LA SOCIETÀ MULTIETNICA. I SOGGETTI, LE FORME DELLA COMUNICAZIONE.
DUE. CONFINI
I dizionari definiscono il confine come una linea, naturale o artificiale, che delimita l’estensione di un territorio, di una proprietà o la sovranità di uno Stato.
In molte lingue porre o disegnare un confine, in chiave metaforica, è un modo per confrontarsi, misurarsi, pretendere, riaffermare dei significati o dei limiti etici.
L’obiettivo di chi si rinchiude in un confine, in genere, è soprattutto quello di possedere uno spazio o un territorio.
Spazio o territorio dove imporre le proprie regole e, allo stesso tempo, sottolineare un’autonomia che deve essere visibile dall’esterno.
Un’autonomia che deve apparire come una diversità riconoscibile e riconosciuta.
Definito così il confine mostra quello che è il suo carattere fondamentale:
Marcare il luogo di una differenza, reale, immaginaria o presunta.
In termini gnoseologici, poi, un confine è molto di più.
Esso rappresenta qualcosa che appartiene all’immaginario e, allo stesso tempo, che ha poteri di natura impositiva.
Questi due aspetti aiutano a comprenderne l’importanza che esso ha non solo nella cultura, ma anche per la geopolitica, la storia, la diplomazia tra gli Stati.
In termini fenomenologici il confine è qualcosa di radicato alla terra, al territorio.
Lo si vede del suo etimo, soprattutto nelle lingue indoeuropee.
In queste lingue il confine rimanda al solco che il vomere, trascinato dall’aratro, traccia nel terreno.
L’etimologia mostra come la radice sanscrita “ar“, di aratro, rimandi al muoversi verso, al penetrare, allo spingersi e – al limite – al colpire, o in senso figurato a generare la forza.
Sullo stesso piano l’etimo di vomere, in sanscrito, rinvia al fendere, allo spezzare, al recidere.
Sul piano topologico – nello studio dei luoghi – lo scopo di un confine è quello di sottrarre dello spazio al nulla, appropriarsi di uno spazio che appartiene all’indefinito indistinto.
In questo modo il confine, attribuendo una dimensione culturale a uno spazio che non ha una dimensione, lo fa esistere, gli attribuisce una consistenza, un’identità e un nome.
Con l’espressione di frontiera, invece, s’intende la linea di confine di uno Stato (o meglio la zona di confine, vale a dire, quella stretta striscia di territorio che sta a ridosso del confine) ufficialmente delimitata, riconosciuta, e dotata, in molti casi, di opportuni sistemi difensivi e offensivi.
Nel suo significato simbolico la frontiera è la linea che separa in modo chiaro e evidente ambienti, situazioni o concezioni culturali, religiose e politiche differenti.
Le frontiere, poi, si possono spostare, modificare o cancellare. Gli uomini in genere lo fanno con la forza, raramente con la saggezza.
C’è nella storia politica delle nazioni una frontiera particolare è quella americana.
Secondo Turner la frontiera è una specie di filosofia della vita che sta alla base della storia americana, intesa come storia della colonizzazione dell’Ovest.
A grandi linee questa colonizzazione iniziò nel 1789 – l’anno in cui entro in vigore la carta dei diritti – e si concluse nel 1849 l’anno della corsa all’oro in California.
Il termine frontierland un tempoaveva il significato di regione scarsamente popolata, a diretto contatto con il wilderness, il territorio non colonizzato o più in generale, l’ignoto.
Lo spirito di frontiera significava essenzialmente individualismo, iniziativa, avventura, rischi per sé e i propri beni, democrazia diretta.
Non per caso nelle nuove terre poterono svilupparsi, spesso in modo originale, i poteri locali, le istituzioni dello Stato, poterono radicarsi delle tradizioni al limite dell’anarchia e molte esperienze religiose, Il tutto più libero da impacci organizzativi e dogmatici in un clima più adatto alle dure condizioni dell’espansione colonizzatrice.
Frederick Jackson Turner (1861-1932) è stato uno storico americano famoso per il libro The Significance of the Frontier in American History (Il significato della frontiera nella storia americana), nel quale ha sviluppato una teoria della frontiera.
Torniamo all’aratro che traccia il confine.
Nella cultura latina la traccia del vomere rappresenta il solco “fondativo” della città e dunque dello spazio cittadino.
In questo senso è il vomere che disegna la linea materiale e culturale che separa la città dalla campagna, l’interno dall’esterno.
Ilconfine è stato per secoli anche una traccia magica.
Magica perché il sito che racchiudeva anche se era scelto dagli uomini, era rivelato a loro dagli dei.
Ecco perché colui che traccia o disegna il solco è quasi sempre uno sciamano o un sacerdote.
Una volta che gli dei hanno rivelato il sito (diciamo il posto) l’aratro lo circoscrive e questo aratro deve essere manovrato in modo da far ricadere la terra smossa all’interno del recinto.
Nei punti, poi, in cui devono essere aperte delle porte – secondo la cultura etrusca, in numero di tre, ma ogni religione ha sempre avuto il suo numero e un’idea dove aprirle – il sacerdote/fondatore doveva sollevare l’aratro e trasportarlo per tutta la larghezza dell’apertura in modo da non offendere il luogo di passaggio.
Nel mondo latino questo sacerdote è il Rex, vale a dire colui che ha il potere di tracciare un confine mediante l’uso della regula nel suo duplice significato di linea diritta che delimita un territorio e di norma da seguire.
In origine la regula era un assicella di legno che serviva a tracciare le righe.
La magia del confine derivava dal fatto che tracciarlo equivaleva a disegnare sulla terra una rappresentazione dell’ordine cosmico.
Per i Romani gli assi di un sito erano il cardo (che significa polo), e il decumano, l’asse che segue il corso del sole.
Insieme disegnavano l’orientamento urbano della città romana.
Il cardine (che deriva dal latino cardo) era una delle vie che nelle città romane correva in direzione nord–sud.
Queste vie erano solitamente basate su uno schema urbanistico ortogonale, ossia suddivise in isolati quadrangolari uniformi.
Uno schema molto popolare, soprattutto per quanto riguarda l’urbanistica degli accampamenti militari e degli insediamenti coloniali.
Uno degli assi principali dell’urbanistica cittadina era chiamato il cardo maximus. Si incrociava ad angolo retto con il decumanus maximus, ovvero il principale asse est–ovest.
Di regola, all’incrocio di queste due direttrici principali si trovava quasi sempre il forum, vale a dire la piazza principale della città.
Il cardo maximus, poi, era di particolare importanza perché nell’urbanistica romana collegava due delle quattro porte principali dell’insediamento.
Solitamente, una di queste porte era maggiormente decorata e riconoscibile, perché indicava la strada consolare che conduceva a Roma.
Ricordiamo, infine, che alcuni accampamenti, fondati in posizioni strategiche, divennero con il tempo civitas, è il caso di alcune tra le principali città italiane, come Torino, Pavia, Aosta, oppure europee come Vienna e la bella York che ha dato il nome alla “grande mela”.
In chiave più esoterica il pernio era il centro attorno al quale ruotava l’antica cosmologia dell’Universo.
Da pernio deriva il Cardine, l’asse polare o, meglio, l’Asse del Mondo, che congiungeva il cielo e la terra, l’alto e il basso.
Cardo, invece, deriva dalla radice indoeuropea kerd, dalla quale, a sua volta, deriva il vocabolo greco di kardia e quello latino di cor–cordis, il cuore.
Il cuore era per gli antichi il centro della vita, la sede della mente e dell’intelligenza, dell’amore e dell’anima, il luogo dell’incontro tra l’umano e il divino.
Nella parola decumano, poi, la via che correva da est a ovest, la radice della parola arcaica decumanus rimanda al sanscrito Dac, che vuol dire venerare una Divinità.
Dalla radice Dac deriva Daca che significa “stato”, “condizione”, “età dello spirito”, “epoca della vita”.
Ecco perché nell’antica Roma, come in quasi tutta l’antichità, il numero dieci (Deka in greco) era un attributo della divinità e significava “potenza”, “splendore”, “gloria” e “onore”.
Va anche notato che decimus (decus), da cui decussis (una moneta romana pari a dieci assi), nella lingua latina identifica la figura della croce, croce con la quale si indicava il numero dieci sulla moneta.
Successivamente dall’incisione a croce sulla moneta deriva il “segno della croce”, che il sacerdote eseguiva ritualmente per esorcizzare lo spazio sacro.
Infine, la X latina ricorda la ventiduesima lettera dell’alfabeto greco, Khi, e l’ultima lettera dell’alfabeto ebraico, il Tau, che in antico si tracciava con una X.
Anche per i cinesi il segno grafico del numero 10 è la X.
Per concludere, l’etimologia ci fa capire che il solco ha una dimensione e un carattere morale.
In altri termini incidere la terra con il vomere equivale a celebrare un sacrificio.
La stessa città Roma nasce sul sacrificio per mano di Romolo, di Remo, ucciso da questi perchè aveva osato scavalcare per dileggio, come riporta Tito Livo nella sua storia di Roma, il confine appena tracciato.
Una leggenda (questa dei due fratelli gemelli) che contiene una lezione.
A partire dall’antichità per arrivare fino ai giorni nostri, farsi gioco dei confini è sempre stato ed è, ancora oggi, pericoloso.
Dentro il terreno scavato dal solco ci sono spesso dei sassi o delle pietre.
Anch’essi confluiscono in un rituale.
Vengono tolti e accatastati sul bordo del solco per diventare un segno tangibile dei suoi confini, dei suoi margini.
Da qui la tradizione dei muri a secco, muri composti da sassi e pietre sovrapposti che cingono e difendono lo spazio liberato.
Queste pietre, che per questa loro funzione acquistano spesso poteri particolari, oltre a costituire un riparo, diventano in molte culture un rimedio all’ansia, all’incertezza e al non delineato.
Poi il muro, grazie alla ferocia, all’astuzia e all’abilità degli uomini, si trasforma in limes, in muraglia, in barriere che possono resistere il tempo di un assalto o durare secoli.
In ogni modo, più un muro si rafforza e diviene imponente più appare sicuro.
Più è sicuro e più un tempo attirava contadini, mercanti, viaggiatori, nomadi, gente da luoghi diversi e insicuri.
Con il tempo attorno a questi muri si formeranno delle comunità artigianali che vivevano e commerciavano lontano dal centro abitato dai signori.
Comunità che si muteranno in borghi, dai quali nascerà un nuovo tipo di “homo faber”, il borghese.
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Per riassumere questa prima parte diciamo così: Frontiere, confini e limiti sono delle linee che – tanto nel reale quanto nell’immaginario – tracciano, configurano, delimitano degli spazi particolari nei quali le traiettorie dell’umano, del sacro e del senso si intrecciano nei modi più disparati.
La frontiera è la linea geografica di passaggio fra due spazi che si connotano in modo differente.
È una linea che separa e sottolinea una contrapposizione.
L’idea di confine, in questo contesto, comprende la frontiera e la completa, dal momento che i confini sono tracciati allo scopo di sottolineare delle differenze.
Sono le differenze tra un luogo e lo spazio circostante.
Ma spesso sono le differenze tra individui di comunità diversa, come ha scritto Zygmunt Bauman, il filosofo polacco della società liquida.
Nel linguaggio comune il confine traccia un segno di appartenenza più sfuocato rispetto a quella di frontiera.
Il limite, invece, rimanda a un segno definito e estremo.
Il limite contiene in sé, più che il concetto di frontiera o di confine, l’idea dell’invalicabilità e, soggettivamente, può generare il desiderio del suo superamento.
È un concetto espresso con molta efficacia e poeticità da Giacomo Leopardi nella poesia L’infinito.
Il limite inoltre permette di tracciare, sul piano dei simbolismi, le rappresentazioni topografiche dell’immaginario.
Possiamo dire in generale, che le linee che disegnano una frontiera, un confine o un limite, siano esse reali o immaginarie, geografiche o storiche, culturali o politiche, individuano una serie di spazi che hanno il compito di condizionare la rappresentazione del mondo e dell’uomo.
C’è poi un atteggiamento con il quale guardare queste linee.
È l’atteggiamento di chi deve valutare la possibilità o meno del loro superamento in quanto ostacoli.
Un atteggiamento che caratterizza centinaia di migliaia di persone, come sono i migranti e i nomadi.
Sono ostacoli a due fronti, perché il loro punto di vista cambia a seconda della parte da cui si osservano.
C’è il fronte di colui che dentro e quello di colui che fuori, spesso culturalmente esemplificato dalla relazione dominatore v/s dominato.
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Una nota.
Da qualche tempo si sta ripensando il rapporto tra cultura, forme di narrazione e spazio – in particolare, dal punto di vista del limite, del confine e della frontiera.
È un nuovo capitolo di quella che oggi si chiama letteratura comparata, allargata alle scienze umane e all’immaginario.
In sostanza si ritiene che da una prospettiva geocritica o più semplicemente geopolitica, sia possibile riflettere sullo sguardo dell’Altro, su come questo sguardo giudica gli ostacoli e le forme di accoglienza con i quali viene in contatto.
Questo perché lo spazio geopolitico non è più considerato come qualcosa di stabile e fisso ma come uno spazio che, in una prospettiva culturale, può essere visto come “generatore di senso”.
Il tema della letteratura comparata ha poi dato vita – da una parte – ai border studies, con i loro capitoli dedicati ai processi egemonici, razziali, di diaspora, di identità e di contaminazione.
E – dall’altra – a delle nuove ipotesi imago-logiche tese a considerare le images (in senso antropologico) non più come stereotipi, ma principi descrittivi che possono dar vita a nuove ipotesi culturali.
Per riassumere, l’abolizione nelle aree di confine, considerate come dei confini ideologici oltre che geografici e politici, di un paradigma unico o di un canone specifico nella produzione letteraria e artistica può tradursi nella costruzione d’immaginari fondati sul concetto di soglia, come inizio di un possibile processo di osmosi tra linguaggi, luoghi, tradizioni e saperi.
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Cum-finis, alla lettera confine, è ciò che separa e nel contempo ciò che unisce. Che è in comune con un altro, qualunque cosa l’altro sta a significare.
L’ambiguità del concetto di confine riposa nella sua profonda tragicità socio-politica.
Questa ambiguità è dovuta innanzitutto alla sua natura artificiale e convenzionale.
In questo senso è significativo che il concetto di confine richiami il concetto di alterità, e questo il concetto di identità.
Una contiguità che dovrebbe far riflettere sulla natura e l’utilità dei confini, sia logici che materiali.
La definizione politica di confine, quella che potremmo definire classica, compare, soprattutto a cura di autori tedeschi, tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento nelle teorie sulla dottrina generale dello Stato e sulla geografia politica.
Scrive Ratzel nel 1897:
“Ogni Stato in sé è una porzione di umanità.
È una porzione di territorio…e l’uomo non è pensabile senza la terra…tanto meno è pensabile la più insigne opera dell’uomo sul nostro pianeta, la forma di Stato”.
Friedrich Ratzel (1844-1904) è stato un etnologo e un geografo tedesco tra i più autorevoli.
È il fondatore della geografia antropica, detta anche antropogeografia.
È colui che ha coniato l’espressione di spazio vitale (Lebensraum), espressione che ha poi avuto una larga diffusione nell’ambito demografico e soprattutto politico.
I suoi studi nel campo dell’etnologia diedero vita alla così detta scuola storico–culturale di antropologia.
Sono gli anni in cui in Europa l’unità e l’indivisibilità del territorio della nazione, insieme alla formale unità di popolo e di potere, rappresentavano gli elementi essenziali che concorrevano alla definizione dello Stato.
In quest’ottica la definizione di confine è una conseguenza dell’esistenza degli Stati Nazionali.
Il confine, infatti, è il concetto che consente di definire il processo di espansione di una popolazione o il limite, nell’ambito del territorio, di validità del potere di uno Stato.
George Curzon, che fu ministro degli esteri inglese e viceré in India, negli anni precedenti la prima guerra mondiale (1908) affermava che “l’integrità dei confini e la condizione di esistenza dello Stato”.
E aggiungeva: “I confini sono la lama di rasoio su cui sono sospese le questioni moderne della guerra e della pace”.
In queste considerazioni sulla definizione di confine c’è la cornice dentro cui si è consumata la storia delle migrazioni in Europa tra l’Ottocento e il Novecento.
In altri termini, la tenuta dei confini e la netta distinzione tra spazio interno e spazio esterno è stata la condizione che ha consentito il prendere forma, all’inizio del secolo scorso, di importanti e in qualche modo ben definiti sistemi migratori.
O meglio, ha permesso il nascere di una composta, sottomessa e disperata geografia delle migrazioni internazionali, come fu il caso di quella italiana verso gli Stati Uniti d’America.
Va sottolineato come, a dispetto delle story–telling di comodo, in questi ultimi anni sono molti gli storici che hanno scritto come l’apparente, pacifica e idilliaca rappresentazione delle migrazioni del secolo scorso è servita sia a stigmatizzare la caoticità di quelle odierne e sia a mettere in sordina la immane tragedia che queste hanno rappresentato per centinaia di migliaia di persone.
Va aggiunto che da quando si sono sviluppati, soprattutto nei paesi di lingua inglese, i cosiddetti postcolonial studies – tra i loro meriti – hanno quello di aver contribuito a mettere in crisi le vecchie definizioni di confine.
Ha osservato a questo proposito Etienne Balibar:
L’Europa è il punto da cui sono partite e sono state tracciate dappertutto nel mondo le linee di confine, perché l’Europa è la terra di nascita del concetto stesso di confine.
Étienne Balibar è un filosofo francese, allievo di Louis Althusser, apprezzato per aver contribuito a sviluppare una nuova interpretazione del pensiero marxiano con specifiche riflessioni sui concetti di razza, cultura e identità. Insegna a Nanterre.
In questo senso il problema dei confini dell’Europa è sempre coinciso con quello dell’organizzazione politica dello spazio mondiale e delle sue frontiere.
Basti pensare ai cartografi militari inglesi in Medio-Oriente e in Nord Africa che li disegnavano con la squadra e il righello, come mostrano ancora i confini di molti Stati nazionali.
Questa ossessione europea, come la definisce Balibar, consente di sottolineare come la proliferazione dei confini costituisce l’altra faccia della globalizzazione.
In altri termini, si può dire che la globalizzazione ha inaugurato la crisi di quella connessione di Stato e territorio che costituiva il presupposto della definizione di confine.
Come oggi dicono, con ironia, gli inglesi: Space is out of joint, lo spazio è sballato.
Sballando ha anche resa obsoleta la definizione geopolitica classica di confine, un concetto che oggi, come abbiamo visto, ha valenze culturali, simboliche, cognitive, spesso più forti di quelle politiche.
Molti esperti delle organizzazioni umanitarie sostengono che i movimenti migratori contemporanei rivelano delle tensioni e esprimono dei conflitti che non sono altro che la naturale conseguenza di questo stato di cose.
Da questi nuovi scenari, tra l’altro, se ne deduce che i processi migratori di oggi non sono in nessun modo paragonabili a quelli del secolo scorso.
Oltre a quello economico, sono caratterizzati da una forte accelerazione dei flussi e da una radicale trasformazione della loro composizione, basta pensare alla presenza sempre più massiccia di donne, bambini e anziani.
Ma c’è anche qualcosa di assolutamente nuovo.
La crescente imprevedibilità delle loro direzioni.
Come affermano gli studiosi di lingua inglese, i movimento migratori di oggi sono sempre più incontrollabili perché sono caratterizzati da una turbolenza strutturale.
Fino alla seconda guerra mondiale erano prevedibili:
– sia la geografia degli spostamenti migratori e l’identità delle popolazioni coinvolte.
– sia le direzioni dominanti, le aree di partenza e i luoghi di arrivo.
Oggi, invece, i flussi di migrazione si muovono in ogni direzione. Ricorrendo ancora una volta al gergo anglosassone si può dire che assomigliano a un piatto di spaghetti.
Un tempo il modello interpretativo era quello “idraulico”.
I fattori di attrazione e di spinta (push and pull) dei processi migratori erano evidenti e avevano motivazioni comprensibili. Apparivano razionali dal punto di vista dei bisogni.
In sostanza, i comportamenti soggettivi dei migranti erano riconducibili a motivazioni logiche.
Oggi il margine d’imprevedibilità dei comportamenti è di fatto incontrollabile.
Questa incrollabilità genera delle turbolenze che non si riescono a gestire e che, a loro volta, ne generano altre.
Infine, non va dimenticato, quando si parla di come affrontare il fenomeno migratorio, il suo andamento crescente e le motivazioni spesso imprevedibili.
Soprattutto non va dimenticato il fatto che gli analisti sono convinti che siamo solo all’inizio di un fenomeno in piena evoluzione sia nei numeri che nelle motivazioni.
Vediamo, ora, una definizione di migrazione umana.
La migrazione umana è un movimento di persone da un luogo ad un altro con lo scopo di stabilirsi temporaneamente o permanentemente in una nuova posizione.
Le migrazioni sono in genere caratterizzate dalle lunghe distanze e da un Paese a un altro, spesso non confinante, anche se non sono rare le cosiddette migrazioni interne.
Le migrazioni possono riguardare singoli individui, gruppi familiari o gruppi di persone più o meno composite e costituisce oggi un fenomeno sociale dai motivi più diversi, da quello antichissimo costituito dalle guerre a quelli politici a quelli religiosi, a quelli economici a quelli climatici
In questo quadro gli spostamenti delle culture nomadi non sono considerate come un fenomeno migratorio in quanto non c’è l’intenzione, da parte dei nomadi, di fermarsi stabilmente in un posto.
Così come non sono considerati gli spostamenti di persone dovuti al turismo e al pellegrinaggio.
La migrazione umana si è distinta, nel corso della sua storia, sia come fenomeno volontario, soprattutto all’interno di una regione o di un Paese.
Sia sotto forma di una migrazione involontaria o forzata.
Quest’ultima riguarda o ha riguardato il suo aspetto più inumano e osceno come lo schiavismo, il traffico di esseri umani e la pulizia etnica.
In particolare l’insediamento o l’ingresso di persone, in un luogo diverso da quello di origine, è chiamato immigrazione.
Lo spostamento dal luogo di origine verso un’altra destinazione prende il nome di emigrazione.
Piccole comunità che migrano per ricomporsi e svilupparsi su un territorio senza insediamenti preesistenti sono dette colonie (o insediamento di coloni).
Gruppi più o meno grandi di persone che sono sfollate a causa dell’immigrazione e della colonizzazione sono definite rifugiati.
L’organizzazione internazionale che si occupa delle migrazioni umane è l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, fondata nel 1951.
L’OIM è oggi la principale organizzazione intergovernativa in ambito migratorio, può contare su
165 Stati membri e oltre 500 uffici nel mondo.
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Border studies.
Per i border studies attraversare un confine, nel contesto di un processo migratorio, significa che un’identità sta per essere alterata se non spezzata.
La teoria sui border studies è nata negli USA, lungo la frontiera con il Messico. Le sue ricerche hanno mostrato al di là di ogni dubbio la funzione di ibridazione che l’esperienza della frontiera esercita sui chicanos e sulla loro identità natale.
Oggi, nell’ambito di questi studi, sono diventate comuni espressioni come creolizzazione, meticciamento e ibridazione.
Si tratta di tre termini che sostanzialmente rinviano allo stesso concetto.
Essi mostrano come nel corso del tempo storico le culture si evolvono venendo in contatto fra loro e tendano spontaneamente ad assumere nuove configurazioni.
Per ibridazione s’intende dunque un processo di contaminazione di aspetti e forme di vita provenienti da culture diverse, a volte anche molto distanti fra loro.
Ricordiamo, per altro, che non esistono culture pure, incontaminate e protette da un isolamento totale.
Per le scienze sociali i processi di ibridazione più che un problema di contagio e di emulazione, sono l’espressione della capacità d’imitazione degli esseri umani.
Vale a dire sono un’espressione di curiosità. Di desiderio di esplorazione e di sperimentazione. Dell’esigenza e del piacere di conoscere altre realtà culturali, diverse e alternative rispetto alla propria.
Si attribuisce a una famosa scrittrice chicana, morta qualche anno fa, e a un suo libro, il merito di aver reso popolare i border studies.
Si tratta di Gloria Anzaldùa e il libro s’intitola Terre di confine.
Il confine è quello tra gli USA e il Messico – che questa scrittrice odiava e che considerava luogo di contraddizioni, di rabbia e di sfruttamento.
Scrive la Anzaldùa: Questa è la mia casa e questa sottile linea di filo spinato – il confine tra Stati Uniti e Messico – non es che una ferida abierta.
Una ferita dove il Terzo Mondo si scontra con il Primo e sanguina.
( Oggi, le politiche segregazioniste del nuovo presidente degli Stati Uniti non fanno altro che accentuare questi problemi.)
In termini sociopolitici va osservato che il concetto di transnazionalismo sta avendo un ruolo sempre più importante nel mondo globalizzato.
Questo perché la tendenza dei movimenti migratori moderni è quella di costruire e moltiplicare gli spazi sociali transnazionali contribuendo così a un continuo rimescolamento della carta antropica del pianeta.
Questo transnazionalismo ha due aspetti rilevanti.
– È un ripensamento del concetto di cittadinanza, perlomeno nella sua forma ottocentesca.
– È un grande fenomeno di ri-ontologizzazione delle frontiere.
Frontiere che tendono a mutare in modo irreversibile e ad archiviare le distinzioni di dentro e fuori.
Una conseguenza di tutto ciò è l’imporsi, soprattutto per frenare l’immigrazione clandestina, di un regime di gestione delle frontiere flessibile e a geometria variabile che ha preso il posto del mito della muraglia e della fortezza invalicabili.
I tecnici lo definiscono un sistema di confine ibridizzato a cui non concorrono solo gli Stati Nazionali, ma molte altre organizzazioni internazionali e nuovi attori globali – come L’International Organization for Migration – e, non da ultimo, organizzazioni governative con finalità umanitarie.
In altri termini, come da più parti è oramai riconosciuto, la progressiva deterritorializzazione dei confini esterni e interni della polis europea ha reso discontinuo il suo spazio giuridico che, oggi, ammette una sovranità condivisa tra attori diversi, sia pubblici che privati.
Per deterritorializzazione si intende, in particolare, lo spostamento di funzioni tipiche del controllo dei confini ben al di là delle linee di confine tradizionali – vedi l’azione della marina militare italiana nel Mediterraneo – e la disseminazione di molte di queste stesse funzioni all’interno dello spazio che i confini tradizionali perimetrano, per esempio, nei Centri di Accoglienza.
Poi, più in generale, il confine prolunga la sua azione all’interno della polis anche da un altro punto di vista, assecondando e favorendo la tendenza alla produzione di una pluralità di posizioni giuridiche differenziate e di costume all’interno della cittadinanza.
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Appendice: IBRIDAZIONE DELLE CULTURE.
Parlare di ibridazione delle culture o di interculturalità era considerato fino a qualche anno fa o uno snobismo o un affronto alla cultura occidentale.
Diciamo che era più popolare e condiviso – per usare una formula coniata dal politologo americano Samuel Huntington – il tema dello scontro di civiltà.
Le ragioni erano le più diverse, ma tutte frutto di disinformazione e leggerezza intorno a quel dominio di rappresentazioni e di pratiche che gli antropologi chiamano cultura.
Osserviamo solo che ancora oggi molti che ancora credono al tema degli scontri di civiltà riducono le cultura a religioni e le etnie a razze e viceversa.
È una delle ragioni per cui – in antropologia – c’è un ritorno allo studio di ciò che va inteso come cultura oggi.
Una cultura che appare come un paradigma sfrangiato, un’area priva di bordi, una realtà in continuo cambiamento, e quel che è più importante, sottoposta a un incessante processo di influenze reciproche anche se il più delle volte questo processo non è paritetico e non è ideologicamente neutro, come mostrano le politiche post-colonialiste occidentali.
In che senso, allora, possiamo parlare di ibridazione di culture e di intercultura?
Ibridazione è una nozione ambigua perché da qualche tempo si usa per fenomeni e processi che appartengono più alla natura – alle tecniche dell’ingegneria genetica – piuttosto che alla cultura in quanto tale.
In ogni modo, anche se i simboli non sono i geni, essi sono portatori di informazioni.
La differenza principale è che mentre i geni viaggiano per vie naturali i simboli viaggiano in forza di una comunicazione di tipo verbale, visivo e visuale.
Forse l’ambiguità più pericolosa contenuta nel concetto di ibridazione sta nel fatto che utilizzandola si rischia di sotto-intendere che esistono delle culture pure, immacolate.
In realtà le culture sono per loro natura ibride, rappresentano il risultato di secoli di stratificazioni e selezioni il più delle volte sconosciute o incontrollate.
In ogni modo, oggi, quando usiamo il concetto di ibridazione denotiamo un processo dinamico di incontro, trasmissione di saperi, di stili di via, di scambio.
Fino a oggi questo incontro tra le culture è stato spesso l’esito di rapporti di forza, anche drammatici e violenti, ma sappiamo anche che esso dovrebbe sempre essere riformulato confrontando le identità e i codici culturali.
Queste dinamiche sono in azione ovunque e sono la diretta conseguenza di una planetarizzazione o, come si dice più spesso, di una globalizzazione che non ha precedenti nella storia del mondo.
L’ibridazione, in particolare, denota la natura intensa, rapida, problematica del contatto culturale, per sua natura è un fenomeno contrapposto alla staticità culturale.
Così, parlare di culture ibride significa sottolineare il carattere specifico tante dialogico dei processi culturali.
In quest’ottica l’inteculturalità si configura uno sguardo prospettico.
Uno sguardo orientato a cogliere le dinamiche e gli effetti prodotti dall’incontro di codici culturali diversi, ma reciprocamente traducibili. Diversi, ma non incomprensibili.
Qui, siamo di fronte a un tema nuovo e complesso, quello della traduzione delle culture.
Questa traduzione è il compito ultimo e nuovo dell’antropologia culturale.
Un compito che assomiglia a un lavoro di de-stratificazione di significati, di promozione di confronti, di sperimentazioni socio-linguistiche.
Assumere una prospettiva interculturale vuol dire considerare le culture non come dei monoliti cementati dalla tradizione, ma come dei sistemi di codici culturali elastici, capaci di relazionarsi.
Su questo punto occorre sottolineare che quando i codici culturali s’incontrano non rimangono mai immutati.
Se è un incontro vissuto si trasformano, oppure si irrigidiscono, in ogni caso non rimangono mai quello che sono stati, anche quando – paradossalmente – sviluppano elementi di chiusura o di ostilità.
Ricordiamo, en passant, come nella storia quando le culture non volevano entrare in contatto aggiustavano (ri-ontologizzavano) il loro punto di vista e costruivano nuovi codici culturali contrapposti, più o meno permeabili.
Esemplari sono il caso del maiale sulla frontiera polacca con l’impero ottomano o la leggenda sulla nascita del croissant durante l’assedio turco di Vienna.
In genere i codici culturali predisposti a scontrasi devono sviluppare rappresentazioni dell’alterità in qualche modo funzionale al proprio progetto conflittuale.
Ecco perché essi sviluppano stereotipi, luoghi comuni e immagini che accentuano le differenze.
Da una parte ci siamo sempre noi, dall’altra i barbari e i selvaggi.
Invece dei punti di incontro si cercano le linee di frattura, i punti di disaccordo tra i nostri modi di vivere e di sentire.
Un antropologo svedese Ulf Hannerz, che insegna all’università di Stoccolma, ha di recente elaborato una tesi per adattare la nozione di cultura alla complessità della realtà globalizzata.
Questa tesi dice che i nuovi paradigmi culturali sono strutture di significato che viaggiano sulle reti di comunicazione e non sono localizzabili in singoli territori, loci.
Come si intuisce è un concetto di cultura molto diversa dall’immagine di cultura reificata fondata sull’equazione tradizione-territorio-identità.
Per uscire da questa equazione obsoleta non c’è che una via: La comprensione delle diversità culturali nei loro propri termini.
Significa coltivare le premesse per l’accostamento, la comparazione, la traduzione dei codici culturali o, come diceva Walter Benjamin, vuol dire cercare di espandere le nostre capacità espressive.
Espanderle non per inglobare l’altro da noi nel nostro linguaggio, ma per adattare il nostro linguaggio al suo e viceversa.
FINE.
Marzo 2017.