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Racconti gourmand. Sei.

Racconti gourmand. Sei.

 

Lo incontrai una volta a Londra e un paio di volte a Milano. Erano gli anni della Anti-University of London, una minuscola, ma indimenticabile utopia. Mi aveva colpito una sua recente opera, I’am dreaming of a white Christmas, con un Bing Crosby in negativo, uno splendido proclama visuale per un bianco Natale in salsa antirazzista. M’incuriosiva il suo legame con Marcel Duchamp e gli studi che aveva condotto sulla Green Box. Alla piccola casa editrice con la quale lavoravo in quel periodo aveva regalato un collage sorprendente, un insieme di ritagli di giornali che raccontavano l’arresto di Mick Jagger e del suo gallerista Robert Fraser ammanettati in un appartamento di Soho dalla polizia insieme ad altri amici, sorpresi a fumare grass e molto stoned! A Londra l’appuntamento era stato nella sede dell’ICA poi andammo a colazione in un pub lì vicino. C’era anche Alexander Trocchi che d’italiano aveva solo il nome ereditato dai suoi genitori. A tavola gli argomenti della conversazione furono i gossip della swinging London, avevo in tasca una copia dell’International Times che mi aveva regalato Barry Miles, e il film Blow Up di Antonioni che si avviava e a ragione a diventare un cult-movie. Qualche anno dopo a Praga usarono un mio quadro insieme a un altro di Andy Wharol per i manifesti stradali e le locandine di questo film, ma è un’altra storia!

Non ricordo come, ma la conversazione da Antonioni, passando per il ritratto di Theda Bara che faceva da logo all’It., finì sulla cucina italiana e Trocchi, en passant, accennò ad un piatto che gli preparava sua madre quando era bambino.

Quando ci rivedemmo a Milano mi sorprese la sua richiesta di assaggiare un risotto al salto. Poi ricordai, era il piatto raccontato da Trocchi. Quella sera stessa lo portammo alla “Brasera Meneghina” di via Circo con la sua splendida insegna in ferro dipinta di verde, il suo incantevole giardino con un glicine centenario, le tovaglie candide di cotone pesante, il nero scuro dei suoi tavoli da osteria. Allora lì il risotto al salto, la cotoletta alla milanese e gli ossi buchi non avevano rivali. Milano in quella felice primavera era una città di scontri di classe, di rivolte studentesche, di albe grigio sangue, argomenti pesanti per una cena, così mi ricordai che in via Circo, un tempo, c’erano i resti di un tempio dedicato al dio Mitra e ne parlai al mio ospite che ridendo volle trovare un legame con il suo piatto di riso al salto. Quando glielo avevano messo davanti l’aveva subito incuriosito la sua forma di disco giallo che associò al culto solare del dio delle religioni misteriche di cui conosceva molti particolari. Un’idea molto inglese, ma che salvò la serata rallegrata da diverse bottiglie di Amarone.

Si chiamava Richard Hamilton, con la sua morte, avvenuta una settimana fa, finalmente gli è stato riconosciuto il merito che gli spetta, di essere stato il padre della pop-art, anzi, della popular-image se stiamo al titolo della mostra alla Hannover Gallary di Londra del 1966. Aveva ottantanove anni, era nato nel 1922.

 

Riso al salto.

Qualcuno gli ha perfino trovato un’origine aristocratica, ma è solo una geniale ricetta per gestire l’avanzo di un risotto alla zafferano con molti “se”.

Se il risotto è stato fatto come si deve, con brodo chiaro, vino secco e pistilli di zafferano aquilano, se si è usato il riso Carnaroli o al limite un “superfino”, se è stato mantecato con un parmigiano lodigiano o un parmigiano reggiano, se è stato conservato con cura al freddo e coperto, allora si può fare al salto in padella.

Bastano una padella di ferro, una noce di burro a porzione, un giro per dorarlo sui due lati e una temperatura del fornello tale da tostarlo in superficie e lasciarlo morbido al suo interno. Si serve bollente, cosparso con un cucchiaio di parmigiano e mezzo cucchiaino di pepe schiacciato con la lama di un coltello.

Come molti piatti cucinati con gli avanzi se lo lasciate raffreddare diventa immangiabile.

 

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Racconti gourmand. Cinque.

Racconti Gourmand. Cinque.

 

“Non è vero che il Cavalier Banana, che affligge la vita politica italiana, è stato colpito due sole volte al capo con un oggetto per mano di scriteriati. Chi scrive ne conosce un’altra che risale al 1981, quando aveva di suo qualche capello in testa ed era meno bolso e incipriato. Il merito è tutto di un amico scomparso, Gianni Sassi che, tirandoglielo dietro mentre il Banana scendeva a precipizio le scale, gli restituì uno zampone con cui si era presentato a casa sua come ospite per il party di capodanno. Che ci faceva costui in quella casa dalle parti di piazzale Martini a Milano? Era stato invitato per discutere un progetto che stava a cuore ad un amico di Sassi, suo collaboratore nonché produttore cine-televisivo nell’agenzia di pubblicità che dirigeva come art-director, insieme a mille altre sconclusionate iniziative di quegl’anni. Il progetto è presto raccontato, una specie di telegiornale della moda abbigliamento che volevano proporre al Cavalier Banana per le sue reti televisive. Anche allora il Banana era molto indaffarato e non era facile parlargli. Come fecero? L’amico produttore di Sassi sapeva che il Banana era ossessionato dal sesso e che non si sarebbe fatto sfuggire un party con donne belle, giovani e disponibili, dunque ne reclutarono una manciata. Erano modelle che il piccolo produttore interessato al telegiornale di moda aveva invitato tramite la compagna, una ex-indossatrice tedesca. La discussione sul progetto, però, non durò che pochi minuti, il tempo per il Banana di accorgersi di essere finito in un covo di “comunisti” (sic!), tanto che si alzò di scatto, recuperò in tutta fretta il cappotto in camera da letto e scappò inseguito da Sassi che nel frattempo era entrato in cucina ed aveva afferrato lo zampone. Glielo tirò sul capo mentre il Banana scendeva le scale. Come andò a finire? Le lenticchie quella sera, per devozione, fecero da letto a dei cotechini, il telegiornale di moda fu poi fatto da altri qualche anno dopo. Chi scrive, invitato più che altro a far da comparsa in questa commedia di cui venne a sapere lo scopo soltanto dopo il tiro dello zampone, ebbe un pizzico di fortuna, una delle ragazze presenti si lasciò riaccompagnare nella pensione in cui alloggiava in Piazza San Babila. La rivide solo un’altra volta, distesa sulle due pagine centrali di Playmen.

Chi è il Cavalier Banana? I pochi che leggeranno questa nota lo sanno già. Chi scrive ebbe la disavventura una manciata di anni dopo di fornire servizi di catering alle sue aziende e di conoscerlo per quello che è. Un povero narcisista ignorante.”

(Tratto da: Condimenti. Una storia sociale delle salse, 2010.)

Zabaione al pepe.

Riunite in una casseruola di rame a fondo spesso cinque tuorli e 200 grammi di zucchero. Con una frusta batteteli fino a che non avrete ottenuto un composto bianco e cremoso che fila. Uniteci dodici grani di pepe nero schiacciati con una lama, un centimetro di tronchetto di vaniglia sbriciolato, due bicchieri di vino bianco secco, la scorza grattugiata di un limone non trattato, mezzo bicchiere di grappa di Malvasia o di Nocino(°). Cuocete il tutto a fuoco dolcissimo e a bagnomaria continuando a battere. Passate spesso la frusta contro i bordi e il fondo della casseruola per impedire la coagulazione dei tuorli. Lo zabaione deve ispessirsi e risultare compatto. A questo punto togliete il recipiente dal calore e versatelo in coppette fredde.

È la salsa ideale per lo zampone di Modena fresco che accompagnerete con piccole brioche confezionate con l’appareil per le patate duchessa(°°).

(°) – Ideale sarebbe mezzo bicchiere di liquore di prugnolo selvatico o di aceto balsamico tradizionale di Modena affinato.

(°°) – L’appareil per questa preparazione è composto da una purea di patate passate al setaccio a cui si aggiunge burro, uova, noce moscata e pepe. Una volta steso su un piano imburrato si usa per confezionare piccole brioche, chenelle, schiacciatine.

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