Racconti gourmand. Sette.
Era un rivoluzionario di cartapesta come tutti quelli che lo spettacolo, quando servono, addestra per farli recitare sul palcoscenico dei sogni dei citrulli. Si chiamava Jerry Rubin, diceva che il socialismo l’aveva conosciuto nelle piazze, aveva visitato l’India degli arancioni, dell’erba libera e degli OM con i quali rimirarsi l’ombelico, il lettore perdoni la citazione hegeliana. Conobbe le gelaterie di La Habana al tempo della rivoluzione castrista. Con Abbie Hofmann fondò lo YIP, Youth International Party, il simbolo sposava una stella rossa con una foglia di marijuana, la foglia stava sopra. Amava dire: Non fidarti mai di nessuno che ha più di trentacinque anni. Nel 1970 pubblicò Do It! (Fallo!), raggiunge la fama e con essa la convinzione che l’FBI lo perseguitasse. Nel 1976 diede alle stampe Growing Up at Thirty-Seven, un’autoanalisi celebrativa dei suoi insuccessi, con un secondo scopo, tagliarsi i capelli e mettersi la cravatta, la strada che stava imboccando, infatti, sterzava bruscamente a destra, verso i lidi repubblicani, bisognava giustificarla. Si trasforma in un businessman, tra i suoi affari fortunati c’è un investimento importante nella ancora sconosciuta Apple Computer. Era nato nel 1938, morirà in un incidente stradale sul Wilshire Boulevard a Los Angeles nel 1994.
Nel 1976 Growing Up… lo pubblicò la piccola casa editrice con la quale collaboravo con il titolo Uccidi il padre e la madre e la prefazione di Toni Negri. Un paso doble partorito su una terrazza di via San Giacomo a Roma, una sera d’estate, tra cibi macrobiotici e molti superalcolici. Rubin venne in Italia in occasione dell’uscita del libro, gli feci da balia per qualche giorno tra Roma e Milano. Visitò la Brera della “controcultura milanese” è firmò qualche autografo, gli piacque il Ticinese. Rifiutò di visitare il Poldi e Pezzoli. La seconda sera del suo soggiorno meneghino lo portammo a cena alla Magolfa per fargli mangiare la “rustisciada”, l’apprezzò, ma rifiutò il Barbera, si sentiva fuoriposto. A tavola eravamo in quattro, io, due amici di quel partito che poteva tenere le riunioni del comitato centrale in un taxi e un suo ammiratore che in cambio dell’invito a cena aveva portato un pezzetto di pachistano nero. La Magolfa era un’antica trattoria milanese su due piani con giardino e gioco di bocce, per entrarci occorreva passare su un ponticello che scavalcava una roggietta in sponda destra che correva lungo i muri delle case, come dicono gli idrografi. Un angolo unico della città proletaria che faceva da contraltare ai lussuosi bagni di Diana a Porta Venezia, una piscina di cento metri per venticinque, parallela alle mura spagnole, alimentata con l’acqua della Gerenzana. Tutto scomparso. Quando uscimmo dalla trattoria faceva buio e la zona non era illuminata, accendemmo una canna e la passammo a Rubin. Sembrava terrorizzato, si guardava intorno e continuava a ripetere che era pericoloso. Sembrava sulle spine mentre il suo ammiratore lo osservava deluso. Ad un certo punto passò accanto a noi un metronotte in bicicletta con il faro della bicicletta che funzionava male, la luce era fioca e continuava a spegnersi. Rubin buttò la canna e si gettò nella roggetta. Mentre lo riaccompagnavo in albergo mi spiegò la sua teoria sulla cospirazione continua di cui da anni si sentiva una vittima. Il giorno dopo lo accompagnai in aeroporto, ci salutammo promettendoci di restare in contatto. Non ho più saputo niente di lui fino a quando non ebbe l’incidente stradale che lo uccise.
La rustisciada.
Un tempo indicava l’ultimo passaggio degli avanzi carnei che dai ristoranti di lusso, dopo una frettolosa ricucinatura nelle trattorie alla buona, finivano nel giro di due o tre giorni nelle bettole di periferia un attimo prima o, meglio, un attimo dopo che insetti, mosche e batteri la rendessero di fatto immangiabile. In un pentolone si raccoglievano questi avanzi non importa di quale animale e di come fosse stato cucinato e ricucinato, ossa comprese, si mescolavano con moltissime cipolle affettate e poi patate, carote, sedano e rape se era stagione, si aggiungeva una bottiglia di vino bianco, come battericida, e acqua. Si faceva bollire il tutto e lo si serviva con la polenta.
Oggi le ricette dei ristoranti fuori porta non sono altro che un affinamento di questa antica ricetta della malora. Chi ha avuto la fortuna di assaggiare l’antica sostiene che è tutta un’altra cosa!