LA SOCIETÀ MULTIETNICA. I SOGGETTI. LE FORME DELLA COMUNICAZIONE.
LO STRANIERO.
Il Signore protegge lo straniero, egli sostiene
l’orfano e la vedova, ma sconvolge
le vie degli empi.
Salmi 146.9
In modo specifico la figura dello straniero compare nelle scienze sociali verso la fine del diciannovesimo secolo.
È una figura importante perché consente di analizzare i meccanismi dell’integrazione sociale, le strutture della diversità, il valore dell’altrove che questi porta con sé.
Sono punti di vista che si confrontano e si scontrano con la comunità con la quale entra in contatto.
In questo senso possiamo dire che lo straniero trova una sua specifica definizione a ragione della distanza sociale che intercorre tra lui e la comunità con la quale è entrato in contatto.
Prima di procedere occorre distinguere i concetti di straniero e di estraneo perché sono contigui, ma diversi.
A grandi linee il concetto di straniero fa parte della sfera sociale e collettiva, mentre il concetto di estraneo è più attinente alla sfera privata e psicologica.
Naturalmente ciò non impedisce che lo straniero possa essere anche un estraneo e viceversa.
Si può anche dare il caso che un appartenente a un’altra cultura sia sentito vicino a noi e, di contro, un membro della comunità in cui viviamo sia avvertito come un estraneo.
Tendenzialmente, soprattutto nelle piccole comunità, sia lo straniero che l’estraneo sono spesso considerati come elementi che possono turbare e alterare la routine della vita corrente sollevando (con la loro presenza) delle problematiche tanto più rilevanti tanto più sono le differenze etniche, linguistiche, religiose o pseudo razziali.
Sono circostanze che possono trasformare in conflitti gli elementi esteriori della vita corrente, come sono le differenze di abbigliamento, di alimentazione, di consumi culturali, di pratiche sociali legate al tempo libero.
Uno dei primi ricercatori a occuparsi in modo specifico della figura dello straniero e stato Georg Simmel (1859-1918).
Simmel è un filosofo e un sociologo tedesco che ha dedicato molte ricerche alla natura dei fatti storici, sia dal punto di vista della vita quotidiana dei singoli, che come figure sociali espressione dell’interazione tra individui.
Per Simmel lo straniero, che non ha legami con la comunità in cui si trova, tende ad assumere di fronte a essa l’atteggiamento di chi vuole essere obiettivo e distaccato.
Un’obiettività che è il frutto della combinazione di vicinanza e lontananza, indifferenza e coinvolgimento, confidenza o sospetto.
Lo straniero, in altri termini, non è semplicemente qualcuno che sta ai margini o fuori dalla comunità in cui è ospite.
Al contrario, è in relazione con essa e con le regole che questa si è data in fatto di esclusione e di inclusione.
A causa di questo lo straniero è (di fatto) relegato su un confine e questo confine (tra inclusione e esclusione) è lo specchio su cui, più in generale, si riflettono le tensioni culturali, sociali, umane che solleva.
Suo malgrado ne vive sulla pelle la diversità, portando alla luce la natura di questa diversità.
Non solo, lo straniero sottopone alla prova dei fatti i percorsi e le radici dell’esclusione e dell’assimilazione, del riconoscimento, della somiglianza e della diversità.
In breve, lo straniero, suo malgrado, è una sorta di banco di prova di una comunità, e della qualità delle relazioni tra le persone considerate dal punto di vista della loro socialità.
La socializzazione è un processo di trasmissione di informazioni e di saperi (attraverso le pratiche della vita corrente e la natura delle istituzioni) capace di trasmettere alle nuove generazioni il patrimonio culturale accumulato.
Questo patrimonio culturale comprende l’insieme delle competenze sociali di base e delle competenze specialistiche, che in qualche modo diversificano la società.
In genere, nelle scienze sociali, si distingue tra una socializzazione primaria che si acquisisce in giovane età e una socializzazione secondaria che deriva dal contatto con gli altri e le istituzioni sociali.
Non va confusa la socialità con la sociabilità, che è l’attitudine degli individui o dei gruppi a stabilire con gli altri una relazione sociale di qualche tipo, ma comunque carica di contenuti simbolici.
Un altro autore storico che ha studiato a fondo il tema dello straniero è stato Alfred Schütz (1899-1959) un filosofo e un sociologo austriaco che dovette emigrare negli USA a causa delle leggi razziali del Terzo Reich.
È considerato il fondatore della sociologia fenomenologica sulla scia di Max Weber e soprattutto di Edmund Husserl.
Negli Stati Uniti fu influenzato dal pragmatismo americano e dal positivismo logico che consolidarono in lui l’interesse verso un empirismo che metteva in primo piano il mondo vissuto e la vita corrente.
Partendo dalla sua condizione di esule, nelle sue ricerche sulla condizione dello straniero, Schütz attribuì grande importanza al delicato momento in cui avviene il contatto iniziale con la comunità ospitante.
Pensate a come era e a come si è trasformata Lampedusa nel corso di questi ultimi anni.
Il momento del contatto, precario e problematico, di questo a un mondo che non conosce o che ha conosciuto solo attraverso i mezzi di comunicazione di massa o i racconti di altri.
Un mondo in cui non può più contare sulla propria cultura, sul proprio vissuto, sulla propria esperienza, sui propri sistemi di riferimento e allo stesso tempo, non è ancora in grado di comprendere e assimilare.
Una condizione che i sociologi definiscono di spaesamento.
Una condizione che costringe lo straniero a diventare una specie di etnologo che osserva e cerca di decifrare una cultura diversa dalla propria per misurarne estraneità e dimestichezza, pregi e difetti, possibilità.
Una cultura con consuetudini, mode, cerimonie, etichette, leggi, abitudini spesso sconosciute e incomprensibili che lo relegano, suo malgrado, in una sorta di isolamento psicologico.
Sono le stesse ricerche condotte da Robert Ezra Park (1864-1944), un sociologo americano, uno dei fondatori e tra i principali esponenti della Scuola di Chicago.
Di questo autore sono interessanti le sue considerazioni sull’ecologia sociale urbana, una disciplina nella quale fece emergere la stretta relazione che esiste tra i rapporti socio-culturali e l’ambiente abitativo (l’habitat) di appartenenza.
Ricerche che in seguito estese allo studio delle personalità marginali, vale a dire di quei soggetti che non sono inseriti in un ambiente sociale definito e sono, a causa di questo, caratterizzati dall’insicurezza e dal disorientamento.
A questo proposito va ricordato che nei suoi studi Park attribuì una grande importanza all’analisi dei primi giornali per immigrati che considerava dei collettori sociali e degli importanti strumenti di sociabilità.
Nelle sue considerazioni sulla condizione dello straniero descrisse due figure chiave per la definizione dell’anomia.
Quella dell’uomo marginale, inteso come colui che vive sul confine di due culture e che non riesce a integrarsi.
Quella di uomo asociale, come di colui che viene escluso dai processi di produzione, di consumo e cerimoniali.
Park, tra l’altro, è stato anche il primo a prendere in considerazione il fenomeno delle migrazioni interne a una comunità e dei processi conflittuali di integrazione che compaiono nelle comunità ospitanti.
Fenomeni che caratterizzavano le aree metropolitane nord-americane e che stavano facendo fiorire una serie di comportamenti il più delle volte devianti e stabilmente ancorati al territorio, come il commercio di stupefacenti, la prostituzione, la delinquenza giovanile, l’alcolismo, la mafia.
Per tornare alla figura dello straniero il suo arrivo nello spazio sociale di una comunità diventa, per Park, non soltanto l’occasione per introdurre in essa dei mutamenti culturali, ma attiva anche nuovi processi di interazione e di conflitto con la comunità ospitante, che possono arrivare fino a rimettere in discussione gli equilibri socio-culturali condivisi.
In generale sono processi che possono dar vita a mutamenti sociali di lunga durata e irreversibili.
A questo proposito un altro studioso della figura dello straniero e del diverso è stato il filosofo polacco Florian Znaniecki (1882-1958), anch’egli un esponente della Scuola di Chicago.
Questo autore ha esaminato in modo particolare il fenomeno dell’estraneità che si instaura tra lo straniero e il gruppo integrato con il quale viene in contatto.
Znaniecki ha messo in luce come l’assenza di legami sociali assume un’importanza diversa a seconda se per legame sociale s’intende l’appartenenza a un gruppo più o meno strutturato e definito, oppure a un gruppo aperto.
Questo perché un diverso sistema di valori determina il modo di percepire lo straniero e, insieme, determina il modo con cui si mantengono le distanze nei confronti di coloro che possono mettere in discussione o minacciare il sistema di identificazione sia del gruppo sia degli individui che a esso appartengono.
Znaniecki ha anche osservato che l’estraneità è un sentimento che va oltre la distanza fisica.
Rappresenta qualcosa che si può trovare anche all’interno di gruppi o tra individui che hanno una relazione sociale.
È un’esperienza che si associa e in qualche modo stigmatizza comportamenti che si ritengono non conformi, non adeguati e non condivisi.
Perché questo è importante?
Perché, come a suo tempo mise in luce la Scuola di Chicago, il rapporto di estraneazione-identificazione sta alla base di qualsiasi processo di strutturazione dello spazio sociale e culturale.
In questo spazio le distanze o le vicinanze tra le persone e i vincoli o le libertà che a esse si riconoscono, sono rimessi in gioco ogni volta che si ridefiniscono le posizioni degli individuo al proprio interno.
In particolare, la presenza dello straniero mette in luce, che lo si voglia o no, i meccanismi di definizione del Sé e dell’Altro da Sé e, di conseguenza, le strategie adottate a proposito di integrazione, di assimilazione o di isolamento.
In breve, lo straniero, suo malgrado, appare sempre come un segnale che qualcosa sta per cambiare o che potrebbe cambiare.
Appare come l’occasione di possibili conflitti e/o di possibili novità.
Conflitti o novità che, a loro volta, costituiscono una ragione di rinnovamento o di crisi.
In pratica, in una società complessa com’è quella Occidentale, lo straniero può condividere di essa, per fare un esempio, i principi economici, ma non quelli politici.
Può avere o non avere una buona competenza nell’uso delle tecnologie, soprattutto quelle digitali..
Può avere un’opinione differente a proposito dei legami sociali, dei legami familiari o di quelli amicali.
Soprattutto, può avere un’idea diversa sul modo di riferirsi all’essere umano di per sé e alle sue condizioni sociali di esistenza.
Come sappiamo, per secoli le religioni hanno custodito e riformulato queste due concezioni che rappresentano il mito costitutivo della società.
E, sempre in questo contesto, per secoli lo straniero, il nomade, il fuggitivo hanno portato con sé i propri dei.
Dei che il mondo in cui è “approdato” non sempre conoscevano o rispettavano, ma che per lui avevano un valore incommensurabile.
Una curiosità.
La leggiamo negli Atti degli apostoli. Verso il 50 dell’era volgare l’apostolo Paolo visitò Atene, dove vide un altare dedicato a un dio sconosciuto.
La cosa lo colpi tanto che iniziò così il suo discorso sul Colle di Marte: “Uomini di Atene, vedo che in ogni cosa voi sembrate dediti al timore delle divinità più di altri.
Per esempio, passando e osservando attentamente i vostri oggetti di venerazione ho anche trovato un altare sul quale era stato inciso ‘A un Dio sconosciuto’.
Perciò quello al quale rendete santa devozione senza conoscerlo, quello io vi proclamo”.
In ogni modo, altari a dei sconosciuti c’erano anche a Roma e in altre città del bacino del Mediterraneo e del Medio Oriente.
Oggi, nella relazione tra straniero e i residenti tendono a diventare critici i conflitti socio-economici e quelli di natura sessuale.
Sono conflitti ambigui, perché tendono a configurarsi in molti modi e forme e soprattutto a mascherarsi da dispute religiose.
Per concludere ricordiamo che, negli studi della sociologia americana della prima metà del Novecento, il conflitto – lungi dall’essere considerato un fenomeno meramente negativo – si riteneva che potesse adempiere anche a funzioni in qualche modo positive.
Diciamo che per molti sociologi fu considerato come un fenomeno capace di portare allo scoperto e consentire un confronto sulle trasformazioni sociali in atto e sulle dinamiche intorno all’idea di progresso.
Lo stesso Simmel aveva osservato che “I contrasti non solamente impediscono che i conflitti all’interno di un gruppo maturino fino a trasformarsi in qualcosa che non conosciamo, ma essi mettono a confronto classi e individui che forse non si incontrerebbero mai e danno all’ostilità la consapevolezza di ciò che rappresenta”.
In breve, l’importanza un tempo attribuita al conflitto sociale risiedeva nel fatto che le avversioni e gli antagonismi reciproci avrebbero potuto preservare il sistema dal degenerare o cristallizzarsi, istituendo un equilibrio tra le parti che lo compongono.
Questa idea dei conflitti come una valvola di sicurezza ha fatto il suo tempo, soprattutto perché non tiene conto dei risvolti etici e psicologici che i nuovi conflitti portano in sé.
Diciamo che avevano un senso in una società statica e divisa in classi autonome e consapevoli.
Oggi l’espressione del sentimento di ostilità può apparire sotto tre configurazioni:
Come un’espressione diretta dell’ostilità verso la persona o il gruppo che è causa della frustrazione.
Come uno spostamento, un trasferimento del comportamento ostile verso oggetti o iconografie sostitutivi.
Come un’attività di per sé auto gratificante.
Come ha scritto Znaniecki possiamo considerare l’antagonismo verso gli outsiders una tendenza sociale negativa che si concretizza in pregiudizi che inducono a comportamenti e azioni ostili e spesso violente.
In questo senso l’antagonismo è quasi sempre l’esito di un atteggiamento ostile verso coloro che hanno un aspetto di estraneità, poco importa se reale o immaginario.
È l’atteggiamento, ben noto e attuale, delle bande del sabato sera che si aggregano per affrontare l’Altro da sé, in genere una persona di colore, una donna sola, una coppia di gay.
Perché l’Altro, espressione di un sistema di valori differente, rappresenta il nucleo in cui si condensa la percezione di estraneità e pericolo.
***
Una parentesi.
Julia Kristeva è nata in Bulgaria, nel 1941, è un’esponente della corrente strutturalista francese, ha concentrato i suoi interessi sulla psicanalisi, la semiologia, la religione, l’arte nella storia dell’Occidente e la riflessione sulla condizione femminile.
Stranieri a noi stessi è uno dei suoi ultimi scritti.
In questo scritto la Kristeva si domanda: Chi è lo straniero?
E soprattutto. Ccosa significa essere straniero?
Si tratta di due interrogativi attuali perché la paura e la diffidenza serpeggiano in Europa.
Perché viviamo un momento in cui le appartenenze geografiche e identitarie sono sempre più soggette all’incontro con l’Altro, sono costantemente sottoposte a verifica e messe in discussione.
Questo libro è destinato sia a chi vive la propria esistenza da straniero, sia a coloro che degli stranieri non ne possono più, e soprattutto a chi non può evitare di sentirsi straniero anche a casa propria.
È dedicato al dolore, all’irritazione che spesso il confronto con l’altro porta con sé in un percorso che, questa saggista, da bulgara naturalizzata francese, ha vissuto sulla propria pelle.
Al centro di esso, poi, ha posto un documento storico:
La Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 (composta da diciassette articoli) elaborata dall’Assemblea della Rivoluzione francese.
Vediamo il preambolo e l’articolo uno:
I rappresentanti del popolo francese costituiti in Assemblea Nazionale, considerando che l’ignoranza, l’oblio o il disprezzo dei diritti dell’uomo sono le uniche cause delle sciagure pubbliche e della corruzione dei governi, hanno stabilito di esporre, in una solenne dichiarazione, i diritti naturali, inalienabili e sacri dell’uomo, affinché questa dichiarazione costantemente presente a tutti i membri del corpo sociale, rammenti loro incessantemente i loro diritti e i loro doveri; affinché maggior rispetto ritraggano gli atti del Potere legislativo e quelli del Potere esecutivo dal poter essere in ogni istante paragonati con il fine di ogni istituzione politica; affinché i reclami dei cittadini, fondati d’ora innanzi su dei principi semplici ed incontestabili, abbiano sempre per risultato il mantenimento della Costituzione e la felicità di tutti.
Di conseguenza, l’Assemblea Nazionale riconosce e dichiara, in presenza e sotto gli auspici dell’Essere Supremo, i seguenti diritti dell’uomo e del cittadino:
Art. 1 – Gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti. Le distinzioni sociali non possono essere fondate che sull’utilità comune. …
La Kristeva, studiosa di psicoanalisi, elabora nello scritto una sua interpretazione della celebre teoria freudiana del perturbante.
Teoria che interpreta una lezione per imparare a tollerare nello straniero la controfigura dell’estraneo che portiamo in noi.
Das Unheimliche è un aggettivo sostantivato della lingua tedesca, utilizzato da Sigmund Freud per esprimere un particolare aspetto del sentimento della paura che si sviluppa quando una cosa, una persona, una impressione, una situazione, vengono avvertiti come familiari e estranei allo stesso tempo sollevando angoscia unita ad una spiacevole sensazione di confusione ed estraneità.
Questo concetto è stato usato spesso nel cinema a cominciare da Alfred Hitchock.
In breve, rielabora questo sentimento convinta che la possibilità di vivere con gli altri senza rifiutarli e, allo stesso tempo, senza annullare le differenze che ci rendono diversi, passa attraverso il riconoscimento del nostro essere stranieri a noi stessi.
In quest’ottica, rispettare lo straniero nella sua differenza significa contemporaneamente conciliarci con la nostra singolarità, che è l’ultima conseguenza dei diritti e dei doveri dell’essere umano.
Dice la Kristeva, proprio perché imprevedibile, sul piano esistenziale la figura dello straniero risulta suo malgrado inquietante o perturbante.
Lo straniero è lo sconosciuto, è colui con il quale non ho ancora avviato un percorso di interazione.
È colui dal quale posso aspettarmi di tutto, una mano tesa così come una spada sguainata.
E quello che più importa lo straniero, anche dopo che abbiamo provato a conoscerci e ad allacciare una relazione, è e rimarrà sempre l’altro da me, il diverso, colui che ha un’altra storia, un altro vissuto.
Ha scritto molti anni fa Emmanuel Lévinas (1906-1995), un filosofo francese di origine ebreo-lituana, in un saggio intitolato Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger.
L’incontro è l’epifania (l’apparizione) del volto dell’altro.
Questo volto entra nel nostro mondo, provenendo da una (realtà) assolutamente estranea.
Arriva da un assoluto che, d’altra parte, è il nome stesso dell’estraneità più profonda.
Ecco perché il significato del volto dell’altro nella sua astrattezza è, nel senso letterale del termine, “stra-ordinario”, fuori dall’ordine delle cose.
In altri termini dobbiamo essere consapevoli che le differenze (con lo straniero, l’Altro) sono spesso ineliminabili e che a ragione della loro irriducibilità, possono soltanto essere accolte o rifiutate, senza lasciare spazio a alternative o a ambiguità.
In sostanza, non è possibile ridurre lo straniero a ciò che “Io” sono, non è possibile cancellare la differenza che intercorre tra di noi.
O lo accolgo con tutto il suo mondo, ospitandolo nel mio mondo (il più delle volte arricchendomene) o non lo accetto nella sua differenza, gli divento ostile.
Per quanto paradossale possa sembrare, l’antropologia culturale sostiene che la guerra non abolisce del tutto le possibilità di riconoscimento dell’alterità dell’altro.
La guerra è sempre una conseguenza della rottura di un ordine.
Scoppia quando l’opposizione logica o razionale tra l’Io e l’Altro diventa un conflitto reale.
Quando, da un’opposizione che consente all’io e all’altro di gestire la propria identità assorbendo e annullando la differenza che li separa, si passa ad un’opposizione (vissuta da ognuno dei due soggetti della relazione) come un’insidia mortale che spinge entrambi a tentare di imporre all’altro la propria sovranità.
Il discorso, come si vede, è complesso.
Se da un lato, lo straniero deve essere accolto, dall’altro lato, lui deve lasciarsi ospitare, la sua natura deve essere quella dell’ospite e non del nemico.
Affinché ci sia accoglienza, è dunque necessaria la buona disposizione di entrambe le parti, l’ospite e l’ospitante, per forza di cose entrambi stranieri l’uno all’altro.
L’esperienza insegna che è proprio nella mancanza di “buona disposizione” verso l’altro, il diverso, che si nasconde l’ostilità.
Una diversità che può riguardare qualsiasi cosa.
Può essere una diversità estetica, di provenienza, culturale, sessuale, religiosa o semplicemente di abitudini o di educazione.
Comunque sia, il problema è sempre lo stesso, la buona o la cattiva disposizione verso l’altro.
L’una può condurre all’apertura, al dialogo.
L’altra apre la strada al pregiudizio, al rintanarsi nel proprio mondo con la presunzione che sia l’unico giusto e sicuro.
***
Proviamo ora a concludere il tema dello straniero con qualche considerazione etimologica.
Questo perché, scavando nel linguaggio, (fino a decostruirne e ricostruirne il suo profilo semantico) spesso si coglie un senso delle parole che sfugge al loro uso consueto.
Cominciamo con l’osservare che il significato di straniero, ci rimanda alla stessa radice
da cui provengono anche i termini di nemico (hostis) e di ospite (hospes).
Il significato originario di hostis, poi, come scrive il grammatico romano Sesto Pompeo Festo (vissuto nel secondo secolo dell’era comune) non si riferisce a uno straniero qualsiasi, ma allo
straniero pari iure cum populo Romano.
Ne consegue che l’espressione di hostis può assumere sia il significato di straniero che quello di ospite e la parità dei diritti che condivide con il cittadino romano è legata proprio alla sua condizione di ospite.
Se teniamo presente questo significato di hostis risulta chiara la natura ambivalente dello straniero.
Esso è simile alle due facce della stessa medaglia.
Può nascondere in sé o il nemico da rifiutare e da osteggiare o l’estraneo da ospitare e accogliere.
Alcune di queste considerazione stanno dietro all’Articolo 10 della nostra Costituzione.
L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute.
La condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali.
Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge.
Non è ammessa l’estradizione dello straniero per reati politici.
In questo articolo va notato sia l’importanza che si da alle libertà democratiche che la nobiltà del diritto d’asilo.
Sul concetto di nemico sono importanti anche le considerazioni di Carl Schimitt, cominciando da quelle contenute nel testo Le categorie del ‘politico, per il quale la dicotomia amico/nemico va sottratta a qualsiasi caratterizzazione psicologica, a qualsiasi confusione etica o economica e tanto meno va intesa in senso individualistico o privato.
Carl Schmitt (1888-1985) è stato un giurista e filosofo politico tedesco. Come giurista, in particolare, è uno dei più noti e studiati teorici tedeschi di diritto pubblico e internazionale. Le sue idee hanno attratto e continuano ad attrarre l’attenzione di molti filosofi, studiosi di politica e del diritto sia europei che americani. Il suo pensiero, le cui radici affondano nella religione cattolica, ruotò attorno alle questioni del potere, della violenza e dell’attuazione del diritto.
Tra i suoi concetti chiave ricordiamo lo stato di eccezione (Ausnahmezustand), la sovranità, il grande spazio, e hostis – inimicus (il rapporto “nemico-avversario” come criterio costitutivo della dimensione del politico).
La categoria di nemico va considerata come una contrapposizione fondata sul raggruppamento degli uomini in base a contrasti di natura diversa (sia economici, che religiosi, etnici o altro che siano), abbastanza forti da scavare un solco fra un noi e un loro.
Scrive Schmitt:
Nemico non è il concorrente o l’avversario in generale.
Nemico non è neppure l’avversario privato che ci odia in base a sentimenti di antipatia.
Nemico è un insieme di uomini che combatte e che si contrappone ad un altro raggruppamento umano dello stesso genere.
Il nemico è l’hostis, non l’inimicus in senso ampio.
Il termine hostis, tra l’altro, non è l’unica parola latina con il significato di nemico.
I Romani infatti avevano diverse parole per esprimere tale concetto.
Oltre a hostis, che come abbiamo visto indica lo straniero, usavano adversarius (da adversus, di fronte, contro) per indicare l’avversario, il rivale, l’emulo e inimicus (non amico) per indicare il nemico personale.
Per concludere, il nemico in greco è il polemios (l’avversario in guerra), non l’echthros (il nemico interno, quello contro cui si prova odio in una guerra civile (stasis).
FINE (marzo 2017)