NO-EXPO.
Il testo che segue è la traccia – ritirata per incomprensioni…”cognitive” – di un intervento per il seminario sull’Estetiche del Gusto e Culture dei Sensi che si è tenuto il 27 marzo scorso in Bicocca a Milano.

Botticelli – Nastagio degli Onesti
La narrazione racconta di un banchetto in una pineta ravennate, ma qualcosa ci distrae da questa cosmografia. Oltre l’attimo fuggente di una tavola che si rovescia, c’è l’architettura del sintomo che attraversa il paesaggio come nodo di significati, che fa dei festoni di frutta e foglie, degli stemmi, degl’alberi tagliati, delle suppellettili e dei pani, cornici e ornamenti del rimosso.
Nonostante la maestria di Sandro Botticelli non ci faremo ingannare dall’origine pittorica di questo paesaggio di pittura, né dalla sua composizione evenemenziale, perché l’Ereignis non scalfisce nessuna delle due tavole che la precedono e neppure quella del lieto fine catastrofico che la segue. Soprattutto, non scolora la teatralità picaresca del dramma in atto che giunge a compimento solo per essere denegato. Da tempo, infatti, con le arti della politica, abbiamo appreso che è beneducato chiedere prima alla vittima se è d’accordo nell’accettare il suo destino. Infine, i morsi dei cani sulle gambe di Monna de’ Traversari, avendo conosciuto le fantasie cannibaliche della signora de Rênal per il suo bel Julien Sorel, di questi sorridiamo. Non è il caso, dunque, di infilarci nelle braghe di Nastagio degli Onesti e della sua perversione, la Traversari non è l’oggetto di nessuna identificazione simbolica perché non dobbiamo disfarci del peso di nessuna domanda.
In questione, per il narrante, sono solo le metamorfosi della convivialità.
Gianni-Emilio Simonetti.
Beati i sazi, perché possiedono
l’orgoglio della loro ignoranza.
Bernard Rosenthal.
Dove sono nascoste nella convivialità le fondamenta del sintomo? Nella forma di nutrimento che porta con sé l’in-lusio di affondare nelle immagini. Lo sanno bene i due soggetti che ci guidano nel comprendere ciò che, annidandosi nel Simbolico, è forcluso dal Reale: la fame. Due soggetti apicali, l’uomo di Cro-Magnon e il neonato, per i quali – rispettivamente – la rappresentazione è ciò che trasforma la condizione esistenziale dell’esserci: il ripudio dell’incesto e il passaggio alla cottura.
Due tabù che per altro si sono arenati, uno nell’ipocrisia borghese dell’Ottocento, l’altro dentro i regimi alimentari penitenziali della modernità.
In ogni modo, per portare alla luce queste fondamenta occorrerà scavare là dove dovrebbe trovarsi la cornice dell’ordine socio-simbolico attraverso la quale si staglia il fantasma della fame, come visione di una società in cui davvero questa fame alligna per essere rimossa, se non fosse che l’esistenza della sua rappresentazione è per quest’ordine la condizione del suo fallimento.
Il pretesto per queste baiuche di cultura materiale o di scienza del ventre è a ridosso delle celebrazioni di un avvenimento da niente, che qualcuno chiama esposizione universale.
La sociabilité mondaine non ci ha mai emozionato: le fantasie di nutrire il pianeta sono un mezzo che l’ideologia dei saziati ha di tenere conto in anticipo delle proprie agghiaccianti insolvenze.
Come ha rilevato a suo tempo l’analisi freudiana, appartiene alla grammatica della nevrosi sociale – il prodotto di un ordine politico criminale – vedere se stessa come l’attore che recita un ruolo per l’altro.
Più semplicemente, l’identificazione immaginaria dei liberalismi – nella forma di complessi finanziari-economici-industriali-militari – è un essere per l’altro affinché l’Altro – l’oggetto del bisogno – si convinca che questo essere per l’altro dei liberalismi è un essere per lui.
Il segreto dell’ordine spettacolare risiede nella banalità delle sue routine o, più chiaramente, la socialità ha ancora molto da imparare dalle api.
Così dicendo nella produzione entropica della modernità, lo spettacolo – come sovrastruttura simbolica dell’alienazione – ritorna agli individui come un miscelatore dei fatti sociali in cui, nella fattispecie, politica e gourmandise sono complici dello stesso orrore.
Ricomponendo il problema da un’altra angolazione appare chiaro come l’apparente abbondanza mercantile riproduca l’altra faccia del sintomo per l’irrefutabile motivo che la fame è sul serio un buco (trou) nella struttura sociale del significante che implica la reiezione della sazietà.
Torniamo al neonato. Nella rappresentazione c’è sempre un contenimento del sintomo, o più precisamente di ciò che in esso non è innocente. In termini funzionali il neonato scopre l’importanza delle immagini nel momento in cui accetta il fantasma della jouissance che lo accompagna nella suzione.
In questo modo, emancipato da tale esperienza il neonato (e più tardi l’adulto: l’uomo lo trovi nel suo menu) tenterà in ogni occasione di fabbricare delle “immagini materiali” che gli permettano di rivivere questo momento primario anche a dispetto dello scivolamento metonimico a cui lo induce la scoperta della genitalità.
Varcando i limiti del paradigma ontogenetico è la stessa pulsione che mosse l’uomo di Cro-Magnon alla scoperta della pittura parietale. Non è per caso che queste pitture in genere non sono mai all’ingresso delle caverne, ma sul fondo, nel buio, dove si restringono. Dove l’utero della madonna lactans gocciola e lo protegge “con le sue ragnatele di significati che egli stesso ha tessuto” (Max Weber).
Dentro un tale contesto, che altro significano i dispositivi d’immagine – dalla lanterna magica ai cristalli liquidi – se non dei congegni per mantenere l’illusione di “essere”, nonostante tutto, nelle immagini? Di poter entrare nel gioco (in-lusio)?
Dove sta l’inganno? Che con le immagini come con la madre/nutrice non abbiamo la pena di dover decidere, anzi possiamo farci trasportare da esse negli orti verdi dello slow-magic-food.
In questo teatro isterico la fame, come rappresentazione, balugina nella forma di un dispositivo che si offre all’Altro (all’affamato) come oggetto del suo desiderio.
Non possiamo che rassegnarci: l’amore nascosto nel nutrire l’Altro deve essere inteso nella sua dimensione di fondamentale inganno.
Per tornare al paesaggio di pittura di Botticelli, dentro questa ossessione affondano le ragioni sulle quali galleggia il rimosso, l’insostenibile lacuna lacaniana del “Che vuoi?” che qui identifichiamo con la trappola di nutrire il pianeta – l’oggetto-causa del desiderio – dell’esposizione universale. “Che vuoi?” come un’apertura al desiderio dell’affamato, porgendogli noi stessi (gli appagati) l’oggetto di questo desiderio: una sazietà impossibile nelle sue forme politiche e infondata nelle intenzioni.
In questo labirinto la figura usurpata dalla fame è identica a quella dell’amore in Jacques Lacan: “Io sono ciò che a te manca…ti riempirò, ti completerò”…ti ingannerò.
Dunque: “Che vuoi?” dice il sazio all’affamato – dall’alto del suo carattere a-patico – di più della mia sazietà che ti offro per sfamarti?
Per chiarire questa fantasia dovremmo esplorare dove l’illusione ideologica organizza la realtà sociale, quel luogo in cui il sapere non sa veramente quello che fa, ma conosce intimamente la metafisica della merce. Conosce quel capovolgimento per il quale il sensibile-concreto vale come forma fenomenica dell’astratto-universale (Karl Marx).
Non è per caso che la divorazione invera il meccanismo libidinale delle “carni”, nella loro duplice accezione di viande e chair, di spreco e pentimento. Di contro, il pane che si mangia fa della fame un prodotto sociale senza proprietà. Nella nobile Ninive con le acque del Tigri e i grani coltivati tra le palme da dattero e le steppe erbose si confezionavano in epoca Uruk – come testimonia una tavoletta in caratteri cuneiformi – più di duecento varietà di pani lievitati e azimi, usando grani buoni anche per le bouillies (šipku), brode spesso nere, come saranno quelle di Sparta, dai poteri divinatori. Se poi l’identità delle parole, come scrisse Ferdinand de Saussure, tradisce il rapporto tra le cose, in accadico Akälu significa mangiare e Akalu è il pane: la differenza è affidata a un piccolo segno diacritico. Un segno che fa la differenza perché i cereali, ancora oggi, basterebbero agli affamati umani se non dovessimo provvedere alla fame del bestiame artificialmente prodotto e a quella delle tecnologie.
Lo Zea Mays “detournato”, oggi fabbricato con costi energetici e d’inquinamento incontrollabili, è diventato la materia prima per la produzione di carogne allo scopo di alimentazione, il consumo delle quali si è quintuplicato nel corso di queste ultime generazioni, le stesse che ci separano dalla profezia di Isidore Ducasse, Comte de Lautréamont: Toute l’eau de la mer ne suffirait pas à laver une tache de sang intellectuelle.
Su questa divorazione si condensa oggi l’economia libidinale dello spettacolo integrato, attingendone il suo osceno significato sullo sfondo dell’insopportabile pretesa del bisogno proletario illuso dai precepta contra famem.
Osceno perché trasforma in una ferale burocrazia ciò che restando nella fantasia consentiva perlomeno l’identificazione dell’appetito con un sinthome.
I popoli vestiti mangiano un terzo di più di cibo dei popoli nudi e sono ossessionati dalla sessualità in un contesto culturale in cui cibo e sesso sono veicoli connettivi portatori di numerosi processi di perversione, sublimazione e sedazione.
La fame, si sa, precipita gli aminoacidi e sopisce le coscienze, fa sperimentare l’immane sforzo di reggersi in piedi che fu la conquista del Pan Sapiens.
Tuttavia il paradigma del cibo e delle sue tecniche è lo stesso della fame. L’uno non esisterebbe senza l’altra. Da questo punto di vista il processo di estetizzazione degli atti alimentari nasconde la piega oscura della pulsione trofica – o, se si preferisce, fagica – il rinchiudersi della specie in uno spazio e in un tempo senza una prospettiva storica.
Per questo, la fame isolata dalla sazietà è, in sé, un tema ancora più stolto, che si arena in truismi altruistici dagli effetti catastrofici.
In altre stagioni, quelle del sogno della grascia, quando la lesina si batteva con l’abbondanza, il mondo alla rovescia irrideva il mercantilismo e le sue leggi, sapeva – con la saggezza dello stomaco vuoto – che queste leggi non erano vere, ma solo necessarie all’iniquità. Che la loro autorità era senza verità. Che il sapere – prigioniero delle sue stesse strutture – non sarebbe mai stato un sapore, tutt’al più un’ideologia degli stupori gastronomici che muta in visione il miraggio della sazietà, apparecchiandola nell’immaginario per coloro che non sanno rinunciare al sogno del paese di Berlinzone, per tornare al Decamerone di Giovanni Boccaccio o, più realisticamente, coltivano il ritorno alla Canaan del paese di Cuccagna, retto dalla dea Abondia.
BauBau. Raddoppiando l’acronimo il babish rivela l’arcano. Da quando il business è ordinaria amministrazione la terra non sopporta più i saziati, anche se i delitti antropogenici restano impuniti, e la biodiversità, con un eufemismo, è seriamente minacciata e la terra avvelenata.
Da qualche tempo gira nella “ragnatela mondiale” il testamento di un rivoluzionario delle minestre. Un verme, come si definisce. È Justus von Liebig. Ecco quello che scrive: L’arte dell’agricoltura si perderà per colpa di insegnanti ignoranti e miopi…confesso volentieri che l’impiego dei concimi chimici era fondato su supposizioni che non esistono nella realtà…l’opinione che le piante potessero trarre il loro nutrimento da una soluzione formata con l’acqua piovana è sbagliata e assurda. Possiamo solo aggiungere che un tempo le menzogne si organizzavano come ragione di
Stato, oggi come esigenze di mercato.
I prodotti alimentari recuperati dalle carogne animali sono responsabili per un quarto circa dell’impatto ambientale cumulativo esercitato sul mercato europeo.
Nutrire il pianeta mezzo secolo dopo “i limiti dello sviluppo” (Aurelio Peccei) è un paradosso linguistico, una forma di alienazione nel significante che protegge l’economia famelica dalla sua anamorfosi. Il desiderio (dei saziati) è sempre desiderio di un desiderio: che non muoia la fame.
Solo fallendo il progetto di sfamare il pianeta la rappresentazione della penuria sopravvive come sintomo e fa scomparire il segreto inconfessabile dell’ingordigia, di dover essere precipitosa quanto la fame è devastante.
In termini funzionali, che cos’è il sintomo se non un congegno ermeneutico che consente di tradurre in avvenimento sociale le sceneggiature del teatro gourmand?
Il punto di approdo dell’inganno è questo: le condotte alimentari dipendono sempre meno dalle norme culturali e sempre più dalla domesticazione mediatica. Esse tendono a scollarsi dalle abitudini locali e regionali vissute, come dai ricordi d’infanzia, per mutarsi in ideologie nostalgiche che hanno le loro liturgie e i loro chierici.
Come è facile constatare gli atti alimentari, soprattutto dopo l’invenzione della “nuova cucina”, tendono ad apparire un artefatto visuale sotto il quale la società dello spettacolo nasconde il bastone della domesticazione sociale. In questo senso l’interessata importanza accordata a questi atti, anche a dispetto della loro matrice materiale, corre parallela a un’importante constatazione di natura socio-economica specifica del terziario avanzato, per la quale le funzioni cerimoniali degli alimenti, privilegiate dall’avanzare di una visual culture, sono più importanti del loro valore nutritivo, a dispetto della fame che spinge quotidianamente verso l’inedia i diseredati del mondo.
Questa visual culture, figlia dei cultural study inglesi, è un concetto più sofisticato di quanto non appaia, il cui fine – sconfiggere il materialismo storico-dialettico – è, da un punto di vista accademico evidente, mentre quello politico è costantemente in ombra. Consiste nel rieducare, in regime di monopolio, la dimensione socioculturale e simbolica di ciò che sfugge alle dòxai, o se si preferisce alla servitù volontaria.
La scena alimentare di massa – un tempo abbecedario della dépense – è così divenuta il topos di una sedicente convivialità che, attraverso la visual culture dei new-media, offre agli affamati la realizzazione di quella socialità che i barricadieri del ’48, rovesciando le tavole apparecchiate, chiamavano il sogno di una cosa.
Questo cantiere entropico della neo-alienazione, saziato con l’ipocrisia dei capitali transnazionali, è determinato a riscrivere il paradigma materiale degli atti alimentari, affievolendo i processi cognitivi che fanno di questi atti una storia culturale e una pratica sociale che l’utopia celebrava nell’Abbaye de Thélème.
Per farlo, la visual culture favorisce, attraverso lo star system, il maturare di analogie deboli e effimere che si istallano nei meccanismi inconsci della domesticazione alimentare e nelle pulsioni regressive della gola, in genere associate a un behaviorismo forse più rozzo che sadico.
BauBau, voce onomatopeica. Scrive l’enciclopedia Treccani: “Mostro immaginario che si nomina per far paura ai bambini”. BauBau: Business as usual. Ogni anno il dispendio si aggira intorno ai settecento miliardi di euro. Tradotto in cibo, più di un miliardo e quattrocento milioni di tonnellate di derrate. Abbastanza per far felici i sedicenti eredi di Purgatorius, quelli che manovrano – dietro i complessi finanziari-economici-industriali-militari – la desolidarietà sociale. Del resto tutto si tiene. I doni ereditati dal Mus Mus sono due, la sessualità e la fame, due appetiti che rinascono dalle loro ceneri. In altre parole. All’affamato il solo luogo che gli pertiene è la forma del sogno in un letto di letame, come avevano i paysans de Languedoc di Le Roy Ladurie. Per la sua letargia si procede come con i pesci, accarezzandoli sulla pancia e afferrandoli per le branchie.
Lo sapeva anche Bertoldo, è l’ingordigia degli avari il mare che non s’empie mai. Il cibo che oggi produciamo ridistribuito in modo razionale secondo la cartografia dei bisogni sarebbe, ancora per molto, sufficiente. Ciò non toglie che resti un problema irrisolvibile. Questa “ri-distribuzione” dovrebbe avvenire coniugandosi in una topica, che avendolo trasformato in un fatto culturale e sociale totale, non può staccarlo da sé e dal suo destino di spreco, temendo per contrappasso la tragica maestà della dépense.
L’apologia del mondo rustico in questo contesto è un grossolano alibi in difesa dello status-quo della vera fame e non solo, legittima l’utopia di pensare che i patrimoni agro-alimentari locali si armonizzino tra di essi per sostenere la loro causa globale invece che le ragioni dell’egoismo.
In ogni modo, se la tecnica è un indice, basterebbe confrontare i pochi e rozzi utensili di ieri con i congegni di oggi per cogliere non solo la differenza delle procedure, ma anche, scrive André Leroi-Gurhan, quella di senso.
L’abbondanza, del resto, possiede una complessità che gli affamati non hanno mai capito.
Bye Bye Běijīng. Con Brillat-Savarin una nuova convivialità, odorosa di ipocrisie, entrò nei salotti borghesi, mostrando il suo volto feroce e carognardo. Questo modesto e reazionario magistrato di provincia, che si credeva Michel de Mointagne, farà di meglio, insegnerà a una classe in nuce a godere dei suoi sintomi. Con l’astuzia dei modesti burocrati aveva capito come in cucina le technai governano le mitografie e conferiscono un valore trascendentale al gusto. Che nella segreta economia dell’avidità la cucina era divenuta un paradigma identificativo della cultura. Poi la convivialità diverrà performance, la cui essenza è per intero contenuta in un Big Mac. Arriverà il deserto, nonostante i miliardi di alberi piantati e morti. Una guerra perduta insieme al sogno primigènio delle api, che con Purgatorius sognarono un “foodlandscape” a loro gusto e misura, diversamente dalla performance dove il sapore è condito dall’ignoranza.
L’argomento della convivialità merita un piccolo detour. Quella borghese, lungi dall’imitare il banchetto aristocratico, sperava di esorcizzare la tavola dei libertini e lo stile con cui l’oralità invocava la voluttà sessuale, come quella di certe ostriche senza scaglie di cui Casanova vantava la qualità sepolta in certi conventi veneziani.
Un’altra cosa ancora è la socialité gallant di cui parlano gli autori di Marie-Antoinette Cailleau detta “la Veuve-Duchesne” con bottega al Temple du Goût in rue Saint-Jacques o il Zusammen sein di cui ragiona Ferdinand Tönnies quando distingue la Gemeinschaft dalla Gesellschaft.
Così come è ben altro la comunità politica (politischen Gemeinwesen) dei banchetti politici inaugurati dal riformismo francese e giacobino.
Nutrire il pianeta, chi ci salverà? Ha scritto Günther Anders: “Gl’affamati sono proprio quelli che non riescono più ad opporre alcuna resistenza al terrore di venir ingozzati”. Ingozzati come le oche nella guascona Mecca del foie gras, Samatan dans le Gers. Qui, il feticismo che innerva la convivialità mostra il suo volto peggiore sotto la forma dei rapporti sociali tra le cose (Karl Marx). Da tempo lo spettacolo integrato non prevede più che l’ideologia dominante sia presa sul serio. Nutrire il pianeta, mettendo la moralità al servizio dell’immoralità, è un contare sull’evidenza della verità come la più convincente delle menzogne. Una verità estetizzata e artificata, dunque anestetica. La carità, ha scritto Walter Benjamin, è sempre annodata alla cattiva coscienza sociale.
Dopo che Jacob Burckardt dimostrò che attraverso la manipolazione del potere è possibile trasformare la forma di Stato in opera d’arte, è legittimo applicare il metodo dell’analisi artistica alla valutazione critica della società (Marshall McLuhan). L’arte nel secolo dell’informazione ha acquisito di fatto un valore performativo che agisce sulla realtà sociale, la educa e la manipola. Così la forma di convivio, che assomiglia sempre di più a una performance emulativa dello star system, può esercitare il proprio perverso fascino nella misura in cui è vissuta, nell’economia inconscia del commensale, come la mise-en-scène di una liturgia che ha nello spreco la sua metafisica e nella redistribuzione degli avanzi la sua mortificazione.
I performer – prigionieri di un supposto sapere – anche se misconoscono le ragioni della fame che dilaga nel mondo, condividono ciò che la struttura come un evento sociale. Sanno benissimo come vanno le cose, ma sono indotti a fingere di ignorarlo per non doversi risvegliare alla realtà. In questo senso le facili adesioni dottrinarie al tema di nutrire il pianeta rappresentano un tentativo di svegliarsi per sfuggire alla trappola del proprio realismo onirico. Una mise en abyme per non dover ammettere che la fame è una divisione sociale traumatica che non può più essere simbolizzata. Da qui l’invenzione di un’ideologia salvifica, condivisa dai grandi cartelli e dai brand dell’agroalimentare, che si autoproclama capace di nutrire l’affamato grazie alle politiche della sazietà. Il suo obiettivo segreto non è quello di offrirci un punto di fuga dall’abiezione, ma la realtà sociale stessa come fuga da un insopportabile nuovo ordine economico. In questi termini l’artificazione è una forma di cecità visuale che avanza sulle tavole della convivialità, che fa del performer il soggetto di un sintomo isterico, colui che non vede la vacuità di ogni rapporto sociale suggeritogli dallo star system per il quale perfino le fantasticherie sono meglio, se non altro perché, come suggerisce Immanuel Kant l’impensabile anche se tocca la verità non se ne accorge.
In altre parole l’oscurantismo visuale relega la jouissance nello sgabuzzino del gusto intanto che nelle rogge del vicino idroscalo di Milano il pesce gatto se la ride, lui che ha tre volte più papille gustative dell’uomo distribuite su tutto il corpo, che nuota – mi sia consentito di ricordarlo con i versi di un poeta di quella che fu detta la linea d’ombra, Luciano Erba, “tra la verzura dei fossi, dove gialli sono i fiori degli ireos e come spade le foglie tagliano fresche correnti sotto l’ombra dei salici”.
La performance, che s’invera nell’artificazione, si è progressivamente impadronita degli atti alimentari con il moltiplicarsi retorico delle analogie visuali nelle quali è evidente una certa complicità semiotica destinata a addolcire la brutalità dell’ingordigia con una giostra di eufemismi ricchi di iperbole, metafore, metonimie e perfino di ellissi.
Come dire, grazie a queste brouillage syntaxique la forma produce valore e tanto meglio se inganna la fame degl’altri con i suoi trompe-l’oeil e i suoi enigmi iperrealisti.
Al culmine del processo di artificazione – nella pratica della ristorazione – c’è poi l’algida cerimonia dell’allestimento del cibo o, meglio, del dressage del campo semantico del piatto, come se fosse un’opera d’arte. Vale a dire il food si “cucina” e poi si “struttura” cercando di coniugare nel teatro dell’arte gourmand la sensibilità estetica dominante con le aspettative di unicità, rarità, preziosità. Per la piccola storia è un teatro che affonda le sue radici moderne nella decade dell’illusione, tra le due guerre mondiali, capace di mettere in scena la sostanza del desiderio dentro la forma letteraria dei simboli, come nel caso di quella giovinetta svizzera circuita dai surrealisti, Meret Oppenheim, servita in tavola ai suoi scapoli immaginari o come nel “cannibalismo” dei futuristi o di certo cinema americano.
Un teatro costruito sul modello dei salon des beaux-arts che per nutrire il pianeta si traveste – nella sua prossima performance – nella forma ossimora di un orto globale, all’insegna di un’improbabile Gestaltung narrativa, costruita su una serie campionaria di scene predicative per percorrere, vedere, scoprire, assaggiare, ma non per sapere.
Nonostante tutto, l’economia della natura non è quella dei performer, le meduse – questo ritorno del rimosso, non per caso sono uno degli animali più antichi e perfetti – avanzano in un mare dove siamo rimasti cacciatori-raccoglitori. Dappertutto si moltiplicano i rifugiati alimentari insieme a quelli climatici, bocche migranti in attesa di improbabili melting pot e ancora più improbabili olle.
Dentro questo scenario qualcuno vede profilarsi un nuovo paradigma della convivialità.
È la resilienza alimentare degli affamati che voltano le spalle ai mercati alimentari ortodossi e si misurano con la capacità sociale e ambientale di opporsi alle chimere dei saziati, di mettere in luce l’oscenità delle grandezze numerarie degli indicatori economici e del loro impatto sul GHI (Global Hunger Index). Questa resilienza è alla radice una sfida al primato dell’imperativo categorico e alla sua autorità incondizionata e falsa, che ritroviamo nelle ideologie politiche e nel folclore religioso di cui costituisce il presupposto normativo. Se mettiamo a confronto questo imperativo con la patologia delle norme sociali della forma di capitale è facile costatare che strutturano un campo di realtà sociale in cui domina un’ingiunzione impossibile: Du kannst, denn du sollst! (Puoi perché devi!). Non per caso le norme sociali dei sazi pacificano l’egoismo e regolano l’omeostasi sociale.
Nel tempo di questo intervento – venti minuti – siamo cresciuti di circa diecimila individui, molti moriranno d’inedia a partire dai prossimi giorni, novecento di loro – stando così le cose – si aggiungeranno ai novecento milioni ridotti alla mera sopravvivenza materiale e ai due miliardi – lo afferma la FAO – privi di vitamine e minerali essenziali alla salute .
(Febbraio 2015)