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Racconti gourmand. Undici. – Giorgio Bocca

Racconti gourmand. Undici.

 

Ci siamo incontrati in diverse occasioni intorno ad una tavola apparecchiata di conoscenti o di un ristorante anche se la mia presenza è sempre stata mediata da un’amicizia comune. Ricordo la prima volta. Fu nella sua casa all’inizio di via Bagutta a Milano, nell’autunno del 1975. L’occasione, più di un centinaio di tordi quasi tutti sassello, a parte una decina di bottaccio, sparati qualche giorno prima nella sua Cuneo. Alla cena erano presenti alcuni suoi amici, due giornaliste di Prima Comunicazione, una della quali mi aveva a rimorchio, un anziano parente e una donna di mezza età che tutti riverivano e che non conoscevo. Attirò subito la mia attenzione, aveva la voce bassa e roca, era dritta come un fuso e assomigliava terribilmente a una milady di campagna, se non altro per l’abito di lana inglese ruvida color cielo da pioggia accompagnato da un filo di perle.

La casa non era grande, rivelava un’agiatezza borghese o, viste le circostanze, gozzaniana. Ricordo che era molto calda e che la tavola rotonda dove fummo fatti sedere aveva un’aria signorile e trasandata allo stesso tempo. La cena iniziò quasi subito con dei tagliolini al tartufo affettato con abbondanza sul piatto di servizio appoggiato a centrotavola. Vini rossi, di prestigio, invecchiati quanto basta, piemontesi. La conversazione di circostanza s’indirizzò quasi subito intorno al mondo della carta stampata e all’imminente progetto di un nuovo quotidiano romano voluto e diretto da Eugenio Scalfari, ancora alla ricerca degl’ultimi finanziatori. Guidavano la conversazione il padrone di casa – che intanto serviva a tavola e mesceva i vini con grande cortesia e molta abilità – e la donna di mezza età che parlava con conoscenza e autorevolezza di quotidiani. Chiesi discretamente all’amica che mi aveva portato con sé chi fosse. Era la vedova, milionaria, di un grande giornalista e direttore di giornali, morto qualche anni prima, Gaetano Baldacci. Mi fu allora chiaro la ragione della sua presenza a quella cena. Mi sedeva di fronte impettita, ogni tanto mi osservava incuriosita. Avevo i capelli lunghi, lo sguardo spiritato di chi la notte avvertiva una stretta allo stomaco se sentiva un ascensore fermarsi al piano, l’eloquio sprezzante di chi leggeva Storia e coscienza di classe, l’indifferenza per un mondo che sembrava in agonia. Mi aveva sentito rispondere ad un altro commensale che lavoravo nel campo delle demolizioni sociali…si fa per dire.

L’anfitrione dopo un giro di sigarette e altre bottiglie di vino portò in tavola un enorme piatto piano completamente pieno di uccellini sistemati con cura uno accanto all’altro, con il loro beccuccio colore del marmo tombale e le zampette irrigidite, stese verso il cielo. Tutti se ne servirono abbondantemente e non si accorsero che io mi ero riempito il piatto della sola insalata. Una breve discussione sulle regole del galateo per i volatili fu risolta dalla vedova Baldacci: si mangiano con le mani, e iniziò a farlo. Fino a quel momento non mi ero ancora fatto un’opinione su di lei, ma il modo con cui mangiò una trentina di tordi spazzò ogni dubbio. Ero affascinato. Prendeva l’uccellino per le zampe, se lo infilava in bocca, lo masticava lasciando trasparire un leggero rumore di ossa triturate poi si sporgeva sul piatto e sputava il becco. Questo cadendo sulla porcellana produceva un suono agghiacciante che non dimenticherò mai. Decisamente era una donna con i coglioni ed era evidente perché Scalfari e il mio anfitrione la volessero socia nella loro impresa. Dopo i tordi arrivarono i formaggi, le grappe e i caffè. Il dopocena fu breve, ai commiati non resistetti e le baciai la mano, gli analisti sanno il contorto perché. Ancora una volta mi trapassò con lo sguardo. Il mio ospite, invece, se n’è andato ieri. È stato un partigiano e un sincero socialdemocratico. Allora mi sembravano due posizioni inconciliabili. Oggi impossibili, ma non fa niente. Si chiamava Giorgio Bocca.

La patria turistico-gastronomica dei tordi è la Corsica, insieme ai merli servono soprattutto per confezionare terrine di pâté, forse ieri queste terrine erano il segno di una dépense, oggi sono uno dei tanti atti di violenza contro una natura esausta.

C’è un’altra Corsica, quella delle zuppe di legumi, delle minestre di fagioli e cipolle, di farina di castagna. La Corsica dei formaggi e del brocciu, della brousse, dei profumi di menta, di finocchio, di timo, delle dolci falculelle, dei fiadoni. La Corsica dei corbezzoli, dei cedri, dei mieli profumati ai fiori di macchia, dei mirtilli, del nobile mirto. C’è la birra alla farina di castagna, i grandi vini rossi e bianchi, gli inebrianti moscati…non c’è nessun bisogno di azzittire il fischio puro e flautato dei merli, lo strano suono detto zizzo e il canto melodioso dei merli.

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Gli aforismi di Jean Anthelm (6)

Gli aforismi di Jean Anthelm (6)

Fu detto che la monarchia francese era un dispotismo tempéré par des chansons, in certi casi sarebbe meglio dire par des putains. Né la forma, né la sostanza mi paiono peraltro spregevoli.”

Arrigo Cajumi

 

Il lavoro dei laboriosi pretende sempre un contenuto morale, in politica come negli affari.

 

Non c’è il mito del territorio nella cucina medioevale, di contro c’è una pletora di ricette nell’ortografia della nostalgia, la specificazione – del resto – presuppone l’identità e il commercio.

 

La frugalità è una condanna. La rusticità è un carcere nel quale un pane bigio s’inzuppa in un broda lardosa. Le ideologie reazionarie fanno di tutto per confondere la frugalità con la moderazione e far si che il mondo agricolo incarni le mitografie del paradiso perduto. Idealizzare il passato è l’errore più comune nella storia degli atti alimentari, ma è funzionale alla demonizzazione dell’industria alimentare.

 

Il vino un tempo provocava il furor, oggi la rassegnazione, scoprono le sostanze psicotrope solo i popoli e le culture che le cercano, ma ogni popolo o ogni cultura cerca quelle che gli sono più congeniali. Il motivo è facile da intuire, devono convivere con le loro epifanie.

 

Solo parlare di concezione della natura significa inoltrarsi in qualcosa di osceno.

Nel candore del mattino c’è il sacro senza ombre, il naturale senza artifici, il divino come senso del luogo. C’è il sudore e la fatica di sopravvivere.

 

C’è un intero vocabolario che classifica la minaccia al puro sotto il peso del molteplice, del combinatorio, dell’integrativo, dell’eterogeneo. Questo vocabolario misura gli sforzi ricompositivi provocati dal contatto e dalla trasgressione dei limiti e si concilia con il messianico, perché la purificazione è un divenire incerto, un compito pesante.

I cortei rituali, com’era l’antico Komos greco, in carro o a piedi, avvolti dall’ebbrezza, dalla sfrenatezza, dalla baldoria, dalla musica e soprattutto dall’oscenità vera ed allusiva dei corpi esprimeva una nuova formula della socialità, liberata dalle pratiche religiose e pubbliche, che pure circondavano il culto di Dioniso, come si vede nelle Dionisiache e nelle Falloforie.

 

A differenza di ciò che avviene nella sessualità la convivialità è una condivisione del piacere.

 

Il carattere epidemico dell’obesità esprime la natura moderna della società dei consumi. Dove c’è piacere non c’è compulsività.

 

La modernità ha spezzato la condivisione che un tempo esprimeva la nutrizione e le ragioni del cosmo, cioè, dell’armonia. Non per caso nella filosofia greca il piacere è la soppressione del disordine.

 

Un tempo negl’atti alimentari la cultura materiale realizzava la dialettica di reale e immaginario, poi venne l’oggetto per il quale i piaceri sono senza sostanza.

 

Al Concilio di Nicea, che verificò l’identità tra la sostanza del figlio e quella del padre (sic!), fu istituita la Quaresima con la proibizione della carne, ma contestualmente fu istituito un obolo per poterne avere licenza. Così i ricchi continuarono a mangiare carne e i poveri a sognarla.

Tra qualche giorno mandarini, torrone e carbone riempiranno le calze. Ma cosa rappresenta il carbone? Il potere dei ruoli!

 

Mangiare “figurine zuccherate” o di marzapane (°): c’è un plusgodere (Lacan) che balugina dietro le mutilazioni inflitte dai morsi dei golosi. Qui mordere è un arte infantile tesa a destrutturare l’intero per estrarne altri percorsi, altre affabulazioni, altri sapori.

(°) – A quale teatro del sacro appartengono le figurine zuccherate e fritte se non al palcoscenico della Contro-Riforma? Esse hanno lo scopo di mettere all’ordine del giorno la miniaturizzazione della vita corrente esaltando la teatralità della fede.

 

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