PAGES

Lezioni di antropologia culturale – Il Paesaggio

Il Paesaggio. 

 

Qualunque discorso sulla natura del paesaggio, in antropologia culturale, non può non partire dal saggio di Georg Simmel (1858-1918) sulla Filosofia del paesaggio. 

 

Il perchè lo dobbiamo allo sviluppo della filosofia dell’estetica dopo Immanuel Kant, di cui Simmel è stato uno dei protagonisti, che ha lavorato sul tema del paesaggio in quanto fucina di esperienze estetiche.

 

C’è poi la centralità che il paesaggio ha acquisito da molti decenni nella cultura occidentale e l’importanza che ha assunto per lo sviluppo della nostra sensibilità.

 

Questa centralità è in prima istanza una conseguenza del fatto che siamo passati da una società industriale a una società post-industriale e, in seconda istanza, che ampi spazi di territorio abbandonati in passato si sono resi disponibili per una riqualificazione.

 

Infine va considerato l’importante incremento del nomadismo dovuto al turismo e ai nuovi stili di vita abitativi più o meno improntati alla mobilità.

 

Da tempo sappiamo anche che la percentuale di popolazione che vive nei centri urbani sta per superare, e in molte parti del mondo lo ha già fatto, quella residente nelle campagne. 

Il fatto è significativo sotto molti punti di vista, parlando di paesaggio perchè è soprattutto un’invenzione dei cittadini e della città. 

O, meglio, della città che si è diffusa nella campagna dando luogo a una disseminazione d’insediamenti che, tra l’altro, rende impossibile fissare un confine tra queste due realtà.

 

Sul piano della sensibilità la rivalutazione del paesaggio passa anche attraverso una nuova interpretazione dello spazio e il rifiuto sempre più convinto di una opposizione tra artificio e natura.

 

Tra le molte definizioni quella che indica il paesaggio come una forma di natura percepita attraverso la cultura è la più diffusa, ma questo significa che per vedere un paesaggio ci vuole una riflessione che lo estragga dalla sua condizione di mero dato sensibile, vale a dire, per vedere un paesaggio ci vuole una teoria.

 

Va tenuto presente che il fenomeno paesaggistico è l’oggetto di riflessione di molte discipline ognuna delle quali lo impiega in un’accezione propria, come è il caso della geografia, dell’ecologia, dell’estetica, dell’architettura e non da ultimo dell’antropologia.

 

Ciò detto, si deve anche costatare che nella tradizione europea il concetto di paesaggio è nato e ha preso forma come concetto estetico.

La stessa storia della parola lo sta a dimostrare.

E’ sufficiente notare come nelle lingue germaniche l’etimologia del termine è diversa da quelle neolatine.

Nelle prime la parola che significa paesaggio deriva da Land (terra), invece in francese, italiano e spgnolo la radice rinvia a paese: paysage, paesaggio, paysaje.

 

Ancora, a differenza delle lingue germaniche nelle lingue neolatine i termini che rimandono a paesaggio sono tutti neologismi che appaiono tra la fine del Quattrocento e la prima metà del Cinquecento, nati soprattutto per indicare non il paesaggio reale, ma la sua rappresentazione, vale a dire, il paesaggio dipinto.   

____________________________________________________________________________

Prima di procedere vediamo un’espressione che spesso si lega alla nozione di paesaggio, il panorama.

Questo termine deriva dal greco pan (che in questo caso vuol dire tutto) e dal verbo greco io vedo, si riferisce, in genere, a un’ampia veduta di una certa area (per esempio, la veduta di una valle o di un lago da una posizione elevata). 

Ma a noi interessa un’altra accezione dell’espressione panorama, conosciuta anche come cicloramacosmorama kosmorama. 

Era uno tipo di intrattenimento molto popolare tra il XVIII e il XIX secolo. 

Consisteva in una stanza circolare, con le pareti coperte da un disegno di una veduta a trecento sessanta gradi che, che ricreava l’illusione di un paesaggio che circondava lo spettatore.  

 

L’illuminazione proveniva solitamente dal soffitto, poi con la diffusione dell’ elettricità si iniziò a usare stanze illuminate artificialmente.

 

Il primo panorama fu costruito a Londra alla fine del 1700 da Robert Barker, consisteva in una veduta panoramica della città di Londra, costruita in maniera tanto precisa e dettagliata che gli spettatori vi potevano individuare la strada se non addirittura l’edificio in cui essi vivevano.

 

A noi interessa qui ricordare anche un’altra eccezione dell’espressione panorama conosciuta e molto popolare in Inghilterra con i nomi di diorama, moving panoramasdissolving views, ecc. 

 

Alcune vedute avevano effetti tridimensionali, altre, grazie all’uso di luci speciali, simulavano il passaggio dalla notte al giorno, altre ancora ruotavano o avevano dettagli in movimento. 

 

Oltre a dei soggetti naturalistici, tra cui terre lontane e esotiche, monumenti vari, iniziarono ad essere popolari anche le ricostruzioni di battaglie, terrestri o navali, i disastri, come i terremoti, le vedute fantastiche con mostri immaginari. 

 

I panorami sono ritenuti tra quelle forme di spettacolo di massa che precedettero l’invenzione del cinema. 

_____________________________________________________________________________ 

Torniamo al paesaggio.

Per l’antropologia è la particolare fisionomia di un luogo determinata dalle sue caratteristiche fisiche, antropiche, biologiche ed etniche. 

In questo senso è imprescindibile dall’osservatore e dal modo con il quale viene percepito, interpretato e vissuto.  

 

Come abbiamo osservato ìl termine di paesaggio deriva dalla commistione del francese  paysage con l’italiano paese, oggi questo concetto oltre ad essere oggetto di studio in differenti ambiti di ricerca, è attraversato da significati talmente ampi e compositi da rendere difficile una sua definizione univoca.

 

Per comprenderne il paradigma conviene partire dalla Convenzione Europea sul paesaggio che ha introdotto in Europa delle nuove modalità per la considerazione e la gestione della dimensione paesaggistica del territorio.

Questo approccio si caratterizza, soprattutto, per aver riconosciuto al paesaggio la qualità specifica di concetto giuridico autonomo, cioè di patrimonio che può e deve essere tutelato.

 

Si può dire che il paesaggio è stato riconosciuto un elemento chiave per il benessere individuale e sociale, con la conseguenza che la sua salvaguardia, la sua gestione e la sua progettazione comportano diritti, doveri e responsabilità individuali e politiche.

 

Da queste considerazioni ne è derivato un diritto al paesaggio sempre più sentito e difeso.

 

In termini fenomenologici il paesaggio configura la forma di un luogo, creata dall’azione cosciente e sistematica della comunità umana che vi è insediata, sia in modo intensivo (come sono gli insediamenti urbani) che estensivo (come sono gli insediamenti agricoli o a basso tasso abitativo).

Insediamenti che interagiscono con l’ambiente e che concorrono a far emergere e a definire i segni della cultura che lo abita.

 

Per altri versi e nella modernnità l’espressione di paesaggio non costituisce più l’equivalente di bellezze naturali o storico-artistiche, ma rappresenta una delle componenti dell’ambiente e, specificatamente, la componente etico-culturale.

 

Così, abbandonata la sintesi “bellezze-naturali-uguali-paesaggio”, l’accento si è spostato dalla dimensione meramente estetica del territorio al più complesso concetto di bene ambientale.

 

Pensato in questo modo il paesaggio è mutato in un patrimonio che va riconosciuto, apprezzato e tutelato giuridicamente e economicamente.

 

Oggi quasi tutte le legislazioni dei paesi occidentali riconoscono al paesaggio la condizione di bene ambientale e culturale, di portatore di una sua specifica identità che riflette la sensibilità estetica di chi lo abita.

 

Da questo punto di vista il paesaggio è ora un prodotto sociale che non rappresenta un bene statico, ma un patrimonio dinamico.

In base a queste caratteristiche si può dire che il paesaggio è sempre più considerato in relazione con l’azione dell’uomo.

 

In altri termini la percezione del paesaggio è il frutto di un’interazione tra:

– la soggettività umana,

– i caratteri oggettivi dell’ambiente (antropici o naturali)

– e i mediatori socio-culturali legati al senso di identità che una cultura riconosce in un dato momento su un determinato tipo di ambiente.

 

Ne deriva che il paesaggio non coincide più con la realtà materiale (quindi con l’immagine statica di un luogo) perchè l’azione dei mediatori socio-culturali e della soggettività umana determinano un effetto di produzione di senso.

Questo vuol dire che un paesaggio comprende sia la realtà, che l’apparenza di questa realtà, cioè la sua rappresentazione.

 

In sintesi, così definito il paesaggio è anche una forma di linguaggio

 

In altri termini non esiste un paesaggio senza una sua rappresentazione visuale-narrativa attraverso la quale la cultura manifesta le proprie aspirazioni e partecipa al processo di scambio tra l’uomo, la natura e i congegni di mediazione tra queste due realtà.

 

Filmato numero uno. 

 

Ha scritto qualche tempo fa Giuliana Andreotti in, Paesaggi culturali. Teoria e casi di studio (Milano, 1996):

Il paesaggio non è soltanto qualcosa da costruire o tutelare, ma prima ancora qualcosa da riconoscere, percepire, ascoltare e descrivere.

 

 Il paesaggio è (dunque) l’ipostasi (cioè, la sostanza o la vera essenza) della storia di un territorio.

 

In altri termini, il paesaggio è un aspetto sostanziale dell’etica, dell’estetica, dell’architettura di un luogo a tal punto che il progresso, la decadenza, la carestia, l’abbondanza, gli effetti della guerra o quelli della pace, la sua dimensione storica o mitologica sono inscritti nel suo profilo narrativo e sono interpretabili culturalmente.

 

Ancora una volta ricordiamo, però, che il concetto di paesaggio nella cultura umanistica occidentale è un concetto moderno e non in tutte le epoche è esistito.

La sua evoluzione (inoltre) è strettamente correlata con l’evoluzione del significato assegnato alla natura.

 

Nei limiti della nostra esposizione perché una società sia considerata paesaggistica deve soddisfare ai seguenti criteri:

– esistenza e uso del paesaggio in quanto paesaggio.

– esistenza di una letteratura sui paesaggi e sulla loro bellezza o sulla loro morfologia.

– esistenza di rappresentazioni pittoriche dei paesaggi.

– esistenza di parchi e giardini.

 

Questi criteri sono sulla falsariga di quelli che propose qualche anno fa il geografo francese Augustin Berque.

Oggi sono ritenuti superati perché si ritiene che non possono essere generalizzati, ma che ogni cultura ha il diritto di elaborarne di propri a partire dalla propria sensibilità verso l’ambiente.

 

In ogni modo e in base a questi criteri la prima società paesaggistica di una certa importanza fu la Cina, a partire dal quarto secolo dell’era comune.

 

In Europa bisognerà aspettare il sedicesimo secolo per trovare tutti questi elementi sufficientemente diffusi.

Una curiosità.

Gli studiosi di letteratura fanno risalire la prima descrizione di un paesaggio a Francesco Petrarca (1304-1374).

Lo deducono dal testo della sua famosa lettera sull’ascesa del monte Ventoso, in Provenza, oggi definito dall’Unesco una riserva di biosfera, soprattutto per la sua geologia e la sua flora.

 

In ogni modo, essendo il paesaggio un processo evolutivo e non un’entità immutabile nel tempo, il suo studio deve partire dal passato, ma deve soprattutto proiettarsi nel futuro o, almeno, in quello che le tendenze attuali suggeriscono che esso sia. 

 

Va anche osservato che nell’ambito della narratologia paesaggistica, la geografia umana tende a privilegiare gli aspetti culturali, simbolici e emotivi.

In questo modo il paesaggio risulta espresso attraverso modalità soprattutto soggettive.

E’ l’esito di uno sguardo sul territorio, che lo storicizza. 

 

Le ricerche geografiche degli ultimi decenni del Ventesimo secolo hanno messo in luce l’impossibilità di definire in modo univoco il paesaggio.

 

Così, di esso esistono più nozioni, molte di esse meritevoli d’attenzione, altre contraddittorie.

E’ un’osservazione da tenere presente per valutare il lavoro della Commissione Europea che lo ha analizzato, studiato è riassunto in un unico documento.

 

La Convenzione Europea del Paesaggio è un documento adottato dal Comitato dei Ministri della Cultura e dell’Ambiente del Consiglio d’Europa, riunitosi a Firenze nel luglio del 2000. 

 

Questa convenzione è stata firmata dai ventisette Stati della Comunità Europea e ratificata da dieci, tra cui l’Italia nel 2006.

 

Definizione di “paesaggio”:

“Paesaggio definisce una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni.” 

(Capitolo 1, art. 1)

 

Oltre a concordare su una definizione di paesaggio la convenzione ha poi disposto i provvedimenti in tema di riconoscimento e tutela, che gli stati membri si impegnano ad applicare.

 

In questi provvedimenti sono definiti le politiche, gli obiettivi, la salvaguardia e la gestione relativi al patrimonio paesaggistico.

Patrimonio di cui è riconosciuta l’importanza culturale, ambientale, sociale, storica quale parte del patrimonio europeo e elemento fondamentale per garantire la qualità della vita delle popolazioni.

 

Come è facile costatare in questa definizione emerge la natura antropica del paesaggio, ovvero l’importanza ricoperta dal ruolo dell’azione umana.

Questo ruolo è descritto come l’aspetto formale, estetico e percettivo dell’ambiente e del territorio.

 

La Convenzione prevede, inoltre, la salvaguardia di tutti i paesaggi, indipendentemente da canoni prestabiliti di bellezza e/o originalità, e include espressamente: 

“ …i paesaggi terrestri, le acque interne e marine, così come i paesaggi che possono essere considerati eccezionali, sia i paesaggi della vita quotidiana, sia i paesaggi degradati.”

(Art. 2) 

 

Fino a che punto arriva la degradazione? Una delle isole di plastica nell’oceano. filmato 2 

 

Il concetto di paesaggio degradato è quello che più interessa l’antropologia culturale sia per la sua complessità che per la sua varietà.

Si pensi solo agli habitat compromessi dall’uomo, con le guerre, le attività estrattive, di deforestazione, di costruzione delle infrastrutture di trasporto, ecc…

 

In sede scientifica è invece opportuno riconoscere la specificità di ogni approccio, per metterne in luce la diversità, in quanto ciascuno consente di cogliere una delle tante facce del paesaggio, come prova la stessa storia dell’arte.

 

Possiamo dire che a partire dall’arte bizantina (quella che si è sviluppata in Europa tra il quarto secolo e il quindicesimo secolo) i pittori e gli artisti riservavano, in modo deliberato, una parte delle loro opere alla descrizione dello spazio e del paesaggio in cui si svolgevano le azioni rappresentate.

 

Tra le rappresentazioni più famose del paesaggio nel Medioevo si può segnalare l’affresco dell’Allegoria e Effetti del Buono e del Cattivo Governo (1338) di Ambrogio Lorenzetti (1290-1348).

 

In Italia poi le tecniche di rappresentazione pittorica cambiarono con l’arrivo dell’influenza della miniatura francese e della pittura fiamminga 

Nel senso che gli scorci paesistici divennero sempre più curati, in modo da evidenziare i soggetti in primo piano e rendere la composizione più monumentale, con il ricorso a scorci suggestivi e di ampio respiro.

 

Invece la nascita del paesaggio come genere autonomo risale alla seconda metà del Quattrocento, tra i protagonisti di questa svolta vanno segnalati prima Leonardo da Vinci (1452-1519) e poi Albrecht Dürer (1471-1528)

 

Ancora va anche ricordato come nei dipinti di Piero della Francesca (1412-1492) si riscontrano scorci ed inserti di paesaggio che fanno da sfondo per la rappresentazione della figura umana collocata in primo piano.

 

Poi, con la Vergine delle rocce e la Gioconda di Leonardo da Vinci si fa un ulteriore passo in avanti, entra nella scena figurativa oltre al paesaggio anche la resa atmosferica, vale a dire l’aria che diventa una cosa pittorica e che si interpone tra il primo piano e lo sfondo caricandolo di suggestioni.

 

Cartella dipinti.

 

Nel 1508 Giorgione 1477-1510) dipinge uno delle tele più belle della storia della pittura La tempesta.

 

Oggi è ritenuta la prima rappresentazione matura di un paesaggio per la presenza concomitante di natura, uomo, donna con bambino, (cioè, morte e vita), città e storia (rappresentata nel quadro dai resti archeologici).

 

Più in dettaglio.

 

Fra il Quattrocento e il Cinquecento, nella cosiddetta area fiamminga dell’Europa settentrionale, operarono molti specialisti della pittura di paesaggio, spesso con piccoli quadri di genere, destinati alla decorazione delle case borghesi.

Nelle zone di lingua tedesca, dove la Riforma protestante aveva allontanato la popolazione dalla cultura cattolica romana e dalle sue immagini religiose, vi furono i grandi interpreti del paesaggio nordico, come A. Dürer, i cui acquerelli vennero considerati i primi paesaggi puri della storia dell’arte.

 

A questi acquarelli si possono affiancare gli affreschi classicisti di Polidoro da Caravaggio in S. Silvestro al Quirinale a Roma (1525).

 

Oltre al particolare interesse della pittura veneta per il paesaggio (Giovanni Bellini e Giorgione), è nel Seicento che diventò un genere autonomo, con l’affermazione del paesaggio ideale immaginato da artisti come Claude Lorrain, Annibale Carracci, il Domenichino, Nicolas Poussin.

 

Sempre nel Seicento, si affermò anche uno stile realista, che rappresentò con grande verosimiglianza la terra e il mare olandesi.

Nel Settecento, poi, in tutta l’Europa il paesaggismo divenne una moda.

Soprattutto in Gran Bretagna operarono schiere di artisti (fra i più celebri John Constable, William Turner).

 

E’ importante notare che l’interesse per la pittura di paesaggio andò di pari passo con l’affermazione dell’estetica nella filosofica moderna, che aveva scoperto e teorizzava il cosiddetto sentimento del sublime.

 

Nel corso dell’Ottocento, si ricercò nel paesaggio vissuto un significato e un legame con la propria cultura.

 

Nei paesi di lingua tedesca, i maggiori artisti si dedicarono esclusivamente a dipingere la natura, questa scelta ebbe anche un significato politico, poiché si rivolse polemicamente contro il classicismo accademico francese.

 

In ogni modo in Francia i pittori di paesaggio diffusero la pratica della pittura all’aria aperta (en plein air), da cui si svilupperà l’impressionismo.

Sono i pittori della scuola di Barbizon, grazie anche alla disponibilità dei colori in tubetto, uscirono dagli atelier e affrontarono la natura dal vivo, con la sua luce variabile.

 

A questo proposito vale la pena di segnalare un ciclo di una trentina di dipinti composto tra il 1892 e 1894 da Claude Monet

Monet dipinse la facciata della cattedrale di Rouen nei diversi orari della giornata e dell’anno (diverse luci, diversi colori, diverse stagioni rappresentate), sottolineando e lavorando sulle differenze cromatiche. 

In questo modo il soggetto di questi dipinti, la cattedrale, divenne tanto importante quanto la luce stessa. 

La luce, gli artisti lo sanno, è difficile da catturare se non altro perchè è in continuo mutamento. 

Ma l’abilità impressionistica di Monet vince queste difficoltà, l’intreccio dei colori e l’uso brillante di tutte le texture gli servirono a creare una serie di immagini cangianti di luce e colore, facendone dei capolavori. 

 

Dopo l’impressionismo, come sappiamo, le ricerche degli artisti d’avanguardia misero in crisi i generi pittorici.

Il paesaggismo fu superato dall‘attenzione al linguaggio, ossia al modo in cui il soggetto è rappresentato.

O, come diceva Marcel Duchamp il suo superamento è un effetto della crisi della pittura retinica.

 

Il paesaggio nella pittura cinese, in Turner, Monet e nel cubismo. Filmati 3  4  5  6. 

 

Un altro tema significativo che si lega alla fenomenologia del paesaggio è il tema del paesaggio interiore.

Possiamo introdurlo con una citazione di Jorge Luis Borges.

Un uomo si propone il compito di disegnare il mondo. Trascorrendo gli anni, popola uno spazio con immagini di province, di regni, di montagne, di baie, di navi, di isole, di pesci, di dimore, di strumenti, di astri, di cavalli e di persone. Poco prima di morire, scopre che quel paziente labirinto di linee traccia l’immagine del suo volto. 

 

In buona sostanza possiamo dire il paesaggio interiore è il riflesso dello sguardo sul mondo che ogni individuo possiede.

In questo senso rapresenta una visione puramente soggettiva, legata indissolubilmente all’esistenza, ai ricordi e alle emozioni connesse ad un paesaggio.

 

Si può dire che il paesaggio esterno, oggettivo e tangibile che appare ai nostri sensi è sempre mediato da un paesaggio interno, nascosto e mutevole.

In altri termini il nostro vissuto è plasmato dalla presenza costante di questo paesaggio, fatto di persone, di cose, di immaginari, sempre presente nel dispiegarsi dell’esperienza.

 

In genere l’indagine sul paesaggio interiore mira ad analizzare i profondi legami che uniscono intimamente i luoghi alla personalità e al vissuto, ecco perchè il suo concetto ha nella lingua inglese una sua specifica definizione inscape.

Si può dire che l’inscape è una sorta di punto di vista interno che riflette il mondo circostante, fu usato come concetto per la prima volta dal poeta irlandese Gerald Manley Hopkins, vissuto nella seconda metà dell’800, per definire quel complesso di caratteristiche che conferiscono unicità ed esclusività ad un’esperienza individuale, risultando, così, differente da qualsiasi altra.

 

Vediamo adesso il paesaggio in una prospettiva più fenomenologica.

La nozione di paesaggio, come abbiamo già visto, non è sempre esistita.

“Paesaggio” nasce da “paese”, paese a sua volta deriva dal latino “pagus”, che indicava il territorio delimitato e abitato dall’uomo.

 

La parola paysage nasce alla fine del 400, e il suo uso viene attribuito dai dizionari etimologici per la prima volta al poeta Jean Molinet, nativo delle Fiandre, centro di origine e sviluppo della prima pittura di paesaggio.

 

Per questo alcuni ritengono che paysage sia nato sul calco dell’olandese Landschap e usato inizialmente dai pittori che volevano indicare il nuovo tema della propria pittura.

In seguito si assiste alla diffusione del termine nel corso del 500 nelle altre lingue europee.

 

Anche nei dizionari italiani dei secoli successivi citati da molti studiosi contemporanei, nel significato di paesaggio si sottolinea il legame con la pittura, con l’aspetto visivo del paese scelto come soggetto di pittura e non come luogo di affetti.

In altri termini il paesaggio viene considerato con lo stesso atteggiamento di distacco che utilizziamo per osservare un quadro o un’opera d’arte visiva.

 

In questo senso lo sguardo dell’osservatore è decisivo ai fini della sua definizione. 

 

Per paese si intende a questo punto l’estensione del territorio abitato coltivato misurabile e quantificabile anche economicamente o demograficamente, mentre per “paesaggio” si intende il suo aspetto visivo, il punto di vista da cui lo si guarda o lo rappresenta in pittura.

 

Molti studiosi si sono occupati del paesaggio, tra i primi, lo abbiamo già ricordato, spicca il lavoro di Georg Simmel.

 

Nel saggio Philosophie der Landschaft scritto da Simmel tra il 1912 e 1913, l’idea di paesaggio è anzitutto presentata distinguendola accuratamente da quella di natura.

 

Il paesaggio non è natura, afferma Simmel.

Natura è infatti “l’infinita connessione delle cose, l’ininterrotta nascita e distruzione delle forme, l’unità fluttuante dell’accadere, che si esprime nella continuità temporale e spaziale.”, è “un’unità priva di contorni”che nel suo senso più profondo ignora l’individualità, in quanto non ha parti.

 

Per Simmel la natura è quel infinito e indifferenziato fluire, segnato dall’idea di continuità e dell’assenza di profili definiti e precisi, cioè dall’assenza di forme.

 

Paesaggio è invece una di queste forme, una delimitazione del tutto finita e dinamica della natura.

 

“La natura che nel proprio essere e nel proprio senso più profondo ignora l’individualità, viene trasformata nella individualità del paesaggio dallo sguardo dell’uomo, che divide e configura in unità distinte ciò che ha diviso”.

 

Dunque il paesaggio si staglia all’interno dell’infinità della natura come un organismo o un’opera d’arte, come un mondo a parte strutturato intorno a un significato.

 

Ne consegue che il paesaggio è qualcosa di organizzato nelle sue parti intorno a un centro, che si stacca e si staglia sullo sfondo di un infinito e indifferenziato fluire, ma che al tempo stesso non ha con esso spezzato e chiuso definitivamente ogni rapporto.

 

La natura in questo senso è il presupposto mai cancellato del paesaggio, è lo sfondo che ne costituisce un contesto metafisico e che quindi conferisce al paesaggio quell’elemento spirituale che esso ha in comune con l’opera d’arte.

 

Per Simmel la particolare forma di unità rappresentata dal paesaggio presuppone storicamente una vera e propria lacerazione (Losreissen), avvenuta nella modernità, del sentimento unitario della natura universale.

Si tratta di una rottura che avviene a livello del vissuto dell’uomo, e non solo di una delimitazione spaziale, di un orizzonte fisico che il paesaggio presuppone.

 

L’idea di fondo di Simmel è che il paesaggio nella modernità nasce quando si avvertono come limitanti i legami originari con la natura, quando le relazioni con essa diventano un freno per la formazione della personalità individuale.

 

Solo in conseguenza di questo disagio nasce la possibilità e l’esigenza di godere della natura nella sua forma individuale del paesaggio. 

La storia del bello naturale dimostra che si ama sempre la natura che si è perduta. 

 

Al contrario, è proprio la stretta relazione dell’uomo dell’antichità con la natura che impedisce come all’interno della cultura antica si formi l’idea del paesaggio, di cui manca anche la parola. 

 

Bella, nel mondo antico, è la natura nel suo insieme, come cosmo ordinato retto da leggi geometriche conoscibili, da simmetrie ed equilibri razionali, entro i quali l’individuo si riconosce e si riflette come parte.

 

Diciamo che il paesaggio per Simmel è natura e, al tempo stesso, più che natura, è un costrutto culturale che trascende la natura stessa senza allontanarsi da essa.

 

Dunque il paesaggio (di per se) non è nulla di fisico, niente di dato e di oggettivo.

Ciò che esiste è la natura nei suoi infiniti elementi non unificati, che divengono degli interi (delle Gestalt) se lo sguardo dell’uomo ne inventa l’elemento spirituale e lo rende reale.

 

Di fatto non possiamo toccare un paesaggio, o camminarci attraverso, dice Simmel. 

E’ una forma spirituale, è l’esito dell’attribuzione di un significato, vive solo in relazione all’uomo e diventa tale solo in esso. 

 

Un altro autore che è stato sensibile al tema del paesaggio è Rosario Assunto (1915-1994), un filosofo italiano studioso di estetica.  

 

Assunto, in uno studio degli anni ’70 del secolo scorso, cerca una definizione filosofica di paesaggio, partendo dalla considerazione che anzitutto il paesaggio è spazio.

Ben sapendo che non tutto lo spazio è paesaggio.

 

Per esclusione, per esempio, possiamo escludere che lo spazio chiuso sia un paesaggio.  Un  interno è spazio, ma non è paesaggio.

Anche lo spazio illimitato non è paesaggio.  Il cielo non è paesaggio.

 

Dunque il paesaggio è uno spazio aperto, limitato come gli spazi chiusi, ma non finito.

 

Per tornare alla pittura esso compare in quella fiamminga all’inizio del XVI secolo, in primo luogo attraverso la tecnica della finestra, che consente di bucare i fondali dorati medievali dando profondità alla scena.

In questo modo, tra l’altro, il paesaggio viene laicizzato, perché è reso indipendente dalla scena religiosa protagonista del dipinto e unificato perché si organizza intorno a un centro.

 

Assunto scrive anche che occorre un’unità di stile per dare forma al paesaggio, sia urbano che naturale.

Un paesaggio riconoscibile non tanto in base a semplici proporzioni geometriche, che sono al contrario mutevoli, ma alla specifica combinazione di forme che danno luogo a un intero, come avviene nelle opere d’arte.

 

Non è disponibile tuttavia una regola estetica definita e definitiva, ma si tratta di scoprire, di volta in volta, gli elementi che qualificano e individualizzano lo spazio rendendolo metaspazio.

 

Gli esempi sono di tipo letterario.

Sono le Marche di Giacomo Leopardi e il senso dell’infinito che nasce a partire da una veduta limitata.

È la Napoli di Hippolyte Taine in cui il quartiere di Chiaia sembra a un tempo come parte della città e del paesaggio extraurbano.

La Torino di Friedrich Nietzsche con le strade che sembrano portare diritte verso le Alpi.

La Heidelberg di Friedrich Hölderlin con la sua rocca, oltre che le Alpi di Jean-Jacques Rousseau e di Albrecht von Haller.

 

In questi sparsi esempi c’è quel incontro tra città e paesaggio che viene definito come metaspaziale in quanto i due elementi si qualificano a vicenda. La città comunica col paesaggio e il paesaggio con la città, i due termini non si escludono ma si arricchiscono reciprocamente.

 

Un altro studioso del tema del paesaggio è il francese Alain Roger.

Le sue posizioni, molto radicali, sono contenute in un libro intitolato, Court traité du paysage, pubblicato in Francia nel 1997 e recentemente tradotto anche in italiano..

 

Roger parte dalla domanda di fondo: qual è la frontiera, dal punto di vista dell’estetica, del paesaggio moderno?

Di fronte alla campagna e alla città attuale abbiamo davvero a disposizione modelli che ci permettano di comprendere e di interpretare ciò che abbiamo sotto gli occhi?

 

La risposta di Roger si articola a partire dal concetto di nudità percettiva, cioè di una  incapacità di utilizzare nella modernità modelli estetici flessibili e dinamici che non si limitino ai canoni tradizionali.

 

Una condizione che gli appare simile a quella dell’uomo del Seicento davanti al mare o alla montagna.

 

Per Roger la città contemporanea appare come una grande rovina, un mondo nella spazzatura, un effetto di abbandono, di deiezione, di perdita.

 

Roger in sostanza parte dall’idea che non si dà bellezza naturale in quanto tale, essendo essa al contrario frutto di modelli culturali che noi proiettiamo sulla natura.

 

A differenza del paese ( inteso come Land) che è una parte delimitata della natura, il paesaggio, o meglio i diversi paesaggi, sono invenzioni culturali, che possiamo analizzare e situare storicamente.

 

Come ogni altra esperienza visiva, essi sono modellati sulla base di schemi artistici, e sono percepiti come tali attraverso l’azione di immagini estetiche e non viceversa.

 

Ciò che esiste in realtà è solo l’infinita molteplicità della natura che non ha in sé alcuna forma di bellezza, come dimostra il fatto che solo in certe epoche alcune sue manifestazioni sono percepite come fornite di valore estetico.

 

Un paese viene trasformato in un paesaggio attraverso ciò che Roger chiama, con riferimento a Montaigne, artialisation, che può avvenire in due modi:

– Il primo consiste nell’inscrivere direttamente il codice artistico nella materialità del luogo, sul terreno della natura, cioè nell’artialiser in situ.

Questa è l’arte millenaria dei giardini e, più vicina a noi, la corrente concettuale della Land art.

 

– Il secondo modo è indiretto.

Non si tratta di un intervento sulla natura, in situ, ma in visu, sullo sguardo collettivo, che si attrezza con modelli di visione, con schemi di percezione e di gusto.

Il paese rappresenta dunque per così dire il “grado zero” del paesaggio, quello che precede la sua artialisation in situ o in visu.

 

Questo è visibile nella storia del paesaggio, che mostra come parti della natura prima indifferenti o addirittura negativamente valutate siano diventate paesaggi solo in base a un mutamento dello schema estetico e culturale.

Solo la loro attuale familiarità ci porta a credere che la loro bellezza sia qualcosa di oggettivo e scontato.

 

Se ogni paesaggio è frutto della proiezione di schemi e di modelli artistici che negano la sua esistenza oggettiva, allora non esiste nessuna regola assoluta che ci consenta di distinguere un paesaggio da un non paesaggio, se non in chiave storica.

Non è l’arte a imitare la natura, ma la natura a imitare l’arte.

 

Paradossalmente non ci sono nella cultura occidentale dei criteri oggettivi che sanciscano o escludano il valore estetico delle diverse parti della natura.

Il paesaggio è sempre un’invenzione, come è stato detto anche da altri studiosi francesi come Alain Corbin e Philippe Joutard.

 

In questo contesto, come considerare il paesaggio contemporaneo?

Scrive Roger, siamo in tempi di morte del paesaggio, ma al contrario di sazietà, di sovrabbondanza, che in quanto tale produce per contrasto una ricerca di essenzialità.

 

Il ritorno alla natura auspicato da molti, l’elezione del paesaggio bucolico a sola dimensione estetica accettabile è il risultato inaspettato non di una riduzione ma di un eccesso di paesaggio nei nostri occhi contemporanei.

 

E’ una sorta di sguardo nostalgico verso i modelli del passato, al locus amoenus classico, inteso come assoluta armonia formale.

 

Di contro, è difficile considerare paesaggisticamente attraenti le città industriali, la cui bellezza innovativa i futuristi per altro avevano compreso.

 

E’ vero, osserva Roger, che la civiltà industriale ha deteriorato i paesaggi tradizionali (sia per mancanza di cultura che per incuria e li ha nuovamente abbassati al grado del paese), tuttavia si tratta di inventare nuovi schemi e nuovi modelli sia di intervento tecnologico sulla natura che ne potenzino e non ne distruggano il livello paesaggistico, sia di capacità di comprensione estetica di ciò che ci appare solo come una rovina, ma che, come ogni rovina, trova prima o poi i suoi ammiratori. 

***

Appendice.

Luisa Bonesio docente di estetica e esperta di geoestetica del paesaggio, nel suo libro Paesaggio, identità e comunità tra locale e globale, introduce l’esigenza di pensare filosoficamente il paesaggio come pratica dell’abitare.

Solo così per questa autrice si può consegnare la cura dei luoghi alla responsabilità individuale e, più in generale, chiamare in causa la sfera della deliberazione politica.

 

Si tratta di liberare il paesaggio dall’ambiguità della sua stessa denominazione concettuale − con cui si vorrebbe indicare sia la rappresentazione che la cosa stessa − attestata anche dalla confusione fra i termini di ambiente, natura, territorio, paesaggio.

 

La Bonesio in questo libro fa una precisa scelta epistemologica che costringe a cambiare paradigma di riferimento.

Da procedimento esteticorappresentativo, il concetto di paesaggio si sposta verso un’analisi di tipo fisiognomico, che riguarda le forme della cultura, evidenziando il carattere storico, comunitario, simbolico proprio dell’esperienza dell’abitare.

 

Solo un paesaggio differenziato, stratificato e memoriale può offrire ospitalità ai suoi abitanti, rispettandone il diritto a vivere in luoghi significativi.

Dopo l’estasi modernista del disincarnamento, si tratta di riaffermare una percezione qualititativa del proprio essere-nel-mondo.

Questa percezione riguarda non solo la sfera della sensibilità, ma richiede un diverso approccio teoretico e una nuova prospettiva ontologica che, guardi al rapporto fra soggetto e luogo come relazione di senso.

 

Con questa impostazione l’analisi del paesaggio cambia.

Innanzitutto rivela l’intrinseca contraddittorietà dello sguardo paesaggistico.

Dal punto di vista storico, infatti, il concetto di paesaggio nasce come un’assunzione estetica della prospettiva geometrica.

Non per caso il quadro si identifica con il paesaggio, come dimostra la pittura rinascimentale.

 

Di contro, il sublime rompe con la cornice classica, modifica il concetto tradizionale di bello, amplia l’orizzonte paesaggistico, rivela un’inedita attrazione verso la verticalità.

Allo stesso tempo, quando perde i suoi connotati − la meraviglia rispetto a ciò che non può essere dominato dall’uomo − rischia di celebrare il pittoresco.

 

Il paesaggio oggi corre il pericolo di ridursi alla veduta, alla teatralizzazione, ad una semplice messa in scena per l’azione umana, sia utilitaristica che contemplativa.

 

La facilità di spostamento e l’uso di nuovi mezzi di trasporto contribuiscono poi a rendere i luoghi semplici spazi di attraversamento.

Essi spesso si identificano non più con connotazioni reali, ma con dei segni che si incontrano lungo il tragitto.

 

La stessa attrazione verso le rovine (anche quando esse appartengono ad un’epoca recente, come dimostra il fascino dell’archeologia industriale, o addirittura quando sono artificialmente prodotte per uso artistico) testimonia dell’impossibilità di ristabilire un rapporto vitale con i luoghi, facendo di questi stessi oggetto di celebrazione.

 

L’attrazione per il lontano appare il segno di una civiltà protesa verso l’avvenire, che vuole segnare il suo irrevocabile distacco, magari nostalgico, dal passato.

Il lontano è infatti tanto il passato che il futuro, di cui subisce l’attrattiva. Questa riduzione dello spazio a tempo è un altro carattere significativo della modernità.

 

Quando il paesaggio viene tradizionalmente identificato, nella teoria estetica, con il “bello naturale”, esso si presta facilmente ad essere superato dall’idealità del soggetto.

Questa lettura si basa sul presupposto dell’identificazione fra natura (ambiente) e paesaggio.

 

Un altro concetto decisivo, per Luisa Bonesio, ci viene dai processi di simbolizzazione.

 

L’idea di questa ricercatrice è che il paesaggio, come già aveva intuito Simmel, non sia una mera dimensione naturale, ma sempre una sua rielaborazione culturale.

Da qui l’interpretazione del paesaggio come “selezione di possibilità naturali da parte di una cultura”. 

 

Da questo punto di vista solo l’attenta decifrazione degli elementi naturali – e dunque la loro ritrascrizione geosimbolica e geostorica – è in grado di dar luogo a un paesaggio. 

 

Va detto che i presupposti di questa analisi geofilosofica vengono da due geografi di area tedesca: Lehmann, per la natura “espressiva” del paesaggio, che si traduce in una vera e propria ermeneutica, dunque nel tentativo di mediare ed integrare i caratteri dell’analisi geografica e filosofica, e Schwind, per l’idea di paesaggio culturale.

 

Per questi autori il paesaggio è dunque e per intero un concetto geo-simbolico, culturale ed ermeneutico.

 

Facciamo un passo avanti.

L’uso del paesaggio presuppone il riconoscimento di un significato, e non viceversa.

 

L’uso non va concepito in senso strumentale, ma come quel prendersi cura a partire dalle possibilità stesse del luogo, il quale, dunque, contiene sempre delle potenzialità di senso non ancora espresse.

Ecco perché una concezione culturale ed ermeneutica del paesaggio è molto importante. 

 

La salvaguardia dei luoghi non può prescindere dal riconoscimento di tale nucleo di senso se non vuole ridursi ad una semplice valutazione quantitativa delle risorse naturali.

 

In realtà, solo a partire dal riconoscimento dell’alterità del paesaggio, del suo carattere singolare e differenziato, si può contrastare il dominio dell’identico.

 

Che questa esigenza si manifesti anche sul piano politico è dimostrato, secondo Bonesio, dalla ratifica della Convenzione europea del paesaggio che valorizza l’identità qualitativa del paesaggio, definibile, come recita la Convenzione, come quella porzione di territorio caratterizzata da interrelazioni naturali e umane.

 

Secondo NorbergSchulz la perdita di senso del luogo (genius loci) dipende dall’assenza di tre elementi fondamentali: la memoria, l’orientamento e l’identificazione.

 

Ciò che si conserva richiede sempre un atto di interpretazione, dunque di apertura verso il futuro.

 

Il paesaggio è pensabile solo come sedimentazione di una memoria vivente e non oggettivata (nel qual caso si tratterebbe di un’operazione di storicizzazione), che racchiude in sé l’esigenza della memoria e dell’avvenire.

 

Ogni paesaggio, ha scritto Martin Schwind, è come un’opera d’arte ma molto più complessa: un pittore dipinge un quadro, un poeta scrive una poesia, ma tutto un popolo crea un paesaggio, che costituisce il serbatoio profondo della sua cultura e “reca l’impronta del suo spirito”.

 

Paesaggio è il luogo particolare al quale apparteniamo.

Parliamo di paesaggi , perché “il paesaggio in senso astratto non esiste, come ha suggerito Georg Simmel all’inizio del secolo scorso.

 

Ogni cultura instaura il suo rapporto con la natura, creando luoghi con determinati caratteri, attraverso le poetiche più diverse.

Luoghi divenuti di conseguenza lo specchio della storia, della cultura e della società che li ha promossi.

Documenti della natura e della storia, i paesaggi sono ambiti complessivi della vita umana: ciascuno con la propria peculiarità, espressione di una data libertà.

 

La formazione di un popolo è connessa al suo paesaggio, alla totalità dell’immagine del proprio mondo “afferrata” dalla contemplazione. 

 

Il paesaggio è dunque lo spazio dove si “legge il mondo” nella sua complessità. Ogni momento storico può essere individuato nel paesaggio, luogo che accoglie la relazione tra l’uomo e la natura.

 

La storia delle forme del paesaggio – ha scritto Rainer Maria Rilke – sarebbe “un compito che impressiona per la novità e la profondità inaudite”.

 

Ogni paesaggio è natura trasformata dall’uomo nel corso della storia; ma è concettualmente ben differente dalla natura , con la quale viene spesso confuso.

 

La natura, in sé e per sé, non è altro che la vita spontanea, l’esistenza delle cose per se stesse, secondo leggi necessarie: come unità di una totalità, la natura non ha parti, è priva di contorni.

 

Ciascun paesaggio, al contrario, necessita di delimitazione e deve essere compreso in un orizzonte momentaneo o durevole.

In ogni paesaggio c’è il nostro passato e il nostro presente, da tramandare alle generazioni future con sentimenti di rispetto e di tutela.

 

Per concludere diciamo che la migliore tradizione paesaggistica è quella storico-teorica ricca dei contributi estetico-filosofico che troviamo nei lavori di Georg Simmel , Karl Kerényi , Joachim Ritter e Rosario Assunto, per ricordare alcuni dei nomi che abbiamo fatto.

 

*******************************************************************************

 

Il Patrimonio Culturale Immateriale.

 

In passato sia in antropologia, che nell’ambito delle grandi organizzazioni transnazionali come l’UNESCO, per consuetudine di un territorio si distinguevano due generi di patrimonio, quello culturale e quello naturale. 

Da circa una trentina d’anni a questa parte questa distinzione è stata rivista e trasformata e è prevalsa la tendenza a definire il patrimonio culturale nel suo significato più ampio, come ciò che comprende sia le risorse materiali ( dette tangibili) che quelle immateriali. 

 

In questo modo si può definire come patrimonio materiale un monumento, un insieme di artefatti o di edifici, un sito, il cui valore è storico, estetico, archeologico, scientifico, etnologico, antropologico o tutte queste cose insieme.

 

Così definito il patrimonio materiale comprende, per fare qualche esempio, un luogo come Angkor Wat (un complesso di templi cambogiani), il carcere di Città del Capo, in Sud Africa, dove fu rinchiuso Nelson Mandela per ventisei anni, l’antica città di Piramidi di Teotihuacan vicino a Città del Messico, la miniera di sale di Wieliczka non lontana da Cracovia.

 

Il patrimonio naturale, di contro, è definito come l’insieme dei tratti geologici, biologici, fisici di rilevante importanza.

Esso comprende gli habitat botanici o le specie animali minacciati, le aree significative dal punto di vista scientifico o estetico – come abbiamo visto sono i paesaggi – o che debbono essere tutelate o conservate.

 

In questo modo il patrimonio naturale include luoghi come il Mar Rosso, il parco del monte Kenia, il Gran Canyon, l’area della grande Amazzonia nel Brasile centrale.

 

Film 7 Angkor Wat – Film 8 Wieliczka mine. 

 

In principio le cose non erano così.

Nella Convenzione del 1972 dell’UNESCO sui patrimoni culturali si prendevano in considerazione unicamente i beni materiali, ma in seguito gl’antropologi e gli etnologi richiamarono l’attenzione anche sugli aspetti intangibili della cultura allo scopo di promuovere la ricchezza delle diversità culturali in qualsiasi forma e espressione.

 

Nel 1989 fu stilata una raccomandazione per la salvaguardia della cultura tradizionale e del folclore.

 

A proposito dell’antropologia culturale italiana e soprattutto del folclore –come espressione delle tradizioni contadine e popolari – vale la pena di ricordare i Quaderni dal carcere di Antonio Gramsci.

 

Egli è stato il primo a ridiscutere la concezione del folclore appiattita sulla ricerca del pittoresco per considerarlo, invece, come un indice della mentalità dei popoli e delle loro divisioni in classi capace di portare alla luce una nuova concezione della rappresentatività.

 

In altri termini, l’unicità, la diversità, la pluralità delle identità cominciarono a essere considerate come ciò che definiscono l’umanità e ne disegnano la specifica rappresentatività.   

 

Questo documento (del 1989) afferma testualmente:

Come fonte di scambio, di innovazione e creatività, la diversità culturale è necessaria per l’uomo quanto la biodiversità per la natura, per questo dovrebbe essere riconosciuta e affermata per il bene delle generazioni presenti e future. 

 

Nell’ottobre del 2003 a Parigi fu poi stilata la Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale.

 

All’articolo due questa Convenzione definisce il patrimonio culturale immateriale come la prassi, le rappresentazioni, le espressioni, le conoscenze, il know-how – come pure gli strumenti, gli oggetti, i manufatti, e gli spazi culturali associati agli stessi – che le comunità, i gruppi e in alcuni casi gli individui riconoscono in quanto parte del loro patrimonio culturale.  

 

Ma come si esprime il patrimonio culturale immateriale?

 

Sono stati elaborati cinque punti.

Esso si esprime:

– attraverso le tradizioni e le espressioni orali, compreso il linguaggio in quanto veicolo del patrimonio culturale immateriale.

In Africa si dice che quando muore un vecchio un’intera biblioteca sparisce.

– attraverso le arti dello spettacolo.

– attraverso le consuetudini sociali, gli eventi rituali e festivi.

– attraverso le cognizioni e le prassi relative alla natura dell’universo.

– attraverso l’artigianato tradizionale.

 

In estrema sintesi si può affermare che, al pari del patrimonio materiale, il patrimonio immateriale è cultura.  Al pari di quello naturale, è un insieme vivente paragonabile a un organismo.

 

Per comprenderci possiamo dire che intorno a noi vive e pulsa in ogni momento una rete di storie, di saperi, di tradizioni e usanze che contribuiscono alla costruzione della nostra visione del mondo e della nostra identità.

 

Da un punto di vista pratico-descrittivo ciò che compone un patrimonio immateriale deve essere:

 

1 – Riconosciuto come facente parte del patrimonio culturale per una comunità o per un gruppo di individui.

 

2 – Deve essere trasmesso da generazione a generazione.

 

3 – Deve essere creato e ricreato in continuazione da una comunità o da un gruppo d’individui interagendo con l’ambiente e la loro storia.

 

4 – Deve generare un sentimento di identità e di continuità.

 

5 – Non deve essere in contrasto con i diritti dell’uomo così come sono stati elaborati dagli organismi internazionali e non deve offensivo con i sentimenti delle persone.

 

Questi punti sono importanti perché delineano il sentimento d’identità non solo come un bene etnologico, ma come un bene sociale, culturale e politico da proteggere.

 

A questo proposito si deve distinguere all’interno del concetto di patrimonio immateriale il concetto di intangile. 

Molta produzione immateriale è intangile perchè è tutelata dal diritto d’autore e essa ha dei supporti che la diffondono, come, per fare un esempio, un CD o un film.

 

Ma sono un bene intangibile, per fare l’esempio importante oggi, i saperi artigianali.

 

La Regione Lombardia, per esempio, ha varato una legge che a partire dalla definizione dell’UNESCO prevede la costituzione dell’AESS, cioè, dell’archivio di etnografia e storia sociale diviso in cinque sezioni.

 

Il registro dell’oralità, il registro delle arti e dello spettacolo, il registro delle ritualità, il registro dei saperi della natura, il registro dei saperi tecnici.

 

Per l’AESS il patrimonio immateriale comprende in modo esplicito:

I proverbi, le leggende, le canzoni epiche, le poesie, le preghiere, le canzoni popolari, i balli, il teatro.

Tutte le forme tradizionali dello spettacolo di piazza, della pantomima, dei cantastorie.

I riti di culto, i riti di passaggio, i rituali di nascita, di cerimonie nuziali e funerale, i giuramenti di fedeltà, i sistemi legislativi tradizionali, i giochi e gli sport tradizionali, le tradizioni culinarie, i sistemi curativi e la farmacopea, la magia, le cosmogonie, eccetera.

 

A livello nazionale abbiamo invece l’Istituto centrale per la demoetnoantropologia (IDEA).

 

L’IDEA è stato istituito nel novembre del 2007 e i suoi compiti istituzionali sono prevalentemente di tutela, studio, valorizzazione e promozione del patrimonio etnografico italiano.

 

L’IDEA ha una propria autonomia scientifica e di ricerca ma è inserito giuridicamente nell’amministrazione del Ministero per i beni e le attività culturali.

Sono parte integrante dell’istituto:

Il Museo nazionale delle arti e tradizioni popolari

L’archivio di antropologia visiva

L’archivio fotografico

L’archivio sonoro

La biblioteca

Il gabinetto delle stampe

 

La missione di questa istituzione è finalizzata alla salvaguardia e alla valorizzazione del patrimonio culturale, materiale e immateriale, e alla promozione di iniziative volte a tutelare i settori fortemente legati all’identità collettiva e al senso di appartenenza dei vari gruppi sociali presenti sul territorio, nonché alle espressioni delle diversità culturali

 

Eventualmente, Elenco delle feste italiane riconosciute come patrimonio immateriale dell’umanità

Nel 2001 l’Italia è entrata nel patrimonio immateriale con il teatro dei pupi siciliani.  Nel 2014 con  il vitigno dello zibibbo di Pantelleria.

 

Dobbiamo notare, en passant, che le discussioni sul folclore, i patrimoni immateriali, i rituali, le usanze, eccetera hanno favorito l’introduzione nel discorso dell’antropologia culturale di due neologismi oggi molto popolari.

Quello di First Peoples invece di Terzo Mondo.

Quello di Les Arts Premiers invece di Arte primitiva.

 

Quest’ultima espressione è impiegata soprattutto per indicare la produzione artistica delle società senza scrittura e in genere per le culture non occidentali, come l’arte Maya, l’arte della civiltà precolombiana (degli Olmechi), l’arte africana tradizionale, l’arte inuit, l’arte dell’Oceania e degli aborigeni australiani, le arti asiatiche tradizionali, l’arte amerinda.

 

L’espressione di arte primitiva è invece caduto in disuso perché troppo legato all’ideologia colonialista, ma anche il concetto di arts premiers è controverso perché fa pensare che l’arte occidentale sia un arte compiuta.

Molto usate sono anche altre espressioni, come arte tribale, etnografica, tradizionale o arcaica.

***

Sul piano meramente teorico il concetto di patrimonio culturale immateriale è stato molto dibattuto in antropologia perché è un concetto che nella pratica si rivela enigmatico e scivoloso.

 

Molti, per esempio, affermano che è il frutto di un ossessione patrimoniale della società contemporanea, altri ne sottolineano gli aspetti politici e emotivi che mascherano le insufficienze scientifiche.

 

Gli etnologi hanno parlato di una fissazione per la museificazione dei processi culturali che in molti casi si è risolta in una invenzione o in una esagerazione delle tradizioni di tipo spettacolare.

 

In questo modo, tra l’altro, non si salvaguarda la cultura, ma le sue rappresentazioni.

 

C’è anche, tra gli studiosi non occidentali, chi ha denunciato il rischio di una gerarchia globalizzata dei valori espressione di una economia morale ideologicamente appiattita sul neoliberismo.

 

Una economia morale che – in modo implicito – è interessata a costruire certi elenchi di beni immateriali piuttosto che altri scegliendo in base alle convenienze mercantili.

 

Queste obiezioni – che possono e in molti casi devono essere condivise – hanno riaperto le discussioni sul concetto e la definizione di cultura che sembravano sopite dopo la seconda guerra mondiale, discussioni che si sono allargate anche alla definizione di società e di comunità.

 

Sulla scia di queste problematiche sta avanzando un nuovo concetto, quello dei diritti culturali e delle relative rivendicazioni che in qualche modo vengono a completare il capitolo degli studi coloniali nell’ambito dei cultural studies.

 

Un’ultima osservazione estremamente attuale, la difesa dei patrimoni culturali, materiali e immateriali, non deve assolutamente scontrarsi con le diversità migranti né cercare di sussumerle ma, di contro, deve favorire il loro diritto alla differenza.    

 

In questo senso è interessante il fatto che negli Stati Uniti i segni di appartenenza a una comunità sono spesso esibiti con orgoglio e protetti, perché se è vero, come scriveva John Dewey, che la democrazie costituzionale è una community of communities, manifestare i segni visibili di appartenenza definisce la modernità e garantisce la democrazia.    

 

 

 

 

NO-EXPO

NO-EXPO.

Il testo che segue è la traccia – ritirata per incomprensioni…”cognitive” – di un intervento per il seminario sull’Estetiche del Gusto e Culture dei Sensi che si è tenuto il 27 marzo scorso in Bicocca a Milano.  

Botticelli - Nastagio degli Onesti

Botticelli – Nastagio degli Onesti

 

La narrazione racconta di un banchetto in una pineta ravennate, ma qualcosa ci distrae da questa cosmografia.  Oltre l’attimo fuggente di una tavola che si rovescia, c’è l’architettura del sintomo che attraversa il paesaggio come nodo di significati, che fa dei festoni di frutta e foglie, degli stemmi, degl’alberi tagliati, delle suppellettili e dei pani, cornici e ornamenti del rimosso. 

Nonostante la maestria di Sandro Botticelli non ci faremo ingannare dall’origine pittorica di questo paesaggio di pittura, né dalla sua composizione evenemenziale, perché l’Ereignis non scalfisce nessuna delle due tavole che la precedono e neppure quella del lieto fine catastrofico che la segue.  Soprattutto, non scolora la teatralità picaresca del dramma in atto che giunge a compimento solo per essere denegato.  Da tempo, infatti, con le arti della politica, abbiamo appreso che è beneducato chiedere prima alla vittima se è d’accordo nell’accettare il suo destino.  Infine, i morsi dei cani sulle gambe di Monna de’ Traversari, avendo conosciuto le fantasie cannibaliche della signora de Rênal per il suo bel Julien Sorel, di questi sorridiamo.  Non è il caso, dunque, di infilarci nelle braghe di Nastagio degli Onesti e della sua perversione, la Traversari non è l’oggetto di nessuna identificazione simbolica perché non dobbiamo disfarci del peso di nessuna domanda. 

In questione, per il narrante, sono solo le metamorfosi della convivialità.

Gianni-Emilio Simonetti. 

 

Beati i sazi, perché possiedono

l’orgoglio della loro ignoranza.

Bernard Rosenthal.

 

Dove sono nascoste nella convivialità le fondamenta del sintomo?  Nella forma di nutrimento che porta con sé l’in-lusio di affondare nelle immagini.  Lo sanno bene i due soggetti che ci guidano nel comprendere ciò che, annidandosi nel Simbolico, è forcluso dal Reale: la fame.  Due soggetti apicali, l’uomo di Cro-Magnon e il neonato, per i quali – rispettivamente – la rappresentazione è ciò che trasforma la condizione esistenziale dell’esserci: il ripudio dell’incesto e il passaggio alla cottura.

Due tabù che per altro si sono arenati, uno nell’ipocrisia borghese dell’Ottocento, l’altro dentro i regimi alimentari penitenziali della modernità.

In ogni modo, per portare alla luce queste fondamenta occorrerà scavare là dove dovrebbe trovarsi la cornice dell’ordine socio-simbolico attraverso la quale si staglia il fantasma della fame, come visione di una società in cui davvero questa fame alligna per essere rimossa, se non fosse che l’esistenza della sua rappresentazione è per quest’ordine la condizione del suo fallimento.

Il pretesto per queste baiuche di cultura materiale o di scienza del ventre è a ridosso delle celebrazioni di un avvenimento da niente, che qualcuno chiama esposizione universale.

La sociabilité mondaine non ci ha mai emozionato: le fantasie di nutrire il pianeta sono un mezzo che l’ideologia dei saziati ha di tenere conto in anticipo delle proprie agghiaccianti insolvenze.

Come ha rilevato a suo tempo l’analisi freudiana, appartiene alla grammatica della nevrosi sociale – il prodotto di un ordine politico criminale – vedere se stessa come l’attore che recita un ruolo per l’altro.

Più semplicemente, l’identificazione immaginaria dei liberalismi – nella forma di complessi finanziari-economici-industriali-militari – è un essere per l’altro affinché l’Altro – l’oggetto del bisogno – si convinca che questo essere per l’altro dei liberalismi è un essere per lui.

Il segreto dell’ordine spettacolare risiede nella banalità delle sue routine o, più chiaramente, la socialità ha ancora molto da imparare dalle api.

Così dicendo nella produzione entropica della modernità, lo spettacolo – come sovrastruttura simbolica dell’alienazione – ritorna agli individui come un miscelatore dei fatti sociali in cui, nella fattispecie, politica e gourmandise sono complici dello stesso orrore.

Ricomponendo il problema da un’altra angolazione appare chiaro come l’apparente abbondanza mercantile riproduca l’altra faccia del sintomo per l’irrefutabile motivo che la fame è sul serio un buco (trou) nella struttura sociale del significante che implica la reiezione della sazietà.

 

Torniamo al neonato.  Nella rappresentazione c’è sempre un contenimento del sintomo, o più precisamente di ciò che in esso non è innocente.  In termini funzionali il neonato scopre l’importanza delle immagini nel momento in cui accetta il fantasma della jouissance che lo accompagna nella suzione.

In questo modo, emancipato da tale esperienza il neonato (e più tardi l’adulto: l’uomo lo trovi nel suo menu) tenterà in ogni occasione di fabbricare delle “immagini materiali” che gli permettano di rivivere questo momento primario anche a dispetto dello scivolamento metonimico a cui lo induce la scoperta della genitalità.

Varcando i limiti del paradigma ontogenetico è la stessa pulsione che mosse l’uomo di Cro-Magnon alla scoperta della pittura parietale.  Non è per caso che queste pitture in genere non sono mai all’ingresso delle caverne, ma sul fondo, nel buio, dove si restringono.  Dove l’utero della madonna lactans gocciola e lo protegge “con le sue ragnatele di significati che egli stesso ha tessuto” (Max Weber).

Dentro un tale contesto, che altro significano i dispositivi d’immagine – dalla lanterna magica ai cristalli liquidi – se non dei congegni per mantenere l’illusione di “essere”, nonostante tutto, nelle immagini?  Di poter entrare nel gioco (in-lusio)?

Dove sta l’inganno?  Che con le immagini come con la madre/nutrice non abbiamo la pena di dover decidere, anzi possiamo farci trasportare da esse negli orti verdi dello slow-magic-food.

In questo teatro isterico la fame, come rappresentazione, balugina nella forma di un dispositivo che si offre all’Altro (all’affamato) come oggetto del suo desiderio.

Non possiamo che rassegnarci: l’amore nascosto nel nutrire l’Altro deve essere inteso nella sua dimensione di fondamentale inganno.

Per tornare al paesaggio di pittura di Botticelli, dentro questa ossessione affondano le ragioni sulle quali galleggia il rimosso, l’insostenibile lacuna lacaniana del “Che vuoi?” che qui identifichiamo con la trappola di nutrire il pianeta – l’oggetto-causa del desiderio – dell’esposizione universale.  “Che vuoi?” come un’apertura al desiderio dell’affamato, porgendogli noi stessi (gli appagati) l’oggetto di questo desiderio: una sazietà impossibile nelle sue forme politiche e infondata nelle intenzioni.

In questo labirinto la figura usurpata dalla fame è identica a quella dell’amore in Jacques Lacan: “Io sono ciò che a te manca…ti riempirò, ti completerò”…ti ingannerò.

Dunque: “Che vuoi?” dice il sazio all’affamato – dall’alto del suo carattere a-patico – di più della mia sazietà che ti offro per sfamarti?

Per chiarire questa fantasia dovremmo esplorare dove l’illusione ideologica organizza la realtà sociale, quel luogo in cui il sapere non sa veramente quello che fa, ma conosce intimamente la metafisica della merce.  Conosce quel capovolgimento per il quale il sensibile-concreto vale come forma fenomenica dell’astratto-universale (Karl Marx).

Non è per caso che la divorazione invera il meccanismo libidinale delle “carni”, nella loro duplice accezione di viande e chair, di spreco e pentimento.  Di contro, il pane che si mangia fa della fame un prodotto sociale senza proprietà.  Nella nobile Ninive con le acque del Tigri e i grani coltivati tra le palme da dattero e le steppe erbose si confezionavano in epoca Uruk – come testimonia una tavoletta in caratteri cuneiformi – più di duecento varietà di pani lievitati e azimi, usando grani buoni anche per le bouillies (šipku), brode spesso nere, come saranno quelle di Sparta, dai poteri divinatori.  Se poi l’identità delle parole, come scrisse Ferdinand de Saussure, tradisce il rapporto tra le cose, in accadico Akälu significa mangiare e Akalu è il pane: la differenza è affidata a un piccolo segno diacritico.  Un segno che fa la differenza perché i cereali, ancora oggi, basterebbero agli affamati umani se non dovessimo provvedere alla fame del bestiame artificialmente prodotto e a quella delle tecnologie.

Lo Zea Mays “detournato”, oggi fabbricato con costi energetici e d’inquinamento incontrollabili, è diventato la materia prima per la produzione di carogne allo scopo di alimentazione, il consumo delle quali si è quintuplicato nel corso di queste ultime generazioni, le stesse che ci separano dalla profezia di Isidore Ducasse, Comte de Lautréamont:  Toute l’eau de la mer ne suffirait pas à laver une tache de sang intellectuelle.                

Su questa divorazione si condensa oggi l’economia libidinale dello spettacolo integrato, attingendone il suo osceno significato sullo sfondo dell’insopportabile pretesa del bisogno proletario illuso dai precepta contra famem.

Osceno perché trasforma in una ferale burocrazia ciò che restando nella fantasia consentiva perlomeno l’identificazione dell’appetito con un sinthome.

I popoli vestiti mangiano un terzo di più di cibo dei popoli nudi e sono ossessionati dalla sessualità in un contesto culturale in cui cibo e sesso sono veicoli connettivi portatori di numerosi processi di perversione, sublimazione e sedazione.
La fame, si sa, precipita gli aminoacidi e sopisce le coscienze, fa sperimentare l’immane sforzo di reggersi in piedi che fu la conquista del Pan Sapiens.

Tuttavia il paradigma del cibo e delle sue tecniche è lo stesso della fame.  L’uno non esisterebbe senza l’altra.  Da questo punto di vista il processo di estetizzazione degli atti alimentari nasconde la piega oscura della pulsione trofica – o, se si preferisce, fagica – il rinchiudersi della specie in uno spazio e in un tempo senza una prospettiva storica.
Per questo, la fame isolata dalla sazietà è, in sé, un tema ancora più stolto, che si arena in truismi altruistici dagli effetti catastrofici.
In altre stagioni, quelle del sogno della grascia, quando la lesina si batteva con l’abbondanza, il mondo alla rovescia irrideva il mercantilismo e le sue leggi, sapeva – con la saggezza dello stomaco vuoto – che queste leggi non erano vere, ma solo necessarie all’iniquità.  Che la loro autorità era senza verità.  Che il sapere – prigioniero delle sue stesse strutture – non sarebbe mai stato un sapore, tutt’al più un’ideologia degli stupori gastronomici che muta in visione il miraggio della sazietà, apparecchiandola nell’immaginario per coloro che non sanno rinunciare al sogno del paese di Berlinzone, per tornare al Decamerone di Giovanni Boccaccio o, più realisticamente, coltivano il ritorno alla Canaan del paese di Cuccagna, retto dalla dea Abondia.

BauBau.  Raddoppiando l’acronimo il babish rivela l’arcano.  Da quando il business è ordinaria amministrazione la terra non sopporta più i saziati, anche se i delitti antropogenici restano impuniti, e la biodiversità, con un eufemismo, è seriamente minacciata e la terra avvelenata.

Da qualche tempo gira nella “ragnatela mondiale” il testamento di un rivoluzionario delle minestre.  Un verme, come si definisce. È Justus von Liebig.  Ecco quello che scrive:  L’arte dell’agricoltura si perderà per colpa di insegnanti ignoranti e miopi…confesso volentieri che l’impiego dei concimi chimici era fondato su supposizioni che non esistono  nella realtà…l’opinione che le piante potessero trarre il loro nutrimento da una soluzione formata con l’acqua piovana è sbagliata e assurda.  Possiamo solo aggiungere che un tempo le menzogne si organizzavano come ragione di

Stato, oggi come esigenze di mercato.

I prodotti alimentari recuperati dalle carogne animali sono responsabili per un quarto circa dell’impatto ambientale cumulativo esercitato sul mercato europeo.

 

Nutrire il pianeta mezzo secolo dopo “i limiti dello sviluppo” (Aurelio Peccei) è un paradosso linguistico, una forma di alienazione nel significante che protegge l’economia famelica dalla sua anamorfosi.  Il desiderio (dei saziati) è sempre desiderio di un desiderio: che non muoia la fame.

Solo fallendo il progetto di sfamare il pianeta la rappresentazione della penuria sopravvive come sintomo e fa scomparire il segreto inconfessabile dell’ingordigia, di dover essere precipitosa quanto la fame è devastante.

In termini funzionali, che cos’è il sintomo se non un congegno ermeneutico che consente di tradurre in avvenimento sociale le sceneggiature del teatro gourmand?

Il punto di approdo dell’inganno è questo: le condotte alimentari dipendono sempre meno dalle norme culturali e sempre più dalla domesticazione mediatica.  Esse tendono a scollarsi dalle abitudini locali e regionali vissute, come dai ricordi d’infanzia, per mutarsi in ideologie nostalgiche che hanno le loro liturgie e i loro chierici.
Come è facile constatare gli atti alimentari, soprattutto dopo l’invenzione della “nuova cucina”, tendono ad apparire un artefatto visuale sotto il quale la società dello spettacolo nasconde il bastone della domesticazione sociale.  In questo senso l’interessata importanza accordata a questi atti, anche a dispetto della loro matrice materiale, corre parallela a un’importante constatazione di natura socio-economica specifica del terziario avanzato, per la quale le funzioni cerimoniali degli alimenti, privilegiate dall’avanzare di una visual culture, sono più importanti del loro valore nutritivo, a dispetto della fame che spinge quotidianamente verso l’inedia i diseredati del mondo.

Questa visual culture, figlia dei cultural study inglesi, è un concetto più sofisticato di quanto non appaia, il cui fine – sconfiggere il materialismo storico-dialettico – è, da un punto di vista accademico evidente, mentre quello politico è costantemente in ombra.  Consiste nel rieducare, in regime di monopolio, la dimensione socioculturale e simbolica di ciò che sfugge alle dòxai, o se si preferisce alla servitù volontaria.

La scena alimentare di massa – un tempo abbecedario della dépense – è così divenuta il topos di una sedicente convivialità che, attraverso la visual culture dei new-media, offre agli affamati la realizzazione di quella socialità che i barricadieri del ’48, rovesciando le tavole apparecchiate, chiamavano il sogno di una cosa.

Questo cantiere entropico della neo-alienazione, saziato con l’ipocrisia dei capitali transnazionali, è determinato a riscrivere il paradigma materiale degli atti alimentari, affievolendo i processi cognitivi che fanno di questi atti una storia culturale e una pratica sociale che l’utopia celebrava nell’Abbaye de Thélème.

Per farlo, la visual culture favorisce, attraverso lo star system, il maturare di analogie deboli e effimere che si istallano nei meccanismi inconsci della domesticazione alimentare e nelle pulsioni regressive della gola, in genere associate a un behaviorismo forse più rozzo che sadico.

 

BauBau, voce onomatopeica.  Scrive l’enciclopedia Treccani: “Mostro immaginario che si nomina per far paura ai bambini”.  BauBau: Business as usual.  Ogni anno il dispendio si aggira intorno ai settecento miliardi di euro.  Tradotto in cibo, più di un miliardo e quattrocento milioni di tonnellate di derrate.  Abbastanza per far felici i sedicenti eredi di Purgatorius, quelli che manovrano – dietro i complessi finanziari-economici-industriali-militari – la desolidarietà sociale.  Del resto tutto si tiene.  I doni ereditati dal Mus Mus sono due, la sessualità e la fame, due appetiti che rinascono dalle loro ceneri.  In altre parole.  All’affamato il solo luogo che gli pertiene è la forma del sogno in un letto di letame, come avevano i paysans de Languedoc di Le Roy Ladurie.  Per la sua letargia si procede come con i pesci, accarezzandoli sulla pancia e afferrandoli per le branchie.

Lo sapeva anche Bertoldo, è l’ingordigia degli avari il mare che non s’empie mai.  Il cibo che oggi produciamo ridistribuito in modo razionale secondo la cartografia dei bisogni sarebbe, ancora per molto, sufficiente.  Ciò non toglie che resti un problema irrisolvibile.  Questa “ri-distribuzione” dovrebbe avvenire coniugandosi in una topica, che avendolo trasformato in un fatto culturale e sociale totale, non può staccarlo da sé e dal suo destino di spreco, temendo per contrappasso la tragica maestà della dépense.
L’apologia del mondo rustico in questo contesto è un grossolano alibi in difesa dello status-quo della vera fame e non solo, legittima l’utopia di pensare che i patrimoni agro-alimentari locali si armonizzino tra di essi per sostenere la loro causa globale invece che le ragioni dell’egoismo.
In ogni modo, se la tecnica è un indice, basterebbe confrontare i pochi e rozzi utensili di ieri con i congegni di oggi per cogliere non solo la differenza delle procedure, ma anche, scrive André Leroi-Gurhan, quella di senso.
L’abbondanza, del resto, possiede una complessità che gli affamati non hanno mai capito.

Bye Bye Běijīng.  Con Brillat-Savarin una nuova convivialità, odorosa di ipocrisie, entrò nei salotti borghesi, mostrando il suo volto feroce e carognardo.  Questo modesto e reazionario magistrato di provincia, che si credeva Michel de Mointagne, farà di meglio, insegnerà a una classe in nuce a godere dei suoi sintomi.  Con l’astuzia dei modesti burocrati aveva capito come in cucina le technai governano le mitografie e conferiscono un valore trascendentale al gusto.  Che nella segreta economia dell’avidità la cucina era divenuta un paradigma identificativo della cultura.  Poi la convivialità diverrà performance, la cui essenza è per intero contenuta in un Big Mac.  Arriverà il deserto, nonostante i miliardi di alberi piantati e morti.  Una guerra perduta insieme al sogno primigènio delle api, che con Purgatorius sognarono un “foodlandscape” a loro gusto e misura, diversamente dalla performance dove il sapore è condito dall’ignoranza.

L’argomento della convivialità merita un piccolo detour.  Quella borghese, lungi dall’imitare il banchetto aristocratico, sperava di esorcizzare la tavola dei libertini e lo stile con cui l’oralità invocava la voluttà sessuale, come quella di certe ostriche senza scaglie di cui Casanova vantava la qualità sepolta in certi conventi veneziani.

Un’altra cosa ancora è la socialité gallant di cui parlano gli autori di Marie-Antoinette Cailleau detta “la Veuve-Duchesne” con bottega al Temple du Goût in rue Saint-Jacques o il Zusammen sein  di cui ragiona Ferdinand Tönnies quando distingue la Gemeinschaft dalla Gesellschaft.

Così come è ben altro la comunità politica (politischen Gemeinwesen) dei banchetti politici inaugurati dal riformismo francese e giacobino.

 

Nutrire il pianeta, chi ci salverà?  Ha scritto Günther Anders: “Gl’affamati sono proprio quelli che non riescono più ad opporre alcuna resistenza al terrore di venir ingozzati”.  Ingozzati come le oche nella guascona Mecca del foie gras, Samatan dans le Gers.  Qui, il feticismo che innerva la convivialità mostra il suo volto peggiore sotto la forma dei rapporti sociali tra le cose (Karl Marx).  Da tempo lo spettacolo integrato non prevede più che l’ideologia dominante sia presa sul serio.  Nutrire il pianeta, mettendo la moralità al servizio dell’immoralità, è un contare sull’evidenza della verità come la più convincente delle menzogne.  Una verità estetizzata e artificata, dunque anestetica.  La carità, ha scritto Walter Benjamin, è sempre annodata alla cattiva coscienza sociale.

 

Dopo che Jacob Burckardt dimostrò che attraverso la manipolazione del potere è possibile trasformare la forma di Stato in opera d’arte, è legittimo applicare il metodo dell’analisi artistica alla valutazione critica della società (Marshall McLuhan).  L’arte nel secolo dell’informazione ha acquisito di fatto un valore performativo che agisce sulla realtà sociale, la educa e la manipola.  Così la forma di convivio, che assomiglia sempre di più a una performance emulativa dello star system, può esercitare il proprio perverso fascino nella misura in cui è vissuta, nell’economia inconscia del commensale, come la mise-en-scène di una liturgia che ha nello spreco la sua metafisica e nella redistribuzione degli avanzi la sua mortificazione. 

I performer – prigionieri di un supposto sapere – anche se misconoscono le ragioni della fame che dilaga nel mondo, condividono ciò che la struttura come un evento sociale.  Sanno benissimo come vanno le cose, ma sono indotti a fingere di ignorarlo per non doversi risvegliare alla realtà.  In questo senso le facili adesioni dottrinarie al tema di nutrire il pianeta rappresentano un tentativo di svegliarsi per sfuggire alla trappola del proprio realismo onirico.  Una mise en abyme per non dover ammettere che la fame è una divisione sociale traumatica che non può più essere simbolizzata.  Da qui l’invenzione di un’ideologia salvifica, condivisa dai grandi cartelli e dai brand dell’agroalimentare, che si autoproclama capace di nutrire l’affamato grazie alle politiche della sazietà.  Il suo obiettivo segreto non è quello di offrirci un punto di fuga dall’abiezione, ma la realtà sociale stessa come fuga da un insopportabile nuovo ordine economico.  In questi termini l’artificazione è una forma di cecità visuale che avanza sulle tavole della convivialità, che fa del performer il soggetto di un sintomo isterico, colui che non vede la vacuità di ogni rapporto sociale suggeritogli dallo star system per il quale perfino le fantasticherie sono meglio, se non altro perché, come suggerisce Immanuel Kant l’impensabile anche se tocca la verità non se ne accorge.
In altre parole l
’oscurantismo visuale relega la jouissance nello sgabuzzino del gusto intanto che nelle rogge del vicino idroscalo di Milano il pesce gatto se la ride, lui che ha tre volte più papille gustative dell’uomo distribuite su tutto il corpo, che nuota – mi sia consentito di ricordarlo con i versi di un poeta di quella che fu detta la linea d’ombra, Luciano Erba, “tra la verzura dei fossi, dove gialli sono i fiori degli ireos e come spade le foglie tagliano fresche correnti sotto l’ombra dei salici”.

 

La performance, che s’invera nell’artificazione, si è progressivamente impadronita degli atti alimentari con il moltiplicarsi retorico delle analogie visuali nelle quali è evidente una certa complicità semiotica destinata a addolcire la brutalità dell’ingordigia con una giostra di eufemismi ricchi di iperbole, metafore, metonimie e perfino di ellissi.

Come dire, grazie a queste brouillage syntaxique la forma produce valore e tanto meglio se inganna la fame degl’altri con i suoi trompe-l’oeil e i suoi enigmi iperrealisti.

Al culmine del processo di artificazione – nella pratica della ristorazione – c’è poi l’algida cerimonia dell’allestimento del cibo o, meglio, del dressage del campo semantico del piatto, come se fosse un’opera d’arte.  Vale a dire il food si “cucina” e poi si “struttura” cercando di coniugare nel teatro dell’arte gourmand la sensibilità estetica dominante con le aspettative di unicità, rarità, preziosità.  Per la piccola storia è un teatro che affonda le sue radici moderne nella decade dell’illusione, tra le due guerre mondiali, capace di mettere in scena la sostanza del desiderio dentro la forma letteraria dei simboli, come nel caso di quella giovinetta svizzera circuita dai surrealisti, Meret Oppenheim, servita in tavola ai suoi scapoli immaginari o come nel “cannibalismo” dei futuristi o di certo cinema americano.

Un teatro costruito sul modello dei salon des beaux-arts che per nutrire il pianeta si traveste  – nella sua prossima performance – nella forma ossimora di un orto globale, all’insegna di un’improbabile Gestaltung narrativa, costruita su una serie campionaria di scene predicative per percorrere, vedere, scoprire, assaggiare, ma non per sapere.

Nonostante tutto, l’economia della natura non è quella dei performer, le meduse – questo ritorno del rimosso, non per caso sono uno degli animali più antichi e perfetti – avanzano in un mare dove siamo rimasti cacciatori-raccoglitori.  Dappertutto si moltiplicano i rifugiati alimentari insieme a quelli climatici, bocche migranti in attesa di improbabili melting pot e ancora più improbabili olle.

Dentro questo scenario qualcuno vede profilarsi un nuovo paradigma della convivialità.

È la resilienza alimentare degli affamati che voltano le spalle ai mercati alimentari ortodossi e si misurano con la capacità sociale e ambientale di opporsi alle chimere dei saziati, di mettere in luce l’oscenità delle grandezze numerarie degli indicatori economici e del loro impatto sul GHI (Global Hunger Index).  Questa resilienza è alla radice una sfida al primato dell’imperativo categorico e alla sua autorità incondizionata e falsa, che ritroviamo nelle ideologie politiche e nel folclore religioso di cui costituisce il presupposto normativo.  Se mettiamo a confronto questo imperativo con la patologia delle norme sociali della forma di capitale è facile costatare che strutturano un campo di realtà sociale in cui domina un’ingiunzione impossibile: Du kannst, denn du sollst! (Puoi perché devi!).  Non per caso le norme sociali dei sazi pacificano l’egoismo e regolano l’omeostasi sociale.

 

Nel tempo di questo intervento – venti minuti – siamo cresciuti di circa diecimila individui, molti moriranno d’inedia a partire dai prossimi giorni, novecento di loro – stando così le cose – si aggiungeranno ai novecento milioni ridotti alla mera sopravvivenza materiale e ai due miliardi – lo afferma la FAO – privi di vitamine e minerali essenziali alla salute  .

 

(Febbraio 2015)