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GLOSSA NR.UNO

GLOSSA NR.UNO

IED – Corso di antropologia culturale. 

Senza titolo1 

 

È stato un animale feroce, oggi è cattivo.

Per centinaia di migliaia di anni si è nutrito di erbaggi, bacche e frutti, poi ha scoperto i vantaggi nutrizionali della dieta carnea e ha cominciato a contendere ai piccoli carnivori le carogne avanzate dai grandi mammiferi vertebrati.

 

Non ha denti robusti, né artigli.  Ci vede.  Ma non bene.  Non possiede una visione notturna.  Ci sente poco.  Non ha un odorato sviluppato.

Non ha neanche una muscolatura adatta alla predazione.  Non ha una capacità di corsa.

 

Con l’orina lasciava segnali che nessuna altra specie animale prendeva sul serio.

Viveva in piccoli gruppi.  Soffriva e soffre il freddo e il caldo eccessivi.  Aveva bisogno di un ricovero notturno.

 

Facile alla paura è sempre stato costretto a delirare per tenere sotto controllo i suoi fantasmi.

 

I più compensati, con l’evoluzione, divennero sciamani ed anche se le loro allucinazioni si scontravano con il reale impararono a tenerlo a bada, sviluppando una capacità immaginaria e simbolica.

 

Non conosciamo ancora le modalità evolutive di questo animale ad ominide, ma possiamo arguire che si verificarono due trasformazioni importanti nella struttura della sua vita di gruppo.

 

Da una parte, l’acquisizione del cibo diventò progressivamente un compito collettivo, dall’altra, questa acquisizione cominciò ad essere differenziata sulla base del sesso.

 

La prima affermazione è una conseguenza della condizione di oggettiva inferiorità in cui si trovava l’individuo isolato che non aveva le capacità di performance dei predatori.

 

Qui, va da sé, non si tratta solo di strategie per migliorare la predazione, perché la caccia collettiva comporta molti elementi, implica, per cominciare, un sistema di comunicazione gestuale e orale che sia in grado di coordinare l’azione.

In sub ordine, il rispetto di una gerarchia e l’obbedienza ad un leader, fatto che possiamo considerare naturale presso i primati.

 

Infine, c’è da apprezzare il formarsi di una distinzione tra il bisogno e la sua soddisfazione.

Vale a dire, di un catalogo di tattiche di caccia in relazione delle scelte che si operano, ma tutte fondate essenzialmente sulla voce e il pollice contrapposto, che consente alla mano di diventare assassina.

 

Ta en te phonè, i suoni della voce sono symbola, simboli che nascono dai semeia, dai segni con i quali costruiamo le immagini di cose, pragmata.

Lo dirà Aristotele nel suo triangolo semiotico, privilegiando le vocali che sono un legame, desmos, che passano attraverso le lettere e formano i costrutti, le armonie: un frutto dei fluidi interni per chi crede nell’alchimia e nel thymos, l’energia che fa pulsare le passioni.

 

Voce e mano, due protesi.  Alla lettera, due congegni per il porre innanzi.

 

La differenziazione sessuale legata alla caccia è più controversa.  Certamente, sul piano funzionale, la disparità dei ruoli è più recente e, per certi versi, è una perversione sociale attraverso la quale si strutturano il comando e le forme di potere.

 

Discende essenzialmente dall’infanzia protratta del cucciolo degli ominidi che obbliga la madre ad accudirlo per tempi molto lunghi avendo, la postura eretta, ridotto il passaggio pelvico, obbligandola ad un parto prematuro.

 

Possiamo anche osservare che la caccia richiede, oltre all’attenzione, la vigilanza e la pazienza nel corso degli appostamenti.

 

Soprattutto richiede, ed è una condizione essenziale, l’elaborazione di codici vocali che devono essere condivisi, pena la compromissione del risultato.

 

Da qui anche un altro aspetto dell’evoluzione umana, la specializzazione tra l’uomo cacciatore e la donna raccoglitrice e, in primis, l’organizzazione vocale degli scambi tra i gruppi perché il controllo del territorio, la savana, pericolosa quanto ricca di risorse, presupponeva delle azioni coordinate.

 

Esplorazione del territorio, mappatura dei luoghi, densità di rischio, concentrazione delle opportunità alimentari, socializzazione delle mappe, tutte operazioni che esigono una sincronia delle menti attraverso la voce.

 

Diciamo, in estrema sintesi, che un buon controllo del territorio presupponeva per questo ominide una comunicazione sistematica che solo la voce gli consentiva.

La voce, infatti, è unica ed è stata, insieme alla sopravvenuta ibridazione, la prima forma di distacco dalle grida dei primati.

 

La voce non è il muggire dei bovidi, o il bramire delle alci, non è il blaterare dei cammelli, il belare degli ovini, il grugnire dei cinghiali, il barrire degli elefanti o il frinire delle cicale.

 

La voce e solo essa ha consentito un salto di qualità nella connessione delle menti ed ha aperto il lungo cammino verso lo sviluppo del linguaggio verbale.

 

Il linguaggio, infatti, come frutto della voce, compare al termine di un processo evolutivo importante, l’abbassamento della laringe – che i nostri cugini scimpanzé e il resto della famiglia hanno ancora posizionato in alto nella gola – per dare spazio alla faringe.

 

La faringe – questa cassa di risonanza che consente una produzione di suoni ampia e diversificata – appare già progredita in resti fossili risalenti a circa un milione e mezzo di anni fa nell’Homo Erectus e risulta completata circa quattrocento mila anni fa con l’Homo Sapiens arcaico.

 

Un tale processo evolutivo della voce, che si stima durato circa due milioni di anni, ha consolidato il cosiddetto vantaggio operativo.

 

Un vantaggio che genera una comunicazione sistematica, dello stesso tipo di quella offerta dal linguaggio verbale che portò da una comunicazione episodica e puntuale ad una comunicazione allargata e ricca di congegni.

 

Un evento che si è rivelato come l’ultima specialità della specie umana superstite.  Tutto parte dalla coscienza della voce.

 

È questa coscienza che, per due milioni di anni, alcune specie umane – vincendo ostacoli anatomici importanti – hanno privilegiato fino a istituire, con essa, una comunicazione che ha superato restrizioni e lentezze degli apparati comunicativi ereditati dal primitivo stadio evolutivo.

 

Con la voce, infatti, si è installato un congegno che concentra e distribuisce un ampio spettro di contenuti operativi.

Congegno che all’inizio non poteva che essere una convenzione, un accordo condiviso dagli sviluppi allora imprevedibili.

 

La coscienza della voce, poi, diede vita e si portò dietro anche alcuni nessi fondamentali per lo sviluppo della condizione umana.

 

I nessi tra i contenuti mentali, privati ed isolabili, e le peculiari materializzazioni del registro sonoro, che sono percepibili e pubbliche e che si generarono, qui sta il miracolo dell’ominizzazione, attraverso l’esercizio coordinato di un organo del corpo umano.

È questa una delle origini culturale del canto?  Forse!

 

Nella ripetizione, però, si fissa un’associazione cogente a cui nessuno potrà più sottrarsi.

Un’associazione tra i flussi di pensiero e gli elementi discreti in cui si forma il continuum sonoro, più veloce, duttile e funzionale dei gesti o della mimica.

 

Ancora una volta, in estrema sintesi, è attraverso la voce che la comunicazione verbale diventa naturale ed immediata, che la connessione tra le menti assume una dimensione compiuta e abituale.

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Da questo stato di cose se ne deduce che un ruolo determinante nella vita degli uomini deriva dall’esperienza, perché con l’esperienza è possibile assecondare, contrastare, dirottare, modificare ciò che abbiamo ereditato biologicamente e culturalmente. 

 

Da questi particolari caratteri della specie umana la psico-analisi ne evince che l’età adulta non è separabile dall’infanzia protratta, ma ne costituisce l’esito.

 La nostra infanzia, insomma, può essere “superata”, ma non può essere “separata” da quell’insieme che chiamiamo vita. 

 

Va da sé che le istituzioni sociali e culturali risultano in qualche modo condizionate dall’infanzia protratta. 

La nevrosi, per esempio, ha come tratto caratteristico quella di essere una fissazione sul passato infantile dell’individuo, così essa si esprime come un ulteriore elemento di rallentamento. 

 

In altri termini è un ostacolo per il soggetto che vuole investire sul presente.  

Questo spiega il perché il carattere più evidente della nevrosi è di essere anacronistica.

Un  anacronismo che s’invera in due atteggiamenti: la mera e acritica replica del passato.  La deformazione del presente. 

 

Queste considerazioni ci consentono di razionalizzare il fine dei processi di estetizzazione delle forme culturali, politiche, economiche, religiose e sociali della società, perché essi costituiscono un meccanismo di difesa volto a neutralizzare le tensioni libidinali ereditate dall’infanzia.

 

Paradossalmente, la differenza sostanziale – da un punto di vista morfologico – tra l’uomo e l’animale risiede proprio nel carattere infantile dell’uomo e uno degli effetti più visibili di questo è costituito dal carattere traumatico dell’esperienza sessuale. 

Poeticamente si può dire che il complesso di Edipo appare come un conflitto permanente tra i primi amori e gli amori che ci aspettano. 

 

In chiave antropologica, nell’infanzia protratta l’Altro parentale si pone come uno schermo tra il bambino e la realtà, addirittura, compare nella prima infanzia come se fosse la realtà. 

 

In questo modo l’aggressività – fondamentale nell’habitat animale – come mezzo per sopravvivere nella lotta con la realtà può fissarsi sotto la forma di una pseudo-attività senza scopo, sotto forma di gioco, o come una pseudo-lotta nella quale l’Altro (parentale), il padre o la madre, i nonni, eccetera, figurano come degli pseudo-antagonisti. 

 

Nella modernità questo schema è aggravato dal fatto che le forme economiche e culturali costringono spesso le giovani generazioni ad una infanzia protratta artificiale.  In questo senso l’aggressività, come la conosciamo dalle sue espressioni culturali, è un residuo antropologico molto vicino alla forma di nevrosi.

 

 Questa aggressività ha una natura maligna rispetto a quella degli animali, in cui compare in forma funzionale. 

Ha sottolineato Freud a questo proposito come il gioco, una metafora dell’aggressività, nel fronteggiamento della coscienza dell’essersi con il reale, sposta la funzione della soddisfazione sulla ripetizione senza scopo. 

 

In queste circostanze la “cura” della nevrosi è quella di rianimare il passato e di metterlo a confronto con il qui-ora del soggetto. 

La rianimazione è dunque nella forma di una catarsi, di un rito di iniziazione.  L’infanzia protratta, tra l’altro, costringe il soggetto adulto a conservare certi attitudini infantili.  Lo si vede bene dove questa conservazione è più attiva, come di fronte alle forme di pericolo e di fronte alle forme alimentari.

 

 In questo senso, il pericolo, come il ricordo del cibo, infantilizza il comportamento adulto rivitalizzando l’angoscia.  In pratica favorisce l’emergere di un comportamento di tipo nevrotico.  

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