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L’artificazione. Una nuova knife-and-fork doctrine nell’ambito degli atti alimentari.

L’artificazione.

Una nuova knife-and-fork doctrine nell’ambito degli atti alimentari.

 L’artificazione del food è l’ultima frontiera estetica di quelle strategie operative che stanno radicalmente cambiando il modo di “apprezzare” la gustazione e, di conseguenza, la qualità degli stili di vita, spostando il baricentro del sapore dall’immaginario culturale, all’immateriale simbolico.

In altri termini, gli atti alimentari tendono sempre di più ad apparire un congegno narrativo con valenze artistiche, sotto cui la società dello spettacolo nasconde il bastone della domesticazione sociale. Non è per caso, dunque, che la rinnovata importanza accordata a questi atti, anche a dispetto della loro natura di cultura materiale, corre parallela a una importante constatazione di natura socio economica, specifica del terziario avanzato, per la quale le funzioni cerimoniali degli alimenti, privilegiate dall’avanzare di una visual culture, sono ora più importanti del loro valore nutritivo, a dispetto della fame che spinge quotidianamente verso l’inedia i discreditati del mondo.

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Il titolo di questo intervento su l’artificazione, come di una nuova knife-and-fork doctrine nell’ambito degli atti alimentari, merita una breve introduzione.   

Da qualche anno a questa parte un neologismo inglese – più correttamente in franglais – artification, esprime il contenuto di un congegno critico che ha come fine quello di mettere a fuoco le regole di un processo che consente di promuovere a forma di arte ciò che non lo è.

Qualcuno, a rigore, potrebbe obiettare che l’artialisation è un concetto che già compare negli Essais di Michel de Montaigne e che fu ripreso da Charles Lalo nel 1912 nella sua Introdution à l’esthétique.

Ma non è esattamente così, l’artificazione è un concetto molto più sofisticato il cui fine mercantile è evidente, mentre quello politico è in ombra.

Consiste nel rieducare, in regime di monopolio ideologico, la dimensione socioculturale e simbolica di ciò che sfugge alle dòxai, o se preferite alla servitù volontaria.

Un tale congegno, nella forma di un “lessema macedonia”, ha dunque allargato il campo di quelle investigazioni immaginarie che hanno lo scopo di favorire una nuova confusione tra la cultura dell’effimero, l’estetica e le scienze sociali, con l’obiettivo di narrare, con altri pregiudizi, gli aspetti valoriali dei mutamenti culturali in atto.

Mutamenti che sono funzionali alle forme della domesticazione sociale.

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Quanto alla knife-and-fork doctrine, che dobbiamo all’abilità coloniale degli inglesi, fu una strategia con la quale le missioni protestanti volevano mettere fine al cannibalismo in Africa.

È una dottrina che non manca di una certa abilità semiotica e psicoanalitica.

Difficilmente, infatti, si riuscirebbe a mangiare l’Altro da noi con il coltello e in punta di forchetta.

Questo anche se resta immutato il principio psicoanalitico del desiderio dell’Altro, strutturante e mimetico, che è seppellito nell’inconscio.

Capovolgendo un celebre aforisma di Jacques Lacan possiamo dire che le désir de l’Autre est le désir de l’homme nella forma feticistica di un oggetto perduto, che gli analisti chiamiamo “piccolo a” e che il buon selvaggio – come mostra l’iconografia coloniale – portava appeso al collo o infilato nel naso.

Per quello che può valere, questa dottrina è la riproposizione del primato della forma sul senso, che già Claude Lévi-Strauss, in Mythologiques tròisieme, (1968) definiva delle buone maniere e condensava nei due tabù: evitare l’incesto, cuocere il cibo.

Due tabù che per altro si sono arenati, uno nell’ipocrisia borghese dell’Ottocento, l’altro dentro i regimi alimentari penitenziali della modernità.

In ogni buon conto l’assolutismo è stato regolato dagli Essais (Cap. trentesimo del libro primo e cap. quarto del libro sesto.) di Montaigne: i cannibali siamo noi, che stupidamente crediamo di abbracciare tutto, ma non stringiamo che il vento.

C’è poi una nota aneddotica da rivelare.

La knife-and-fork doctrine la scoprii qui a Genova, in via Balbi, durante una delle insonni e pedagogiche occupazioni universitarie dell’année terrible.

Precisamente in un testo di un grande e dimenticato psichiatra e scrittore martinicano verso il quale la mia educazione ha più di un debito, Frantz Fanon.

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La mitologia asserisce che l’Ananke è la divinità di ciò che è inalterabile.

Di fronte alle debolezze dell’uomo diviene l’inaudibile e dunque l’irrappresentabile.

Simonide – poeta delle Cicladi – che visse a cavallo tra il sesto e il quinto secolo prima dell’era comune, ci racconta che gli dei non la combattevano e i greci non la pregavano, perché tanto era inutile.

Con la modernità diventerà destino.  Ancora una volta nella forma di una forza impersonale che governa l’ordine del mondo e l’esistenza degli uomini.

Questo destino possiamo prefigurarlo, ma non possiamo né ostacolarlo, né dirottarlo.

Davanti a noi, nei quaranta minuti che ci sono stati dati per questo intervento moriranno per inedia e per fame circa milleseicento individui, per lo più bambini.

L’orrore è che in questo momento sono ancora vivi.

Lo rimuoviamo pensandolo inevitabile e insopportabile.

Ma in cosa s’invera questo orrore?

Ha molti nomi.

È la cachessia, è il marasma, è l’inedia, è il kwashiorkor, una spietata espressione gergale ghanese per indicare chi è spacciato dalle circostanze.

Secondo l’organizzazione mondiale della sanità per queste vittime un nome vale l’altro.

Questo orrore comporta undici patologie di natura fisiologica.

Sette importanti modifiche del comportamento a livello della vita corrente.

Tre forme di alterazione grave dello stato cognitivo.

Otto conseguenze relazionali sul piano dell’emotività e della socialità.

Un solo esito.  Una morte vergognosa.

 

Nel diciassettesimo secolo ci sono tre forme di arte che giungono a perfezione, illuminate dal rogo di Giordano Bruno.

L’arte della politica che, in una prospettiva teleologica, corre parallela all’arte delle salse madri, entrambe con il compito di dissimulare la nuda crudeltà della zoe.

La terza è l’arte della farcitura che aveva il compito di educare alla fioritura dei lieviti, al maturato, al putrido o, meglio, attraverso un percorso assiologico, ai sapori iniziatici delle ideologie che portano alla rassegnazione il mondo alla rovescia, di cui Calicut e Bengodi furono le immaginifiche capitali.

Protagonista involontario di quest’arte fu Jeffrey Hudson, che visse attraversando il Seicento, nano di corte, duellante, cospiratore, schiavo di pirati barbareschi, capitano a cavallo con tanto di patente, ammaestratore di scimmiette, boy toy di regine, per non dire cagnolino, ma soprattutto farcia.

Veniva rinchiuso nei pasticci e una volta portati a tavola appena l’ospite ne incideva la crosta, saltava fuori, faceva la riverenza e scappava via.  Era pagato bene, nonostante la concorrenza di chi gli preferiva le tortore o le farfalle.

Si racconta che di quest’ultime ce ne volevano circa un migliaio per assicurasi un volo – all’apertura del pasticcio – di almeno una qualche dozzina.

Come facessero a rinchiudercele è un mistero.

Per i particolari vi rimando alle pagine di un piccolo capolavoro, Peveril du Pic di Walter Scott.

Nel 2010 Lady Gaga, la cantautrice Angelina Germanotta, indossò un vestito di carne bovina per partecipare a un evento discografico.

Il settimanale Time lo definì il miglior prodotto della moda per quell’anno.

L’abito bovino avrebbe dovuto meritare un premio anche per il suo profumo.

Lo afferma Lady Gaga che ne vantò il buon odore e volle inserirlo nel suo guardaroba dopo che alcuni tecnici – così li ha definiti la piccola cronaca – lo avevano trasformato in carne essiccata.

Questi due episodi (di per sé emblematici) sono l’alfa e l’omega di una nuova apocalisse dello spettacolo iniziata qualche secolo fa e giunta ora a conclusione nei processi di artificazione.

Processi il cui primo obiettivo è di seppellire, sotto la crudeltà della bella forma, l’insopportabile pulsione a volersi saziare degli affamati.

Per semplificare diciamo che siamo in presenza di un processo di artificazione quando una categoria artistica è contestualmente asserita intorno a degli artefatti, a delle procedure o a delle performance, vale a dire quando questi sono messi nella condizione di funzionare simbolicamente.

Per molti, la teoria dell’artificazione ha le sue radici nei lavori di Nelson Goodman, maestro della filosofia analitica americana e giocoliere mereologico.

Ma lasciamo stare la teoria del gioco-delle-parti e consideriamo invece un suo saggio del 1977 intitolato “Quando siamo in presenza di arte?”

Se ne volete una sintesi, eccola: quando la volontà di presenza di un artefatto s’impone sulla nostra indifferenza.

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Una tale asserzione – figlia del potere retorico – mette fuori gioco l’antica definizione dell’arte come di una tèchne, perché qualunque artefatto o procedura può funzionare come opera d’arte se i momenti o le circostanze lo consentono.

In questo modo l’arte contemporanea è assimilabile, per analogia, a una maniglia.

Se la maniglia apre la porta allora quella maniglia è una parte funzionale di quella porta anche se questa funzione non è percepibile dai sensi.

Così è la funzione dell’arte nei confronti della forma di spettacolo.

Se la semplificazione appare tranchant è perché Karl Marx lo aveva già rilevato nei Grundrisse, parlando di ciò che lega, con la complicità del rasoio di Occam, la proprietà dei mezzi di produzione alla condizione della classe operaia.

Dunque, l’artificazione definisce quel processo di trasformazione da non-arte a arte che risulta dalla manipolazione di un congegno cognitivo, processo che in qualche modo, ma deliberatamente, implica un cambio di definizione e di statuto a degli oggetti o a delle attività performatrici.

Questo congegno lo abbiamo visto all’opera nella fotografia, nei graffiti urbani, nel fumetto, nella moda, nell’attività degli asiliati psichiatrici e, di recente, negli atti alimentari, che sono quelli che c’interessano.

In breve, con l’artificazione le tecniche cucinarie sono dirottate o, più precisamente, indotte sempre di più a esporsi come un atto culturale con valenze estetiche.

Mentre la gastronomia resta il paradigma che in qualche modo le contiene e che ne registra la dimensione socioculturale.

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Ne deriva che queste tecniche non rappresentano più – come sono state fin dalle origini – quell’importante sismografo dei movimenti più significativi e profondi della società materiale.

Detto altrimenti, oggi, la cucina dei paesi a capitalismo avanzato – considerata come una attività creatrice – è in grado di esprimere un’estetica visuale che relega a nota fisiologica quella che i positivisti di fine Ottocento chiamavano la stereognosia boccale e confina i sapori, per lo più indotti, entro un range determinato dalle istituzioni, che dominano l’agro-alimentare e la sua distribuzione.

Siamo, di fatto, a un punto di svolta di una lunga storia che si affermò a partire dal Medioevo.

In estrema sintesi prima di arrivare ai misfatti dell’artificazione cucinaria occorrerà esaminare – dal punto di vista della semiosi o, più semplicemente della significazione – alcune configurazioni classiche della relazione arte/cibo. 

Una prima configurazione è quella che si rivelò nel Seicento.

Considerava il cibo e le forme conviviali la sostanza iconica e laica delle opere d’arte.

Da un lato, come dei palcoscenici, alla maniera dei banket o delle nature morte, fiamminghe e spagnole.

Dall’altro, come delle tavole imbandite che suggellavano, diventandone i simboli, avvenimenti della vita civile, sociale o religiosa di quello che, dopo l’89, sarà definito l’Ancien Régime.

Esemplare per queste tavole imbandite è la voce “Banchettare” in quel libretto detto comunemente  Breviario dei politici di Mazzarino (1684), un capolavoro sull’ossessione di dissimulare, di cui ricordiamo solo il cinismo della chiusa: “Il vasellame altresì della mensa, ove s’introduce tal diversità di vivande a tavola, potrebbe tempestarsi di false gioje, e preziosità tutte finte.”

Non è per caso se gli irriducibili del 1848 rovesciarono le tavole sulle quali si oltraggiava la solidarietà operaia.

Così come non è per caso che i riformismi europei dell’inizio del Novecento rimisero la tovaglia ai banchetti politici, elettorali e di categoria.

Tutti li organizzavano, comprese le società operaie, le associazioni di mutuo soccorso, le cooperative sociali.

Diverranno famosi quelli di Giovanni Giolitti da Cuneo, ministro di malavita, che al momento del dessert, un bicchiere di Barolo in mano, esponeva, con un sorriso di circostanza, i suoi programmi di malgoverno e di rapina.

Tutto questo, naturalmente, non ha nulla a che vedere con il symposion dei greci o con il fine di molte culture che nel banchetto hanno ricercato – attraverso la possessione dionisiaca – l’erotismo, la profezia, la poesia, così come l’ascetismo e la legge.

 

È necessaria una parentesi.

I prodotti alimentari di massa della grande industria, (altrimenti definiti CANI, Composti Alimentari Non Identificabili), per assolvere alla loro missione di diffusione capillare, esigono una continua ed attenta re-definizione sensoriale, in termini di sapore, odore, aroma, textura, colore e presentazione.

Una missione che ha l’obiettivo (poco importa se deliberato o collaterale) di reificare quel sentimento dell’esserci in cui gl’atti alimentari condivisi rappresentano una funzione interumana d’importanza antropologica primordiale.

In sostanza, quando manca la commensalità, come una importante coordinata dell’esistere in comune, si ha l’impressione che il mondo divenga tossico.

Con quali conseguenze?

Lo riassumiamo con le parole di chi ha introdotto nelle scienze sociali il concetto di falsa coscienza, Joseph Gabel.

Egli afferma che là dove non esiste più una coscienza dell’esistenza dialettica convergono tre circostanze.

– Il sentimento di essere degli estranei in un mondo che ci appare irriconoscibile.

– L’impressione di essere indifesi in seguito alla scomparsa di una coscienza assiologica comune e di essere inermi davanti alla scomparsa di valori condivisi.

– L’incapacità di rapportarsi con le circostanze e con l’Altro da noi, che ci appaiono ostili.

En passant, questo spiega l’ossessione di molti barricadieri, di cercare sotto i pavé le tavole imbandite di una nuova socialità e sulla grève una nuova solidarietà di classe.

In ogni modo dovrebbe essere evidente l’analogia tra i composti alimentari non identificabili che stanno sulla nostra tavola e i composti politici non identificabili che occupano le assemblee nazionali.

Un’altra configurazione della relazione arte/cibo risale alla fine del secolo scorso, utilizza il cibo come materiale espressivo a prescindere da ciò che esso è in sé.

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Con un preambolo che ricordiamo soltanto, quello della cucina futurista.

Si parla in questo caso di eat art, un termine che oggi appare saziare molta della critica d’arte, in origine era un’espressione usata da Daniel Spoerri (negli anni ’70), come una naturale espansione argomentativa dei suoi tableau piège (quadri trappola).

Qui notiamo che il tema del food and beverage come materiale espressivo coinvolge sempre più i sedicenti fooddesigner e le aziende dell’agroalimentare, in polemica con il ritorno ai valori di quelle tradizioni che non sono economicamente convenienti.

Valori che invece sono esaltati da un atteggiamento nostalgico di molte élite culturali che mangiano candele e cacano stoppini.

La configurazione che per l’economia del nostro intervento interessa di più è quella che nasce nella seconda metà del secolo scorso con la nouvelle cuisine, per indicare una data di comodo (1974).

Gli zoccoli di questa configurazione furono allestiti da Antonin Carême e dai suoi allievi come Jules Gouffé e Urbain Dubois che inaugurano la de-materializzazione degli ingredienti, la metamorfosi delle texture, la modellazione con le materie grasse e la dissociazione della forma dal significato della sostanza.

In altri termini, l’artificazione inizia con la denaturazione, come osservò Louis Nicolardot nella sua Histoire de la table (1868).  Sono pressappoco gli stessi anni in cui gli impressionisti scoprono la cucina della chair e della viande, a cominciare da Ėdouard Manet, con le sue cocotte e i suoi salmoni, prosciutti e fragole.

Lo spiega con arguzia Guy de Maupassant quando scrive che dipingere è vedere, e vedere è divorare, mangiare, digerire.

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In sintesi, l’artificazione inizia con il moltiplicarsi retorico delle analogie visuali nelle quali è evidente una certa complicità semiotica destinata a addolcire la brutalità della gràscia con una giostra di eufemismi ricchi di iperboli, metafore, metonimie e perfino di ellissi.

Come dire, grazie a queste brouillage syntaxique la forma produce valore e tanto meglio se inganna la fame con i suoi trompe-l’oeil e i suoi enigmi iperrealisti.

Al culmine del processo di artificazione – nella pratica della ristorazione – c’è poi l’algida cerimonia dell’allestimento del cibo o, meglio, del dressage del campo semantico del piatto, come se fosse un’opera d’arte.

Vale a dire il food si “cucina” e poi si “struttura” cercando di coniugare nella forma finale la sensibilità estetica dominante con le aspettative di unicità, rarità, preziosità.

Questo impone ai nuovi gourmet dell’effimero visuale di diventare spettatori obbedienti, ma soprattutto d’imparare a nominare, classificare, annotare, valutare, giudicare e, soprattutto, a sublimare, pena l’esclusione culturale.

La sublimazione, in questo contesto, è una dimensione narcisistica dell’io che nella modernità, come ha dimostrato Cornelius Castoriadis (in L’institution imaginaire de la société, 1975) è diventata un fatto sociale.  Una forma di narcosi che ha spento le ultime speranze di una rivoluzione evolutiva della società.

Tra l’altro, con il consolidarsi ideologico della novelle cuisine è nata la tendenza a pensare il cibo direttamente come opera d’arte, tanto che molti chef si sono spinti fino ad esigere il brevetto dei loro piatti o perlomeno a chiedere che siano protetti dalle imitazioni e ricordati con il loro nome al momento di apparecchiarli.  Esattamente come da tempo succede con i brani musicali.

In questo modo, l’origine e la natura del “mangiato” finiscono per essere de-valorizzati rispetto agli elementi estetici che lo accompagnano e acquista un’importanza sempre maggiore l’arte di manipolare e comunicare questi elementi.

Forma, colore e struttura sono ora determinanti nella formazione del gusto e dell’innovazione cucinaria, in più, questi fattori intrecciandosi con le cerimonie conviviali hanno dato vita ad un rinnovato teatro dell’arte gourmand.

È un teatro che affonda le sue radici nella decade dell’illusione, tra le due guerre mondiali, capace di mettere in scena la sostanza del desiderio dentro la forma letteraria dei simboli, come nel caso di quella giovinetta svizzera circuita dai surrealisti, Meret Oppenheim, servita a tavola in più di un’occasione ai suoi scapoli immaginari o come nel “cannibalismo” dei futuristi o di certo cinema americano dove tutte le ragazze sono sugar o honey.

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E qui ci arrestiamo per rispetto del femminile, fingendo di dimenticare l’ultima oscena tendenza, il body-sushi.

In pratica il gusto, là dove i poteri dell’agro-alimentare lo hanno assolto dalla sua millenaria guerra contro la lesina, si è rivelato, nella modernità, domesticabile, avido di metafore, di estetismi, di figure retoriche e ha finito per privilegiare la narrazione ai sapori e alle sensazioni.  Vittima della sua stessa formatività.

Una volta gli appetiti dei diseredati erano consolati con il fumo degli arrosti e gli appetiti dei signori  educati con le still-life.

Oggi, di contro, gli affamati sono invece sfamati con le immagini gustative elaborate spesso con il concorso delle neuroscienze e dei programmi televisivi di massa, se è corretto il dato che parla di un incremento delle ore di trasmissione dedicate alle arti cucinarie, nel corso dell’ultimo decennio, dell’ottocento per cento.

Questa scena alimentare è il luogo dove i nuovi commensali non vedono che segni invece di passioni materialiste o, per altri versi, questa nuova cucina semiotica rovescia ciò che a suo tempo aveva osservato Claude Lévi-Strauss:

essendo buona da vedere non occorre che sia anche buona da mangiare.

 

Visti i tempi non possiamo, per concludere, non ricordare che le esposizioni internazionali, da Londra, a Parigi a Vienna, costruite sul modello dei salon des beaux-arts, sono state, nell’Ottocento e nel Novecento, uno dei principali vettori dell’artificazione cucinaria, anche se limitata ai banchetti, all’esotismo e alla tradizione neoclassica della pâtisserie pittoresque inaugurata da Antonin Carême.

Altro obiettivo, invece, ha il tentativo cosmetico affidato al soufflé dell’Expo milanese.

Un’esposizione mistificata nella forma ossimora di un orto globale, all’insegna di una improbabile Gestaltung narrativa, costruita su una serie campionaria di scene predicative per percorrere, vedere, scoprire, assaggiare, ma non per sapere.

Del resto, solo inibendo la prefigurazione della fame si può configurare l’ethos dei sazi con le trappole retoriche a cominciare da quelle della cucina semiotica che imperversa nello showbusiness come una nuova arte popolare di coltivazione dei segni.

In buona sostanza, l’entropia che cuocerà tra un anno il souffléspettacolo nell’immediato nord-ovest di Milano, non è un processo naturale, ma culturale.

Deriva dalla degradazione della techne, favorisce lo specismo e capovolge l’informazione strutturante – che presiede al senso – a mera forma inerte, promuovendo l’accomodazione etica e la sua assimilazione a regime.

Banalizzando l’ananke a caso.

Infatti, nella produzione entropica della modernità, lo spettacolo – che qui definiamo come una sovrastruttura simbolica dell’alienazione – ritorna agli individui come un miscelatore dei fatti sociali in cui, nella fattispecie, politica e gourmandise si equivalgono.

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La scena alimentare – un tempo abbecedario della dépense – è così divenuta una tavola calda dove i nuovi commensali vedono nell’artificazione la realizzazione di quella socialità che gli affamati di un tempo chiamavano il sogno di una cosa.  

Questo cantiere entropico, sfigurato dall’ipocrisia dei suoi finanziatori, vuole riscrivere il paradigma materiale degli atti alimentari, affievolendo i processi cognitivi che fanno di questi atti una storia culturale e una pratica sociale.

Per farlo, favorisce il maturare di analogie deboli e eterodirette che si installano nei meccanismi inconsci della domesticazione alimentare e nelle pulsioni regressive della gola, in genere associate a un behaviorismo forse più rozzo che sadico.

Va da sé, la produzione entropica dell’Expo milanese finirà così per essere una devastante degradazione di senso, ma perché questa degradazione si produca occorrerà incubarla in un ambiente adatto: quello degli studi culturali, nella forma di una visual culture che l’accomodi à toutes les sauces.

Ma siccome non tutte le menzogne sono solubili nelle salse o nello spettacolo ciò che spetta alla zoe vale la pena di ripeterlo ancora una volta.

Le spese militari nel mondo corrono alla velocità di cinquantamila dollari al secondo.

Il reddito medio di due miliardi di abitanti del pianeta terra è di due dollari al giorno, che nel migliore dei casi li obbliga a una dieta amilacea sbilanciata e precaria.  Un altro miliardo non ha neppure questo.

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