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Antropologia culturale IED –Anno accademico 2013-2014.

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Questa che segue è la parte introduttiva al corso.  Su questo stesso sito sono già state pubblicate tre “glosse” su punti specifici del programma di particolare rilevanza. 

 

Testi di riferimento: 

Carol R. Ember, Melvin Ember, Antropologia culturale, 2004.

Yehuda Elkana, Antropologia della conoscenza, 2000.

David Le Breton, Il sapore del mondo, 2006.

(I testi di riferimento sono pubblicati nelle principali lingue europee.)   

 

Ambiti e obiettivi dell’antropologia…

 

Lo scopo dell’antropologia è quello di rendere il mondo più

sicuro per le differenze umane. 

Ruth Benedict.

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Da qualche anno a questa parte l’antropologia culturale è divenuta una disciplina popolare, questo però non vuol dire che sia chiaro a tutti ciò che essa è.

Cominciamo allora con il dire che nonostante sia ancora caratterizzata dalla ricerca sul campo e dagli studi etnografici – cioè, dall’essere stati là – l’antropologo non ha nulla in comune con le imprese di Indiana Jones.

 

Al contrario possiamo dire che, soprattutto in questo ultimo quarto di secolo, gli antropologi hanno fatto ritorno a casa, i terreni di ricerca sono mutati e gli eventi di cui si occupa questa disciplina sono sempre più spesso quelli nei quali siamo immersi e che spesso non comprendiamo.

 

Significativo a questo proposito è stata una ricerca, che ha anche ricevuto numerosi riconoscimenti, di Philippe Bourgois, In search of Respect, del 1995, di cui nel 2003 è uscita una nuova edizione aggiornata, sullo spaccio di droga in uno dei quartieri – per meglio dire ghetti – più duri di New York, l’East Harlem.

Bourgois insegna alla Pennsylvania University, ma qual è il suo merito?  Di non averla scritta a tavolino mettendo insieme rapporti di polizia e sentito dire, ma di essersi trasferito in questo quartiere e di aver guadagnato la fiducia e la stima dei pusher penetrando nelle complesse strutture relazionali che compongono le bande giovanili.

 

Altrettanto significativo e il lavoro di Marc Augé, Un ethmologue dans le métro del 1986, che dopo aver lavorato sul campo in Africa ritornato a casa si è messo a osservare il mondo dei pendolari  metropolitani enucleandone riti e istituzioni.  Il métro e quello di Parigi e questo libro ha inaugurato quello che i francesi chiamano una ehtnologie du proche.

Qual è, allora, il terreno dell’antropologia?

Come dice il nome stesso l’antropologia studia l’essere umano sotto tutti i suoi aspetti fisici e culturali in una prospettiva olistica.

L’olismo è un paradigma filosofico o, più semplicemente, una posizione metodologica basata sull’idea che un sistema non è riducibile alla somme delle sue parti.

Olos in greco indica il tutto, l’intero, o, meglio, la totalità.

 

I professori di liceo spiegano la concezione olistica di un sistema facendo notare che se sommiamo semplicemente le parti di un aeroplano queste non comporranno mai un oggetto che vola.

In altri termini è il concetto contrario del riduzionismo.

 

Ciò vuol dire che questa disciplina tende a definire l’umanità o, più specificatamente, le prerogative dell’essere umano intese come quel complesso di caratteri, di qualità, ma anche di limiti peculiari alla condizione dell’uomo sempre in movimento.

 

In termini generali l’antropologia nacque per ridefinire la specificità della condizione umana rispetto alla condizione animale, in ordine ai linguaggi articolati e figurati, ai riti funerari, agl’atti alimentari, agli habitat, alle tecniche, agli strumenti, al costume e alle relazioni sessuali e parentali, ai modelli di memorizzazione, di numerazione, di rappresentazione spaziale e temporale, eccetera.

 

Considerata in questa prospettiva essa porta in sé le contraddizioni della cultura ottocentesca basata sull’opposizione tra natura e cultura, contraddizioni da tempo superate, visto che oggi si tende a considerare la cultura come un aspetto della natura umana.

Infatti gli uomini attraverso la cultura sono in gradi di adattarsi al proprio contesto ambientale in modo specifico.

Da qui due osservazioni in sé ovvie.

Poiché i contesti ambientali sono diversi le culture che ci consentono di abitarli saranno differenti.

Ancora, la cultura è appresa e gli uomini sono o dovrebbero essere in grado di comprendere le loro esperienze e di saperle trasmetterle nel modo migliore.

 

In sostanza, utilizzando gli studi comparativi delle diverse società e etnie descritte dall’etnologia, l’antropologia mira a portare in luce l’unicità dell’umano attraverso le diversità culturali.

 

Una precisazione.

Ethnos in greco significa popolo o più precisamente una popolazione di esseri umani i cui membri si identificano in un comune ramo genealogico.

Il termine anthropos identifica l’uomo e spesso questo termine è usato con la maiuscola perché indica l’umanità.

 

Nella lingua italiana la parola uomo deriva invece dal latino hŏmo, un’espressione che rimanda a hŭmus, terra e che sottolinea la sua origine di essere della terra, un significato che conserva anche in francese e spagnolo.

 

In inglese l’etimo è diverso.  Man ha la sua origine nell’inglese antico nel quale significava, maschio adulto, come l’attuale termine tedesco di Mann, che deriva a sua volta dal proto-germanico mann, che significava persona.

 

La lingua latina per uomo ha anche un altro termine, vir.

È più connotato perché significa anche marito, maschio, eroe.  Da questo termine derivano anche l’aggettivo di virile e il concetto di virtù.

 

Per tornare in argomento, gli studi di antropologia hanno una storia recente che s’intreccia con altre discipline in modo più o meno evidente e importante.

 

Le due correnti di studi che, agli inizi del XX secolo, hanno rivoluzionato più di altre il paradigma originario dell’antropologia sono l’antropologia sociale inglese – di cui ricordiamo tra i suoi protagonisti almeno J.G. Frazer, B. Malinowski, A. R. Radcliffe-Brown – e l’antropologia culturale americana – con Franz Boas, Marvin Harris, Clifford Geertz, Margaret Mead, Rurh Benedict.

 

Per semplificare, l’antropologia europea si occupò soprattutto dei comportamenti, delle strutture sociali, dei ruoli e delle istituzioni, del divenire delle forme culturali e storiche, mentre l’antropologia statunitense focalizzò la sua attenzione sui modi di formarsi delle ideologie e sullo studio delle forme simboliche, in particolare artistiche, e mitografiche.

 

Prima di proseguire va segnalato da subito anche un altro orientamento che è emerso nell’ambito dell’antropologia americana, tendente a attribuire una grande importanza agli aspetti culturali dei processi comunicativi e linguistici, ai modi di pensare e alle forme dell’azione.

In questo ambito gli istituti universitari americani di antropologia hanno spesso collaborato con le autorità federali nella gestione delle relazioni con i paesi non-occidentalizzati e per ottimizzare i contatti trans-culturali, il più delle volte con intenti non accademici, ma diplomatici o di egemonia politica.

 

Considerata dal punto di vista del suo paradigma multidisciplinare possiamo oggi delineare nell’antropologia quattro importanti sotto-discipline.

– L’antropologia biologica – che studia il modo di trasmissione delle cause e degli effetti delle variazioni biologiche e delle loro evoluzioni tra i gruppi umani.

– L’etnologia – che studia le linee parentali e dell’organizzazione sociale, culturale, religiosa, i costumi e gli aspetti simbolici.

– L’archeologia – che studia le società umane attraverso le vestigia materiali che hanno lasciato dietro di se.

– L’etnolinguistica – che studia le variabili linguistiche delle varie società anche per mezzo della socio-linguistica e della dialettologia.

Questa disciplina appare specialistica e limitata, ma non lo è perché sempre più spesso aiuta a sciogliere i complicati equivoci che derivano da una cattiva interpretazione dei significati che rimandano alla tradizione culturale e storica.

Un esempio.

In lingua baluci, una delle tredici che si parlano in Pakistan, la parola zât indica un gruppo d’individui che discendono dallo stesso antenato, in sostanza rinvia al lignaggio, alle persone che appartengono alla stessa discendenza.  Questi lignaggi nella la società baluci sono disposti in modo gerarchico.

Gli inglesi tradussero zât con casta e ne fecero un uso burocratico, così si alterò per sempre  lo spazio semantico di questa parola.

Ancora oggi nel linguaggio comune equivale a gerarchia determinata dalla nascita.

 

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Veniamo al nostro corso.

Una volta che avremo completato l’analisi del paradigma antropologico e delle sue funzioni ci muoveremo in modo monografico affrontando otto temi scelti tenendo anche conto delle possibili attività professionale che svolgerete in futuro.

Essi sono:

– Il concetto di cultura e le caratteristiche che lo definiscono.

– La comunicazione e le origini del linguaggio.

– I sistemi alimentari e i sistemi economici.  Le origini della produzione del cibo e la fame.

– L’invenzione dello spazio dell’abitare.  La caverna, il muro, il tetto.

– Il nomadismo.

– Il fare umano e la metamorfosi dei luoghi.  La sovranità dei luoghi e l’egemonia dei non-luoghi.

– Il corpo come oggetto artistico.  L’arte degli “Altri”.

– I mutamenti indotti dalla fluidità culturale.

 

Rappresentano una piccolissima parte degli argomenti della moderna antropologia che spazia dalla paleoantropologia al folclore, dall’etnomusicologia all’antropologia interpretativa, dal multiculturalismo alla geometria sacra, dall’etnorganologia all’antropologia esistenziale, per citare alla rinfusa.

In questo senso, così come analogamente è avvenuto nelle scienze sociali, il paradigma originario di questa disciplina si è successivamente articolato in antropologia cognitiva, giudiziaria, delle relazioni uomo-animale, della salute, dell’arte, dell’alimentazione, del corpo, dei luoghi abitativi, della storia muovendosi dentro le diverse aree culturali dell’Africa, dell’America Latina, dell’Asia, dell’Europa, dell’Oceania.

Fine premessa.

 

Come abbiamo già notato ci sono due aspetti dell’antropologia culturale che vanno tenuti presenti per comprenderne la specificità e il fine.

Il primo  sottolinea come da un coacervo di altre discipline – sociologia, psicologia, scienza politica, diritto coloniale, economia, storia, eccetera – circa un secolo fa è emerso quel percorso di questa disciplina che l’ha resa unica e gli è valsa un’identità accademica.

 

Il secondo e il progressivo estendersi della ricerca antropologica dalle culture non occidentali – spesso definiti primitive – allo stesso mondo occidentale, dalle aree industriali e urbane agli habitat della tradizione agricola, senza una spartizione delle competenze.

In altre parole è come se il cuore del discorso antropologico sia passato dalle culture dell’uomo all’uomo stesso, come umanità.

 

Dei due rami dell’antropologia, fisica e culturale, noi ci occuperemo di alcuni aspetti specifici di questo secondo, ma conviene dire due parole anche su che cos’è l’antropologia fisica.

 

È una disciplina che studia sia l’origine e l’evoluzione del genere umano, sia le variazioni di esso sul territorio.

Per ricostruire il percorso dell’evoluzione umana i paleontologi studiano i resti fossili ed è proprio da questi studi condotti in Africa orientale che sono emersi ritrovamenti fossili di ominidi risalenti a circa tre milioni di anni fa, che ci hanno mostrato come è pressappoco in questo periodo che l’uomo cominciò a assumere una postura eretta, a sviluppare l’uso delle mani e a presentare un’accresciuta massa celebrale che molti attribuiscono a una accentuata dieta carnea.

 

Il secondo oggetto dell’antropologia fisica riguarda la variabilità umana e sottopone a esame le differenze fisiche o biologiche tra le popolazioni.

Deve essere assolutamente chiaro che l’intero genere umano vivente appartiene a una sola specie, l’Homo Sapiens.

Ciò non impedisce che vi siano appariscenti differenze tra i vari gruppi umani che dipendono dalle modalità di adattamento all’ambiente.

Al di là dei deliri dei razzisti, infatti, l’antropologia fisica si avvale di tre scienze di cui possiamo essere sicuri dei risultati, come la genetica, la biologia e l’epidemiologia.

 

Ma veniamo all’antropologia culturale.

Qui il termine cultura si riferisce alle abitudini mentali e comportamentali tipiche di una popolazione o di una società.

Questa cultura è costituita dalla lingua, dal bagaglio delle esperienze che si sono accumulate e che  sono condivise, dalle credenze magiche, religiose o spirituali, dalle abitudini alimentari, dalle forme dell’esperienza emotiva, come sono le espressioni definite artistiche, dal modello delle attività lavorative e dai tabù o, se preferite, dall’attività simbolica, tanto per enumerare gli aspetti più rilevanti e più studiati.

 

A questo proposito va specificato che la ricerca storica riguarda quasi esclusivamente le società che hanno lasciato tracce scritte.

È stimato che mentre le società umane esistano da circa un milione di anni, le tracce scritte non vanno oltre i cinquemila anni, ma solo una piccola percentuale di queste società non ha sviluppato una qualche forma di registrazione della propria cultura.

 

Là dove non c’è la scrittura è l’archeologia che fa la storia.   Lo fa studiando i resti della cultura  materiale, come nel caso dei Maya, vale a dire i templi o le abitazioni, là dove esistono, il vasellame, gli utensili di pietra, i cumuli di rifiuti.

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Apriamo una piccola parentesi sull’importanza documentale dell’alimentazione nello studio dell’uomo prima della scrittura.

Fino a pochi anni fa lo studio di epoche prive di documenti (scritti o iconografici) era appannaggio di quattro figure di ricercatori.

Il paleontologo, l’antropologo, l’archeologo e lo studioso della preistoria.

In questo contesto lo studio degli atti alimentari era considerato secondario.

Oggi, invece, la ricerca è in piena mutazione.

 

L’analisi del problema della nutrizione, per esempio, è divenuta una disciplina autonoma, definita

paleofisiologia.

Questa disciplina, che si avvale anche dei dati che riceve dalla primatologia, cioè dallo studio dei primati, consente oggi di determinare, come dicono i ricercatori, ciò che è probabile.

Su questo tema si sono costituite alcune discipline specialistiche, come la paleo-etologia, che mira al catalogo della flora e della fauna.

L’archeo-zoologia, la paleo-botanica, la palinologia, che studia i pollini, la paleo-carpologia che studia le paleo-semenze.

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Abbiamo,anche, la paleo-patologia che permette di diagnosticare le malattie della nutrizione.

L’antracologia che studia la formazione dei carboni, la tracceologia che tenta di ricostruire l’alimentazione degli uomini preistorici in base ai loro resti ossei, dentari e fecali.

Infine, molte di queste discipline sono dominate dalla bio-geochimica fondata sulla marcatura isotopica.

È una disciplina che sfrutta le possibilità offerte dallo studio del DNA, l’acido della vita.

Per fare un esempio significativo, è proprio dalle indagini sul DNA che abbiamo scoperto come il famoso uomo di Neandertal è di una specie diversa dalla nostra.

Si è accertato che sparì circa trentamila anni fa, ma non conosciamo il perché.

Oggi sappiamo di discendere dall’uomo di Cro-Magnon, dal nome del sito nella Dordogna, in Francia, in cui fu rinvenuto per la prima volta quest’uomo arrivato dall’Africa quarantamila anni fa.

A lui dobbiamo il perfezionamento del raschiatoio a lame leggere e le splendide pitture parietali di Lascaux.

Come è oramai evidente, l’alimentazione è oggi profondamente segnata dalla cultura, vale a dire è prima di tutto un fatto umano ed umanizzante.

Questo significa che un piatto a base di carne, elaborato con spezie ed aromi, è più simile ad una insalata di quanto l’insalata lo sia rispetto alle erbe mangiate da un erbivoro.

L’uomo, infatti, si distingue non solo per ciò che mangia, ma come mangia.

Questo “come” è anche un fatto cerimoniale di cui spesso dimentichiamo la singolarità.

Vale a dire, mangiare è un atto sociale ritualizzato.

Lo è a tal punto che le opzioni alimentari dell’uomo arrivano a giocare un ruolo fondamentale nella formazione della società.

In linea di massima, la concatenazione degli atti alimentari – acquisizione, trasformazione, consumazione del cibo – è un processo che condividiamo con gli animali, in particolare con i primati e molti mammiferi.

In sé, però, questa concatenazione è specificatamente umana o, meglio, ad un certo punto, da qualche parte nel corso della storia, si è verificata una metamorfosi, che ha modificato questo atto fondamentale della vita di tutti gli esseri viventi in un elemento della cultura umana.

Partiamo dall’azione del vivente di acquisire il nutrimento necessario alla vita.

Il suo trasporto verso la tana o l’habitat non è una discriminante, lo fanno a partire dagli insetti  tutti gli animali che hanno un ricovero con dei cuccioli o un nido.

Quanto alle modalità di trasformazione del cibo per poterlo incorporare sono le più diverse.

C’è la rottura, la triturazione, la pre-masticazione, l’essiccamento, l’imputritidura, la cottura, la combinazione tra cibi diversi.

In queste modalità c’è una prima discriminante, perché, anche se nel mondo animale si verificano delle trasformazioni fisico-chimiche del cibo, la specie umana è la sola che cuoce gli alimenti e li combina in modi diversi e complessi.

Siamo in presenza, dunque, di tecniche alimentari, più o meno coscienti, che in qualche modo appartengono a tutti i viventi e di un atto cucinario proprio della specie umana.

Va anche osservato che se gli animali non hanno tecniche cucinarie perché queste tecniche non sono funzionali a ciò che essi sono, ciò non toglie che essi non siano in grado di elaborare strategie alimentari complesse.

Quello che però conta è che la cottura degli alimenti ha drasticamente cambiato la fisiologia dell’uomo a tal punto che Lévi-Strauss ha sostenuto che questo atto insieme al ripudio dell’incesto ha fondato l’umanità sottraendola per sempre al regno naturale.

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Ritorniamo all’uomo.

Se si comprende l’importanza della comunicazione orale e scritta appare chiaro, come già abbiamo sottolineato in precedenza, che l’antropologia linguistica è un capitolo fondamentale per comprendere l’uomo e la sua umanità-

 

I quesiti tipici dell’analisi linguistica, infatti, riguardano la derivazione delle lingue più vicine a noi da un’unica forma più antica e del modo di come le lingue si sono imparentate tra di loro o si sono differenziate.

Altrettanto importanti sono lo studio dei principi secondo cui i suoni e le parole si sono organizzate nel discorso e delle modalità interattive della conversazione.

 

Facciamo un esempio e andiamo oltre.  Dire “ciao prof” non è come dire “buongiorno signor professore” o, meglio sono la stessa cosa ma in contesti diversi.

Comprendere come essi si formano è un significativo contributo a capire il modo di strutturarsi della società e il modo di formarsi dello status sociale e dell’educazione.

 

Andiamo avanti.

Paragonata alle conoscenze che abbiamo delle leggi della natura e del mondo fisico l’antropologia è ancora una scienza in formazione.

Potremmo dire che il gran numero dei problemi sociali, culturali e politici che ci affliggono dipende anche da questo.

Oppure, potremmo chiederci, se ciò è ovvio, perché l’antropologia è ancora all’inizio della sua storia rispetto alla complessità culturale che ci circonda.

 

A questo proposito alcuni antropologi hanno avanzato una spiegazione.

Nella storia della scienza,infatti, i fenomeni più lontani dall’uomo e meno influenti sul suo comportamento sono sempre stati i più studiati.

 

La ragione di questo potrebbe risiedere nel fatto che l’uomo ama considerare se stesso come un essere al di sopra delle leggi della natura e di conseguenza  non desideri essere oggetto di spiegazioni che non siano meramente ideologiche o, se si preferisce, metafisiche.

 

Ancora un addenda.

Uno.  Non dobbiamo mai dimenticare che l’aspetto esteriore di una cultura dipende in modo importante dall’adattamento all’ambiente.

I boscimani che abitano il deserto del Kalahari sono nomadi, vestono sommariamente e dividono il cibo tra di loro.  Agl’occhi di un londinese appaiono dei barbari, ma come vivrebbero i londinesi nel deserto del Kalahari?

Molto probabilmente come i boscimani, certamente senza gilet, bombetta e ombrello.

 

Due.  Gesti e distanza interpersonale sono importanti in quasi tutte le culture.  In molti paesi del medio Oriente la vicinanza con l’interlocutore permette di sentirne l’odore.

La diffusione dei deodoranti nell’area della cultura occidentale ci dice che noi preferiamo tenere la dimensione olfattiva al di fuori delle relazioni interpersonali.

Ma non mancano i paradossi, per esempio molti orientali sono convinti che i caucasici abbiano un cattivo odore.

Gli italiano sono convinti che l’odore delle persone dipenda dal loro reddito e dalla regione che abitano, per loro i poveri e quelli che vivono al sud hanno un odore più sgradevole dei ricchi.

Uno stupido proverbio razzista dice: In Italia ci sono i nordici e i “sudici”.

Per l’antropologia la conoscenza storica delle diverse culture è essenziale, perché solo prendendo coscienza della vulnerabilità specifica delle varie etnie e comunità è possibile valutare la qualità delle conquiste effettuate.

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Il concetto di cultura e le caratteristiche che lo definiscono. 

Noi siamo unici, lo siamo all’interno di una cornice, più o meno ampia, che ci contiene.

Da una parte riteniamo che le nostre idee, i nostri gusti, le nostre abitudini e le nostre manie ci appartengano, dall’altra la maggior parte di noi è d’accordo sul fatto che non sta bene mangiare il gatto del vicino, togliersi i pantaloni in pubblico e che si debba dormire nel letto e non nella vasca da bagno.

Questa cornice è ciò che gli antropologi chiamano cultura.

Noi diamo per scontata la nostra cultura, ma non è così.  In molte altre società si mangiano i gatti e i cani, si dorme per terra o sul pavimento e non si portano i pantaloni.

È stato lo sviluppo delle forme economiche e dei mezzi di comunicazione che ha fatto crollare certezze millenarie e obbligato gli uomini a riflettere sulla loro condizione.

 

Meglio, come abbiamo già ricordato, l’antropologia nacque – più cinicamente potremmo dire fu sponsorizzata – quando le pretese coloniali europee a partire dalla seconda parte del diciannovesimo secolo, si dovettero confrontare con differenze culturali addirittura impensabili e  sorse, per evitare equivoci e conflitti,  la necessità di cogliere e valutare le differenze e le somiglianze.

Questo confronto fu difficile perché in genere si tende a considerare corretti i propri comportamenti e a giudicare pericolosi o immorali quelli degl’altri.

Soprattutto, fu difficile per la cultura europea, ammettere che i nostri comportamenti potessero apparire barbari, strani o immorali a un osservatore di un’altra società.

Gli indù per esempio considerano barbara la nostra abitudine di macellare i bovini.

Per molte donne in Africa o nel sud-est asiatico, dove i neonati vivono in braccio della madre e comunque insieme agl’altri bambini, è crudele la nostra abitudine di lasciare soli i neonati dopo averli rinchiusi in gabbie o box o affidarli in gruppo a estranei.

In breve, il tema che abbiamo aperto e che stiamo focalizzando è quello del relativismo culturale.

Una teoria elaborata dall’antropologo statunitense Melville Jean Herskovits (1895-1963) a partire dal particolarismo culturale di Franz Boas.

Questa teoria dice che considerato il carattere universale della cultura e la specificità di ogni ambito culturale, ogni società è unica e diversa da tutte le altre, mentre i costumi hanno sempre una giustificazione nel loro contesto specifico.

 

Il concetto di relativismo culturale divenne molto popolare in campo antropologico, grazie anche a Margaret Mead, allieva di Boas, il cui studio su l’adolescente in una società primitiva può essere considerato paradigmatico dell’utilizzo di argomentazioni di carattere relativistico come strumento di critica della società occidentale.

Dalla teoria del relativismo culturale sono derivate numerose tesi che sostengono il rispetto delle diverse culture e dei valori in esse professati.

Tali tesi asseriscono, ad esempio, l’opportunità di un riesame degli atteggiamenti nei confronti dei paesi del terzo e del Quarto Mondo richiedendo più cautela negli interventi e criticando la tendenza coloniale e post-coloniale ad imporre un sistema culturale – che spesso ne maschera anche uno religioso – mediante l’intervento umanitario, gli aiuti per lo sviluppo economico e/o la cooperazione internazionale.

Il relativismo culturale, in sostanza, porta avanti la convinzione per cui ogni cultura ha una valenza incommensurabile rispetto alle altre, e ha quindi valore di per sé stessa e non per una sua valenza teorica o pratica.

Secondo il relativismo culturale i vari gruppi etnici dispongono quindi di diverse culture e tutte hanno importanza in quanto tali.

Il ruolo dell’antropologia viene di conseguenza ristretta all’analisi e alla conoscenza profonda di tali espressioni culturali da un punto di vista emico, mentre ogni valutazione di valore viene messa al bando come un espressione di etnocentrismo.

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Emic e Etic sono due espressioni usate nelle scienze sociali e del comportamento coniate da Kenneth Lee Pike (1912-2000) linguista, antropologo e glottologo americano.

Il termine emic si riferisce al punto di vista degli attori sociali, alle loro credenze e ai loro valori.  Rappresenta di fatto l’ottica del nativo.

Etic, invece, si riferisce alla rappresentazione dei medesimi fenomeni al opera del ricercatore o dell’osservatore.

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Molti sostengono che il relativismo culturale è ostacolato nelle sue valutazioni sia da un persistente etnocentrismo che dalla propensione a un giudizio positivo che spesso prende la forma di un’ammirazione acritica verso la vita semplice, da cui in passato il mito del “buon selvaggio”.

Vediamo meglio questo secondo punto partendo da questa domanda:  il frigorifero induce all’egoismo sociale?

La consapevolezza della complessità del mondo occidentale può portare a desiderare degli stili di vita più semplici e vicini alla natura.

È un atteggiamento condiviso da moltissimi giovani che sono spesso attratti dai sistemi di vita di altre etnie.

Per esempio, nelle etnie dove non ci sono mezzi di refrigerazione la spartizione della selvaggina fresca è una soluzione più ragionevole della conservazione di una scorta di carne avariata.

Tale sistema di spartizione garantisce la saldezza della “previdenza sociale” tra gli individui, perché non sempre la caccia è fortunata e se si è spartito il proprio bottino con gl’altri, gl’altri faranno la stessa cosa con me.

Questa condizione garantisce anche i troppo giovani e i troppo anziani che possono attingere a un fondo comune di cibo grazie anche al contributo della raccolta di frutti, semi e piante che si soprappone alla caccia.

Ma attenzione!

Va da sé che la comunanza delle provviste rappresenta una soluzione a una precisa situazione condizionata dall’ambiente naturale e non costituisce necessariamente la soluzione pratica ai problemi della società.

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In breve, il relativismo culturale è una teoria importante se noi siamo capaci di non farci sedurre, prendere la mano da uno spirito troppo romantico, perché esprimere giudizi non significa sempre precludere l’oggettività.

Nel linguaggio comune la cultura è il risultato di anni di studio, di giornate passate nei musei o nei teatri, d’impegno nella ricerca, la definizione antropologica, tuttavia è un’altra.

Essa pone l’attenzione sullo stile di vita di una società considerato nel suo insieme, senza fare distinzioni, né privilegiando un aspetto rispetto a altri.

Così, se nel linguaggio comune si è colti se si suona Bach al pianoforte o se si conosce la filosofia greca, per gli antropologi anche il modo di lavare i piatti, farsi il nodo della cravatta o guidare un automobile è un modo di fare cultura che si colloca allo stesso livello di suonare un pianoforte Steinway.

Ma quello che più conta è la conclusione che se può trarre, vale adire, per le scienze sociali non esistono individui o società senza cultura.

Ogni società per quanto semplice possiede una cultura così come ogni essere umano nella misura in cui è partecipe di una cultura.

 

Andiamo avanti.

Ciò che una persona fa o pensa dipende dalla suo storia sociale, ma non è un modello culturale.  Perché un’idea o un’azione siano culturali devono essere condivise da un gruppo più o meno grande d’individui.

 

Parlare delle usanze diffuse tra gl’individui che appartengono a una società significa occuparsi di una cultura.

Se invece queste usanze sono circoscritte a un gruppo all’interno della società si deve parlare di subculture.

Non esistono invece termini univoci che definiscano fenomeni che accomunano società differenti, ma solo perifrasi (giri di parole per essere più chiari) che includono il termine di cultura.

Così parlare di cultura occidentale è un modo sommario di riassumere i tratti culturali delle società europee, come parlare di culture della povertà è un modo per evidenziare le caratteristiche d’indigenza comune a molte società.

 

C’è anche da notare che la definizione di un tratto culturale non è rigida, ma lascia un margine alla variabilità individuale che può anche arrivare a non condividerlo.

Facciamo un esempio.

Nella nostra società è un tratto culturale che gli adulti vivano separati dai genitori, ma non tutti lo fanno se non ne hanno il desiderio.

 

Non tutti i fenomeni che accomunano i membri di una popolazione sono di ordine culturale.

Affinché un comportamento possa essere definito culturale deve essere appreso e condiviso.

Nutrirsi è una necessità umana, quindi non è un fenomeno culturale, lo sono invece le modalità di quest’atto che vengono apprese fin dall’infanzia e variano notevolmente da cultura a cultura.

Il tema dei comportamenti appresi è complesso e ancora in evoluzione.

Diciamo che gli uomini oppongono ancora una forte resistenza a cancellare quel rigido confine che hanno tracciato fin dall’antichità tra l’umano e l’animale.

Confine che l’etologia ha da molti anni definito falso sotto molti punti di vista a cominciare dalla capacità animale di esprimere sia emozioni primarie, come la paura o l’ira,  che complesse come la compassione e l’empatia.

In ogni modo, gli animali possono avere modelli di condotta sociale molto evoluti, ma scarsi tratti culturali, se si fa eccezione per alcune specie, come le scimmie antropomorfe.

Diciamo che i meccanismi dell’apprendimento e dell’imitazione sono essenziali solo alla specie umana nel senso che la quasi totalità di essi sono forgiati culturalmente e non ereditati geneticamente.

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Come abbiamo sottolineato un grande aiuto agl’uomini proviene loro dalla lingua naturale e dal linguaggio simbolico.

Infatti, tutte le popolazioni conosciute – a prescindere dal tipo di società – hanno un sistema complesso di comunicazione simbolica e parlata detta linguaggio e le proprietà simboliche del linguaggio hanno implicazioni fondamentali per la trasmissione della cultura, soprattutto della sua complessità.

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Ogni cultura poi ha le sue variabili individuali.

Possono essere molto ampie, ma devono restare circoscritte entro limiti accettati socialmente.

È il paradosso dei pantaloni, nella nostra cultura se fa molto caldo possiamo toglierci la giacca e magari aprire qualche bottone della camicia, ma non toglierci i pantaloni.

Così, di recente, per reazione, è nata la moda dei pantaloni corti che ci rende ridicoli, ma rispettosi di ciò che è giudicato da tutti come appropriato.

Naturalmente con il tempo anche questo senso del ridicolo sarà assorbito.

 

Diciamo che il principale limite alla variabilità del comportamento individuale è rappresentato dalla cultura stessa.

Il primo a aver studiato il carattere impositivo della cultura e il suo potere di coercizione è stato Émile Durkheim.

In genere non ci rendiamo conto delle imposizioni culturali perché ci conformiamo al esse facilmente.

In antropologia gli standard che stabiliscono ciò che è accettabile si chiamano norme sociali.

Possono essere dirette o indirette.

Quelle dirette sono per chi le condivide ovvie.

Non s’infila la propria forchetta nel piatto del commensale che sta nel tavolo vicino a noi nel ristorante.

Non si mettono le dita nel naso, soprattutto se siamo a tavola o davanti a un estraneo.

Quelle indirette sono meno ovvie, ma non per questo meno efficaci.

Durkheim a questo proposito scrisse.  “Non sono obbligato né a parlare francese con i miei compatrioti, né a impiegare le monete legali, ma mi è impossibile fare altrimenti.  Se cercassi di sottrarmi a questa necessità fallirei.”

Era il 1895, i tempi sono cambiati, non nella sostanza.

Se provate a esprimervi in arabo invece che in italiano siete subito sospetti, se poi tentate di pagare il conto al ristorante con dei manati probabilmente il ristoratore chiamerà i carabinieri.

Eppure l’arabo è una lingua parlata da milioni di persone. I manati è la moneta dell’Azerbaigian, uno stato che fa parte del consiglio d’Europa dal 2001 e lo stato più grande della regione caucasica.

 

Dobbiamo a Salomon Asch, uno psicologo sociale americano di origine polacca che dedicò molte ricerche ai processi di formazione della conformità sociale, questo esperimento sul conformismo.

Asch addestrò un gruppo di studenti a dare risposte deliberatamente scorrette a quesiti concernenti stimoli visivi, facendo in modo che l’unico studente ignaro di partecipare all’esperimento restasse all’oscuro del fatto che i suoi compagni sbagliassero intenzionalmente.

Asch scoprì, ripetendo più volte l’esperimento, che almeno un terzo dei soggetti sottoposti ad esso rinunciavano alle proprie percezioni corrette per uniformarsi ai giudizi erronei degl’altri.

 

Un paradosso è costituito dai modelli culturali ideali.

Ogni società possiede una serie di valori e norme che stabiliscono come un individuo debba comportarsi o reagire emotivamente di fronte alle situazioni della vita.

Essi vengono continuamente riconfermati dalla cultura anche se non sempre gli individui si comportano rispettando gli standard che professano.

Se osserviamo la società in cui viviamo osserveremo che alcuni dei nostri modelli ideali non trovano riscontro nei comportamenti effettivi perché sono considerati superati o perché si fondono su abitudini oramai desuete.

In altri casi i modelli ideali non si traducono mai in applicazioni concrete e rappresentano semplicemente un’aspirazione.

Per comprendere la differenza tra cultura ideale e cultura reale va considerata la convinzione idealistica che tutti siamo uguali di fronte alla legge, oppure che tutti abbiamo le stesse possibilità di riuscire nella vita a prescindere dal reddito familiare.

Perché i modelli culturali ideali sono spesso in contraddizione con quelli reali?

Perché continuiamo a crederci, ma soprattutto continuiamo a credere che gli ideali fanno parte della nostra cultura.

C’è un esempio di modello culturale di cui non ci rendiamo mai conto e che ricordiamo per l’importanza che ha per il corso di studi che frequentate.

È rappresentato dalla distanza interpersonale nella conversazione.

È un comportamento che segue regole culturali inconsce e che diventano palesi quando si interagisce con persone che hanno regole diverse.

Siamo imbarazzati se l’altro si avvicina troppo,(diciamo se viola il nostro sefl), siamo convinti che sia poco affidabile se mantiene troppo le distanze.

Un limite tra un Occidentale e un non-Occidentale è l’odore.

Noi non riusciamo a stare a una distanza che ci costringe a sentire l’odore dell’altro.

La cultura, infatti, è il risultato di un adattamento, ciò nonostante ci sono comportamenti che – se portati all’eccesso – possono ridurre la possibilità di sopravvivenza di una data società.

 

Alcune tribù della Nuova Guinea considerano le donne impure e limitano il più possibile ogni contatto con esse.

Supponiamo che gli uomini di una di queste tribù decida di troncare qualunque contatto con le donne.

È chiaro che questa tribù è destinata a sparire.

Ma, attenzione, l’esempio mostra anche un’altra cosa e cioè che le usanze che riducono le possibilità di sopravvivenza di una tribù, come in questo caso, o di una società tendono anch’esse a scomparire.

Di fatto, o le persone che vi rimangono fedeli si estinguono portando con sé le usanze stesse, o queste persone vengono sostituite, permettendo alla popolazione di sopravvivere.

Qual è la morale.

Che le usanze non adattative – come sono in questo caso quelle che riducono le speranze di sopravvivenza – sono destinate a scomparire.

I costumi di una società che invece favoriscono la sopravvivenza e il successo riproduttivo sono detti adattativi e hanno più possibilità di persistere.

Diciamo allora che quando si indagano le ragioni per cui una società possiede determinate usanze, in realtà, si sta studiando l’adattività di queste alle particolari condizioni ambientali di quella società. 

Molti comportamenti culturali che possono apparire incomprensibili ai nostri occhi si spiegano facilmente come risposta di una società a determinate condizioni ambientali.

Per noi sono sorprendenti alcuni tabù sessuali post partum caratteristici di alcune società che vietano alla donna ogni rapporto sessuale prima che il bambino abbia raggiunto i due anni di età.

Ma nelle regioni tropicali questi tabù rappresentano una strategia che permette alla popolazione di adattarsi all’habitat.

Se essi non esistessero e la madre avesse un altro bambino, essa non potrebbe continuare né a allattare, né a accudire al primo figlio il quale così trascurato soccomberebbe al kwashiorkor.

L’osservanza di questo tabù, dunque, offre ai neonati una maggiore probabilità di sopravvivenza.

In sostanza, il prolungato tabù sessuale post partum può risultare una strategia o un’usanza adattativa in certi paesi tropicali, mentre potrebbe non essere vantaggioso in altre zone dove questa sindrome è assente.

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La sindrome medica nota a livello internazionale come kwashiorkor, in Italia è più conosciuta come marasma infantile, è un tipo di malnutrizione che si ritiene comunemente causata da un insufficiente apporto di proteine, molto diffusa nell’Africa sub sahariana.   Di  

Colpisce soprattutto i bambini in età compresa tra uno e quattro anni e compare spesso con la fine precoce dell’allattamento. 

Dopo lo svezzamento la dieta che rimpiazza il latte materno in molte zone del mondo è scarsa, ma può anche essere ricca di fibra alimentare e di carboidrati e essere deficiente di proteine, di ferro, acido folico, iodio, selenio e vitamina “C”, cioè di nutrienti con capacità antiossidanti. 

Il nome deriva da una delle lingue africane della costa del Ghana e significa “uno che è stato fottuto fisicamente”. 

 

La prossima volta che in televisione vedrete dei bambini africani ricordatevi che se hanno un addome gonfi noto come pancia a pentola e una decolorazione rossiccia dei capelli essi molto probabilmente sono affetti dal kwashiorkor

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Cosa succederebbe se le donne occidentali osservassero un prolungato tabù sessuale post partum?

È una domanda retorica perché le usanze di una cultura non possono semplicemente venir applicate a un’altra.

Questa usanza poi ci rivela un’altra cosa, la mancanza di metodi per il controllo delle nascite.

Una simile pratica influirebbe su molti aspetti della nostra cultura come quello per il quale l’attività sessuale è fondamentale per un matrimonio felice.

Insomma, con una simile usanza la nostra società cambierebbe completamente e ciò dipenderebbe anche dal fatto che la nostra cultura è fortemente integrata.

Che cosa significa?

Che gli elementi o i tratti che la costituiscono non rappresentano un semplice assortimento casuale di usanze, ma, piuttosto si adattano e sono coerenti gli uni rispetto agli altri.

Si ritiene che una delle ragioni per cui una cultura tende a essere integrata dipende dalla necessità di essere adattativa.

 

Una cultura tende a essere integrata anche per ragioni psicologiche dato che gli atteggiamenti, i valori, gli ideali e le regole del comportamento sono immagazzinate nella mente di ciascuno.

 

Ricerche su campo nell’ambito della psicologia sociale hanno messo in evidenza come le persone tendano a modificare convinzioni e comportamenti che non siano cognitivamente o concettualmente coerenti con altre informazioni.

Senza titolo14

Una nota sulla Human Relations Area Files, Inc. (HRAF).

La HRAF è una agenzia di ricerca, finanziariamente autonoma, con sede presso l’Università di Yale dal 1949.

La sua missione è quella di incoraggiare e agevolare in tutto il mondo gli studi comparativi sulla cultura umana, sulle società, e il loro comportamento passato e presente.

 

Essa persegue principalmente questa missione attraverso la produzione e la distribuzione di due database full-text sul Web, eHRAF ​​Culture del mondo e eHRAF ​​Archeologia

 

La HRAF sponsorizza e cura la rivista trimestrale, Cross-Cultural Research: The Journal of Comparative Social Science, così come organizza e redazione le voci delle enciclopedie.

 

I due database eHRAF ​​sul Web sono accessibili alle persone a istituzioni aderenti HRAF.

Ampliato e aggiornato annualmente, Culture eHRAF ​​mondiale comprende materiali sulle culture, del passato e del presente, in tutto il mondo.

 

L’intero HRAF Collection, in carta, microfiche, e sul Web, si estende a circa 400 culture.

Il secondo database, eHRAF ​​Archeologia, è costruito esclusivamente in formato elettronico dal 1999.

I database HRAF sono stati sviluppati per promuovere la ricerca comparativa sugli esseri umani in tutta la loro varietà in modo che le spiegazioni del comportamento umano risultino universalmente valide.

La ricerca tra culture per particolari tipi di informazioni è facilitata dal sistema di indicizzazione univoco (un vocabolario controllato) che HRAF ha sviluppato e perfezionato in oltre 50 anni.

 

Le eHRAF ​​collezioni possono essere utilizzati per l’insegnamento e la ricerca su ogni aspetto della vita culturale e sociale.

Le collezioni sono organizzate principalmente in base alla regione geografica, e poi per cultura o tradizione archeologica, per cui i ricercatori possono accedere alle informazioni su particolari culture, determinate regioni del mondo, o fare un confronto incrociato a livello mondiale o regionale.

 

Sebbene le collezioni HRAF possono essere utilizzate per vari scopi, sono stati progettate principalmente per consentire ai ricercatori di trovare le informazioni in modo rapido attraverso una vasta gamma di culture in modo che le società possano essere confrontati su particolari dimensioni di variazione.

I testi indicizzati in HRAF sono anche suscettibili di confronti qualitativi incrociati.

Si raccomanda agli studenti di visitare il sito dell’HRAF.

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L’artificazione. Una nuova knife-and-fork doctrine nell’ambito degli atti alimentari.

L’artificazione.

Una nuova knife-and-fork doctrine nell’ambito degli atti alimentari.

 L’artificazione del food è l’ultima frontiera estetica di quelle strategie operative che stanno radicalmente cambiando il modo di “apprezzare” la gustazione e, di conseguenza, la qualità degli stili di vita, spostando il baricentro del sapore dall’immaginario culturale, all’immateriale simbolico.

In altri termini, gli atti alimentari tendono sempre di più ad apparire un congegno narrativo con valenze artistiche, sotto cui la società dello spettacolo nasconde il bastone della domesticazione sociale. Non è per caso, dunque, che la rinnovata importanza accordata a questi atti, anche a dispetto della loro natura di cultura materiale, corre parallela a una importante constatazione di natura socio economica, specifica del terziario avanzato, per la quale le funzioni cerimoniali degli alimenti, privilegiate dall’avanzare di una visual culture, sono ora più importanti del loro valore nutritivo, a dispetto della fame che spinge quotidianamente verso l’inedia i discreditati del mondo.

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Il titolo di questo intervento su l’artificazione, come di una nuova knife-and-fork doctrine nell’ambito degli atti alimentari, merita una breve introduzione.   

Da qualche anno a questa parte un neologismo inglese – più correttamente in franglais – artification, esprime il contenuto di un congegno critico che ha come fine quello di mettere a fuoco le regole di un processo che consente di promuovere a forma di arte ciò che non lo è.

Qualcuno, a rigore, potrebbe obiettare che l’artialisation è un concetto che già compare negli Essais di Michel de Montaigne e che fu ripreso da Charles Lalo nel 1912 nella sua Introdution à l’esthétique.

Ma non è esattamente così, l’artificazione è un concetto molto più sofisticato il cui fine mercantile è evidente, mentre quello politico è in ombra.

Consiste nel rieducare, in regime di monopolio ideologico, la dimensione socioculturale e simbolica di ciò che sfugge alle dòxai, o se preferite alla servitù volontaria.

Un tale congegno, nella forma di un “lessema macedonia”, ha dunque allargato il campo di quelle investigazioni immaginarie che hanno lo scopo di favorire una nuova confusione tra la cultura dell’effimero, l’estetica e le scienze sociali, con l’obiettivo di narrare, con altri pregiudizi, gli aspetti valoriali dei mutamenti culturali in atto.

Mutamenti che sono funzionali alle forme della domesticazione sociale.

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Quanto alla knife-and-fork doctrine, che dobbiamo all’abilità coloniale degli inglesi, fu una strategia con la quale le missioni protestanti volevano mettere fine al cannibalismo in Africa.

È una dottrina che non manca di una certa abilità semiotica e psicoanalitica.

Difficilmente, infatti, si riuscirebbe a mangiare l’Altro da noi con il coltello e in punta di forchetta.

Questo anche se resta immutato il principio psicoanalitico del desiderio dell’Altro, strutturante e mimetico, che è seppellito nell’inconscio.

Capovolgendo un celebre aforisma di Jacques Lacan possiamo dire che le désir de l’Autre est le désir de l’homme nella forma feticistica di un oggetto perduto, che gli analisti chiamiamo “piccolo a” e che il buon selvaggio – come mostra l’iconografia coloniale – portava appeso al collo o infilato nel naso.

Per quello che può valere, questa dottrina è la riproposizione del primato della forma sul senso, che già Claude Lévi-Strauss, in Mythologiques tròisieme, (1968) definiva delle buone maniere e condensava nei due tabù: evitare l’incesto, cuocere il cibo.

Due tabù che per altro si sono arenati, uno nell’ipocrisia borghese dell’Ottocento, l’altro dentro i regimi alimentari penitenziali della modernità.

In ogni buon conto l’assolutismo è stato regolato dagli Essais (Cap. trentesimo del libro primo e cap. quarto del libro sesto.) di Montaigne: i cannibali siamo noi, che stupidamente crediamo di abbracciare tutto, ma non stringiamo che il vento.

C’è poi una nota aneddotica da rivelare.

La knife-and-fork doctrine la scoprii qui a Genova, in via Balbi, durante una delle insonni e pedagogiche occupazioni universitarie dell’année terrible.

Precisamente in un testo di un grande e dimenticato psichiatra e scrittore martinicano verso il quale la mia educazione ha più di un debito, Frantz Fanon.

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La mitologia asserisce che l’Ananke è la divinità di ciò che è inalterabile.

Di fronte alle debolezze dell’uomo diviene l’inaudibile e dunque l’irrappresentabile.

Simonide – poeta delle Cicladi – che visse a cavallo tra il sesto e il quinto secolo prima dell’era comune, ci racconta che gli dei non la combattevano e i greci non la pregavano, perché tanto era inutile.

Con la modernità diventerà destino.  Ancora una volta nella forma di una forza impersonale che governa l’ordine del mondo e l’esistenza degli uomini.

Questo destino possiamo prefigurarlo, ma non possiamo né ostacolarlo, né dirottarlo.

Davanti a noi, nei quaranta minuti che ci sono stati dati per questo intervento moriranno per inedia e per fame circa milleseicento individui, per lo più bambini.

L’orrore è che in questo momento sono ancora vivi.

Lo rimuoviamo pensandolo inevitabile e insopportabile.

Ma in cosa s’invera questo orrore?

Ha molti nomi.

È la cachessia, è il marasma, è l’inedia, è il kwashiorkor, una spietata espressione gergale ghanese per indicare chi è spacciato dalle circostanze.

Secondo l’organizzazione mondiale della sanità per queste vittime un nome vale l’altro.

Questo orrore comporta undici patologie di natura fisiologica.

Sette importanti modifiche del comportamento a livello della vita corrente.

Tre forme di alterazione grave dello stato cognitivo.

Otto conseguenze relazionali sul piano dell’emotività e della socialità.

Un solo esito.  Una morte vergognosa.

 

Nel diciassettesimo secolo ci sono tre forme di arte che giungono a perfezione, illuminate dal rogo di Giordano Bruno.

L’arte della politica che, in una prospettiva teleologica, corre parallela all’arte delle salse madri, entrambe con il compito di dissimulare la nuda crudeltà della zoe.

La terza è l’arte della farcitura che aveva il compito di educare alla fioritura dei lieviti, al maturato, al putrido o, meglio, attraverso un percorso assiologico, ai sapori iniziatici delle ideologie che portano alla rassegnazione il mondo alla rovescia, di cui Calicut e Bengodi furono le immaginifiche capitali.

Protagonista involontario di quest’arte fu Jeffrey Hudson, che visse attraversando il Seicento, nano di corte, duellante, cospiratore, schiavo di pirati barbareschi, capitano a cavallo con tanto di patente, ammaestratore di scimmiette, boy toy di regine, per non dire cagnolino, ma soprattutto farcia.

Veniva rinchiuso nei pasticci e una volta portati a tavola appena l’ospite ne incideva la crosta, saltava fuori, faceva la riverenza e scappava via.  Era pagato bene, nonostante la concorrenza di chi gli preferiva le tortore o le farfalle.

Si racconta che di quest’ultime ce ne volevano circa un migliaio per assicurasi un volo – all’apertura del pasticcio – di almeno una qualche dozzina.

Come facessero a rinchiudercele è un mistero.

Per i particolari vi rimando alle pagine di un piccolo capolavoro, Peveril du Pic di Walter Scott.

Nel 2010 Lady Gaga, la cantautrice Angelina Germanotta, indossò un vestito di carne bovina per partecipare a un evento discografico.

Il settimanale Time lo definì il miglior prodotto della moda per quell’anno.

L’abito bovino avrebbe dovuto meritare un premio anche per il suo profumo.

Lo afferma Lady Gaga che ne vantò il buon odore e volle inserirlo nel suo guardaroba dopo che alcuni tecnici – così li ha definiti la piccola cronaca – lo avevano trasformato in carne essiccata.

Questi due episodi (di per sé emblematici) sono l’alfa e l’omega di una nuova apocalisse dello spettacolo iniziata qualche secolo fa e giunta ora a conclusione nei processi di artificazione.

Processi il cui primo obiettivo è di seppellire, sotto la crudeltà della bella forma, l’insopportabile pulsione a volersi saziare degli affamati.

Per semplificare diciamo che siamo in presenza di un processo di artificazione quando una categoria artistica è contestualmente asserita intorno a degli artefatti, a delle procedure o a delle performance, vale a dire quando questi sono messi nella condizione di funzionare simbolicamente.

Per molti, la teoria dell’artificazione ha le sue radici nei lavori di Nelson Goodman, maestro della filosofia analitica americana e giocoliere mereologico.

Ma lasciamo stare la teoria del gioco-delle-parti e consideriamo invece un suo saggio del 1977 intitolato “Quando siamo in presenza di arte?”

Se ne volete una sintesi, eccola: quando la volontà di presenza di un artefatto s’impone sulla nostra indifferenza.

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Una tale asserzione – figlia del potere retorico – mette fuori gioco l’antica definizione dell’arte come di una tèchne, perché qualunque artefatto o procedura può funzionare come opera d’arte se i momenti o le circostanze lo consentono.

In questo modo l’arte contemporanea è assimilabile, per analogia, a una maniglia.

Se la maniglia apre la porta allora quella maniglia è una parte funzionale di quella porta anche se questa funzione non è percepibile dai sensi.

Così è la funzione dell’arte nei confronti della forma di spettacolo.

Se la semplificazione appare tranchant è perché Karl Marx lo aveva già rilevato nei Grundrisse, parlando di ciò che lega, con la complicità del rasoio di Occam, la proprietà dei mezzi di produzione alla condizione della classe operaia.

Dunque, l’artificazione definisce quel processo di trasformazione da non-arte a arte che risulta dalla manipolazione di un congegno cognitivo, processo che in qualche modo, ma deliberatamente, implica un cambio di definizione e di statuto a degli oggetti o a delle attività performatrici.

Questo congegno lo abbiamo visto all’opera nella fotografia, nei graffiti urbani, nel fumetto, nella moda, nell’attività degli asiliati psichiatrici e, di recente, negli atti alimentari, che sono quelli che c’interessano.

In breve, con l’artificazione le tecniche cucinarie sono dirottate o, più precisamente, indotte sempre di più a esporsi come un atto culturale con valenze estetiche.

Mentre la gastronomia resta il paradigma che in qualche modo le contiene e che ne registra la dimensione socioculturale.

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Ne deriva che queste tecniche non rappresentano più – come sono state fin dalle origini – quell’importante sismografo dei movimenti più significativi e profondi della società materiale.

Detto altrimenti, oggi, la cucina dei paesi a capitalismo avanzato – considerata come una attività creatrice – è in grado di esprimere un’estetica visuale che relega a nota fisiologica quella che i positivisti di fine Ottocento chiamavano la stereognosia boccale e confina i sapori, per lo più indotti, entro un range determinato dalle istituzioni, che dominano l’agro-alimentare e la sua distribuzione.

Siamo, di fatto, a un punto di svolta di una lunga storia che si affermò a partire dal Medioevo.

In estrema sintesi prima di arrivare ai misfatti dell’artificazione cucinaria occorrerà esaminare – dal punto di vista della semiosi o, più semplicemente della significazione – alcune configurazioni classiche della relazione arte/cibo. 

Una prima configurazione è quella che si rivelò nel Seicento.

Considerava il cibo e le forme conviviali la sostanza iconica e laica delle opere d’arte.

Da un lato, come dei palcoscenici, alla maniera dei banket o delle nature morte, fiamminghe e spagnole.

Dall’altro, come delle tavole imbandite che suggellavano, diventandone i simboli, avvenimenti della vita civile, sociale o religiosa di quello che, dopo l’89, sarà definito l’Ancien Régime.

Esemplare per queste tavole imbandite è la voce “Banchettare” in quel libretto detto comunemente  Breviario dei politici di Mazzarino (1684), un capolavoro sull’ossessione di dissimulare, di cui ricordiamo solo il cinismo della chiusa: “Il vasellame altresì della mensa, ove s’introduce tal diversità di vivande a tavola, potrebbe tempestarsi di false gioje, e preziosità tutte finte.”

Non è per caso se gli irriducibili del 1848 rovesciarono le tavole sulle quali si oltraggiava la solidarietà operaia.

Così come non è per caso che i riformismi europei dell’inizio del Novecento rimisero la tovaglia ai banchetti politici, elettorali e di categoria.

Tutti li organizzavano, comprese le società operaie, le associazioni di mutuo soccorso, le cooperative sociali.

Diverranno famosi quelli di Giovanni Giolitti da Cuneo, ministro di malavita, che al momento del dessert, un bicchiere di Barolo in mano, esponeva, con un sorriso di circostanza, i suoi programmi di malgoverno e di rapina.

Tutto questo, naturalmente, non ha nulla a che vedere con il symposion dei greci o con il fine di molte culture che nel banchetto hanno ricercato – attraverso la possessione dionisiaca – l’erotismo, la profezia, la poesia, così come l’ascetismo e la legge.

 

È necessaria una parentesi.

I prodotti alimentari di massa della grande industria, (altrimenti definiti CANI, Composti Alimentari Non Identificabili), per assolvere alla loro missione di diffusione capillare, esigono una continua ed attenta re-definizione sensoriale, in termini di sapore, odore, aroma, textura, colore e presentazione.

Una missione che ha l’obiettivo (poco importa se deliberato o collaterale) di reificare quel sentimento dell’esserci in cui gl’atti alimentari condivisi rappresentano una funzione interumana d’importanza antropologica primordiale.

In sostanza, quando manca la commensalità, come una importante coordinata dell’esistere in comune, si ha l’impressione che il mondo divenga tossico.

Con quali conseguenze?

Lo riassumiamo con le parole di chi ha introdotto nelle scienze sociali il concetto di falsa coscienza, Joseph Gabel.

Egli afferma che là dove non esiste più una coscienza dell’esistenza dialettica convergono tre circostanze.

– Il sentimento di essere degli estranei in un mondo che ci appare irriconoscibile.

– L’impressione di essere indifesi in seguito alla scomparsa di una coscienza assiologica comune e di essere inermi davanti alla scomparsa di valori condivisi.

– L’incapacità di rapportarsi con le circostanze e con l’Altro da noi, che ci appaiono ostili.

En passant, questo spiega l’ossessione di molti barricadieri, di cercare sotto i pavé le tavole imbandite di una nuova socialità e sulla grève una nuova solidarietà di classe.

In ogni modo dovrebbe essere evidente l’analogia tra i composti alimentari non identificabili che stanno sulla nostra tavola e i composti politici non identificabili che occupano le assemblee nazionali.

Un’altra configurazione della relazione arte/cibo risale alla fine del secolo scorso, utilizza il cibo come materiale espressivo a prescindere da ciò che esso è in sé.

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Con un preambolo che ricordiamo soltanto, quello della cucina futurista.

Si parla in questo caso di eat art, un termine che oggi appare saziare molta della critica d’arte, in origine era un’espressione usata da Daniel Spoerri (negli anni ’70), come una naturale espansione argomentativa dei suoi tableau piège (quadri trappola).

Qui notiamo che il tema del food and beverage come materiale espressivo coinvolge sempre più i sedicenti fooddesigner e le aziende dell’agroalimentare, in polemica con il ritorno ai valori di quelle tradizioni che non sono economicamente convenienti.

Valori che invece sono esaltati da un atteggiamento nostalgico di molte élite culturali che mangiano candele e cacano stoppini.

La configurazione che per l’economia del nostro intervento interessa di più è quella che nasce nella seconda metà del secolo scorso con la nouvelle cuisine, per indicare una data di comodo (1974).

Gli zoccoli di questa configurazione furono allestiti da Antonin Carême e dai suoi allievi come Jules Gouffé e Urbain Dubois che inaugurano la de-materializzazione degli ingredienti, la metamorfosi delle texture, la modellazione con le materie grasse e la dissociazione della forma dal significato della sostanza.

In altri termini, l’artificazione inizia con la denaturazione, come osservò Louis Nicolardot nella sua Histoire de la table (1868).  Sono pressappoco gli stessi anni in cui gli impressionisti scoprono la cucina della chair e della viande, a cominciare da Ėdouard Manet, con le sue cocotte e i suoi salmoni, prosciutti e fragole.

Lo spiega con arguzia Guy de Maupassant quando scrive che dipingere è vedere, e vedere è divorare, mangiare, digerire.

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In sintesi, l’artificazione inizia con il moltiplicarsi retorico delle analogie visuali nelle quali è evidente una certa complicità semiotica destinata a addolcire la brutalità della gràscia con una giostra di eufemismi ricchi di iperboli, metafore, metonimie e perfino di ellissi.

Come dire, grazie a queste brouillage syntaxique la forma produce valore e tanto meglio se inganna la fame con i suoi trompe-l’oeil e i suoi enigmi iperrealisti.

Al culmine del processo di artificazione – nella pratica della ristorazione – c’è poi l’algida cerimonia dell’allestimento del cibo o, meglio, del dressage del campo semantico del piatto, come se fosse un’opera d’arte.

Vale a dire il food si “cucina” e poi si “struttura” cercando di coniugare nella forma finale la sensibilità estetica dominante con le aspettative di unicità, rarità, preziosità.

Questo impone ai nuovi gourmet dell’effimero visuale di diventare spettatori obbedienti, ma soprattutto d’imparare a nominare, classificare, annotare, valutare, giudicare e, soprattutto, a sublimare, pena l’esclusione culturale.

La sublimazione, in questo contesto, è una dimensione narcisistica dell’io che nella modernità, come ha dimostrato Cornelius Castoriadis (in L’institution imaginaire de la société, 1975) è diventata un fatto sociale.  Una forma di narcosi che ha spento le ultime speranze di una rivoluzione evolutiva della società.

Tra l’altro, con il consolidarsi ideologico della novelle cuisine è nata la tendenza a pensare il cibo direttamente come opera d’arte, tanto che molti chef si sono spinti fino ad esigere il brevetto dei loro piatti o perlomeno a chiedere che siano protetti dalle imitazioni e ricordati con il loro nome al momento di apparecchiarli.  Esattamente come da tempo succede con i brani musicali.

In questo modo, l’origine e la natura del “mangiato” finiscono per essere de-valorizzati rispetto agli elementi estetici che lo accompagnano e acquista un’importanza sempre maggiore l’arte di manipolare e comunicare questi elementi.

Forma, colore e struttura sono ora determinanti nella formazione del gusto e dell’innovazione cucinaria, in più, questi fattori intrecciandosi con le cerimonie conviviali hanno dato vita ad un rinnovato teatro dell’arte gourmand.

È un teatro che affonda le sue radici nella decade dell’illusione, tra le due guerre mondiali, capace di mettere in scena la sostanza del desiderio dentro la forma letteraria dei simboli, come nel caso di quella giovinetta svizzera circuita dai surrealisti, Meret Oppenheim, servita a tavola in più di un’occasione ai suoi scapoli immaginari o come nel “cannibalismo” dei futuristi o di certo cinema americano dove tutte le ragazze sono sugar o honey.

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E qui ci arrestiamo per rispetto del femminile, fingendo di dimenticare l’ultima oscena tendenza, il body-sushi.

In pratica il gusto, là dove i poteri dell’agro-alimentare lo hanno assolto dalla sua millenaria guerra contro la lesina, si è rivelato, nella modernità, domesticabile, avido di metafore, di estetismi, di figure retoriche e ha finito per privilegiare la narrazione ai sapori e alle sensazioni.  Vittima della sua stessa formatività.

Una volta gli appetiti dei diseredati erano consolati con il fumo degli arrosti e gli appetiti dei signori  educati con le still-life.

Oggi, di contro, gli affamati sono invece sfamati con le immagini gustative elaborate spesso con il concorso delle neuroscienze e dei programmi televisivi di massa, se è corretto il dato che parla di un incremento delle ore di trasmissione dedicate alle arti cucinarie, nel corso dell’ultimo decennio, dell’ottocento per cento.

Questa scena alimentare è il luogo dove i nuovi commensali non vedono che segni invece di passioni materialiste o, per altri versi, questa nuova cucina semiotica rovescia ciò che a suo tempo aveva osservato Claude Lévi-Strauss:

essendo buona da vedere non occorre che sia anche buona da mangiare.

 

Visti i tempi non possiamo, per concludere, non ricordare che le esposizioni internazionali, da Londra, a Parigi a Vienna, costruite sul modello dei salon des beaux-arts, sono state, nell’Ottocento e nel Novecento, uno dei principali vettori dell’artificazione cucinaria, anche se limitata ai banchetti, all’esotismo e alla tradizione neoclassica della pâtisserie pittoresque inaugurata da Antonin Carême.

Altro obiettivo, invece, ha il tentativo cosmetico affidato al soufflé dell’Expo milanese.

Un’esposizione mistificata nella forma ossimora di un orto globale, all’insegna di una improbabile Gestaltung narrativa, costruita su una serie campionaria di scene predicative per percorrere, vedere, scoprire, assaggiare, ma non per sapere.

Del resto, solo inibendo la prefigurazione della fame si può configurare l’ethos dei sazi con le trappole retoriche a cominciare da quelle della cucina semiotica che imperversa nello showbusiness come una nuova arte popolare di coltivazione dei segni.

In buona sostanza, l’entropia che cuocerà tra un anno il souffléspettacolo nell’immediato nord-ovest di Milano, non è un processo naturale, ma culturale.

Deriva dalla degradazione della techne, favorisce lo specismo e capovolge l’informazione strutturante – che presiede al senso – a mera forma inerte, promuovendo l’accomodazione etica e la sua assimilazione a regime.

Banalizzando l’ananke a caso.

Infatti, nella produzione entropica della modernità, lo spettacolo – che qui definiamo come una sovrastruttura simbolica dell’alienazione – ritorna agli individui come un miscelatore dei fatti sociali in cui, nella fattispecie, politica e gourmandise si equivalgono.

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La scena alimentare – un tempo abbecedario della dépense – è così divenuta una tavola calda dove i nuovi commensali vedono nell’artificazione la realizzazione di quella socialità che gli affamati di un tempo chiamavano il sogno di una cosa.  

Questo cantiere entropico, sfigurato dall’ipocrisia dei suoi finanziatori, vuole riscrivere il paradigma materiale degli atti alimentari, affievolendo i processi cognitivi che fanno di questi atti una storia culturale e una pratica sociale.

Per farlo, favorisce il maturare di analogie deboli e eterodirette che si installano nei meccanismi inconsci della domesticazione alimentare e nelle pulsioni regressive della gola, in genere associate a un behaviorismo forse più rozzo che sadico.

Va da sé, la produzione entropica dell’Expo milanese finirà così per essere una devastante degradazione di senso, ma perché questa degradazione si produca occorrerà incubarla in un ambiente adatto: quello degli studi culturali, nella forma di una visual culture che l’accomodi à toutes les sauces.

Ma siccome non tutte le menzogne sono solubili nelle salse o nello spettacolo ciò che spetta alla zoe vale la pena di ripeterlo ancora una volta.

Le spese militari nel mondo corrono alla velocità di cinquantamila dollari al secondo.

Il reddito medio di due miliardi di abitanti del pianeta terra è di due dollari al giorno, che nel migliore dei casi li obbliga a una dieta amilacea sbilanciata e precaria.  Un altro miliardo non ha neppure questo.

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