Fluxus e la questione del femminile nelle arti.
Gianni-Emilio Simonetti
L’artista è l’origine dell’opera. L’opera è
l’origine dell’artista. Nessuno dei due è senza l’altro.
Martin Heidegger.
So distinguere il servo dal padrone, / So giudicare dal velo la suora,
So quando chi parla sottende, / So conoscere i folli ben pasciuti,
So riconoscere il vino dalla botte, / So tutto, ma non so chi sono io.
François Villon.
Lo spirito del tempo è l’anima dell’opera, ma quale spirito
dominava nella cueva di Altamira? Com’è risaputo il potere di
una costola verrà molto tempo dopo.
Bernard Rosenthal.
Uno.
Ancora oggi l’arte moderna è nella forma di una téchne che la sintassi mercantile dei linguaggi artistici ha ridotto ad una sorta di omiletica che si ostina a non ri.conoscere il femminile. Così, nonostante certe fortunose lacerazioni di questo stato di cose, la questione del femminile si pone inascoltata come una pregiudiziale nei confronti di quelle poetiche che ignorandola si fanno carico delle ragioni dell’ideologia borghese che vorrebbero deridere. Soprattutto esse rivelano lo smarrimento in cui precipitano tutte le volte che le cronache hanno visto questo tema deflagrare nella vita corrente.
Inoltre, nessuno è mai riuscito a determinare le proprietà che escluderebbero dall’arte ciò che non è androcratico, così come d’altro canto non si può negare che ci sia da qualche tempo una teoria espansiva della filosofia dell’arte che ha sul suo confine la questione femminista concepita come un margine stravagante di una democrazia imperfetta – la forza dell’ordine maschile, scrisse Pierre Bourdieu, si misura dal fatto che non deve giustificarsi. Resta inteso che non possiamo nutrire – come suggeriscono i cultural studies – l’illusione di convertire il problema del Gender in uno strumento di emancipazione dalla sessualità per il tramite dell’attività artistica.
Allo stato dell’arte ancora oggi nei musei d’arte moderna la presenza del femminile assomiglia molto – i libertini direbbero per causa – alle farfalle spillate nei gabinetti di storia naturale.
La téchne, da sempre sbrigativamente assimilata alla tecnica – per convenzione le arti applicate sono le arti che modellano la mondanità e non la realtà del mondo – e il paradigma dell’economico costituiscono i pilastri maschili dell’artecrazia. Possiamo comprendere le conseguenze di questa affermazione se si considera come appartenga alla strategia della metamorfosi del maschile la
gestione dei nessi copulativi tra predicato e oggetto – nella trasfigurazione del banale Arthur Danto si pone retoricamente la domanda:”Che tipo di predicato è opera d’arte?” In altri termini, legando la nuda vita alle opere d’arte, alla loro cosità, diamo a queste una funzione pragmatica che le denigra. L’esserci, infatti, non può essere considerato un postulato che ha una dimensione teleologica. In quest’ottica la questione del femminile appare morganatica. Ad essa non si porge che la mano sinistra, visto che la destra possiede il privilegio di donare il nome.
In questo senso l’adeguamento del quadro teorico intorno alla questione del femminile è stato l’ultimo inganno degli studi culturali e della loro fede nei cosiddetti sviluppi storici, da molti salutati come una via armistiziale con una sola vittima, il materialismo storico-dialettico. Nella sostanza questi studi costituiscono una sorta di neo-illuminismo che nascondendosi dietro la libertà creativa mette a sottacere le coercizioni di cui è capace. Di contro, il progresso estetico che promette è irrealizzabile semplicemente perché la strada che conduce ad esso è infinita e quello che ci mostra è sgradevole, in ogni modo, l’idea di progresso, in sé, è estranea a una visione materialista del reale.
Se non posso ballare, allora non è la mia rivoluzione.
Emma Goldman.
Per merito di una fantasiosa guerrilla di giovani donne statunitensi da almeno una generazione è sotto assedio il nesso di familiarità tra le arti e il maschile, in altri termini, si è rovinosamente incrinato il convincimento che vedeva le arti come un habitus sessuato dell’uomo.
Del resto, come non avvertire nei musei l’aurea del testosterone che incorona il maschio-artista come l’unico fuco capace di fecondare la regina delle qualità estetiche e la più evanescente delle illusioni morali: la bellezza?
Nelle istituzioni il fallo e le sue metamorfosi – o le sue germinazioni – sono sempre presenti, ma non sono nominabili. A questo proposito possiamo anche illuderci che l’etica e l’estetica siano i due capi di uno stesso problema, ma l’ago della bussola non è certo nella fibbia dei pantaloni, come imparò a sue spese Elena.
Il più bel monumento che si possa erigere su una piazza
la più sorprendente di tutte le statue
la colonna più audace e sottile
l’arco che compete con il prisma stesso della pioggia
non valgono l’ammasso splendido e caotico,
provate per credere,
che si produce facilmente con una chiesa e un po’ di dinamite.
Louis Aragon, Il fronte rosso, 1931.
Mosca, 21 febbraio 2012, tre giovani donne, di cui una madre, con dei passamontagna realizzati tagliando delle calze di lana colorate, balzano all’improvviso sull’altare della cattedrale del Cristo Salvatore, che aveva conosciuto all’inizio della decade dell’illusione la dinamite operaia – il 5 dicembre 1931 – e, ballando, intonano una filastrocca – blasfema per la chiesa ortodossa, eversiva per i padroni del Cremlino – che mette alla berlina l’ultimo capo del KGB divenuto il nuovo zar di una Russia che da qualche tempo a questa parte ha capito che governare con le merci è più efficace che ricorrere alle baionette. Sono state arrestate e qualche giorno fa condannate a due anni di lavori forzati – il massimo possibile per non incappare nell’ipocrisia del mondo occidentale. Si sa. Arbeit macht frei! Durante il processo Maria Alëkhina, una delle tre, si è difesa ricorrendo alle tesi sulla società dello spettacolo di Guy Debord e citando Il processo di Franz Kafka. Sedeva a fianco di Nadezhda Tolokonnikova che indossava una t-shirt con la scritta: No Pasaran! La più nobile delle parole d’ordine giunta fino a noi dalla Spagna rossa, operaia e repubblicana di Dolores Ibarruri.
Alla lettura della sentenza mentre i giudici sprofondavano nel ridicolo, il “sogno di una cosa” di queste tre giovani donne, che si erano definite delle Pussy Riot, ha appiccato fuochi di rivolta femminile in tutto il mondo. Ben scavato vecchia talpa!
Forse oggi c’è il pane, ma non ci sono ancora le rose. Il lato oscuro del femminismo nell’arte moderna, a partire dalla body-art, si è sempre risolto più o meno consapevolmente con un ricorso enfatico al corpo – riciclato a accessorio stilistico – indugiando nella narrazione psico-analitica e nel fallace riscatto che promette. Va anche detto che la sostanza sessuale non è mai nell’opera di per sé – questa è un’ossessione del maschile – ma nel contesto che la promuove e che l’identifica con il corpo simbolico della società.
Lo stesso corpo che un imbianchino austriaco, come puntigliosamente annotò, pretendeva di bonificare.
Ad eccezione di quello che ha scritto Melania Klein, il problema nelle arti non è tanto quello di restaurare il femminile nel maschile – compito di per sé ambiguo – ma di abolire i suoi riti androcratici che legano l’opera all’artista e condannano il femminile – definito per difetto – ad una doppia negazione, come avviene nella body-art dove il corporeo deve essere inseparabile dalla morale, pena la scomunica estetica. Una doppia negazione che la doxa sottopone a docimasia.
Del resto l’illusione politica d’inculcare con il dominio la virtù è una perversa ossessione maschile in cui sono caduti in molti, a cominciare dal Divino Marchese.
Nel trattare il narcisismo secondario – quello che investe l’Io a proposito della scelta dell’oggetto – Sigmund Freud scrive che la donna basta a se stessa, ama soltanto se stessa e, esibendosi, cerca di suscitare invidia. Se ciò è corretto la body-art non sfugge al suo destino di sostituto immaginario del fallo. Una strada senza uscita.
Le donne artiste nei cataloghi non hanno età, la mutilazione morale comincia con l’anagrafe. Meglio, debbono restare “piccole”, un predicato che in molte lingue africane indica il femminile.
È così, tra l’altro, che la piccola di Charlottenburg fu spogliata e mangiata per festeggiare il surrealismo, piegata ad una disponibilità simbolica che – e non per caso – si addice solo al femminile. Sarà per questo che passò la vita a vestire di pelliccia gli oggetti che la vita corrente definisce familiari, come un piattino e una tazza da tè, o a mettere code di scoiattolo ai boccali di birra?
Il potere del simbolico è un potere invisibile, a causa di questa sua caratteristica non può esercitarsi senza la complicità di chi non vuol sapere, di contro la significazione produce consenso che la politica muta in dominazione.
Il potere materiale e simbolico accumulato dal maschile nelle arti delegittima, con le parole di Max Weber, ogni interazionismo, riducendolo ad una comunicazione favolistica, del lupo con Cappuccetto Rosso, che impone e inculca degli strumenti di conoscenza e di espressione arbitrari rispetto alla rappresentazione. In questo modo la condizione del femminile è costretta a subordinare la sua posizione ai principi di formazione delle gerarchie che la dominano e alla divisione del lavoro artistico.
Gli habitus culturali sono le impronte della rappresentazione, producono la doxa e determinano il senso pratico che di regola affida al femminile i problemi dell’intendenza, nel suo significato di volgere al complere. Il maschile d’altronde sa bene che l’obiettività del senso del mondo è un’obiettività strutturante e che l’ordine gnoseologico si attorciglia come un serpe sull’ordine sociale fallico determinando la stessa concezione omogenea del tempo, dello spazio e delle cause.
Nell’arte contemporanea la pregiudiziale del femminile non può dunque scontrarsi con la funzione simbolica delle arti, ma deve contribuire a solidificare la dimensione culturale delle istituzioni. Guai a incrinarne l’autorevolezza o a rovinare loro la festa se è vero – come emerge dall’analisi durkheimiana – che in esse si forma il consensus sul senso del mondo sociale!
I movimenti del corpo compongono le matrici del senso – qui il corsivo rinvia all’accusativo di màtrix. Lamette, coltelli, bisturi, chirurgia plastica sottolineano le performance della body-art quasi a convincerci che la fermentazione del senso nelle arti è lividore, gonfiore e flusso. Dopo Jacques Lacan, come sappiamo, la psicosi anticipa le ritualità motivandole: sanguinare rinvia a abortire. Nel simbolico invera la suspicione femminista sui riti della fertilità. Ma come ribellarsi? Gli organi sessuali sono socialmente costruiti, è la ragione per cui possono attraversare l’immaginario senza darsi carico della realtà della phisis, soprattutto è la causa per cui la sessualità di cultura non tornerà mai indietro alla sessualità di natura, la bellezza non s’indossa, ma fa comodo pensarlo!
A cavallo del secolo scorso la questione del femminile nelle arti è venuta alla ribalta illuminando alcune discordanze cognitive e valoriali con il maschile da cui ne è conseguita, inaspettata, una parziale e inedita chiaroveggenza emotiva. Si può affermare che sempre più di frequente il femminile coglie il punto di vista maschile più di quanto questi comprenda se stesso. Con ciò si è parzialmente sgretolato il mito dell’eterno femminino, che ha riposato per secoli su una traballante piattaforma scientista. I linguaggi dell’arte, tuttavia, non sono solo strumenti di conoscenza, ma di costruzione del mondo degli oggetti. Osserviamoli con disincanto, è difficile non pensare a essi come a delle forme simboliche riconoscenti. Forme che possono essere interpretate come storiche e capaci di portare alla luce le condizioni sociali delle strutture produttive. Un modus operandi che mette a nudo, l’osservò Joseph Gabel, l’attività produttrice della falsa coscienza.
Se la definizione sociale del corpo dell’artista smettesse di essere il prodotto culturale del lavoro dei Gender l’orinatoio di Duchamp e le sue copie perderebbero il corsivo, vale a dire sparirebbe quella pressione ideologica a naturalizzare le costruzioni sociali. In questa prospettiva l’errore del femminismo storico è stato quello di ridurre la sociodicea maschile nelle arti a una questione performativa che ha a suo fondamento le rappresentazioni del corpo. Inscritto nel corpo, poi, l’ordine inevitabilmente s’inscrive nelle cose che diventano documento. In questo modo nella body-art – a differenza delle fluxer women – è spesso passata inosservata la somatizzazione dei rapporti culturali di dominio che pure appaiono in tutta evidenza nella liturgia delle sue performance. Ciò nonostante, in principio, questa corrente poetica ha avuto il merito di svalutare i processi di resurrezione che affliggono il maschile al pari di un’ossessione cosmologica. Non è per caso che le forme del sacro e le sue liturgie sono androcentriche.
Addenda. Il ready-made di Duchamp è da qulche tempo assunto come il culmine maschile delle arti del Novecento. ”The most influential modern art work”, così lo definirono cinquecento esperti nel dicembre del 2004 in un sondaggio commissionato dal Turner Prize di Londra. Al secondo posto si collocò Les Demoiselles d’Avignon di Pablo Picasso, al terzo il dittico Marylin di Andy Warhol.
E Las Meninas, dove sono finite? Da anni mi riprometto di dedicare a questo argomento una riflessione più approfondita, magari davanti ad una caña “mirando” le chicas su La Rambla che dalla Calle Avynio dista, come diceva Manuel Vázques Montalbán, lo spazio di una sigaretta.
Nel Settecento un’accorta cerimonia della donna spogliata a misura della sua nobiltà su un basamento di circostanza e dell’artista davanti al cavalletto contribuiva nelle “belle arti” a quei riti di passaggio della bellezza come compensazione delle differenze sociali e, in sub-ordine, ragione dell’anima. Poi la borghesia affermerà, credendoli a proprio vantaggio, i riti d’istituzione della bellezza, condannando il femminile all’arguzia – nell’italiano forbito vale piccante – della differenza genitale e dei segni esteriori che l’hanno obbligata a salire sulle pareti delle quadrerie come rappresentazione della jouissance, a uscire da sé. In questo modo finché la téchne avrà bisogno del concime della sublimazione ci sarà sempre un problema di libido dominante.
Le appartenenze biologiche, dal punto di vista delle arti, sono un aspetto del naturalismo a cui è delegato il compito di sostenere l’asimmetria tra i sessi e le specie a partire dai modi di produzione.
Per di più la resistenza alla questione del femminile nasconde anche la rovinosa alternativa tra il materiale e lo spirituale da cui trae forza l’economia dei beni simbolici. Qui non siamo solo di fronte a un problema di semplici sovrapposizioni tra le prestazioni, ma a una profonda rifondazione degli ambiti.
Su un altro registro. Ciò che rende farraginoso il cammino dell’inconscio – nella forma di un congegno di produzione del simbolico – lo possiamo verificare nel pregiudizio maschile a ripensare il fiume carsico dell’erotismo e il cosmorama delle sue paure.
Per l’antropologia le arti sono il modo con il quale gli esseri umani
attribuiscono un’anima a delle identità che ne sono prive,
in analogia con il comportamento dei bambini che attribuiscono delle
intenzionalità a degli oggetti di cui essi stessi sono l’origine.
Bernard Rosenthal.
Nelle arti le strutture storiche si sono sempre dis.poste come strutture dell’ordine maschile. Attraverso di esse quest’ordine s’invera come una forma di dominio e un prodotto di tale dominio. Ecco perché nel corso del Novecento le avanguardie “politicamente corrette” si sono rivelate come delle avanguardie accomodanti con il contenuto della sublimazione (Freud). Un contenuto usato come una visione salvifica del loro destino e un efficace espediente per forcludere il loro fallimento, a dispetto di ogni precauzione ontologica.
Il sotteso processo argomentativo ci suggerisce che l’opera d’arte è pensata come una cosa, ma non ci dice che cos’è una cosa per definire che cos’è un’opera. Per secoli gli artisti si sono illusi, ignorandone la forma tautologica, che la composizione fosse un modo per mettere al suo posto il contenuto, ma l’opera in cui esso s’invera è fragile di fronte al principio di speranza della verità.
Giotto che l’aveva capito si astiene dal dipingere la peste ripiegando sull’azzurro dei cieli.
In breve. L’opera s’installa nel frutto della sua verità che non esiste senza la verità dell’opera.
Oppure: La verità si fa nell’opera e non con l’opera (Heidegger).
In questo contesto le arti si sono rivelate un’enorme e arbitraria cosmologia androcentrica, tanto che il problema del Gender non può ridursi a una compensazione nella produzione tra i generi, ma deve arrivare a rifondarne il loro statuto epistemologico.
Di più, a partire dal Romanticismo il genere si è installato nell’arte come un riflesso culturale in cui convergono i traumi sociali di una società che vuole risolverli senza negoziarli. Che sia l’isteria, come diranno i surrealisti nel cinquantenario della sua scoperta, la più bella invenzione poetica dell’Ottocento?
Il pudore c’ingiunge di non dire che Augustine è stata la prima performer – suo malgrado – di una nuova arte, la fotografia. Abitava alla Salpêtrière. Veniva dopo la piccola Sara (Saartjie) il cui corpo, con il suo “grembiule ottentotto”, il colonialismo inglese prima, e la perfidia francese dopo, trasformarono in un documento di body art da conservare al Musée de l’Homme per i lazzi degli studenti di antropologia, almeno fino al 1974.
Ancora, come non elogiare la giovane Voltairine de Cleyre che per fuggire dalla peste religiosa del convento di Sarnia in Ontario, attraversò a nuoto un pezzo del lago di Huron? Molti anni dopo il suo ultimo scritto lo intitolò Direct Action (1912).
Se poi vogliamo spingerci più in là e consideriamo equivalenti il principio di differenziazione sociale e quello sessuale allora il faking orgasm deliberato è un’espressione di ciò che nell’arte teatrale si chiama performance.
Due.
Come procedimento filosofico, la dialettica è
il tentativo di sciogliere i nodi del paradosso con
il mezzo più antico dell’illuminismo, l’inganno.
Theodor W. Adorno.
A partire dalle avanguardie storiche il documento che diviene opera – con la complicità e il potere simbolico delle istituzioni artistiche che ne gestiscono il percorso – legittima, in modo obliquo, la necessità di un resto che consenta una qualche redenzione gnoseologica dell’opera che altrimenti non sapremmo riconoscere, neppure come Ding an sich. Questo resto ci appare come una nostalgia domenicale, una predizione di ciò che nell’opera è l’opacità del negativo. Non per caso questa nuova configurazione del documento s’invera sempre più spesso come un simulacro dell’opera che non c’è. Va aggiunto, come osservò Marshall McLuhan, che nell’arte contemporanea l’opera e il documento si “rivelano” (Heidegger) sempre più frequentemente attraverso lo stesso medium, interferendo l’una con l’altro.
Al cuore di questa relazione pericolosa il documento che ricorda – to know by heart – è sempre nella forma di una anosognosia tanto che molte esposizioni d’arte internazionali non vanno oltre un intento di ricordo di ciò che abbiamo creduto fosse arte o che vogliamo diventi arte e che altrove è liquidato come un disturbo di fissazione.
Perduta così la sua originale funzione di dare forma, il resto è divenuto in termini fenomenologici la ragione del fatto artistico o della cosità dell’opera. Come è facile costatare nel corso del Novecento la produzione di opere a mezzo di documenti ha portato alla luce, con l’affermarsi delle opere senza aurea (Benjamin) e delle copie come loro sinonimo, una nuova frontiera poetica inaugurata da Marcel Duchamp, per così dire, con il congegno del ready made.
Va aggiunto. Finché il documento ha potuto confidare nella parola è rimasto sostanzialmente estraneo a ciò che più conta nel campo delle attività artistiche: tendere ad incontrare il reale. Dalle avanguardie storiche in avanti e, segnatamente, prima con la poesia visiva e poi con Fluxus il documento – che si esprime sempre più spesso con qualcosa di estraneo alla parola senza riuscire a sormontarla con l’interpretazione – è intrappolato nei processi di valorizzazione e non può più inverarsi se non assimilandosi all’opera, imitandola nell’uso dei nuovi media.
Soprattutto, il soggetto da cui promuove non è assolutamente evidente nel suo discorso, ma vi ci si nasconde.
Il documento consente la critica delle fonti, ma non riconduce i fatti a leggi e a regole o permette di storicizzare ciò che è ancora vivo nell’opera. Nonostante questo la riporta dallo stato di eccezione all’abituale, anche se ridurre al comprensibile non significa spiegare.
Nonostante sia esaltato dalle nuvole dell’immateriale (cloud computing) il documento ha assimilato un limite fisiologico dell’opera, di dover essere presente e visibile e di non potersi riferire che a se stesso. Di non poter essere memoria nella memoria.
Poco importa se lo spettacolo integrato rende inutile il contenuto di realtà di questa memoria, perché il documento può anche non essere il risultato storico di un’attività creativa e svaporare da concetto a intento inaugurando una semiosi sostanzialmente tautologica.
Nella compromissione delle avanguardie storiche con la questione sociale si è poi fatta avanti un’altra rappresentazione del documento. Di strumento per legare l’arte alla vita corrente, facendo diventare l’esperienza artistica un documento di quest’ultima e investendola di una missione biopolitica, così quello che l’opera d’arte credeva di ottenere ieri ideologizzando i suoi “contenuti”, lo realizza il documento oggi con le sue metamorfosi, non da ultima quella che consegue all’azzeramento della parola, mutarsi in evento.
L’autonomia del visuale, anche nei confronti del realismo iconico oramai incapace di riprodurre adeguatamente la realtà, accresce quella del documento e dell’uso a cui lo si destina, di congegno per registrare il divorzio tra rappresentazione e realtà e, più in là, tra naturale e artificiale, con il risultato che la feconda insignificanza dell’arte si condensa per intero nel significante.
Questa registrazione è nella forma di una narrazione che solo il documento indirizza verso la coscienza del vissuto, pur degradandola.
È inutile cercare di scorgere la neve della sua amata rodina nel quadrato bianco su fondo bianco (1918) di Kazimir Malevic, perché non rappresenta che l’ultima possibile éikona dell’iconofania ortodossa. Così come, su un altro piano, occorre riconoscere a Sophie Calle di aver mutato in documento la banalità con la quale l’artisticità pretende d’investire la vita corrente in un momento storico nel quale, tra l’altro, il tacere sugli alberi è un nuovo delitto.
Per molte espressioni artistiche a partire dalle avanguardie storiche la realitas del documento ha rappresentato un’ossessione sulla quale stagnavano il peso insopportabile del passato e la fragilità del contemporaneo. Comunque non esiste ancora una prassi documentaria che sappia registrare l’illuminazione dell’opera che si storicizza – si sagoma (Heidegger) – così come non sempre il documento s’inchina alla funzione ermeneutica, ha l’eloquenza di Hermes. C’è poi un altro aspetto di questo problema interpretativo. I documenti possono essere fraintesi o devono essere fraintesi con l’interpretazione? L’etimo di documento rinvia all’insegnare e non al documentare, per tanto esso trae in inganno quando lo si percepisce come un esito. La lezione la dobbiamo a Ludwig Wittgenstein, nel mezzo del guado verso il visuale non si può più dosare il linguaggio della metafisica per com.prendere, senza compromettersi con la funzione del comprendere.
Platone fu il primo a sollevare una suspicione sulla rappresentazione, che già con Eraclito era sospettata di essere il contrario del vero, ciò non toglie che si possono indurre gli uccelli a beccare i chicchi d’uva di un grappolo dipinto. “Ogni arte, in quanto è un lasciar accadere l’avvento della verità dell’essente come tale, è, nel proprio stanziarsi, dettatura” (Heidegger) in cui si nasconde l’arcano attraverso il quale l’arte tende a trascendere se stessa e l’opera rivelarsi come un’epifania. Per la doxastica non importa se l’arte inganna, basta che lo faccia nel migliore dei modi. Ecco perché – per restare nella pittura di un secolo in cui la verità si costituiva come dis.velamento – la verità pratica dipinta nella forma di un setaccio nella mano di Elisabetta I da Federico Zuccaro è il grappolo d’uva di un inganno simbolico. La castità di questa sovrana vi appare come allegoria, documento visivo di un godimento che, lungi dall’essere nella forma di copule consumate, è ciò che fa buco nel sembiante (Lacan), un plus.godere che solo il femminile riconosce come tale.
Preso di per sé il documento sbiadisce davanti al presupposto della rappresentazione, soprattutto se è fatto carico dalla speranza dell’opera di rappresentarsi come opera. Ecco perché in Fluxus occorre distinguere tra i suoi documenti quelli il cui contenuto non può essere rappresentato altrimenti o meglio, quelli la cui natura è indipendente da come essi appaiano.
Nessun documento, di contro, può inverarsi nella forma di ciò che Aristotele nella Metafisica – libro quinto – chiama una completezza, un risultato finale, anche se il risultato finale di un’attività artistica non è sempre nella forma di un’opera. In sintesi, il documento artistico o ci guida attraverso l’opera ri.narrandola o consolida l’espressione di una volontà di compromettere nell’opera la vita corrente, deprezzandola.
Ricordiamolo, la documentazione tecnica ha per obiettivo l’uso o la riproduzione, la documentazione artistica la narratività o il suo negativo, la valorizzazione.
Il significante in Fluxus aspira al significato della vita corrente, ma siamo di fronte ad un inganno lessicale perché ogni equivalenza tra Fluxus e la vita corrente rappresenta una banalizzazione di quest’ultima a cui l’interpretazione sottrae, con la lettera, il divenire. Occorre aggiungere che questo significato resta sconosciuto perché il significante è sempre arbitrario e si depone in quella che Martin Heidegger chiama Selbstverständlichkeit, la banalità che precede l’analisi dei significati. In ogni modo, il fatto che buona parte della vita corrente ha a che fare con le arti applicate fa apparire l’applicazione un carattere della non-arte, ma non è così. L’applicazione nella modernità è solo un carattere mercantile della forma di merce. Il contrario del Vollbringen, di quel potere di “produzione” dell’arte che rivela l’epifania della verità o piuttosto il suo Geschick (destino).
Più in generale nell’arte quello che è “a proposito di qualcosa” rimanda inevitabilmente al significato che però non ha una ragione d’essere nell’opera se si considera l’arte una forma di téchne.
Con Fluxus – e questa è stata una novità – l’unità elementare della poetica non è più l’opera d’arte, in quanto oggetto, ma uno spazio in cui gli oggetti – anche anonimi – s’installano.
In un evento Fluxus il “nuovo” è il risultato dello slittamento delle circostanze sul senso. La banalità dell’ordinario – a cui l’immaginario ammannisce i suoi avanzi – è un’astuzia della doxa. Non per caso il senso comune è la più incomprensibile delle forme estetiche, anche perché divarica una relazione che non c’è, quella tra arte e vita corrente, che pure entusiasmava Dada. A ben guardare una relazione da scapoli in uni.forme.
Tuttavia un’istallazione compiuta è sempre irriproducibile, da qui la necessità del documento. Esso è alla lettera, come abbiamo già sottolineato, ciò che s’installa, non ciò che circola. Per circolare come una merce deve emanciparsi o essere emancipato a documento da un’istituzione che gli è matrigna.
In termini materialisti una società non si giudica in nome dell’arte, ma piuttosto dall’attività artistica che si è data. Se ciò è vero, il rifiuto di Fluxus di porre l’opera come punto di partenza di una critica dell’attività artistica è allo stesso tempo uno scacco e una rivoluzione.
Per conoscere la direzione intrapresa da Fluxus, posto che ce ne sia una sola, occorre ri.conoscere il suo luogo d’origine. L’ovvietà topografica indicata dai Baedeker è fuori luogo, avendo Maciunas moltiplicato le diversità e le differenze in nome di considerazioni morali e, di conseguenza, politiche. Così, se qualcuno ha maramaldeggiato sulle spiagge della Côte d’Azur, altri, pensando a Danzica, hanno avvolto il pane che sa di sale nelle pagine del Die Tageszeitung.
Va aggiunto. L’universalità dell’arte se aspira all’istituzione e al mercato – come avviene nel mondo delle merci – deve saper soprassedere alle realtà sociali. Da tempo e con esiti che molti si ostinano a considerare irrilevanti la sensibilità estetica per le opere è interpretata dalla forma di merce universale più che dalle poetiche che su di essa galleggiano come le ninfee di Claude Monet nello stagno di Giverny.
Quando si scrive che i musei sono dei luoghi freddi rispetto a ciò che scorre sempre più caldo e veloce nella modernità è come dire che, senza la stampella del documento, le opere hanno “ghiacciato” la loro funzione maieutica a cominciare dall’artificio del non-sapere. Ecco perché nelle performance l’idea di opera tende a installarsi come cosa a ridosso del documento, per sopravvivere. Una certa critica-critica, come la chiamano Marx e Engels nella sacra famiglia, definisce i musei i frigoriferi del senso. Ma la critica alla critica-critica ci ricorda che è quando c’è una glaciazione che l’uccello di Minerva giunge a cose fatte!
In ogni modo, al freddo dei musei è più facile trascinare la propria ignoranza.
Nell’arte moderna il documento per essere convincente tende a metamorfizzarsi – anche suo malgrado – in una metafora biosociale costruita su strutture polisemiche elementari. Un tradimento che induce a nuovi sciamanesimi. Nell’ultima decade del secolo scorso a un artista è bastato un po’ di grasso, del feltro – fabbricato con capelli e pelo umano – e una lavagnetta su cui scrivere truismi per guadagnarsi un titolo “bioprofetico” verde e quindici minuti di celebrità. Diceva costui mentre predicava l’azione: Ogni uomo è un artista.
Ci sono aspetti della poetica di Fluxus che sono solo documentabili essendo la pretesa esplicativa o politica, direbbe George Maciunas, implicita nella natura dell’opera o dell’evento, sia esso un pesciolino in un’acquasantiera o qualche metro di garza in una vagina.
Per Henry Flynt, che gli fu sodale, Fluxus nella sua infanzia tematica ebbe la felice e rivoluzionaria pretesa di trasformare l’arte in documentazione in modo da metabolizzare la documentazione in arte, farla fermentare a praxis. Eravamo ancora dentro una stagione nella quale il documento possedeva la forma di una narrazione comprensiva o appariva nella forma di un collo postale.
Più in generale il documento in Fluxus decide dell’opera, sia anticipandone il destino che completando il suo corso passato. Aggiunge Heidegger, “nel primo caso è posta – gestellt – la natura, nel secondo la storia”, insieme contribuiscono ad edificare la rappresentazione.
Fluxus è stato spesso definito come una delle ultime avanguardie artistiche del Novecento, così resta incomprensibile a chi non sa valutarlo come l’ultima avanguardia estetica. Cogliervi uno strumento che concorre a “produce” l’esserci – quell’ente il cui essere è l’esistenza (Heidegger) – attraverso una narrazione poetica e il conseguente rifiuto della creatività individuale intesa come un’economia dell’Io.
Possiamo affermare che un evento è concluso quando nella con.chiusione c’è l’epifania, inaspettata, di un senso. Inaspettata significa che è fuori da ogni pretesa di comunicare con lo spettatore in assenza di regole, le stesse che la porrebbero nell’oscuro. In ogni modo la cultura non può generare culti se non vuole rinunciare al suo predicato più efficace, di materiale.
La compromissione dell’evento con la vita corrente lo fa sembrare un placebo contro l’inquietudine, ma lo tiene lontano da ogni liturgia. Il mondo della rappresentazione, come ha osservato Friedrich Hegel, è laico se il mondo delle forme è storico, di contro nel luogo dell’irréel – lo spettacolo – la rappresentazione è la più redditizia impresa del sacro. In questo senso il pluralismo espressivo dell’arte contemporanea quando si allontana dal documento è come la bruma sulle avenue, relativizza tutto, ma non sfugge al suo destino di aspirare all’opera assoluta de.strutturando ad usum delphini la forma di spettacolo.
Nella forma di documentazione si è progressivamente installata un’ambiguità che si è ingigantita a dismisura con la pop-art. I suoi entusiasti critici hanno sempre ricondotto le sue opere più radicali a documento sociale e di costume perché questo modo di procedere si rivela, nello spettacolo, più conveniente che ridurre l’opera a tautologia. Una tale strategia ha un indubbio appeal mercantile oltre che “pubblicitario”, come è avvenuto per le Brillo Box, le Marylin o le minestre in scatola. Più semplicemente, per i filosofi dell’arte contemporanea le opere d’arte sono ridotte a una classe di oggetti che il processo di valorizzazione trasforma in oggetti di classe, capaci di percorrere à rebours l’intestino sociale del gusto artistico.
Come sostiene una certa critica d’arte ri.concettualizzare l’oggetto o l’evento non è un compito difficile, mentre è più complicato storicizzarli al di fuori del sistema arte, cioè, di classe. In ogni caso tutte le definizioni di opera che discendono dalla teoria istituzionale sono efficaci e reazionarie, quanto inspiegabili.
Quando la materialità scompare dall’opera che si fa opera emerge la sua sostanza nella forma di una ragione storica che si fa documento.
Una breve appendice analitica.
Nel documento il singolare e l’universale coincidono a spese di un carattere funzionale dell’opera, quello di essere particolare. Come dire? Addio catarsi.
Se il documento perde la lettera sparisce ogni orientamento letterale e l’ermeneutica finisce sugli scogli del significante, di più, diventa impossibile ordinare la funzione della sublimazione in riferimento alla cosità dell’opera. Questo se si condivide l’asserzione che tutte le forme create dall’uomo, sotto l’ombrello della sublimazione, sono rappresentate da un vuoto. Da qui un certo modo di essere dell’arte: di organizzarsi intorno a questo vuoto. Di contro è il caos.
Quando insistiamo sulla natura materialista dell’opera d’arte è come se dicessimo che il sacro è lo strumento per non vedere questo vuoto che ci consegna all’ossessione.
Lacan sottolinea come in Freud il realismo non si trova nella percezione di un oggetto, ma nell’esperienza di ritrovarlo. Un’esperienza che naufraga nell’impossibilità, ma che ci permette di ribadire che ciò che non ritroviamo è esattamente la Cosa, das Ding.
Ma la Cosa è l’oggetto del desiderio? No. Questo oggetto è tra le parole e le cose, ha la natura delle illusioni. “Cette Chose…sera toujours représentée par un vide, précisément en ceci qu’elle ne peut pas être représentée par autre chose”, meglio, “qu’elle ne peut qu’être représentée par autre chose” (Le Séminaire VII). Qui, autre chose significa dalla parte dell’arte, come rappresentazione.
In modo argutamente conciso: “Le signifiant fait trou”.
Va aggiunto. La psicoanalisi in senso proprio non ha che due soggetti: il primo parla, l’altro ascolta, ma per la psicoanalisi la funzione dell’arte è inaccessibile se si pretende di ascoltare l’artista, ce lo rivela Freud alle prese con Leonardo da Vinci. Né si può ascoltare l’opera o far riemergere il rimosso ad illuminarla. L’enigma del sorriso della Gioconda non rinvia né all’omosessualità dell’artista, né a certi oralismi.
Se tutto si svolge intorno a un vuoto, per l’arte non è né questione di ornare, né d’illustrare, piuttosto di organizzare. Da qui l’analogia con la téchne – su questo crinale Alfred Gell ha definito l’arte una tecnologia tra le tante e Claude Lévi-Strauss l’origine di fenomeni di tipo totemico. Ma chi organizza chi? Da tempo gli ambasciatori di Hans Holbein hanno smesso di fornire istruzioni sull’anamorfismo, eppure “le regard est l’un des quatre objects causes du désir”.
Tre.
…finché non si sarà cambiata l’anatomia
dell’uomo attuale, non si sarà fatto nulla né per la poesia, né
per nessun’altra specie reale e fisica di libertà!
Antonin Artaud, lettera a A.Breton.
Quando si comincerà a indagare sulle livree degli scapoli del Large Glass senza inciampare sul sintomo o consolarci con l’aneddotica? Chi tra loro era così abietto da immaginare un cuneo di castità (Wedge of Chastity) nella forma di un congegno perverso – la cui missione è quella di tenere a bada. A bada dal morso di chi? Ogni donna lo sa: dal morso della jouissance.
Com’è noto sulla parte bassa del Large Glass gli scapoli bivaccano a fianco di una macina per semi di cacao. Sono forse eccitati dal germe della cabossa o dalla loro madre stercoraria?
Per Lacan l’opera si riduce a un sintomo dell’artista, come sintomo precede il senso analitico, ma la rappresentazione che ne consegue moltiplica il desiderio (Le Séminaire VII). Se ciò è corretto il destino del femminile nell’arte moderna travalica quello dell’artista. Lo possiamo immaginare come un cuneo – alla lettera – capace di impedire il compimento hegeliano dello Spirito Assoluto.
Era una convinzione medioevale assimilare la vagina ad un fallo rovesciato – serviva a pensare gli opposti conservando al principio maschile la condizione di origine di tutte le cose – che un orinatoio sia assimilabile ad una vagina è solo un problema di perversione culturale in cui si riflette la natura di cosa matriciale del fallo che diviene opera. En passant, le donne di Sardegna chiamano madriga la pasta acida destinata alla fermentazione/lievitazione del pane.
In sostanza, “ai boys il fallo, alle girls il cazzo” (Lacan).
Per Freud nella sublimazione è installato un ricordo sessuale intollerabile forcluso grazie alla plasticità delle pulsioni. Il che ha fatto dire a Lacan che “la sublimazione eleva l’oggetto alla dignità della Cosa”. Per chi non coglie il nesso aggiungiamo: i tratti principali di una pulsione sublimata non sono quelli specifici dell’opera che si crea (Cfr., la corrispondenza tra Freud e Wilhelm Fliess del 1897). Tutto questo avviene perché l’Io ha paura di essere sopraffatto e la sublimazione è espressamente indicata da Freud come una delle quattro modalità di difesa impiegate dall’Io contro gli eccessi delle pulsioni.
In un sito sul web tra i commenti ad un piccolo saggio intitolato, “La curiosa storia di John Cage a Lascia e Raddoppia”, M.V. ha scritto: (7 marzo 2011, ore 15.00). “Confermo la storia della signora Fontana cui ha fatto riferimento Protociccius”, sic. “Aggiungo che alla fine Cage cedette alle avance della Fontana, la quale, mentre essi praticavano la posizione detta del “69”, offriva a Cage una prospettiva ribaltata che – in associazione al cognome della signora – lo indusse a rimembrare il famoso ready-made duchampiano: “Fountain” (1917). È, in effetti, sulla scorta di questa esperienza erotica che John Cage decise, in futuro, di dedicare al grande artista francese la propria Music for Marcel Duchamp”. Protociccius (10 settembre 2010, ore 15.38) aveva scritto, tra l’altro: “…Cage era stato messo a pensione presso una signora Fontana, era un bellissimo uomo, la signora Fontana era molto più matura di lui e cercava dei pretesti per possederlo…”.
Nelle espressioni artistiche della modernità la sublimazione – qui interpretata come un’energia la cui fonte è materiale – è un insopprimibile principio di coerenza tra l’opera e la forma artistica. Come sappiamo da tempo essa rivela la sorgente sessuale dell’impulso artistico nello stesso movimento con il quale mette a fuoco gli ideali dell’epoca che lo scotoma della rappresentazione oscura e manipola. Ciò non toglie che sia la più elaborata delle pulsioni socializzate. Il puritano Freud arriva a interpretarla come una maturazione in direzione della moralità e questo è facilmente comprensibile se pensiamo che per Freud la psicoanalisi è, tra le righe, una versione ridotta e semplificata della Torah ad uso dei gentili.
Nella plasticità delle pulsioni, come ripari di uccelli marini su una scogliera, si annidano i fantasmi attraverso i quali si attiva la sublimazione e il suo prodotto finale.
Ecco perché nell’arte la sublimazione ha bisogno di un cadre, esattamente come in analisi ha bisogno di un setting. In questo contesto dobbiamo dare per appurato un Io narcisistico che consente il passaggio da un appagamento erotizzato e infantile a un altro se.dicente adulto. Tuttavia in una prospettiva materialista resta in sospeso un problema che la critica affronta sempre con disagio. Accettata la circostanza che le opere d’arte tramite la sublimazione assumono un valore sociale non significa che a esse corrisponda – sic et simpliciter – una qualche utilità sociale. La natura di questo disagio è evidente, mette a nudo l’esigenza che le opere d’arte, per essere tali, debbano diventare delle merci in cui si occulta la loro natura di feticcio.
Si consideri a questo proposito il legame del piccolo Hans con la musica e l’illusione paterna di com.pensarla come uno strumento di contenimento delle fobie.
Gli eunuchi che venivano dalla Frigia usavano gli orinatoi?
Avrebbe potuto un’artista donna pensare una simile fontana? La risposta va lasciata nel limbo perché l’affermazione è ob.scena quanto inesplicabile. La “fontana” è nelle culture (cosiddette) primitive il luogo femminile per eccellenza, opportunistica invece è la metafora che la definisce natura la cui “coltivazione” (Cicerone) c’introduce ad una visione voyeuristica dell’arte. Ne soffriamo tutti, compreso chi scrive, che giovinetto sognò di bagnarsi nella “fontana” termale di Bilitis, con la complicità di Pierre Louÿs.
Giardino chiuso, fontana sigillata.
I tuoi germogli sono un giardino di melagrane.
Cantico dei cantici.
Un piccolo tizzone nero scivola tra le cosce della Danae, di Gustav Klimt, persa nella beatitudine di un sogno ovario. Che sia l’antesignano dei cunei di castità o un semplice suggello?
Oh, Danae, perduta per quel fiore di sangue che Acrisios scopre sul tuo sesso di bambina! Tragico destino di una doppia violenza: di un padre che teme il frutto del suo frutto e di un dio senza ritegno. Lo sapeva bene James Joyce, lunga è la strada che dall’acqua di mille fiori porta all’oro. Urina, orina, aurina, aurum, oro. Poi dall’oro la pioggia e infine l’epifania, il nettare dell’impudicizia. Elle, le berceau organique de notre vie primitive.
Elle le maudit.
Alla fine sarà la pluie d’or di Giove a inseminare la fanciulla, nell’illusione senza limiti di sovrastare al destino contenuto nel suo nome, in lingua greca significa disseccata.
C’est le goüt qui sacre l’obscène! …ô my sweet leaker, diceva Joyce a Nora.
Non solo per i vagabondi del world wide web, anche per molta critica d’arte la rotazione di novanta gradi dell’orinatoio di Duchamp ha il potere simbolico di mutarlo in una vagina. Se una tale ortologia è legittima allora risulta sconsacrata rispetto a quelle che sono le regole d’accesso e di contatto. Il solo fatto di essere messa a nudo è la prova della sua natura di tabù. La circostanza che sia di porcellana conta poco, le donne della Nabilia sanno che è la salda qualità della terra cotta a distinguerle da ciò che è molliccio nei maschi.
Se il genere è femminile lo scapolo è una scapola (scàpus), un sostegno, o è piuttosto una costola, un sostenuto? L’etimo di scapolo rinvia a colui che è libero da legami perché li scapola. Ma una livrea non è forse il legame dei legami? Occorre uscire dal maschile come genitivo del femminile, una questione di costole.
Minerva nacque senza madre, da un’emicrania di Giove, votata a coniugare la guerra alla saggezza. A lei però è impedito ogni regressus ad uterum, ogni maschile avventura da orinatoio. Osservando come si compensa la “femminilità” possiamo dire che l’arte esiste nei sensi del femminile prima che nei suoi pensieri, come si evince anche dalla recente biografia della vagina di Naomi Wolf. Condillac avrebbe considerato questo un privilegio del genere. Altre filosofie!
Per l’ipocrisia sociale i sensi non hanno un sesso, ma la sensibilità lo suppone. L’uccello di Minerva ridotto a fascinum acceca forse le donne artista, come certi frutti d’Arabia (si dice delle lagenarie longissime ricoperte di miele) che consolavano Danae? In ogni modo, nelle epoche in cui l’immaginazione si arrampicava intorno ai torsoli di mela sognando i serpenti, l’uccello della notte finì spesso arrosto sui fuochi dei sabba.
L’unità del corpo non depone a favore dell’unità dell’anima, l’osserva André Breton a proposito di Maldoror, riflettendo sulla psicastenia di Pierre Janet nella frantumazione del conscio.
Freud definisce fallica la rappresentazione della libido che organizza la sessualità. Fallocratica è invece una società in cui un pene immaginario – come presenza o assenza, qui poco importa – affida al significante il compito di installarsi nella rappresentazione.
L’arte è un levare o un mutilare? Per analogia l’opera si stacca dall’artista come è separabile – nell’angoscia – il pene dal corpo. Se questo staccare è nella forma di un complesso di castrazione esso (il pene) può essere rimpiazzato con ciò che Freud chiama un’equazione simbolica. Quello che Freud non spiega è perché il creare deve essere assimilato per il femminile al pro.creare, soprattutto se teniamo conto del fatto che la produzione simbolica vera e propria nasce con l’elaborazione del lutto, essendo quella che la precede più simile a una metafora, cioè a una equiparazione di cose e di rappresentazioni che fanno del fallo il significante del desiderio.
In un altro contesto avremmo potuto taquiner. Il desiderio del bambino di essere il fallo della madre soddisfa il desiderio della madre o quello del bambino? Per concludere, la scelta della poetica è analoga al tema freudiano della scelta della nevrosi, è una questione dell’infanzia.
Un orinatoio del 1917 vale oggi un bulbo di tulipano del 31 gennaio 1637? Se non vogliamo spedire le opere in giro come il legname della Foresta Nera (Heidegger) non si potrebbe quando serve staccare dalle toilette delle stazioni ferroviarie o da quelli degli opifici un orinatoio e adottarlo come un orinatoio di Duchamp? In sé non costituirebbe nulla di straordinario visto che nella radice di fingere c’è il foggiare. Ancora, non è forse la mimesi il modo di parentela che guida i musei all’adozione? Peccato che la forma di merce sia refrattaria al “tondo” tipografico. Unico merito dell’orinatoio è che il contenuto d’arte – che esso possiede come opera – non s’installa più nell’opera. Così, se questo contenuto non è più necessariamente nell’oggetto, ma nel metodo di pensarlo, la gravidanza è un’opera d’arte almeno fino a quando l’orinatoio del Signor Mutt – concepito dalla Mott Iron Works – resta ruotato di novanta gradi per ricordarci che è una vagina.
Gustave Le Bon sosteneva che le rivoluzioni mentali inducono a nuove inaspettate forma di azione. Un modo arcaico per dire che il tramonto del nuovo è un preambolo all’aurora della novità.
La rappresentazione dell’opera d’arte moderna segue diligentemente lo stato della forma museale e del suo destino, quello di essere una forma bancaria che contribuisce ad una storia “iconica” della società. L’arte di per sé deve apparire come una Cosa viva dal momento che le opere non sono più una forma conclusa. In ogni modo, le forme vive sono le forme che fermentano, come i depositi in una banca, in parallelo a quello che avviene per l’arte moderna pensata e destinata all’etichetta delle collezioni.
Nella questione del femminile occorrerebbe introdurre anche una categoria non-discorsiva: la rappresentazione di questa descrizione di una battaglia – come la chiamò Richard von Krafft-Ebing – combattuta sui fatti scotomizzati, alla lettera, che non hanno meritato una cura. Sarebbe un veritiero passo d’esordio di nuove mappe cognitive.
Oggi occorrerebbe un trattamento morale dell’androcrazia uguale a quello che la storia psicologica riserva al sintomo, naturalmente in una prospettiva che esclude il luogo comune di un incontro tra il maschile e il femminile, anche per evitare che a qualcuno venga in mente di affiancare un bidetto all’orinatoio. Da qualche tempo non basta più l’erba trastulla per sedare il femminile nelle arti, soprattutto quando è una forma di trasumazione delle poetiche, cioè, da quando questo femminile non va oltre un trasentire. In ogni modo, vasi comunicanti o negazione della negazione, il genere, per i commissariati di polizia, lo rivela il liquido amniotico.
Se Occam ha ragione la persistenza dell’idea di arte è funzionale a qualcosa che ci possiamo permettere, ma che non sempre sappiamo riconoscere.
I pragmatici chiamano “circolarità” il fatto che l’opera d’arte presuppone un sistema dell’arte e viceversa, affidando i processi di valorizzazione al mercato e alle sue chimere.
La corporeità come un possibile veicolo dell’esperienza estetica ha ridimensionato il primato della vista dilatando il contenuto dell’opera, che trabocca. Ma come lo spettacolo è una figura parentale dell’isteria, l’isteria è una coscienza teatrante che si fonda sulla performance. Non per caso è la coscienza dell’uomo senza qualità che abita la modernità.
L’arte contemporanea tematizza le forme di spettacolo che la coinvolgono, così facendo paga il suo scotto – alla lettera, il prezzo della cena – alla curatela delle istituzioni che la promuovono.
In questo modo, rispetto all’arte moderna, essa crede di attenuare l’aurea dell’incomprensione che nelle avanguardie del Novecento ha inverato (di questa) la sua struttura profetica. Va aggiunto, una tale struttura non ha sorretto mai nulla, perlomeno non ha illuso sui veleni dello spettacolo che ha ragioni sue proprie affinché questa incomprensione si rinnovi negandosi. Per favorirla non bada a spese e affronta eroicamente anche il ridicolo. Questo stato di cose ha generato un equivoco, dell’arte moderna come di una forma di comunicazione sociale. Peccato che questa illusione sia naufragata con l’école de Fontainebleau et le sein pincé de Mme d’Estrées.
In altri termini. Lo spettatore chiede all’attività artistica sempre dell’altro che poi non sa riconoscere nella forma di un resto in cui è contenuta in nuce la rappresentazione archetipica nei termini di un collasso comunicativo.
Con l’apologia istituzionale dell’orinatoio l’assenza di una comunicazione artistica è diventata un mezzo di comunicazione la cui sintassi mantiene e accentua l’incomprensione come un carattere del nuovo. Su questo discrimine, poi, la neo-forma tecnica raggiunta dallo spettacolo nell’arte contemporanea contribuisce a creare – congiuntamente all’entusiasmo – la fede nel nuovo. Del resto per i fautori dell’arte contemporanea le differenze non devono essere consapevoli, ma visibili, ciò consente l’entusiasmo della critica che le completa esaltando i caratteri di questo nuovo a novelty. È così che un gesto scurrile, fermato in un pezzo di marmo di Carrara, è diventato, dopo qualche polemica in difesa della libertà d’espressione, il simbolo della Borsa Valori di Milano. Che sia un supplemento apocrifo alle 120 giornate di Sodoma? Dovevamo saperlo che con l’arte moderna la nuda opera sarebbe sparita per sempre, lo spettacolo integrato esige perlomeno le paillette e una segreta complicità d’affari.
C’è un’identità oscura tra phallòs e logos delle cui implicazioni solo l’isterica, inascoltata, se ne avvede, ma a differenza dei figli di Ecuba, il trou dell’isterica è come il trou dell’arte nella topografia di Lacan, un buco – vuoto – sul quale si affaccia l’invidia del pene.
Dal punto di vista di Fluxus l’ovvietà su cui fa perno questa identità rende la definizione dell’arte un problema perché siamo indotti a cercare un confine con ciò che non è arte, ma non conosciamo la natura di questo confine. Non è per caso che i surrealisti cercarono nella scrittura automatica di liberare la parola dalla logica del logos, inibendo ciò che la mette in opera. Come osserverà più tardi Maurice Blanchot, il tentativo di una non-scrittura mette il luce la natura testuale del phallòs, di costituire un intralcio morale. C’inciamperanno i lettristes.
Nel processo di ideologizzazione o di concettualizzazione del nome proprio del femminile a femminismo l’atto di conoscenza si muta in riconoscenza, uno pseudonimo della sottomissione.
Questo femminismo è parte integrale della forma di spettacolo che imperversa nella contemporaneità e non ha nulla a che vedere con il libero pensiero delle prime femministe, come si evince, per fare un nome, dal Vindication of Rights of Woman (1792) di Mary Wollstonecraft. Forse dovevamo saperlo. Il femminismo sottrae al femminile il legame e lo sostituisce con l’oggetto, esattamente quello che per Freud è il luogo centrale dell’identificazione isterica.
Agosto 2012