Racconti gourmand. Due
Il viaggio in Spagna era agli sgoccioli, ancora quattro giorni e poi il ritorno in treno dalla stazione di Atocha, con l’espresso Madrid-Milano. Decisi di visitare il monastero dell’Escorial, ai piedi della Sierra de Guadamarra. Nel Panteon de los Reyes sono conservate opere di Tiziano, Goya, Veronese, El Greco e tra i pittori fiamminghi una tavola di un allievo di Bosch. In più c’era la possibilità di dormire con poche pesetas a ridosso dei Giardini del Principe in un campo estivo della gioventù falangista dedicato a José Antonio Primo de Rivera – un criminale fascista fucilato dai patrioti repubblicani – aperto anche agli studenti stranieri. Era la tarda primavera del 1960, faceva già molto caldo. Quando arrivai davanti all’Incoronazione di spine nella sala c’erano due giovani anch’essi stranieri della mia età, uno intento a ricopiare su un quadernetto alcuni particolari dell’opera. Ci mettemmo a parlare, quello con il quadernetto veniva da Nancy e studiava filosofia, l’altro dalle parti di Berna e frequentava il Politecnico. Dopo esserci scambiate le classiche informazioni tra autostoppisti decidemmo di far colazione insieme. La scelta cadde su una tasca che aveva il pregio di avere sul retro un grande giardino con tavolini ombreggiato da una pergola. Senza neanche chiedercelo ci fu subito servita una enorme jarras di sangria e proposto un piatto di paella che stava cuocendo per degl’altri ospiti. Un gruppo di americani. Erano a qualche tavolo da noi, uno di loro mi sembrò subito una figura familiare, ma non riuscivo a ricordare chi fosse. Due di loro avevano dei foderi con dei fucili da caccia, parlavano in continuazione, bevevano e ridevano. Quello che non riuscivo a riconoscere era l’unico che taceva. Attraverso la barba bianca s’intravvedeva un volto tirato, un leggero tremito gli scuoteva le mani. Indossava una camicia chiara a quadretti e un paio di pantaloni in cotone color panna, molto vissuti. Ogni tanto fissava con insistenza qualcosa sul muro bianco della tasca che vedeva solo lui, poi si riprendeva e s’infilava in bocca un filo d’erba che strappava da sotto il tavolo. Gli occhi erano rossi e incavati, non sembrava deperito, piuttosto stanco.
La sangria e una discussione sul franchismo con i miei due amici occasionali, i cui simboli imbrattavano dappertutto la Spagna, mi fece dimenticare quell’incontro fino a quando non rividi la sua fotografia sul giornale, un anno e qualche giorno dopo. Era il 2 luglio 1962. Quell’uomo aveva scritto: “Morire è una cosa molto semplice. Ho guardato la morte e lo so davvero…”. Si chiamava Ernest Miller Hemingway, era nato nel 1899. Si era sparato alla tempia con un fucile da caccia la mattina di domenica. Ancora oggi non posso bere un Mojito o un Daiquiri senza sognare i bar della sua Avana o ricordare le pagine più belle dei suoi libri.
Una sangria.
Sostanzialmente è un poncho di vino rosso e frutta fresca. Non esiste una ricetta originale, ogni regione della Spagna ne ha una ed è impossibile dire quale sia la più antica. Le regole per una buona sangria sono semplici. Uno. Preparatela al momento, la frutta non deve impregnarsi eccessivamente di vino. Due. Tutti gli ingredienti quando si mettono insieme devono essere già freddi e non fatto raffreddare insieme. Tre. Usate un buon vino rosso, robusto e generoso. Per una bottiglia di vino ci vuole il succo di due arance, un limone tagliato a fettine, un paio di cucchiai di rum agricole, due cucchiai di zucchero per attenuare l’acidità. A questo punto metteteci la frutta che volete, arance, mele, pere, pesche, melone, anguria, fragole, tagliata a tocchetti. Sono facoltativi i chiodi di garofano, il tronchetto di cannella,la soda o la gassosa.
Un ultimo consiglio, servitela con un mestolo di legno per recuperare la frutta e usato solo per questo.
Una paella.
È sostanzialmente una padellata (patella, in latino) di riso, zafferano e olio d’oliva tipica della regione di Valencia. Qui, poi, la condiscono con carne e verdure, ma soprattutto per i turisti è più popolare quella con crostacei, pesce e frutti di mare. Per questo arròs a la paella è fondamentale la padella che deve essere in ferro a due manici, bassa e molto larga. Per una paella di otto persone ci vorrebbe una padella di un metro di diametro. Le varianti sono infinite. Per esempio si possono mescolare i crostacei e i frutti di mare con la carne di coniglio, si possono aggiungere i fagioli e le rape, l’aglio, la noce moscata. La paella una volta cotta può essere passata al forno per tostare il riso. C’è chi ci aggiunge fagiolini e pomodorini, chi le zucchine e le carote. Quella che mi fu servita aveva carne di pollo, cozze, lumache e fagioli.