiamo anche dire che l’arrosto rappresenta il salone d’onore, la stanza principale, quella in cui si concentra l’orgoglio del proprietario, quella che meglio ha decorato.  Un luogo destinato a ricevere gli ospiti importanti, con l’arredo più bello.  Gli entremets, invece, vanno equiparati agli attici, hanno il soffitto basso, non sono grandi ma decorati con estrema eleganza.  Le salse infine costituiscono i mobili senza i quali gli appartamenti sarebbero disabitati”.  (Potpourri tratto dagli scritti di La Reniére)

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Per il senso comune l’analogia è la somiglianza tra due cose.

Gli scolastici dicevano che con essa era possibile pensare una relazione tra gli essere designati con un nome comune.  Relazione che aveva ai suoi estremi l’equivocità e l’univocità.

Nel contesto della nostra esercitazione definisce la messa in relazione di circostanze appartenenti a domini diversi della realtà in modo che sia possibile stabilire delle corrispondenze entro queste circostanze.

Per esempio Platone costruisce un’analogia tra le tre parti dell’anima  – la ragione, il coraggio, il desiderio – e le tre classi della città ideale – il re-filosofo, i suoi guardiani, i produttori – perché per questo filosofo l’anima è nel piccolo quello che la città e nel grande.  Nel ‘600 il medico inglese William Harvey stabilì un’analogia tra il cuore è la pompa.  Descartes – Cartesio – pressappoco negli stessi anni elaborò un’analogia tra i suoni e i colori.  Ernest Rutherford a cavallo tra 800 e 900 vide un’analogia tra l’atomo e il sistema stellare.

L’analogismo – insieme alla deduzione e all’induzione – è una delle più importanti forme di ragionamento.  Con essa si stabiliscono dei rapporti tra domini diversi della realtà sia per illustrare una tesi che per scoprirne uno sconosciuto.

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Scopo dell’esercitazione è quello di stabilire una relazione analogica tra il luogo in cui abitiamo e le nostre abitudini alimentari.  In altri termini. Come il luogo che abitiamo può essere “narrato” dalla forma di cibo?   Come dice La Reynière, è l’arrosto che “incarna” il salotto buono di casa?  C’è una relazione tra l’interno del nostro frigorifero e l’appartamento che abitiamo?

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L’elaborato può essere sviluppato con il mezzo espressivo che si ritiene più opportuno, fotografia, disegno, fumetto, collage, rappresentazione elaborata per via elettronica.

 

L’elaborato dovrà essere presentato stampato su un foglio A3.

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(Per meglio sviluppare l’obiettivo di questa esercitazione suggeriamo agli studenti di cliccare in rete “figure retoriche”. )

 

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Prima esercitazione

Politecnico di Milano, Anno Accademico 2012-2013

Cattedra di FOOD-DESIGN.

(Prima esercitazione, mercoledì 6 marzo 2013)

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LOOKING THROUGH THE BREAKFAST.

Man ist was Mann isst

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“Ah se fossi un indiano, ecco qua, pronto, sul cavallo in corsa, obliquo nel vento, scosso da brevi sussulti sul suolo sussultante, fino a gettare gli sproni, che non ci sono, fino a buttare le redini, che non ci sono, fino a intravedere appena la prateria rasata che mi fugge davanti, senza più collo né testa di cavallo.”

(Franz Kafka, Racconti 1913)

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 L’dentità soggettiva nelle scienze sociali è l’insieme delle proprie caratteristiche auto-percepite, costituisce una forma d’identità fluida, difficile da circoscrivere, carica di ombre, con la quale dobbiamo fare in continuazione i conti.  Essa, però, è anche tutto ciò che ci caratterizza, ci rende inconfondibili, ci consente di dare un senso all’idea di “Io”.  In questo modo l’identità soggettiva serve sia ad identificarci che a discriminarci, producendo spesso degli stereotipi culturali che alimentano il pregiudizio e i luoghi comuni.

Di contro l’identità oggettiva, che non necessariamente coincide con quella soggettiva, è la questione sulla quale convergono almeno tre rappresentazioni di ciò che siamo:

La nostra identità fisica, che si desume principalmente dal volto, dalla postura e dal sesso.

La nostra identità sociale, ovvero l’insieme di alcune caratteristiche quali l’età , lo stato civile, la professione, la classe di reddito.

La nostra identità psicologica, costituita dalla personalità che abbiamo, dalla conoscenza di sé, dallo stile di vita e di comportamento.

Sono identità che variano più o meno rapidamente e coscientemente.  Più o meno indipendentemente da quello che noi vogliamo o siamo in grado di volere.

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Va anche considerato che queste due rappresentazioni dell’identità, anche se non coincidono, sono profondamene intrecciate tra di loro.  Per esempio, il mio modo di vedermi è in larga misura il riflesso della maniera in cui mi guardano gli altri e della maniera in cui io so che gli altri mi vedono, con il risultato che molto spesso i giudizi che esprimiamo o riceviamo sono improntati sulla malafede, sulla cortesia, o godono di una benevolenza parentale ed amicale.

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 L’identità soggettiva indica anche la capacità degli individui di aver una coscienza dell’esistere e di “permanere” attraverso tutte le fratture dell’esperienza.

In filosofia è stato John Locke (1632-1704), nel Saggio sull’intelligenza umana, ad affrontare alla radice il tema dell’identità soggettiva in un’epoca in cui entra in crisi la vecchia rappresentazione metafisica e religiosa dell’anima intesa come un’ancora che ci tiene legati al senso del mondo e del suo divenire attraverso il tempo.

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È opinione condivisa che gli atti alimentari riflettono la nostra personalità.  Se gli alimenti che ingeriamo sono indispensabili alla vita, il nostro gusto, lo stile con cui mangiamo, les nos manières de table ci situano nel mondo e nella società.

La nostra identità, da questo punto di vista, si costruisce attraverso le abitudini dell’infanzia, i modi alimentari della classe alla quale apparteniamo o quella alla quale vorremmo appartenere, dalle nostre relazioni familiari.

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Dal “Man ist was Mann isst” a “Dimmi quello che mangi e ti dirò chi sei”, il passo è breve, a tal punto che certe teorie psicosomatiche parlano della bulimia, dell’obesità e dell’anoressia come segni di una incapacità ad esprimere i sentimenti, in particolare quelli di ostilità e di collera verso gli altri o verso se stessi

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Obiettivo dell’esercitazione è la realizzazione di un autoritratto che esprima – attraverso il posto della prima colazione, come la prepariamo, quello che mangiamo – la nostra “identità soggettiva” o quello che riteniamo sia una rappresentazione di essa.
Utilizzare, come formule espressive, solo se stessi e gli elementi che compongono la propria sfera domestica.

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L’autoritratto può essere elaborato con il mezzo espressivo che si ritiene più opportuno, fotografia, disegno, fumetto, collage, rappresentazione elaborata per via elettronica.

 

L’elaborato dovrà essere presentato stampato su un foglio A3.

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“…il mio modo di vedermi è in larga misura il riflesso della maniera in cui mi vedono gli altri e della maniera in cui io so che mi vedono gli altri: normalmente si “chiede” ad altre persone di dirci chi siamo. A questo punto, però, veniamo a trovarci in una situazione abbastanza spinosa, perché di norma non domandiamo a tutti gli altri di definirci e di illuminarci sul nostro carattere, ma operiamo una selezione tra le persone che reputiamo deputate a tal compito: esse sono essenzialmente i nostri familiari e i nostri amici. In questo modo accade che coloro che dovrebbe farci conoscere le nostre peculiarità caratteriali, sono proprio quelle persone che tendono a presentarci la versione più gradevole e più accettabile della nostra personalità. Di conseguenza, spesso si vengono a creare delle situazioni improntate sulla malafede, perché l’immagine di me stesso che mi sono creato risulta più favorevole dell’immagine che ho delle persone esterne alla cerchia più intima dei miei conoscenti.”

Giovanni Jervis.

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