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Gli aforismi di Jean Anthelm (5)

Gli aforismi di Jean Anthelm (5)

 

L’affamato produce l’ingordo, l’ingordo si muta in gourmet, alla fine il gourmet diviene un’asceta, s’inscrive al un circolo e comincia a mangiare parole e a cacare sentenze.

 

Il naturalismo alimentare è soltanto un miraggio gastronomico. Torbiere e vulcani, che altro ci vuole per alimentare il focolare della civiltà?

 

Se dimentichiamo che è stata l’Etiopia il modello biblico dell’ Eden allora sul serio dobbiamo dire addio alla mela della conoscenza.

 

Si può entrare nella storia dell’umanità attraverso due porte, dalla principale, a cavallo e con la spada in mano, dalla secondaria passando per la cucina e la scoperta del fuoco che cuoce le patate e che i cavalli calpestano senza distruggerle. È sempre la dromologia a fare la differenza e gli sgambetti.

 

Dolcezza e pigrizia, un modo di apprezzare la vita che ci ha portato a divenire onnivori, considerato il carattere acquisito del gusto e la condizione colpevole dell’abbondanza.

 

Dal trasporto dei fardelli con i denti all’invenzione del paniere, un tempo immemorabile che ha inagurato con la voce e la mano l’arte della guerra.

 

Fino a quando l’esplorazione delle terre è servita a tracciare le mappe alimentari e a fondare le spezierie finanziarie?

 

I chierici della lentezza chiamano nuova sensibilità gli escreti del realismo rustico.

 

Gli arcani gastronomici della temperanza, persa tra brocche e coppe, dominano la nuova letteratura di evasione fatta di ricettari e guide, realtà e finzione, averi e sapori, rifondazioni.

 

Può l’idealismo cantare le gesta alimentari dei templari della coratella? Se si ha una coscienza le diete carnivore dovrebbero essere consumate di fretta.

La singolarità locale è di per sé viziosa, se non altro perché è una conquista interiore, lo sanno anche le dolzellette del sabato sera, la doglianza è il ventre molle di ogni nostalgia.

 

Più il centralismo assomiglia ad una weltanschauung, più il gusto si diluisce in una sensibilità globale. più i localismi diventano luoghi di folclore gastronomico e linguistico.

 

La madre terra fonde tra di loro gli spiriti, esalta la forma di regime, rafforza gli immaginari sociali:

un luogo, un suolo, un clima, una vegetazione, un regime di acque, un’altitudine, un dialetto, il continuum delle illusioni agresti.

 

Sono stati alzati acronimi ed innalzati salmi alfabetici per sacralizzare i prodotti locali e la perennità della tradizione, peccato che questa sia più farina delle guide turistiche che della lingua verde dei colporteur.

 

Paradossalmente in Europa è la cucina borghese e piccolo borghese più di quella aristocratica ad aver mantenuto i valori fondativi del territorio ed un certo radicamento insolente ai valori ideologici della madre terra, revanscismo compreso. Valori alla ricerca di un’unità “perfetta” della rappresentazione cucinaria, là dove un tempo bastava una serva scontrosa e una padella di ferro.

 

Nell’Ottocento la nostalgia era evocazione politica delle regioni e dei confini della nazione, non serviva se non ad uno strisciante e patetico nazionalismo, solo con la crisi dell’idea di politica è divenuta una costruzione immaginaria ed accattivante in cui si riflette, tra odori e gentilezze, il divenire estetico del gusto. Questa nostalgia funziona sempre di più come una protesi sociale, capace di riassorbire i conflitti e le tensioni in nome della madre terra e dei suoi bocconi.

Nella sua epoca felice la gourmandise visse sul ciglio delle strade.

 

Grano, riso, sorgo, miglio, soia, la fortuna degli imperatori cinesi nasce dal caldaro che bolliva le loro brode e fermentava le loro bevande.

Gli aforismi di Jean Anthelm (4)

Gli aforismi di Jean Anthelm (4)


La fame che fugge perché teme l’ordine naturale delle cose, costretta tra spade e crocifissi, ha sempre cercato scampo dietro le insegne del Don Quichotte..

Il pane, il vino, il cane, il cavallo e il fuoco, in breve, avevamo e abbiamo perso un universo coronato dal caldaro, dal silenzio, qualche volta dall’invettiva e dalla speranza nella socratica caverna oscura…

Si pensa il mangiare come un piacere quando in realtà non è altro che un dovere da cui ne discendono molti altri sul piano delle forme sociali.

Non si mangia né con le campane, né con le crociate, chi mangia diviene.

Dobbiamo soprattutto ai pellegrini il diversificarsi dei nostri desideri alimentari, uomini che cedendo al richiamo dei sentieri hanno contribuito a far nascere il mondo che è arrivato fino a noi. Uomini che avevano il destino nella loro testa e la paura nei loro cuori.

Che cosa cercano in cielo tutti questi ciechi, si domanda sarcastico Baudelaire? Nient’altro che del cibo. Morì troppo presto per l’avventura della Commune.

C’è qualcosa d’inquietante nel fatto che gli ultimi tre secoli della nostra storia si aprono con una stagione gastronomica.

Le scienze leccarde sono una scienza umana come altre sono esatte. La contrapposizione gioca a favore delle prime se consideriamo importante che esse riflettano la socialità.

La genuinità è, nel sistema dello spettacolo, una formula compulsiva.

Molti singolari cibi della nostalgia sono stati inventati per le demi-mondaines della cultura innamorate di uno tra i più ignobili dei sentimenti, la speranza che riforma…e noi non siamo così sciocchi fino al punto di non apprezzare i filets mignottes!

È la nascita delle dogane che ha inventato il territorio.

Etiopia, patria del caffè, fu un bambino o una donna a scoprirne i chicchi?

Camminare, sollevare, cogliere, trasportare. Una volta scesi dall’albero tutto è cominciato così.

Poi la corsa, il nuoto, la cottura. Il nuoto nelle polle termali accanto ai vulcani, rimedio alle sofferenze del vita activa.

Il garibaldino, divenuto per vantaggio personale monarchico, Francesco Crispi alla Camera si toccava i coglioni pensando a Giolitti…ma intanto che con l’altra mano salutava i giornalisti.

La fame è più veloce quando i tempi sono più lenti, ma tutto questo a poca importanza se corriamo dietro il desiderio. La trappola scatta quando ci sediamo, nel momento in cui la povertà stanziale che l’agricoltura inaugura diventa la madre di tutte le cucine di territorio imponendo l’inevitabile, cioè, le condizioni metereologiche.

Nostalgia per nostalgia e a dispetto dei presidi mercantili, chi ci restituirà le trecento e passa varietà di datteri che troneggiavano sulle bancarelle della bella città di Sumera.

Miele e sale, poi l’ebbrezza dell’idromele, non c’è voluto molto per convincere la scimmia a scendere dall’albero. Ai suoi piedi c’è un paradiso alimentare, altro che frutti e nidi di uccelli.

L’ape disegna il paesaggio trasportando il polline, trasportandolo, lo inventa a misura di Eros, in questo senso l’Eden delle api rivive nell’idromele dell’Etiopia, più che nella fragile parabola dell’alveare-forma-di-Stato.

A differenza delle arti visive la cucina è condannata a non essere mai achevée.

Chiamano naturale la decorticazione di quei artifici che ieri servivano ad identificare la qualità commerciale.

Fino a quando l’esplorazione delle terre è servita a tracciare le mappe alimentari?

Gli artifici riformatori consentono di fare del passato un’opera d’arte totale che stimola le eucarestie politiche.