Racconti gourmand. Uno.
Dobry wieczór! Accomodatevi, prego.
Il ristorante si trovava all’inizio della Bowery. Nel pomeriggio a New York era piovuto e la temperatura si era abbassata. Quella sera al CBGB avrebbero suonato i i Ramones e noi avevamo i biglietti per le prime file, un piccolo privilegio come editori di libri sulla musica punk e New Wave.
Superato l’ingresso si scendevano una decina di gradini e si finiva in un seminterrato grande come un campo da tennis con un corridoio centrale e due ali di tavoli rotondi con delle tovaglie di lino bianco fino al pavimento, apparecchiati con cura. Le pareti in penombra erano decorate con grandi tendaggi ocra, rosso e oro orlati di nero. Non c’erano quadri, solo degli specchi enormi e barocchi leggermente inclinati verso il basso che moltiplicavano gli spazi. L’illuminazione del locale era affidata alle candele accese nei candelabri sui tavoli e alla luce sul fondo dove c’erano le cucine. Il cameriere che ci aveva ricevuti ci porse due menu rilegati in pelle nera, uno riportava i piatti della cucina kashèr in inglese e polacco, l’altro le tipiche preparazioni della cucina yankee e tex-mex, solo in inglese. Scegliemmo di mangiare rispettando la kasherut e fummo sistemati su un tavolo di sinistra rispetto all’ingresso. La cena fu piacevole anche se non eccezionale, in compenso il servizio fu accurato e sollecito e la vodka – che si ordinava a peso – ottima. Ne bevemmo duecento grammi a testa. Con il caffè chiedemmo il conto. Ce lo portò una signora di mezza età, leggermente sovrappeso con un’enorme parrucca bionda e un trucco vistoso che metteva in risalto le labbra carnose. Indossava un abito da sera senza spalline in satin rosso scuro – quello che gli svedesi chiamano falun – lungo fino alle caviglie. Guanti neri rimboccati sul gomito, si faceva aria con un ventaglio enorme, anch’esso nero, in pizzo. Le scarpe con il tacco erano bianche e le gambe nude. Si sedette al tavolo e mentre s’informava discretamente su chi eravamo e da dove venissimo volle offrirci a tutti i costi uno strano liquore della casa, un bicchierino di Acqua di Danzica in cui brillavano in sospensione delle pagliuzze d’oro. Scoperto che eravamo di Roma cominciò a sospirare e a chiederci se conoscevamo questo o quel principe, tutti polacchi e dai nomi impronunciabili. Alla fine, quasi con riluttanza, ci accompagnò alla porta e ci strinse la mano. Mentre tratteneva con un ennesimo sospiro la mia e mi lanciava uno sguardo carico di promesse mi sussurrò. Perdoni l’umile menu, ma non è più come nel 1939 a Varsavia. Lì era tutta un’altra cosa. Poi abbassò gli occhi e ci congedò: do widzenia…do widzenia…
Menu della kolacja:
Antipasto di pesce marinato. Caviale di melanzane. Torta di formaggio bianco. Polpettine di merluzzo.
Zuppa di funghi.
Hamburger di salmone.
Terrina di fegati.
Strudel alle mele.
Caffè, dolcetti alle mandorle.
Vodka.
***
Una nota sulla cultura materiale.
L’espressione di cultura materiale è per i domesticati tanto evidente nel suo significato astratto quando imprecisa e ambigua in quello concreto o per causa.
La si è usata in numerose discipline come se fosse un segnalibro. Sia per classificare gli oggetti anonimi delle civiltà preistoriche che per indicare gli animali studiati da Darwin. Per definire i manufatti materiali di una civiltà, come per indicare il naturalismo di Émile Zola.
Durkheim, usando una definizione marxiana, la intende come una sovrastruttura. Gli archivisti del colonialismo europeo come la sezione dedicata alle collezioni antropologiche. Da qualche anno a questa parte compare spesso anche negli studi di “housing” per pensionati, serve a convincerli che la socialità si sviluppa anche a partire dalla condivisione materiale di beni e servizi al limite della miseria.
In ogni modo è con la rivoluzione bolscevica che questa espressione divenne popolare e si politicizzò, tanto che in una prospettiva metodologica fu da molti considerata come ciò che definiva gli aspetti materiali del comunismo. Nel 1919 su decreto di Lenin fu inaugurata l’Akademija istorii material’noj kul’tury. Non ebbe il successo che si meritava, in compenso fece il suo ingresso ufficiale nei libri di storia moderna e di antropologia.
Per il gruppo di Annales, già innamorati della cronaca sociale, era la disciplina che avrebbe restituito la voce ai “muti della Storia” coniugandosi con l’antropologia culturale dove già l’aveva parcheggiata, come una voce secondaria, Marcel Mauss. Di contro, André Leroi-Gourhan, la mise al centro dei suoi studi e soprattutto delle sue preoccupazioni cucinarie, “visto che l’arte culinaria sfugge alla caratteristica di tutte le altre arti, cioè alla possibilità figurativa, non affiora al livello di simboli”. Evidentemente in tutta la vita non s’imbatté mai in una giovinetta che mangiava un cono di gelato.
In Italia solo di recente è divenuta un capitolo della sociologia della cultura, serve agli antropologi del mondo del lavoro rurale per esaltarne gli strumenti, le strutture sociali e gli apparati simbolici che definiscono l’identità dei localismi.
Oggi l’espressione di cultura materiale esprime la tridimensionalità della cultura e, fuori dai circuiti accademici, è confusa con la cultura popolare, il folklore e l’archeologia minore.
Poi, con i cultural studies, il primato della mano sul pensato, le tecniche del corpo, si è di nuovo imbarbarita a teoria degli oggetti. A utensile che tiene separato in una vantaggiosa dicotomia spirituale l’unità critica di teoria e praxis e più in là, ogni giudizio sul divenire merce degli oggetti manifatturieri dal punto di vista della loro inutilità culturale e nocività morale.
Le attività della vita corrente sono per lo più ignorate dalla storia. L’espressione di “vita privata” ha fatto il suo tempo e le sue cronache sono state soprattutto declinate al femminile. Pochi sono gli studi sul vissuto sociale o su quello materiale, si preferisce una storia di oggetti.
Lo storico della cultura rurale, Jean-Marie Pesez coniò alla fine del secolo scorso una definizione di cultura materiale che ancora non ha perso nulla della sua algida eleganza: “L’histoire de la culture matérielle n’à pas d’autre objet que la condition humaine”.
Per l’archeologia questa cultura rappresentava il racconto di cinque modelli: natura, uomo, tecnica, oggetti, consumi. Poi, con il tempo, la narrazione si è arricchita con i concetti di quadri, maniere e stili.
Nella cultura materiale sono oggi confluiti, citando alla rinfusa – grazie alla storia sociale – la morte, l’alimentazione, la moda, i rapporti di potere, le forme di giustizia, i charivari, le superstizioni e la cartografia delle pestilenze, fino arrivare alla paleo-parassitologia.
In altri termini è un modo per riconoscere agli oggetti il potere di incarnare il religioso, lo spirituale, il sapienziale e di esprimere il sistema di norme e di valori che sono la sorgente delle pratiche e delle rappresentazioni dei membri di una società.
A nord-est di tutto questo c’è un modo di definire la cultura materiale che brilla nella sua ovvietà radicale nonostante i numerosi tentativi di occultarlo: è considerarla una forma critica di cultura materialista. Una cultura che pone la materia all’origine dei poteri endogeni della coscienza senza negoziare deroghe, là dove le passioni incontrano i deliri e i furori o, più semplicemente, la cultura materiale è quella cultura che considera lo spirito e le sue rappresentazioni mondane, a cominciare dall’anima, un’infezione della materia.
Gli argomentisti e i sociologi contrappongono spesso la cultura materiale a quella non-materiale – o, immateriale – definendo la prima una cultura delle cose, dei manufatti e delle merci e la seconda una cultura dei significati, dei valori, delle cerimonie e dei linguaggi. Questa contrapposizione serve ad esaltare i residui antropologici degli antichi folclori banalizzati dall’imperialismo e a celare il fatto che i valori immateriali come le merci hanno un senso solo se hanno un significato noto e riconosciuto. Il senso di un frigorifero è estraneo a chi abita la foresta amazzonica esattamente com’è un ossimoro il concetto di cultura immateriale.
La distinzione serve ad inserire nei truismi che infestano la modernità la nozione di obsolescenza intesa come un carattere intrinseco della forma di merce estensibile a tutto ciò che la riguarda, lavoro dell’uomo compreso. In realtà all’origine questa nozione misurava la perdita di valore dell’utilità dovuta all’accumulazione dei saperi e dell’esperienza, non la loro degradazione.
Le forme immateriali della cultura sono divenute un patrimonio dell’umanità da quando la società mercantile-spettacolare le accumula intorno a sé. Facendolo si verifica un effetto paradosso, si svilisce la loro mediazione simbolica, vale a dire la mediazione di quel contenuto espressivo che attraverso il linguaggio si configura come una rappresentazione materiale della realtà. Di più, queste forme immateriali, siano esse rappresentazioni religiose, scientifiche, filosofiche, politiche, artistiche o semplicemente del comportamento, sono assunte dallo spettacolo nella forma di spettacoli tra di loro concorrenti destinati a dare un’illusione di libertà di giudizio.
Le rappresentazioni materiali della realtà sono state per millenni i modi attraverso i quali l’essere senziente è divenuto cosciente di sé, per mezzo delle quali ha mediato il rapporto con l’Altro da sé, l’ambiente e gli avvenimenti. In questo modo i processi di mediazione simbolica si ponevano come il contrario del determinismo biologico che guida la vita animale. Su questo crinale la forma dello spettacolo integrato è la realizzazione con i mezzi mediali di massa di quel determinismo immateriale che ha costretto la mediazione simbolica a mutarsi in mediazione ideologica, infettando la gnosi. In questo senso l’obiettivo della cultura materiale è quello di riannodare una dipendenza causale fondamentale, quella tra vita sociale e coscienza dell’esserci, perché una volta perse le catene l’essere sociale tornerà a determinare la coscienza sociale, altrimenti detto comunismo o comunità dell’essere.