ABITARE & COSTRUIRE.
Il punto di vista dell’antropologia.
Molte scuole di antropologia hanno sottolineato come la cultura dell’abitare plasmi la nostra visione del mondo (Levi-Strauss, Bourdieu, Illich, De Certeau ).
Se ciò è vero, non solo il mondo viene percepito attraverso l’esperienza abitativa, ma questo viene addirittura strutturato e dotato di significato secondo la propria peculiare visione della “domesticità”.
Consapevole di ciò, l’antropologia contemporanea non si limita a studiare l’abitare e il costruire, ma attraverso la formazione di equipe interdisciplinari, sta partecipando in maniera determinante al sorgere di esperienze urbane che contribuiscono ad attivare una collaborazione partecipativa tra abitanti e tecnici nella gestione urbana e nella costruzione o ricostruzione del territorio e della città.
Anche se, dal punto di vista politico, queste forme alternative, in genere, non vengano stimolate e in molti casi sono addirittura represse.
Basti pensare all’esecuzione continua di sgomberi e sfratti di luoghi occupati e/o auto-gestiti da movimenti sociali, gruppi antagonisti o di homeless, così come al diffuso buldozzing state of mind, come lo definì a suo tempo lo storico e filosofo delle tecnologie, l’americano Lewis Mumford (1895-1990) che caratterizza l’azione istituzionale nei confronti di quartieri spontanei o considerati clandestini.
In ogni modo oggi c’è una nuova prospettiva dell’abitare – che nel ‘900 parte da Heidegger e arriva aTim Ingold, un antropologo inglese che insegna a Aberdeen (in italiano è stato tradotto, Ecologia della cultura, Roma, 2004) – la quale considera i processi di costruzione come subordinati alla facoltà umana di produrre e vivere la spazialità ( Henri Lefebvre) e propone di pensare l’autocostruzione come luogo auto-e-antropoietico di governance del territorio.
Abitare, nel suo significato più ampio, non si limita più all’oggetto-casa, né si esaurisce nell’analisi della “vita corrente” che l’attraversa, ma è un processo che ha a che fare con l’esperienza quotidiana delle persone.
A parte ciò, appartiene alle abitudini giovanili abitare un insieme di spazi esterni prossimi all’abitazione (il cortile, il giardino, la piazza, la strada) e per chi è inurbato anche una pluralità di “spazi di vita” variamente ubicati e diffusi (il supermercato, il tram, il grande parco metropolitano, la rete discontinua di luoghi condivisa da una comunità di pratiche sportive, culturali).
In questo senso possiamo dire che oggi nell’esperienza dell’abitare si incontra non solo lo spazio della casa, ma anche quello più ampio, aperto e relazionale dei paesaggi urbani, dei quartieri sottoposti a continua trasformazione, degli spazi sempre più connotati da differenti culture.
Già Lewis Mumford aveva messo in evidenza che le città non sono semplici contenitori capaci di garantire nel tempo la coerenza e la continuità della cultura urbana, ma sono il luogo della mescolanza, della mobilità, degli incontri, delle sfide.
Si può dunque affermare che nella modernità il melting pot è il tratto costitutivo che rende le città luoghi “socializzati” in cui vivere.
Per questo – come insegna la storia – lo straniero, il rifugiato, lo schiavo, persino l’invasore hanno sempre svolto un ruolo cruciale nell’evoluzione delle forme urbane.
Basti pensare al fatto che lo straniero che viene in pace introduce cibi, idiomi, lingue, porta suoni, colori, forme, significati…notizie.
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Una nota su Heidegger.
Costruire, abitare, pensare, è il titolo di una conferenza che Martin Heidegger, uno dei più discussi filosofi del secolo scorso, tenne nel 1951, in occasione di un ciclo di colloqui tenuti nella città di Darmstadt.
La seconda guerra mondiale aveva distrutto abitazioni e interi quartieri, la crisi degli alloggi era solo un aspetto della crisi di Darmstadt e in qualche modo dell’intera Germania.
Uno dei colloqui sul tema Uomo e spazio, lo tenne Heidegger che lo concluse in questo modo: la vera crisi degli alloggi dipende dal fatto che noi dobbiamo ancora imparare ad abitare, ad abitare veramente e autenticamente.
La cosa più grave (affermò)… è che noi ‘viviamo’ questa crisi, che non è solo contingente, senza accorgercene: cioè non ci accorgiamo nemmeno di non sapere abitare.
Avere un’abitazione, infatti, non significa automaticamente saper abitare.
E prima ancora, che cosa significa abitare?
Vediamo alcune osservazioni di questo filosofo.
Per cominciare occorre comprendere – egli scrive – che giungiamo all’abitare solo attraverso il costruire. Non per caso il costruire ha l’abitare come suo fine.
Tuttavia non tutte le costruzioni sono delle abitazioni.
Un ponte e un aeroporto, uno stadio e una centrale elettrica sono costruzioni, ma non abitazioni, così come una stazione, un’autostrada, una diga, un mercato coperto sono costruzioni, ma non abitazioni.
Eppure, anche questi tipi di costruzioni rientrano nell’ambito del nostro abitare.
Questo ambito va oltre l’uso che facciamo di queste costruzioni.
Il camionista è a casa propria sull’autostrada, e tuttavia questa non è il luogo dove alloggia. L’operaia è a casa propria nella filanda, ma non ha lì la sua abitazione. L”ingegnere che dirige una centrale elettrica vi si trova come a casa propria, però non vi abita.
Queste costruzioni (sempre più numerose nella modernità) albergano (ospitano) l’uomo.
Egli le abita, e tuttavia non abita in esse, se per abitare in un posto si intende l’avervi il proprio alloggio.
D’altra parte le costruzioni che non sono abitazioni rimangono pur sempre anch’esse determinate in riferimento all’abitare, nella misura in cui sono al servizio dell’abitare dell’uomo.
L’abitare (in sostanza) sarebbe quindi il fine che sta alla base di ogni costruire.
Va anche rilevato che l’abitare e il costruire stanno tra loro nella relazione del fine al mezzo.
Ma finché noi vediamo la cosa entro i limiti di questa prospettiva (scrive Heiddeger), assumiamo l’abitare e il costruire come due attività separate.
Perchè?
Il costruire non è soltanto mezzo e strumento per l’abitare, il costruire è già in se stesso un abitare.
Ma chi ce lo dice?
Chi ci dà in generale una misura con cui possiamo misurare interamente l’essenza di abitare e costruire?
La parola che ci parla dell’essenza delle cose e fa parte del linguaggio.
Che cosa significa dunque costruire?
L’antica parola alto-tedesca per bauen (costruire) è buan e significa abitare.
Ma che vuol dire anche, rimanere, trattenersi.
Il significato autentico del verbo bauen, costruire e, cioè, abitare, è andato perduto.
Se tuttavia ascoltiamo ciò che il linguaggio ci dice nella parola bauen (costruire) apprendiamo tre cose:
1. Costruire è propriamente abitare.
2. L’abitare è il modo in cui i mortali, sono sulla terra.
3. Il costruire come abitare si dispiega nel costruire che coltiva, che fa crescere.
Osserva Heidegger: Non è che noi abitiamo perché abbiamo costruito. Ma costruiamo e abbiamo costruito perché abitiamo.
L’abitare ci appare in tutta la sua ampiezza quando pensiamo che nell’abitare risiede l’essere dell’uomo, inteso come il soggiornare dei mortali sulla terra.
Per ricapitolare.
L’essenza o il fine del costruire è il far abitare.
Il tratto essenziale del costruire è l’edificare luoghi mediante il disporre i loro spazi.
Ma solo se abbiamo la capacita di abitare, possiamo costruire.
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Fin qui Heidegger.
Alla domanda, che cos’è l’architettura?
Auguste Perret, un architetto francese del Novecento, di cui ricordiamo il progetto di ricostruzione del centro di Le Havre, distrutto come buona parte della città dai bombardamenti della seconda guerra mondiale e dichiarato dall’UNESCO come un esempio eccezionale di urbanistica del dopoguerra e inserito nel 2005 tra i patrimoni dell’umanità, rispose:
L’architettura è l’arte di organizzare lo spazio.
È una definizione che può apparire scontata, ma non è sempre stato così.
Frank Lloyd Wright sosteneva che solo nella parusìa della modernità, cioè, nel disvelarsi della sostanza del moderno, l’architettura avrebbe potuto diventare ciò che aveva sognato per secoli. Diventare se stessa o, meglio, una tecnica dello spazio abitativo.
Se consideriamo l’idea di spazio nella storia delle idee vediamo che esso non è mai stato fino alla modernità un oggetto di riflessione autonomo.
Marco Vitruvio Pollone, architetto e scrittore romano, vissuto nell’ultimo secolo prima dell’era comune, riflette con acume su quelli che sono i fondamenti dell’architettura, vale a dire la disposizione, la simmetria, l’impianto e l’orientamento degli edifici, ma non dice nulla sulla natura dello spazio.
Lo stesso Andrea Palladio, che lo ripensa e lo ridisegna in chiave rinascimentale, non ne parla se non in modo marginale.
Perché?
Perché a partire da Vitruvio e fino al Rinascimento lo spazio è un dato immediato della conoscenza sul quale è superfluo riflettere.
Sono stati piuttosto i filosofi della modernità a aprire una riflessione su ciò che rappresenta lo spazio per l’uomo, tra di loro ricordiamo Arthur Schopenhauer (1778-1860), Martin Heidegger di cui abbiamo già esaminato il pensiero e soprattutto Walter Benjamin.
Per Schopenhauer lo spazio è l’idea che contiene l’architettura come una manipolazione della materia, nella sua visione del mondo, l’architettura va intesa come una sorta di volontà di potenza che vince la pesantezza, una volontà che ha nei muri, nelle architravi e nelle colonne la sua grammatica estetica.
Va aggiunto che per questo filosofo era la musica a celebrare l’essenza in sé dei fenomeni e dunque a rappresentare il mondo, tanto che arrivò a definire l’architettura una forma di musica congelata.
Su Benjamin qui diciamo solo che nel suo libro-capolavoro I “passages” di Parigi egli risale alle origini dell’epoca moderna – studiata a partire dalla specifica realtà di Parigi, come ideale centro del mondo – cogliendola a partire sia della vita corrente dei suoi abitanti, che dalla sua urbanistica ridisegnata da Haussmann.
In generale osserviamo questo.
Nel Novecento l’architettura – come spazio abitato – è stato interpretato soprattutto da due teorie, quella funzionalista e quella semiotica.
Il funzionalismo era concepito in un rapporto diretto con i bisogni degli individui e scaturiva da una realtà pensata in modo empirico e oggettivo.
Ma è proprio così stretto il rapporto tra bisogni e tecnica?
A rileggere la storia del costruire le cose non stanno proprio così.
Per fare un esempio di scuola, oggi sappiamo che la funzione dei contrafforti delle cattedrali gotiche è in larga parte una grande illusione.
Perchè allora venivano progettati e costruiti?
Perchè di fatto con l’avvento del gotico era cambiata la percezione di quella volontà di potenza che stava trasformando il mondo medioevale.
Per venire più verso di noi.
Proviamo a considerare le ragioni dell’inadeguatezza delle case giapponesi al clima dell’arcipelago.
In questa cultura, come è facile costatare, è la concezione dello spazio più di quanto lo sia quello del clima a condizionare la forma delle abitazioni.
Se proprio dobbiamo trovare un debito funzionale che i giapponesi hanno con l’habitat, lo troviamo nei terremoti.
Su piano ideologico, se sono i bisogni che determinano le costruzioni allora diventa culturalmente insostenibile l’idea comune a molte religioni di una casa per gli dei, considerato che essi non devono né alloggiare, né abitare.
Allo stesso modo si può dire che le piramidi egiziane e i palazzi dei re persiani non rispondono affatto a dei bisogni reali.
Questo tuttavia non è in contraddizione con il principio che tutto ciò che l’uomo realizza ha un senso, anche se questo senso sconfina con il non-sense.
Riconoscere lo spazio come l’essenza dell’architettura ci introduce, invece, nel campo della semiotica.
In altri termini noi possiamo pensare a una semiotica dei luoghi con l’aiuto di certi criteri come sono, la chiusura, l’accessibilità, la gerarchizzazione, la scala, l’orientamento, la densità, i motivi geometrici, la stabilità, eccetera.
Naturalmente l’architettura non è un linguaggio vero e proprio, ciò non toglie però che non si possa parlare di un linguaggio dell’architettura.
In chiave antropologica lo nozione di spazio in architettura si può intendere in due modi.
Può essere l’argomento discriminante che permette di differenziare le culture, le epoche, gli stili.
Oppure – nella prospettiva della vita corrente – lo spazio è ciò che può favorire gli effetti di costrizione, di liberazione, di incitamento, d’inibizione, di adattamento, di sottomissione alle forme del potere.
Sono pulsioni che spesso spingono anche verso la fobia dello spazio, come si evince, per fare un esempio, dall’atteggiamento degli antichi egizi a ridurre e a minimizzare le aperture.
Per venire all’idea di casa nella cultura occidentale la prima cosa da notare è che la casa antica, e greco-romana in particolare, e la casa moderna si organizzano a partire da principi inversi.
Per noi moderni la casa è un’esperienza centrifuga, fatta di stanze che si aprono con porte e finestre che danno sull’esterno.
La casa antica invece è centripeta.
Le stanze guardano verso l’interno e non hanno aperture verso l’esterno, si affacciano di regola verso una corte interna a peristili – cioè, con un giro ininterrotto di colonne – che servono al passaggio coperto.
Allo stesso modo se l’architettura delle chiese è simile a quella delle sale dei palazzi – alla lettera, delle basiliche – e non a quella dei templi pagani è perché in esse domina un altro modo di pensare lo spazio.
(Basilica significa la “casa del re”.)
Ce lo spiega il loro destino.
I templi greci e romani non erano luoghi di riunione, di ecclesia, alla lettera di assemblea del popolo, cioè, destinati all’incontro.
In essi potevano entrare solo gli dei e i sacerdoti.
Al contrario, fin dal primo momento l’adunata dei fedeli è stato il destino delle basiliche, cioè dei luoghi di culto cristiani.
Diciamo che lo spazio architettonico a seconda delle culture, dei luoghi e dei tempi storici ha privilegiato sia il pieno (come nel caso dei templi greco-romani o indiani) che il vuoto (come nel gotico o nei templi giapponesi e in genere, nelle costruzioni dell’Estremo Oriente).
Jun Itami (1937-2011) un famoso architetto giapponese che ha lavorato molto anche in Corea, affermò che l’arte e l’architettura devono “attraversare” il niente per poter esistere e per sorprenderci.
Se lo consideriamo in chiave antropologica il progetto è sostanzialmente una figura astratta che ha la funzione di inscriversi in una realtà concreta, “multistrato”, di ordine economica, fisica, culturale e in ultimo anche sociologica e politica.
Questo comporta che ci siano degli spazi che naturalmente invitano al progetto, altri che lo inibiscono.
Scrisse Walter Gropius, quando era alla direzione del Bauhaus: Le relazioni spaziali, le proporzioni e i colori controllano le funzioni psicologiche, vitali e reali.
Da parte sua Maurice Merleau-Ponty nella Fenomenologia della percezione (1945) osserva che i viventi, con la loro semplice presenza, danno allo spazio un senso che il mondo di per se non ha.
Tradotto in un linguaggio più semplice significa che esistere vuol dire occupare uno spazio, significandolo.
Occuparlo con il corpo, gli oggetti, l’azione, l’emozioni.
Ne consegue che lo spazio geometrico e lo spazio fisico si modellano e dipendono dal modo con cui il soggetto si muove nell’ambiente.
Johann Gottfried Herder (1744-1803) un filosofo e teologo tedesco, su questo tema ha scritto:
Il cacciatore prende lezioni di architettura dal castoro dei laghi.
E’ un modo per mettere in guardia.
Vuol dire che il civilizzato deve re-imparare tutto da capo quando torna alla natura. Una tesi analoga a quella che abbiamo visto sostiene Heidegger.
Per gli antropologi e i filosofi è interessante la circostanza che l’effetto che produce l’architettura è da subito materiale, dunque immediatamente sensibile.
Mentre non lo è, se non in parte, nelle altre arti.
È come dire che i soffitti e le cupole rimpiazzano il cielo, che lo sguardo non è più limitato dalla foresta o dalle acque, ma è la struttura degli edifici che ci educa a nuovi orizzonti e significati.
L’architettura, insomma, è per molti aspetti un’arte della totalità tanto che Vitruvio – che come abbiamo già ricordato visse nell’ultimo secolo prima dell’era comune – la definì una disciplina enciclopedica.
Di più, l’architettura condivide con la musica il privilegio di contenerci.
Di circondarci dunque, in chiave metaforica, di avvolgerci e di proteggerci.
In quest’ottica, se ciò che si costruisce ha delle motivazioni politiche, culturali, sociali e psicologiche lo spazio architettonico è qualcosa di più di una semplice proiezione della società.
Non per caso Dio, creatore e demiurgo, è dalle religioni definito architetto, piuttosto che poeta, musicista o pittore.
Perché?
Diciamo che con lui ci illudiamo che un’armonia visibile sorge a partire dal niente o se vogliamo dal caos.
In termini antropologici la padronanza democratica dello spazio è ciò che sta all’origine del senso originario della parola architettura.
Infatti, il primo significato del verbo greco arkein è cominciare, il secondo è comandare.
Ancora il significato del verbo tektaïnen è generare, il secondo è costruire.
Insomma, sul piano simbolico colui che costruisce è colui che comanda.
Ma attenzione, progettare uno spazio è il contrario di concepire un’utopia.
L’utopia è sempre uno spazio compiuto o, meglio, concluso, arrivato a conclusione, che s’impone per la sua perfezione.
Vale a dire, esprime la sua dimensione ideale e totalitaria.
Di contro lo spazio dell’architettura, anche se di per se non è né geometrico, né fisico, né simbolico, è uno spazio misurabile.
Lo spazio, infatti, è la sola grandezza matematica che può essere misurata direttamente.
Non per caso è servita come simbolo di misura a altre grandezze come il tempo (orologio) o la temperatura (termometro).
Gli spazi dell’architettura possono essere aperti o chiusi.
Per la nostra cultura l’aprire viene prima rispetto al chiudere o se si preferisce il chiuso presuppone l’aperto.
È in questo senso che l’architetto Benoit Goetz ha scritto che lo spazio in generale non è niente altro che una grande apertura sul nulla.
Vedremo meglio in seguito Goetz.
In antropologia ci sono due teorie per concepire, da un punto di vista fenomenologico, lo spazio dell’abitare umano.
La prima attribuisce una funzione fondatrice (primaria) al muro, la seconda l’attribuisce al tetto.
Questo dualismo distingue di fatto gli edifici in due gruppi.
La casa occidentale deriva da un muro, la casa in Micronesia è frutto di un tetto.
I castelli sono un muro, i templi in Giappone sono un tetto, eccetera.
Qual è la differenza?
Il muro rinvia a dei limiti oggettivi.
Il tetto, invece, a una protezione con una forte componente soggettiva, psicologica.
A questo proposito va osservato che nella cultura occidentale avere o non avere una casa determina l’inclusione o l’esclusione sociale, tanto che noi chiamiamo chi vive ramingo, un senzatetto.
Ramingo alla lettera è colui che vaga di ramo in ramo, come gli uccelli.
Questo dualismo di muro contrapposto a tetto rimanda alla preistoria, perché le caverne del neolitico rappresentano entrambi le cose.
La parte verso l’entrata era una sorte di tetto, la parte in fondo – quella generalmente dipinta – era un muro.
Contrariamente a quello che può sembrare da un punto di vista storico l’abitare nasce prima con il tetto, il muro verrà in seguito.
Sigfied Giedion (1888-1968) un famoso studioso di architettura, svizzero, sosteneva a questo proposito, che l’origine dell’architettura coincide con la supremazia della verticale, l’apparizione dell’angolo retto e la simmetria.
In realtà sotto il muro c’è la soglia o il limite, la linea che anticipa il volume, come è facile constatare anche dal mito di fondazione di Roma, circa sette secoli prima dell’era comune.
In ogni modo non è impossibile immaginare dei tetti senza mura – li troviamo in Asia, nel Pacifico, le stessa tende berbere sono solo dei tetti – di contro un muro senza tetto non rappresenta un’abitazione.
Dal punto di vista delle metafore della sociabilità possiamo dire che chi costruì un muro all’origine dell’architettura era incline a pensare che il più grande nemico dell’uomo fosse l’uomo stesso.
Gaston Bachelard (1884-1962) un grande e famoso epistemologo francese, scrisse che “è contro gli avvenimenti del mondo che la casa sarà costruita e lo spazio messo al sicuro dall’azione del tempo.”
Bachelard probabilmente pensava che come molte opere della cultura, l’architettura, sul piano dell’immaginario, è una conseguenza dell’espulsione dell’umanità dal paradiso terrestre.
In questo senso non è un caso che Adamo, nel racconto biblico. non avesse una casa.
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Prima di proseguire, però, apriamo una breve parentesi di antro-psicologia.
Ci sono due contenenti che sono i due limiti assoluti del simbolico.
Il ventre materno e il sepolcro.
Diciamo che c’è un tragitto etimologico – messo in luce in particolare da Gustav Jung – che va dal fondo delle caverne alla coppa.
Ce lo ricorda l’etimologia.
Kusthos in greco significa la cavità o il grembo.
Keuthos indica il seno della terra.
Kust in armeno e Kostha in sanscrito significano il basso ventre.
Sempre in sanscrito Kutos è la volta o la cantina, Kutis il cofanetto e infine Kuathos il bicchiere o il calice.
La cavità, per definizione, come dice la psicoanalisi è, nell’immaginario, una rappresentazione dell’organo femminile.
Si può affermare che ogni cavità è percepita – almeno a livello inconscio – come sessualmente determinata, in questo senso è legittimo il percorso metaforico che porta dal grembo alla coppa.
Lungo questo percorso uno dei primi e importanti punti è costituito dall’insieme caverna–casa nella duplice accezione di ambiente e contenente e insieme di riparo e granaio.
Ecco perchè il simbolico tende a rendere ambivalente la paura della caverna e del suo buio, a capovolgerne il senso, mutandola nel suo contrario, una grotta delle meraviglie, un rifugio, un simbolo terreno del paradiso.
E’ in questo senso che la psicologia legge il celebre racconto persiano di Alì Babà e dei quaranta ladroni.
Questa ambivalenza – per l’analisi psicoanalitica – è una conseguenza del trauma della nascita e dell’idea del ventre materno come rifugio.
A parte questo, la grotta – nel folclore – appare molto spesso come una matrice universale, un simbolo dell’intimità, come lo sono l’uovo, la crisalide, il bozzolo o la tomba.
Non è dunque per caso che in molte religioni compaiono due importanti elementi architettonici simbolici, la volta e la cripta.
Per i cristiani, in particolare, il tempio è allo stesso tempo rifugio, catacomba, sepolcro, reliquiario, tabernacolo.
Luogo dove riposano le sante specie (cioè, l’olio santo, l’acqua e il vino consacrati) e allo stesso tempo grembo dove avviene il miracolo della nascita di Dio.
Questa è la ragione antropologica del perché nell’antichità numerose chiese sono state erette vicino a caverne o a crepacci.
Esemplare è il caso di San Clemente a Roma (la primitiva basilica e oggi un complesso archeologico, sorge nella vallata tra il colle Oppio e il Celio, è una costruzione sotterranea e venne impiantata nella seconda metà del quarto secolo nel contesto di una domus romana del terzo secolo.
Così come è esemplare il caso della grotta di Lourdes.
Dunque la caverna è la cavità geografica perfetta o, in modo più poetico, un mondo chiuso
dove lavora la materia alla luce del crepuscolo.
La ricerca etnografica conferma queste osservazioni.
Per esempio, la capanna cinese è considerata il luogo dove la sposa regna in comunicazione diretta con il suolo familiare, essa è una matrice (matrix in latino è l’utero).
Ricordiamo che per i cinesi il focolare è un luogo femminile, mentre il fuoco che in esso si accende è l’elemento maschile.
In chiave semasiologica si può dire che nel mondo esiste una forte tendenza alla femminilizzazione della dimora.
Non è per caso che abbiamo le camere, le capanne, le cappelle.
In Francia in particolare il carattere femminile della cappella è molto evidente, tanto è vero che è spesso chiamata Notre–Dame e sono quasi sempre consacrate alla Vergine.
A questo punto della nostra analisi si potrebbe dire, descrivimi la casa che immagini e ti dirò chi sei.
In chiave culturale dai psicanalisti ai teologi della tradizione cattolica, dai Dogon agli aborigeni australiani tutti riconoscono nella casa un doppione microcosmico del corpo umano.
Così, non è per caso, che i bambini vedono nelle finestre gli occhi della casa, nella porta la bocca o che molti adulti definiscano le cantine come le sue viscere.
In breve la casa, nella sua interezza, è più di un luogo dove vivere, è un vero e proprio organismo che vive.
Essa raddoppia e sottolinea la personalità di chi l’abita, dunque non è solo il luogo fisico costruito e abitato dagli uomini, esprime anche una sua rappresentazione simbolica o, meglio, una matrice di soggettività.
L’azione simbolica realizzata dalla casa sulla vita psichica degli individui si riflette, in seconda battuta anche su quella sociale, andando a rappresentare un paradigma che riunisce, e in parte sovrappone la sfera intrapsichica, quella interpersonale e quella socio-politica.
Questo spiega perchè quando si perde la “casa” si perdono o si frammentano anche le sue funzioni organizzatrici e contenitrici, portando alla frantumazione della relazione individuale-personale, familiare-coniugale, socio-economico e culturale-politico.
Molti mediatori culturali ritengono che è questa destrutturazione che nei rifugiati porta al cosiddetto disorientamento nostalgico.
Un’altra funzione importante della casa è quella di fornire una base coerente alla storia delle famiglie.
Una storia che non ha valore obiettivo ma che ordina e rende coerente tutti i momenti che gli individui hanno vissuto, da quelli peggiori a quelli migliori.
In questo modo essi sono resi intelligibili, comprensibili e danno, agli attori di quegli stessi eventi, un senso di continuità e di prevedibilità.
Quando la gente perde la propria casa e acquista la qualifica di rifugiata s’infrange proprio questa continuità ed è precisamente questa dimensione che l’assistenza terapeutica ai rifugiati dovrebbe favorire.
Su questo punto, cambiando prospettiva, si può notare come il grande romanzo sociale francese dell’800 – si veda per tutti Honoré de Balzac – comincia sempre con una descrizione minuziosa della casa.
Per esempio, è l’incipit dell’Eugenia Grandet come della pensione della Signora Vauquer.
Sul piano stilistico, in generale, possiamo dire che la descrizione degli ambienti è una caratteristica del realismo ottocentesco o, se si preferisce, un’ossessione della mentalità borghese.
Del resto, sono gli odori della casa che compongono la sensazione dell’intimità: aromi di cucina, profumi dell’alcova, tanfi dei corridoi, sentore di benzoino o di pasciulì degli armadi materni…
Uscendo dall’antropsicologia e ritornando a Bachelard, egli scrive che lo spazio è sempre percepito come una dimensione della sicurezza, al contrario del tempo che spalanca le porte dell’angoscia.
Per questo, come abbiamo già visto, l’archetipo del costruito comincia sempre con una copertura, cioè, con un tetto.
I muri vengono in seguito.
La tenda – che sia la yourte mongola, la koté lappone, il tipi dei nativi americani – intesa come un “riparo” è, in questo contesto, una forma ancora più originaria della capanna.
Nel linguaggio comune avere un tetto significa avere una casa.
Non si dice la stessa cosa dei muri.
Essere sotto un tetto significa essere protetti, trovarsi tra quattro mura significa essere rinchiusi.
Un tetto senza mura può essere logico (come nel caso di una tenda), un muro senza tetto non è che una barriera, o un recinto.
Possiamo dire che costruire tetti è un tratto specificatamente umano.
Gli animali, di contro, scavano delle gallerie, costruiscono dei nidi o delle dighe, ma non fanno tetti.
Nella preistoria stare in una caverna non significava propriamente abitare, era piuttosto un modo per essere radicati in un luogo, un modo per mettere le radici.
Agl’occhi dell’uomo del neolitico erano il luogo e la terra che configuravano l’abitare.
In questo senso la caverna è il “posto” dell’innocenza perduta, una culla e una tomba, allo stesso tempo.
Ancora, le culture stanziali privilegiano gli spazio interni, di contro, l’habitat dei nomadi si confonde con lo spazio e il paesaggio.
Si racconta che nell’immediato dopoguerra alcune famiglie di zingari ungheresi furono costrette a fermarsi a vivere in un villaggio a loro destinato.
Nel giro di qualche giorno scardinarono tutte le porte d’ingresso.
Con il termine nomadismo si intende oggi qualunque forma di esistenza sociale che implichi spostamenti periodici necessari alla sopravvivenza e alla riproduzione del gruppo umano.
Sia che si tratti di gruppi che vivono della raccolta di vegetali selvatici e/o della cattura di selvaggina.
Che praticano l’allevamento mediante lo spostamento periodico delle greggi di animali addomesticati.
O che conducono una vita mobile solo parzialmente finalizzata alla ricostruzione delle basi materiali dell’esistenza, ci troviamo in tutti i casi in presenza del fenomeno del nomadismo
In questo senso, tanto le forme quanto i ruoli strutturali assunti dal nomadismo all’interno
della storia umana sono molteplici e riguardano gruppi spesso molto diversi dal punto di vista dell’organizzazione economica, politica e sociale.
Oggi, in particolare, il termine nomadismo è riferibile tanto allo stile di vita degli ultimi cacciatori-raccoglitori delle foreste pluviali e delle aree desertiche del pianeta, quanto a quello delle comunità di pastori nordafricani e asiatici, ma anche a quei gruppi generalmente chiamati peripatetici, gruppi senza fissa dimora come gli zingari asiatici ed europei, i girovaghi e i vagabondi presenti un po’ ovunque nel mondo.
L’ethos – cioè, lo stile di vita – dei nomadi consiste sostanzialmente nell’essere sempre sul punto di partire.
In questo senso il territorio per loro è inteso come un insieme di traiettorie e di punti costituiti dalle fonti dell’acqua, del cibo, di riparo, di riunione.
Più importante ancora è il fatto che i nomadi occupano un territorio che spesso riunisce più luoghi senza che essi ne riconoscano la proprietà.
Si può dire che i nomadi obbediscano al nomos – nel significato di usanza – e non alla polis, la città.
In questo modo, fuori dalla città-stato i nomadi sono fuori anche dalla politica.
L’architettura nomadica, poi, è trasportabile, provvisoria, effimera.
Essa in qualche modo esprime la precarietà della vita sulla terra.
Vale a dire che è un architettura che non costruisce per l’eternità, ma risponde alla logica del ricovero.
In questo senso, la cultura giapponese che deve convivere con i terremoti conosce bene la precarietà a tal punto da averla mutata in una filosofia.
Lo vediamo a proposito del santuario d’Isé, che è periodicamente distrutto e ricostruito.
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Il santuario di Ise è un santuario scintoista consacrato alla dea Amaterasu Omikami, situato nella città di Ise nella Prefettura di Mie in Giappone.
Ufficialmente conosciuto semplicemente come Jingū (il Santuario), è in effetti un enorme complesso costituito da oltre un centinaio di santuari autonomi, suddivisi in due zone principali. Gekū o “Santuario esterno” è collocato nella città di Yamada, mentre Naikū) o “Santuario interno” è situato nella città di Uji è dedicato alla dea Amaterasu Omikami.
I due complessi sono situati a sei chilometri di distanza e sono congiunti da una via di pellegrinaggio che passa attraverso il vecchio distretto di Furuichi.
In accordo con la cronologia, i santuari furono originariamente costruiti nei primi anni dell’era comune, ma molti storici ne collocano la costruzione secoli dopo, nel 690, anno in cui nella maggior parte delle ipotesi il Grande Santuario raggiunse la sua forma attuale.
I santuari del complesso vengono smantellati e ricostruiti sempre identici una volta ogni vent’anni, con spese enormi.
Gli edifici attuali, costruiti nel 2013, sono la sessantaduesima ricostruzione, la prossima è in programma per il 2033.
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Per il grande architetto romano Leon Battista Alberti (1404-1472) la regione è il sito – il luogo sul quale l’edificio è costruito – l’aire è la porzione di suolo occupato da questo, il posto è il volume della costruzione.
Per tanto i luoghi carichi di particolare potenza evocativa sono detti santuari (haut lieu, in francese)
Scrive l’Alberti, è opportuno notare che la sicurezza, l’autorità, la gloria dello Stato dipendono in gran parte dall’opera dell’architetto.
Una curiosità.
Il genio del luogo esprime ciò che di un luogo è irriducibilmente singolare e insuperabile.
Nella tradizione il Genius loci è inteso come un’entità allo stesso tempo naturale e soprannaturale legata a un luogo e oggetto di culto nella religione romana.
Tale associazione tra un Genio e un luogo fisico si originò forse dall’assimilazione del Genio con i Lari a partire dall’età di Augusto.
Secondo Servio Mario Onorato (un retore romano del quarto secolo), infatti, nullus locus sine Genio (nessun luogo è senza un Genio)
Nella cultura pagana il Genius loci è il Genio del luogo abitato e frequentato dall’uomo.
Quando lo s’invoca, dice la tradizione, bisogna precisare sive mas sive foemina (“che sia maschio o che sia femmina”) perché non se ne conosce il genere e non va offeso.
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L’uomo abita la natura, ma l’abita per emanciparsi da essa, distaccarsene.
Il cristianesimo, per esempio, desacralizza i siti pagani e questa è anche la ragione perché le chiese si benedicono prima di essere costruite e non dopo.
Con l’età romantica un luogo può diventare un sito quando le sue costruzioni sono distrutte, non possono essere abitate, ma mantengono il loro valore artistico.
Pensate ai resti della cultura greca e romana.
In altri termini, i siti sono spesso destinati a divenire indistruttibili luoghi di memoria e di culto.
In Cina un tempo non si costruiva senza il feng–shui, cioè senza aver prima fatto una previsione su come il luogo avrebbe accettato la costruzione e di come si sarebbe armonizzato con esso.
In pratica il feng–shui (alla lettera significa vento e acqua) è una dottrina per la protezione dei luoghi dalle influenze nefaste.
Per costruire gli uomini hanno da sempre usato i materiali che esistevano sul posto, legno terra, pietre, al limite il ghiaccio.
Questo ci consente di dire che il modello archetipo della costruzione è la natura.
Che l’estetica nasce come coscienza di questo processo.
L’uomo che costruisce non è colui che crea, ma colui che rivela, che da un volto alla cosa.
Nell’architettura occidentale le pietre dei palazzi sono una firma del luogo.
Per esempio, in Francia, ci sono zone dove la pietra cambia di colore ogni cinquanta o sessanta chilometri e così le chiese, gli edifici pubblici e le case.
Ma c’è anche il caso contrario.
Di pietre trasportate da enormi distanze.
Per le colossali costruzioni di Cuzco o di Machu Picchu gli Incas trasportarono dei blocchi di pietra per distanze valutate migliaia di chilometri.
In ogni caso di tutti i materiali da costruzione la terra è il materiale di un terzo delle costruzioni al mondo.
I vegetali – legno, foglie di palma, paglia – sono un altro dei materiali locali più usato.
Nell’isola di Kiribati – in Micronesia – le grandi case comuni senza muri ( maneaba) sono formate da enormi tetti vegetali montati su pali che possono raggiungere i quindici metri.
Nella nostra cultura, di contro, sono comuni i muri in pietra secca, oggi li consideriamo romantici se non altro perché sappiamo che i muri in cemento armato li percepiamo come qualcosa che separa e isola.
A questo proposito i nuraghi sardi sono delle straordinarie costruzioni in pietra secca.
I nativi americani, di contro abitano nei tipi, tende coniche di pelle di bisonte.
Al di là delle apparenze la magia e la forza vitale dei luoghi è ciò che ne determina – per i poeti – la bellezza.
Appendice.
Il tema dell’abitare e del costruire è un’occasione per aprire una piccola parentesi sull’homo faber
Questa espressione ci ricorda che la differenza più evidente tra esseri umani e animali è il fatto che l’uomo è un animale che costruisce e fa uso di utensili.
Uno dei più grandi antropologi del ventesimo secolo, il francese André Leroi-Gourhan (1911-1986) è l’autore di una tesi oggi molto popolare e condivisa per la quale è la mano e la manualità che hanno preceduto lo sviluppo celebrale.
Una tecnica manuale semplice non richiede un cervello particolarmente sviluppato quanto una buona organizzazione delle aree celebrali.
Per esempio gli scimpanzé si avvalgono spesso di utensili, ma essi sono trovati e non costruiti e di essi se ne fa un uso occasionale.
Il paragone con lo scimpanzé diventa però interessante se prendiamo in considerazione il fatto che questi usa le mani come strumenti per impastare, intrecciare, schiacciare, mentre altre funzioni sono affidate ai denti.
Siamo quindi in presenza di due poli, uno manuale e uno facciale, con funzioni separate.
Osservando invece l’evoluzione dell’uomo si rileva che l’acquisizione della posizione eretta coincide con una riduzione dei denti davanti.
Ciò induce a pensare che grazie alla maggiore libertà acquistata dalle mani, per via della posizione eretta, certe funzioni siano state affidate agli utensili e i denti abbiano perso la loro funzione originale.
In questa prospettiva gli utensili non appaiono come un elemento esterno, degli intrusi, ma il prodotto della mano stessa nel corso della sua evoluzione.
In quest’ottica possiamo dire che non siamo diventati costruttori di utensili perché dotati di particolari capacità, al contrario, abbiamo accresciuto le nostre potenzialità intanto che apprendevamo l’uso degli utensili e miglioravamo la loro costruzione.
André Leroi-Gourhan amava dire: È ancora estremamente salutare, che la scienza dell’essere umano sia la più interdisciplinare di tutte le discipline.
A partire dal momento in cui l’essere umano non può parlare per se stesso, perché è assente o perché è morto; o per la mancanza di documenti, vi sono ancora due testimonianze: quella dell’arte e quella della tecnica.
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Sono due i libri di Benoit Goetz che accostano questo studioso all’antropologia dell’abitare. Il primo s’intitola La Dislocation. Architecture et philosophie, il secondo Thorie des maisons. L’habitation, la surprise.
L’obiettivo di Goetz è quello di usare le parole della filosofia e l’arte della flânerie (nel senso con il quale Walter Benjamin ne ha fatto una tecnica di osservazione) per portare alla luce i significati sottesi all’abitare.
L’abitare è una pratica che risale all’origine dell’umanità e in qualche modo la identifica.
In questo senso per Goetz la casa non è né un oggetto né un concetto, ma uno schema dinamico spazio-temporale in cui l’uomo può riconoscersi.
Tanto è vero che il senso moderno dell’abitare compare solo alla fine dell’800 e paradossalmente in uno dei suoi punti più sentiti dal punto di vista della crisi degli alloggi.
Condizione che ha fatto diventare l’abitare una metafora funzionalista.
Goetz, d’accordo con il filosofo francese Philippe Lacoue-Labarthe, non vede l’abitare come un occupare uno spazio, ma come un modo d’essere, come il luogo di un pathos che ci riflette.
La casa, per usare un’espressione di Maurice Blanchot, scrittore e filosofo francese, per essere speciale dovrebbe essere un’habitation sans habitude. Un luogo dove alzando il capo da un libro attraverso la finestra si apre al mondo.
La relazione pensare, costruire e abitare nella seconda metà del ‘900 è diventata anche grazie alla globalizzazione centrale al dibattito sul modo di pensare il mondo.
Per chi fosse interessato a questi temi suggeriamo la lettura di (Benoit Goertz) Théorie des maisons, edito dalle Editions Verdier nel 2011.
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Ritorniamo invece sul tema del nomadismo.
A livello inconscio, per la maggior parte di noi l’architettura è associata all’idea della sedentarietà. È un’idea condivisa che quando i primi uomini smisero di essere cacciatori-raccoglitori cominciarono anche a costruire le prime abitazioni, dunque a padroneggiare l’arte del costruire.
Secondo Vitruvio la capanna rappresenta l’origine dell’abitazione.
Il passaggio dal nomadismo alla sedentarietà induce, paradossalmente, a una visione funzionale e semplificata dell’architettura che, etimologicamente, rimanda al principio di costruzione.
Tra l’altro non si deve dimenticare che anche nelle società più sedentarie esiste una tradizione di architettura nomade per eccellenza, quella navale.
I due concetti, se osservati da questa prospettiva, non appaiono quindi così antitetici.
Per venire a noi i primi anni del ventunesimo secolo hanno visto lo sviluppo del nomadismo in architettura sotto vari aspetti.
La globalizzazione, che da anni coinvolge il nostro pianeta, ha generato la moltiplicazione di luoghi identici, dove l’uomo nomade ritrova un universo familiare.
Questo processo si è portato dietro importanti movimenti di popolazione.
Gli uomini sradicati e senza risorse, soprattutto oggi, ricostruiscono le loro vite in abitazioni precarie, che possono essere spostate a seconda degli eventi politici ed economici.
Infine, i problemi ambientali e la domanda di spazio attraverso le ricerche architettoniche alternative fanno riscoprire le qualità delle costruzioni prive di fondamenta, spostabili velocemente.
Il nomadismo si presenta così in molte versioni e presenta una varietà di approcci architettonici spesso criticabili.
Come sappiamo i primi anni del nuovo secolo hanno conosciuto uno sviluppo edilizio senza precedenti.
L’affacciarsi sul mercato di paesi emergenti come la Cina, che consuma circa il quaranta per cento del consumo mondiale dei materiali da costruzione e l’apertura verso il liberalismo di molti altri paesi appena usciti dal sottosviluppo sono alcune tra le ragioni che spiegano il boom costruttivo.
All’interno di questo ampio sviluppo, le creazioni architettoniche differenti sono marginali, ma annunciano il futuro.
Dai tempi delle tende dei nomadi la tipologia delle costruzioni smontabili e trasportabili si è notevolmente ampliata.
La gamma dei materiali utilizzati è cresciuta enormemente grazie alle ricerche scientifiche più avanzate, ma anche a un uso dei materiali diverso da quello abituale.
Le costruzioni nomadi non hanno sempre dimensioni ridotte.
Almeno nel caso delle costruzioni destinate allo spettacolo, che presentano spesso i caratteri delle costruzioni nomadi.
Durante il Novecento, le ricerche sulle strutture nomadi si sono spesso concentrate sulle abitazioni d’emergenza.
Catastrofi naturali e guerre sono state le cause principali dello sviluppo di numerosi prototipi.
La Dymaxion deployment unit (1940) dell’architetto e designer statunitense Richard B. Fuller (1895-1983) fu monopolizzata dalle necessità militari della Seconda guerra mondiale.
L’architetto finlandese Eero Saarinen (1910-1961) presentò nel 1942-43 negli Stati Uniti due progetti di case smontabili: la Unfolding house e alcuni moduli residenziali denominati PAC (Pre-Assembled Components).
l francese Jean Prouvé (1901-1984) propose nel 1944 per i rifugiati della Lorena il cosiddetto Padiglione 6 x6, montabile in una giornata grazie a un rigoroso processo di assemblaggio.
Diciamo che l’evoluzione dei ripari temporanei, più o meno elaborati, è proseguita fino ai nostri giorni.
Il padiglione di Prouvé ha dimostrato di essere ancora moderno in occasione della sua esposizione alla Biennale di Venezia del 2000.
Diciamo che sono soprattutto le questioni teoriche ed esistenziali poste dagli innovatori di allora a essere ancora oggi al centro delle riflessioni: la piccola dimensione, i limiti dello spazio, l’appartenenza a molteplici luoghi e non più a uno solo, il carattere ripetitivo del processo costruttivo, l’apparente precarietà.
Tra le principali figure che si sono dedicate all’architettura d’emergenza vi è il giapponese Shigeru Ban.
Nel1995, per aiutare le persone rimaste senza casa a causa del terremoto di Kobe, questo architetto ha ideato la Paper loghouse, un’abitazione minima la cui struttura portante è costituita da tubi in carta che poggiano su un quadrato di cassette di birra rinforzate da sacchi di sabbia, mentre il soffitto è coperto da un tetto di tela.
Si è trattato di una risposta al bisogno di abitare sia pure con un comfort ridotto.
Le Paper loghouse sono state installate prima nel parco Minamikomae a Kobe e poi in Ruanda, e in Turchia per il terremoto di Ankara (1999-2000).
La Paper tube structure ha permesso a Ban di edificare anche un centro comunitario, la Paper church (1995), e il padiglione giapponese per l’esposizione universale di Hannover del 2000.
Se Ban è stato sedotto dalla carta, materiale tradizionale in Giappone per le pareti divisorie, l’architetto iraniano Nader Khalili ha sperimentato come materiale da costruzione la terra.
Attento ai problemi delle persone sfollate a causa delle guerre e delle catastrofi naturali, egli ha condotto delle ricerche sui metodi delle costruzioni tradizionali in terra.
Le strutture da lui progettate (con l’assistenza di Phill J. Vittore) permettono di ottenere il massimo dello spazio utilizzando il minimo del materiale sovente reperito sul posto.
Khalili ha mischiato terra e sacchi, con una tecnica che ha chiamato superadobe, per realizzare nel 1995 il suo Emergency sand-bag shelter.
Il processo costruttivo è semplice e rapido e necessita solo di poche persone.
Le caratteristiche del materiale e del sistema di costruzione rendono queste strutture resistenti ai terremoti, alle inondazioni e ad altre calamità; la terra offre inoltre un isolamento termico e acustico naturale.
Il sistema può servire a costruire anche edifici non residenziali, come scuole e ospedali, e persino strade o ponti: tali costruzioni presentano infatti il vantaggio, nel lungo periodo, di essere biodegradabili.
Questi edifici hanno rappresentato un notevole aiuto dopo il terremoto che ha colpito il Pakistan nell’ottobre 2005.
A differenza delle opere progettate da Ban, gli shelters di Khalili sono più effimeri che nomadi: condividono con il nomadismo l’assenza di radicamento al suolo e la possibilità di reimpiegare alcuni materiali in altri luoghi.
Numerosi altri esempi di edifici nomadi d’emergenza sono stati esposti nella mostra Crossing. Dialogues for emergency architecture, curata da Zhou Shou e Pan Qing, che si è tenuta al National Art Museum of China di Pechino nel maggio 2009.
Aggiungiamo che in un mondo dove gli spazi vuoti si riducono ogni giorno, di fronte a metropoli con edifici che faticano a riqualificarsi, la nuova architettura nomade non si manifesta più all’aria aperta o in aree vergini, ma negli edifici in abbandono.
Esplora i meandri della nostra civilizzazione urbana, in simbiosi con la tendenza alla scomparsa progressiva delle popolazioni rurali.
I traffici marittimi, da parte loro, hanno ispirato un architetto come l’inglese Simon Allford.
Conferire una seconda vita ai container da trasporto, simbolo della globalizzazione e della circolazione delle merci, è l’obiettivo della sua ricerca.
Secondo Allford riciclare i container trasformandoli in alloggi modulabili, corrispondenti a un’unità minima di abitazione, offre una soluzione al problema abitativo e permette di sfruttare territori urbani come le aree dei parcheggi.
Nel 2003 Allford ha concretizzato le sue idee con il progetto MoMo (Mobile Modular apartments).
Il container residenziale conosce oggi una grande popolarità.
Paradossalmente, però, le abitazioni realizzate in container prefabbricati accolgono da qualche tempo immigrati illegali in soggiorno forzato.
Facciamo un passo avanti.
L’opzione più radicale del nomadismo architettonico ci arriva grazie alle nanotecnologie.
L’ultimo stadio del corpo trasformato in architettura può realizzarsi con le pelli abitabili, i nanodermi, futuro paradigma dell’abitazione umana creatrice: l’inserimento nel paesaggio di una pelle nomade, abitabile e cambiabile, corrisponde a un mito che può diventare realtà.
Non si tenta più di vincere il clima, di lottare contro le forze della natura, ma di creare un clima interno che deve tutto a una tecnologia visivamente discreta e che viaggia senza limiti territoriali.
In tal modo, molti credono, che spariranno tutte le megastrutture, gli involucri, le bolle, le costruzioni.
La visione dell’assenza di qualsiasi traccia architettonica corrisponde all’Eden ritrovato, dove l’uomo sarà necessariamente nomade.
L’acqua è inafferrabile, cosa esiste di più nomade dell’architettura liquida?
L’architettura liquida giunge fino alla smaterializzazione, poiché è basata su relazioni tra elementi astratti, e l’effimero è il suo destino.
L’architetto non concepisce più un singolo edificio, ma definisce i principi che daranno origine a una serie infinita.
Agli antipodi della sedentarietà, l’architettura liquida si muove con la velocità del pensiero immateriale.
Al di fuori del principio di continuità tradizionale, il cyberspazio permette a ogni schema di diventare opera architettonica: è architettura che contiene architettura.
L’architettura non è nomade solo per il cambiamento di luogo a cui può essere sottoposta: è nomade nella sua forma, spazialmente e temporalmente.
(M. Novak, Liquid architectures in cyberspace, in Cyberspace. First steps, ed. M. Benedikt,1991)
Per Jacques Attali, un filosofo francese autore di L’homme nomade (2003) è il neonomade il nuovo individuo che dominerà il mondo policentrico del futuro.
Il nomade classico porta su di se il peso di un’immagine carica di pregiudizi all’interno di una società che attribuisce importanza ai valori della sedentarietà, del territorio e dei legami ancestrali, compresi gli stili architettonici propri di ogni Paese d’origine.
Oggi, invece, i rappresentanti di un’élite, per la quale il mondo è un villaggio, dispongono di più luoghi di residenza, oppure possono trovare in tutti gli angoli del pianeta un ambiente di vita conforme alle loro esigenze.
In termini più sociologici possiamo dire che l’immagine prevale sul messaggio, l’apparenza domina il contenuto che le rappresentazioni veicolano nuove pratiche architettoniche più o meno valide.
L’uomo il cui nomadismo è legalmente autorizzato, che padroneggia le più moderne tecnologie, che il reddito o la nazionalità mettono al riparo dalla condizione di illegale o di richiedente asilo, abita un mondo che comincia a diventare troppo piccolo per lui.
La sedentarietà sembra essere, come accennato, una parentesi nell’arco temporale dell’esistenza umana: poco a poco l’uomo ridiventa nomade.
L’urbanizzazione crescente testimonia il cambiamento fondamentale vissuto all’alba di questo nuovo secolo.
La globalizzazione è una re-invenzione del nomadismo: un nomadismo di altro genere, contemporaneo all’avvento della società dell’informazione e della conoscenza.
Il nomadismo in questa prospettiva si definisce come una modalità di popolamento.
All’origine era associato alla ricerca di pascoli, allo spostamento degli animali; nel nostro mondo globale questi bisogni sono spariti, ma l’uomo li ha riscoperti sotto la spinta della necessità.
A mano a mano che nella nostra società segmentata riappare un’organizzazione di tipo tribale, i valori tradizionali dell’architettura si frammentano.
Il popolamento, sia negli spazi interstiziali delle città sia negli orizzonti infiniti del cyberspazio, si distribuisce secondo una ripartizione che tenta di sfuggire a ogni ‘territorializzazione’ dello Stato, a ogni definizione spaziale.
Il costruire è così soggetto a un errare senza meta: abitare non esprime più il legame con la terra, il radicamento, ma la manifestazione di un bisogno umano elementare, il sogno di un’architettura istantanea.
FINE