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Racconti gourmand. Otto.

Racconti gourmand. Otto.

 

Aveva qualche anno più di me, si definiva un anarchico individualista che aveva letto i Grundrisse. Cosa fossero lo scoprii qualche anno più tardi. Una lettura che durò un anno intero e che mi costò almeno un paio di diottrie. Detestava lavorare, vestiva sempre di nero e in modo inappuntabile, giacca e cravatta, camicia bianca aperta sul collo, estate e inverno. Le scarpe marroni e di fattura inglese. Mi ripeteva, ricordati, le nere si usano solo per andare a teatro o ai funerali. I soldi li guadagnava sfruttando quelle che chiamava le circostanze creative. Spesso mi portava con lui, aveva una sola debolezza, mostrare agli amici quanto era bravo. Quando non era in biblioteca sui suoi amati autori anarchici, lo avevo conosciuto alla Sormani di Milano, girava per i robivecchi in cerca di queste circostanze. Un giorno scoprì presso uno di loro un fondo di magazzino di circa trecento scatolette di plastica rosastra che contenevano, tra due strati di ovatta gialla, una catenina e un braccialetto entrambi con un ciondolo, una madonnina. Due monili dozzinali e mal argentati che riuscì ad accaparrarsi con una piccola somma. Quando me li mostrò era felice come una pasqua. Una settimana dopo mi comunicò che se volevo vedere che cosa ne faceva dovevo accompagnarlo. Era novembre e faceva freddo. Di fianco alla chiesa di Santa Maria del Suffragio c’era una piazzetta. Aprì un banchetto e poi una valigia da cui tolse, con fare ieratico, una dozzina di quelle scatolette. Appena si formò un gruppetto di curiosi cominciò a raccontare una storia, asciugandosi gli occhi con un fazzoletto e tirando su con il naso. Lo storia, che riassumo, era perfettamente recitata. C’era una volta un anarchico, senza dio e ubriacone che aveva una moglie e una figlia. Due povere creature a cui faceva fare la fame e che picchiava, soprattutto quando era alticcio, cioè tutti i giorni. Una sera, tornando a casa più ubriaco del solito, abitava dalle parti del Ticinese, si fermò sotto un’edicola con il ritratto di una madonna e una lampada votiva sempre accesa. Di queste immagini un tempo ce n’erano parecchie a Milano. Travolto dall’odio raccolse una pietra e la tirò contro l’immagine sacra, ma nel momento stesso in cui questa s’infrangeva contro il vetro della teca un filmine a ciel sereno lo colpì e lo fece crollare a terra agonizzante. Un paio di persone, tra cui il portinaio di un palazzo lì vicino, cercarono di rianimarlo, ma l’anarchico stava rantolando e con le sue ultime forze mise in mano al portinaio una scatoletta e lo pregò di consegnarla a sua moglie. Gli era stata data tanti anni prima da sua madre che gliela aveva cucita nella fodera della giacca, se n’era improvvisamente ricordato. Era l’unico oggetto di valore che possedeva. Poi chiedendo perdono per la sua azione spregevole e piangendo spirò con una smorfia sul volto. Ebbene, signori, questa scatoletta – che apriva con cura religiosa – contiene la catenina e il braccialetto di questo anarchico perfettamente riprodotti. Le autorità ecclesiastiche ci hanno permesso di rifarli in pochissimi esemplari che sono stati benedetti dal santo padre. A questo proposito vi devo dire che abbiamo molte segnalazioni di persone malate che avevano versato un’offerta per questa reliquia e sono state guarite. In ogni modo il ricavato della nostra colletta va a sfamare ciò che resta della famiglia di questo sciagurato in grandi difficoltà economiche. A questo punto si asciugava una lacrima e poi taceva disperato. Quel giorno ne vendette una quindicina, sarebbero state di più se molti, commossi, non avessero lasciato un’offerta senza ritirarla. Tempo impiegato un’ora. Mi sorrise mentre sbaraccava, io ero allibito.

Spesso la domenica m’invitava a colazione con i suoi amici nelle trattorie fuori porta. Accettai una volta sola. Era una trattoria dalle parti di Monluè, l’antica Mons Luparium, ricavata da una cascina con i tavoli all’aperto sotto un portico. La cucina era casalinga, la specialità era il risotto con le quaglie e il coniglio al forno con le patate. Si beveva un orribile Lambrusco. Altre cose, come tagliatelle all’uovo, cosce di rana fritte, vitello in umido, ossi buchi occorreva prenotarli, piatti che il mio amico aveva puntualmente ordinato il giorno prima per telefono lasciando un nome di fantasia. La tavolata, oltre a me, a lui e alla sua fidanzata comprendeva una dozzina di suoi coetanei tra uomini e donne, tutti amici tra di loro. Debbo dire che la conversazione fu brillante e che mi divertii molto, almeno fino al caffè accompagnato da una grappa. Poi, le donne andarono in bagno per rifarsi il naso, gli uomini accesero le sigarette e si alzarono per sgranchirsi le gambe. Sulla spalliera di alcune sedie erano rimaste delle giacche, sul tavolo erano appoggiate tre, quattro borsette e diversi pacchetti di sigarette. Mi alzai anch’io. Ad un certo punto il mio amico mi guardò, sorrise e mi disse, dobbiamo filare. Si mise a correre verso la macchina mentre io arrancavo dietro di lui, salimmo e partì a tutta velocità, seguito immediatamente dalle altre due macchine con le quali erano arrivati i suoi ospiti. Un’azione studiata e sperimentata, ma questo lo capii dopo. Mentre tornavamo verso Milano gli chiesi, ma le giacche e le borsette? Si mise a ridere, roba vecchia che doveva essere buttata, non valgono un centesimo. I pacchetti di sigarette, neanche a dirlo, erano vuoti.

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Racconti gourmand. Sette.

Racconti gourmand. Sette.

 

Era un rivoluzionario di cartapesta come tutti quelli che lo spettacolo, quando servono, addestra per farli recitare sul palcoscenico dei sogni dei citrulli. Si chiamava Jerry Rubin, diceva che il socialismo l’aveva conosciuto nelle piazze, aveva visitato l’India degli arancioni, dell’erba libera e degli OM con i quali rimirarsi l’ombelico, il lettore perdoni la citazione hegeliana. Conobbe le gelaterie di La Habana al tempo della rivoluzione castrista. Con Abbie Hofmann fondò lo YIP, Youth International Party, il simbolo sposava una stella rossa con una foglia di marijuana, la foglia stava sopra. Amava dire: Non fidarti mai di nessuno che ha più di trentacinque anni. Nel 1970 pubblicò Do It! (Fallo!), raggiunge la fama e con essa la convinzione che l’FBI lo perseguitasse. Nel 1976 diede alle stampe Growing Up at Thirty-Seven, un’autoanalisi celebrativa dei suoi insuccessi, con un secondo scopo, tagliarsi i capelli e mettersi la cravatta, la strada che stava imboccando, infatti, sterzava bruscamente a destra, verso i lidi repubblicani, bisognava giustificarla. Si trasforma in un businessman, tra i suoi affari fortunati c’è un investimento importante nella ancora sconosciuta Apple Computer. Era nato nel 1938, morirà in un incidente stradale sul Wilshire Boulevard a Los Angeles nel 1994.

Nel 1976 Growing Up… lo pubblicò la piccola casa editrice con la quale collaboravo con il titolo Uccidi il padre e la madre e la prefazione di Toni Negri. Un paso doble partorito su una terrazza di via San Giacomo a Roma, una sera d’estate, tra cibi macrobiotici e molti superalcolici. Rubin venne in Italia in occasione dell’uscita del libro, gli feci da balia per qualche giorno tra Roma e Milano. Visitò la Brera della “controcultura milanese” è firmò qualche autografo, gli piacque il Ticinese. Rifiutò di visitare il Poldi e Pezzoli. La seconda sera del suo soggiorno meneghino lo portammo a cena alla Magolfa per fargli mangiare la “rustisciada”, l’apprezzò, ma rifiutò il Barbera, si sentiva fuoriposto. A tavola eravamo in quattro, io, due amici di quel partito che poteva tenere le riunioni del comitato centrale in un taxi e un suo ammiratore che in cambio dell’invito a cena aveva portato un pezzetto di pachistano nero. La Magolfa era un’antica trattoria milanese su due piani con giardino e gioco di bocce, per entrarci occorreva passare su un ponticello che scavalcava una roggietta in sponda destra che correva lungo i muri delle case, come dicono gli idrografi. Un angolo unico della città proletaria che faceva da contraltare ai lussuosi bagni di Diana a Porta Venezia, una piscina di cento metri per venticinque, parallela alle mura spagnole, alimentata con l’acqua della Gerenzana. Tutto scomparso. Quando uscimmo dalla trattoria faceva buio e la zona non era illuminata, accendemmo una canna e la passammo a Rubin. Sembrava terrorizzato, si guardava intorno e continuava a ripetere che era pericoloso. Sembrava sulle spine mentre il suo ammiratore lo osservava deluso. Ad un certo punto passò accanto a noi un metronotte in bicicletta con il faro della bicicletta che funzionava male, la luce era fioca e continuava a spegnersi. Rubin buttò la canna e si gettò nella roggetta. Mentre lo riaccompagnavo in albergo mi spiegò la sua teoria sulla cospirazione continua di cui da anni si sentiva una vittima. Il giorno dopo lo accompagnai in aeroporto, ci salutammo promettendoci di restare in contatto. Non ho più saputo niente di lui fino a quando non ebbe l’incidente stradale che lo uccise.

 

La rustisciada.

Un tempo indicava l’ultimo passaggio degli avanzi carnei che dai ristoranti di lusso, dopo una frettolosa ricucinatura nelle trattorie alla buona, finivano nel giro di due o tre giorni nelle bettole di periferia un attimo prima o, meglio, un attimo dopo che insetti, mosche e batteri la rendessero di fatto immangiabile. In un pentolone si raccoglievano questi avanzi non importa di quale animale e di come fosse stato cucinato e ricucinato, ossa comprese, si mescolavano con moltissime cipolle affettate e poi patate, carote, sedano e rape se era stagione, si aggiungeva una bottiglia di vino bianco, come battericida, e acqua. Si faceva bollire il tutto e lo si serviva con la polenta.

Oggi le ricette dei ristoranti fuori porta non sono altro che un affinamento di questa antica ricetta della malora. Chi ha avuto la fortuna di assaggiare l’antica sostiene che è tutta un’altra cosa!