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IED – Sociologia della comunicazione – Anno accademico 2014-2015

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Sociologia – Anno accademico 2014-2015. 

(Ultima parte)

 

 

Per il pensiero filosofico vedere è (un) essere nel mondo.

Questo perché gli uomini, attraverso l’evoluzione, si sono abituati a considerare la percezione visiva come un’attività cognitiva.

 

In altri termini, percepire, vale a dire, avere un’attività sensoriale, e pensare sono due specifiche attività dell’uomo che sul piano meramente teorico stanno alle origini della condizione umana e rappresentano le palafitte della produzione e della riflessione culturale.

 

Naturalmente tutto ciò non è sufficiente per cogliere il senso dell’essere nel mondo, per usare un’espressione della fenomenologia.

La stessa filosofia greca aveva capito che la conoscenza ci fa capire come le cose sono per noi, ma non ci dice che cosa esse siano e perché esse ci appaiano come ci appaiono.

 

In generale si può dire che la teoria platonica della conoscenza e quella aristotelica costituiscono le prime ipotesi che sono state elaborate sul modo di percepire (il nostro) essere nel mondo e, in parole povere, sul senso del vivere.

 

Venendo più a noi ritroviamo questi temi in molti autori nella forma di paradigmi scientifici in particolare in Leonardo, in Galileo e soprattutto nell’empirismo.    

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Si intende per empirismo un indirizzo filosofico che pone nell’esperienza la fonte della conoscenza.

L’empirismo si oppone a l’innatismo e al razionalismo, due correnti di pensiero che fanno derivare la conoscenza per deduzione da principi razionali evidenti a priori, così come si  distingue dal sensismo, che ammette una sola fonte della conoscenza, il senso esterno o la sensazione, in quanto l’empirismo ammette anche il senso interno o la riflessione.

 

Nella storia della filosofia l’empirismo è rappresentato, per l’antichità, in modo particolare dagli epicurei, dagli stoici e dagli scettici.

Per l’età moderna, specialmente da F. BaconeJ. LockeD. Hume.

 

L’empirismo ha conosciuto notevoli sviluppi nella stagione del positivismo, soprattutto in logica e psicologia, a opera di J.S. MillH. SpencerF. Brentano ed E. Mach, ed è stato consapevolmente e, insieme, criticamente riaffermato da W. James e da J. Dewey.

 

In senso lato, oggi per empirismo si intende un approccio sperimentale alla conoscenza, basato sulla ricerca e su un modo di procedere a posteriori, preferiti alla pura logica deduttiva. 

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Nella modernità, dopo Cartesio, ma soprattutto a partire dalla Gestalt Theory, il tema della percezione e della conoscenza sono diventati gli argomenti centrali nei lavori di Edmund Husserl, di Maurice MerleauPonty, di Ludwig Wittengenstein, di Rudolf Arnheim, tanto per ricordare qualche autore.

 

Se volessimo una sintesi potremmo dire che, grazie anche alle ricerche scientifiche, nella modernità:

Percepire visivamente è (oramai un modo) di pensare visivamente.

 

In altri termini nella cultura occidentale moderna vedere – con i nostri occhi e con l’ausilio degli artefatti visualivuol dire sapere e quindi conoscere.

 

In questo senso, da almeno mezzo secolo a questa parte non c’è più nessuno che non riconosca l’importanza e l’egemonia dello sguardo nella costruzione della conoscenza.

 

Oppure, in modo più funzionale, si può dire che il riconoscimento visivo di un oggetto o di una situazione è un processo mentale con il quale il campo visuale si ipotizza organizzato come un campo semantico. 

 

Nella lingua tedesca tutto questo ha un’evidenza lessicale.  

Io so e Io vedo hanno nel verbo Wissen (sapere) la stessa radice.

 

Occorre però precisare che vedere per sapere non è un fatto automatico.

 

Come ha sottolineato MerleauPonty:  

È vero che il mondo è ciò che noi vediamo, ma è altrettanto vero che dobbiamo imparare a vederlo.   

 

Ci sono culture, come quella Inuit, in cui altrettanto importante del vedere è la percezione spaziale e l’udire.

Per gli Inuit un concetto ovvio per noi, come vedere per credere, è per loro di debole rilevanza.       

 

Nel contesto di questi argomenti si può dire che a partire dalla seconda parte dell’800, sociologi, etnologi, antropologi e psicologi furono tra i primi a utilizzare intenzionalmente e metodicamente l’osservazione come tecnica d’indagine.

 

Soprattutto gli antropologi – grazie alla scoperta della fotografia – sono quelli che utilizzarono con più successo la narratologia (qui intesa come una tecnica di analisi delle strutture narrative) e l’iconografia per meglio descrivere l’alterità umana e le sue ricchezze.

 

Se ritorniamo alla nostra definizione di sociologia come una disciplina che si propone d’intendere l’agire sociale e di spiegarlo, l’osservazione dell’esperienza vissuta risulta fondamentale sia per giungere a una comprensione dell’evento o del contesto in questione, sia per poterlo valutare.

 

Nella parte propedeutica di questo corso abbiamo incontrato più volte la Scuola di (sociologia) di Chicago e alcuni dei suoi protagonisti, come Erving Goffman.

Qui, aggiungiamo che essa si caratterizzò per le sue importanti ricerche empiriche sul campo finalizzate a raccogliere il massimo delle conoscenze pratiche per poter arrivare alla comprensione dei problemi sociali urbani dal punto di vista dell’interpretazione e del senso.

 

Questa scuola fin dalla fine della prima guerra mondiale mise in campo numerose e complesse indagini su i più svariati temi sensibili. 

(La scuola fu fondata nel 1914 da Robert Park che la indirizzò subito allo studio sistematico della città dal punto di vista della “società urbana”.)  

 

Sono indagini che potremmo catalogare come visivonarrative, estremamente delicate per la natura dei temi trattati per la società americana tra le due guerre mondiali, quali l’immigrazione, la criminalità, la devianza, la marginalità dei gruppi di migranti, come gli irlandesi, gli ebrei, i polacchi, gli italiani e gli afro-americani.

 

Rappresentano ricerche empiriche focalizzate principalmente sull’uso dell’osservazione critica: dal case study alle interviste, il più delle volte filmate, alla raccolta di documenti sulla quotidianità o sull’esperienza vissuta, sia in forma visuale che narrata.   

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Il caso di studio è un metodo di ricerca utilizzato soprattutto nell’ambito di questioni complesse, per estenderne l’esperienza o rafforzare ciò che di esse è già noto da precedenti ricerche. 

 

Sulla base di quanto suggerito da autori quali Robert E. Stake, Helen Simons, e Robert K. Yin, è possibile stabilire grossomodo cinque step nello sviluppo di un caso di studio:

– determinazione e definizione dei quesiti della ricerca.

 

– selezione dei casi e pianificazione della raccolta dei dati e delle tecniche di analisi. 

 

– raccolta dei dati “sul campo”.

 

– valutazione e analisi dei dati.

 

–        elaborazione della relazione finale.

–         

In breve, il caso di studio risponde a uno o più quesiti che iniziano con “come” o “perché”, per giungere a “dunque”. 

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A proposito del concetto di osservazione nelle scienze sociali segnaleremo di sfuggita un dibattito teorico importante e irrisolto. 

Quello per cui osservare implica o significa, il più delle volte e in modo più o meno rilevante e voluto, alterare.

 

Naturalmente ciò non esclude che l’osservazione sia uno degli strumenti di base della ricerca qualitativa perché osservare, per definizione, è un atto intenzionale e critico che vale più del semplice guardare.

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La ricerca qualitativa o meglio i metodi qualitativi d’indagine sono un insieme di tecniche utilizzate in ambito disciplinare, in primis nella ricerca sociologica senza l’ausilio di formule o di modelli matematico-statistico. 

Il principio di base, per chi fa uso dei metodi qualitativi,è che non è importante descrivere o prevedere qualcosa in relazione ai grandi numeri, quanto piuttosto indagare in modo molto approfondito ogni singolo aspetto, caso, questione, cercando di ottenere quante più informazioni possibili. 

Per questo si prendono in considerazione anche dimensioni che non potrebbero essere considerate con tecniche quantitative, quali, il linguaggio non-verbale, l’emotività, la prossemica, le storie di vita, eccetera. 

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Con il guardare l’osservazione condivide l’intenzionalità, ma diversamente dal guardare cerca anche di raccogliere, cioè di registrare quanto è stato visto.

 

Diciamo che osservare è un guardare mirato per mettere a fuoco qualcosa che si ritiene significativo e, insieme, è un registrare ciò che si ritiene importante ai fini di uno specifico obiettivo.

 

Per fare questo occorre sia saper descrivere e nominare ciò che si osserva, evitando le generalizzazioni e le interpretazioni affrettate, come sviluppare una metodologia che contempli il maggior numero possibile di punti di vista sull’osservato.

 

In questo modo osservare diventa un descrivere il più fedelmente possibile le caratteristiche di un determinato evento, di un comportamento, di una situazione e delle condizioni in cui essi si verificano.

 

C’è anche un altro problema.

Considerato che ogni persona ha le sue convinzioni e i suoi valori, l’osservazione può essere considerata oggettiva se è compiuta da chi osserva e non da chi la vive?

 

O ancora, può la descrizione essere ritenuta affidabile se ciò che si osserva è condizionato dalla presenza dell’osservatore? 

 

E’ una diatriba da tempo nota anche come il “paradosso dell’osservatore”. 

 

Colui che osserva, infatti, che ne sia consapevole o no, è uno specchio che inevitabilmente tende a deformare l’osservato.

Com’è facile intuire lo sguardo dell’osservatore può essere più o meno suggestionato (spesso in modo involontario) dalle sue convinzioni, dai suoi valori, dai suoi interessi e dal suo vissuto. 

 

Va poi detto e non è secondario che l’osservazione di un aspetto puntuale di una situazione, soprattutto se è complessa, tende a rendere problematico, in modo più o meno importante, le relazioni con quanto può essere avvenuto prima di questa stessa situazione e quello che potrà avvenire in seguito. 

 

In breve, osservare non è una capacità naturale e imparare ad osservare implica un esercizio intenzionale.

 

Noi spesso tendiamo a dare per scontato quello che vediamo perché è difficile vedere in modo nuovo se l’osservazione è viziata (senza che noi ce ne rendiamo conto) dalla routine o dall’abitudine.  

 

Nell’osservazione, come nell’ascolto, il rischio è di finire per vedere e capire ciò che si vuol vedere e capire.

 

Infine è molto importante considerare che l’uso degli artefatti visuali raffredda ciò che si osserva e può aiutare a costruire una conoscenza nuova della situazione.

Tanto è vero che conviene sempre usarli anche se in base alle circostanze appaiono superflui.

 

A questo proposito ricordiamo che Marshall Mc Luhan era assolutamente convinto che il modo migliore di vedere la modernità fosse quello di osservarla attraverso gli artefatti i quali, grazie alla loro natura tecnologica, possono aiutarci a prevederne il decorso oppure ad evitare le sue trappole. 

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Media “caldi” e media “freddi”.

Questa classificazione di Mc Luhan ha dato spesso luogo a equivoci e a discussioni, dovute al fatto che gli aggettivi caldo e freddo sono stati adoperati in senso antifrastico, cioè in senso opposto rispetto al loro reale significato.

 

Mc Luhan classifica come freddi i media che hanno una bassa definizione e che quindi richiedono un’alta partecipazione dell’utente, in modo che egli possa riempire e completare le informazioni non trasmesse. 

I media caldi sono invece quelli caratterizzati da un’alta definizione e da una scarsa partecipazione intenzionale dell’utente. 

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In questo contesto che cosa intendiamo per artefatto?

Ce lo suggeriscono i filosofi e gli informatici, che lo definiscono come un congegno o degli apparati suscettibili di sviluppare l’apprendimento o di migliorare le capacità della nostra mente.

 

Più semplicemente.

Quasi tutti voi ne avete uno in tasca e molti di voi un altro davanti a sé.

Sto parlando dei vostri smartphone o palmari, delle vostre “tavolette” e dei vostri “pi-ci” che hanno cambiato la vostra vita rispetto alle generazioni che vi hanno preceduto.

 

Di questi congegni va compresa e appresa la loro capacità di estendere la nostra consapevolezza del mondo proiettandoci, sempre più spesso in tempo reale, in ogni suo angolo e in ogni sua struttura narrativa, così come va compresa e valutata la loro capacità d’ingannarci sul controllo che crediamo di avere su di essi e che condiziona le nostre scelte. 

 

Ma torniamo in tema.

Anche un altro sociologo e filosofo di orientamento fenomenologico, che abbiamo già incontrato nella prima parte del corso, Alfred Schütz, considerato nell’ambito delle scienze sociali come un brillante allievo di Max Weber, utilizzò in molte occasioni la sperimentazione visuale e l’osservazione diretta dell’agire dei soggetti studiati. 

 

Schütz sosteneva che non si può mai sapere (sulle cose del mondo e della vita) più di quanto si riesce a sperimentare direttamente attraverso i sensi. 

 

A grandi linee si può dire che da molti anni i sociologi, soprattutto quelli che adottano un approccio fenomenologico, considerano la comunicazione iconica o, più in generale visuale, come qualcosa che può tradursi in uno dei molti linguaggi della vita corrente.

 

Sul piano della piccola storia va registrato il fatto che la sociologia visuale cominciò a svilupparsi, perlomeno al suo esordi, con la fotografia.

 

Ha osservato a questo proposito Susan Sontag  (scrittrice americana e compagna della fotografa Annie Leibovitz), la fotografia va definita più come un modo di vedere che un atto del vedere.

 

Importante è anche quest’altra sua considerazione: 

Una fotografia è considerata dimostrazione incontestabile che una data cosa è effettivamente accaduta. Può deformare, ma si presume sempre che esista o sia esistito qualcosa che assomiglia a ciò che si vede nella foto.

Così, quali che siano i limiti (per dilettantismo) o le pretensioni (per ambizioni artistiche) del singolo fotografo, una fotografia – qualunque fotografia – sembra avere con la realtà visibile un rapporto più puro, e quindi più preciso, di altri oggetti mimetici.

(dal libro, Sulla fotografia, 1973-77).

 

Sempre sul piano della piccola storia osserviamo questo.

Nel 1839 uscì il Corso di filosofia positiva di Auguste Comte. 

 

Nello stesso anno l’astronomo inglese John Herschel propose di usare il termine fotografia per i cosiddetti supporti sensibilizzanti a base di cloruro d’argento di Joseph-Nicéphor Niepce. 

 

Sempre nello stesso anno Louis Jacques Mandé Daguérre mise a punto un nuovo procedimento – la dagherrotipia – che consentiva nell’impressionare una lastra di rame argentato, sensibilizzata con i vapori di iodio.

 

Va osservato che anche se la fotografia, perlomeno all’inizio, non era che una tecnica, il suo uso non fu da subito coerente a ciò che essa consentiva.

 

Quando il fotografo Robert Fenton nel 1855 fu inviato dal governo inglese in Crimea, dove si stava combattendo una guerra che per molti versi inaugurò (dal punto di vista delle perdite in vite umane) il corso dei conflitti moderni, un po’ per tranquillizzare l’opinione pubblica, un po’ perché non si erano ancora capito le opportunità che la fotografia offriva, invece di documentare la realtà delle trincee, la morte, la paura, l’abbruttimento, gli orrori dei combattimenti, Fenton si limitò a usarla come si era usata la pittura fino a allora, vale a dire come un mezzo per “illustrare” le retrovie, ritrarre ufficiali in parata e in alta uniforme, sottolineare in modo aneddotico la prosopopea della vita militare.

 

Ma le cose cambiarono velocemente, da una parte, grazie all’entusiasmo dei positivisti che definirono la fotografia uno strumento privilegiato per comprendere la realtà del mondo, dall’altra, a causa dell’impatto dei problemi sociali che in quegl’anni in Europa si manifestarono un po’ dappertutto mettendo a nudo la disperazione e la degradazione sociale delle classi più povere.

 

Va aggiunto che la cultura positivista sempre in quegl’anni trasformo la fotografia in un potente supporto sia per la documentazione antropologica, indirizzata soprattutto allo studio e all’osservazione dei problemi psichiatrici, come per l’analisi visiva della devianza sociale e della criminalità.

 

Ricordiamo, qui, il discusso psichiatra e criminologo italiano Cesare Lombroso, che cominciò a usare in modo sistematico la fotografia per l’elaborazione delle foto segnaletiche.

 

Poi arrivò il cinema.

L’ingresso ufficiale lo fece a Parigi, al Salon Indien, nel dicembre del 1895 con una dozzina di film di circa due minuti ciascuno.

 

Come abbiamo ricordato nella prima parte del corso, questi sono anche gli anni del fonografo elettrico, brevettato da Thomas Edison nel 1888.

 

Dentro questi scenari il precursore del film di ricerca sociale è considerato il fisiologo e antropologo francese Félix Regnault che nel 1895 presentò all’Esposizione Etnografica dell’Africa Orientale la sequenza cronofotografica della preparazione di una tazza d’argilla da parte di una vasaia Wolof e altri frammenti visuali di questa etnia.

 

Invece, il primo vero lavoro cinematografico sul campo è quello dell’antropologo inglese Alfred C. Addon, che nel 1898 riprese la vita quotidiana delle popolazioni dell’isola dello Stretto di Torres un braccio di mare che si trova tra l’Australia e la Nuova Guinea.

 

Un classico di questi primi documenti di cultura cinematografica è generalmente considerato Nanook of the North, un film di Robert Flaherty del 1922 sulla vita di una famiglia di esquimesi, come si chiamavano allora gli Inuit.

 

Sia pure in un excursus così breve non possiamo non menzionare Dziga Vertov, un pioniere del cinema russo, l’inventore del cinema-occhio o, come anche è stato detto, del cinema verità.

 

Vertov va ricordato nel contesto della cultura visuale perché in qualche modo gettò le basi del cinematografia documentaristica, un modo di usare la cinepresa che diventò un genere e che segnò profondamente la cultura del cinema almeno fino alla fine della seconda guerra mondiale.

 

Chiudiamo questa breve rassegna ricordando da una parte, Franz Boas, un grande antropologo tedesco-americano, che nel 1930 utilizzò personalmente la cinepresa e la registrazione fonografica nel corso di una spedizione presso i Kwakiutl, nella Columbia Britannica, presso i quali documento cerimonie, giochi, metodi di lavorazione, danze.

Dall’altra, Margaret Mead e Gregory Bateson che, nel 1942 con l’opera The balinese character, proiettarono la ricerca visuale nella modernità con settemila metri di pellicola girata e venticinquemila fotografie.

 

E sempre a proposito di cinema e di cultura, prima di proseguire ricordiamo anche Lewis Hine (1874-1940) un sociologo statunitense che definì la macchina fotografica uno strumento di sviluppo culturale capace di promuovere molti dei temi legati alla conflittualità sociale.

Senza di lui non avremmo conosciuto in modo così drammatico le forme di sfruttamento del lavoro minorile in fabbrica all’inizio del ventesimo secolo. 

 

Hine si mosse sulla scia di un altro riformatore sociale statunitense di origine danese Jacob Riis (1849-1914). 

Riis, è sconosciuto in Europa quanto è popolare negli Stati Uniti, in particolare a New York dove introdusse nel giornalismo l’uso della notizia fotografica o fotonotizia, il più delle volte scandalistica ,per muovere le coscienze.

Chi ama la fotografia dovrebbero invece ricordarlo per due motivi, l’aver introdotto l’uso del flash nello scatto delle istantanee e l’aver sviluppato quel modo di fotografare che va sotto il nome di photography casual.

 

Facciamo un passo avanti.

Nel contesto delle scienze sociali la visual sociology entrò stabilmente nel contesto degli studi accademici verso la fine degli anni 60 del secolo scorso.

Vi entrò con i Neochicagoans, com’era chiamata la generazione di sociologi della cosiddetta Seconda Scuola di Chicago.

 

Ricordiamo di essi Howard Becker – un ricercatore che si occupò dei temi della devianza, Douglas Harper, un altro sociologo che studiò la vita dei senzatetto di Boston.

Bruce Jackson, che insegna cultura americana all’università di Buffalo e realizzò numerosi documentari sulla cultura nera e la vita carceraria e, infine, Nic Baird che usando come strumento principale un videoregistratore analizzò le dinamiche dei piccoli gruppi e le storie dei nuclei familiari.

 

In questo contesto è importante una data, il 1983, l’anno in cui si costituisce l’International Association of Visual Sociology, composta, in un primo momento, soprattutto di studiosi americani e canadesi.

Quanto alle ricerche e agli studi più prestigiosi di questa associazione sono pubblicati dalla Visual Sociology Rewiew, che da qualche anno esce anche in forma digitale.

 

Chiudiamo questa parte con il tema dei visual cultural studies.

Sono studi che trattano e valutano i progressi della cultura iconica e l’uso che gli individui fanno delle immagini. 

 

Ricordiamo questi studi accennando a Svetlana Alpers (statunitense, storica dell’arte, già allieva di Ernst Gombrich, insegna a Berkeley in California) che nel 1972 usò l’espressione di visual culture per indicare un particolare approccio alle opere d’arte nel quale oltre alla storia che le precede e le influenza si prende in considerazione anche la cultura che le circonda e le significa.

 

Studiando sul campo la pittura fiamminga di cui è una specialista la Alpers comprese che era necessario considerarla come l’espressione di una cultura visuale a essa contemporanea entro cui le opere avevano avuto origine e ne ricavavano un senso.

 

In pratica la Alpers spostò l’analisi dall’opera di per sé al significato che possiede la produzione delle immagini.

 

Vale a dire l’opera – considerata come un testo visivo – deve essere esaminata non solo rispetto al modo in cui una cultura si rappresenta, ma anche rispetto a come essa concepisce la rappresentazione.          

 

In altri termini, il materiale visuale va inteso come un sistema testuale nei confronti del quale colui che guarda oltre a ciò che guarda deve considerare lo sguardo come un processo di conoscenza, come una pratica interpretativa con le sue regole e le sue procedure. 

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Vediamo meglio che cos’è uno sguardo.

Anche se gli sguardi sono per così dire complici delle immagini hanno, tuttavia, una loro specifica identità, ciò nonostante è complicato individuare dove finisce uno sguardo e inizia un’immagine.

 

Il fatto che gli sguardi per loro natura siano irrappresentabili e indicibili ci suggerisce che le immagini li rappresentano solo indirettamente, divenendo – con il gergo della psicoanalisi – un oggetto di desiderio.

 

Di contro, le immagini hanno il potere di attrarre i nostri sguardi stimolandoli e incuriosendoli.

 

In questione, dunque è il desiderio è il controllo (o il dominio) che lo sguardo può esercitare sulle immagini. 

 

In linea generale si può affermare che fu nel corso del Medioevo che nacque il problema culturale e politico di questo controllo.

 

Dal punto di vista dell’evoluzione delle forme di cultura fu un capitolo importantissimo della loro evoluzione. 

Gli individui si resero conto che non era più conveniente e non potevano più semplicemente affidare allo Stato e alla religione il controllo e la gestione delle immagini senza che ne andasse di mezzo  la loro libertà e capacità di giudizio.     

 

Più tardi, nella stagione del Barocco l’eccesso delle immagini ebbe in qualche modo dei risvolti patologici a livello degli stili di vita, perché le immagini cominciarono a confondere gli sguardi dopo averli sedotti, a sedurre i desideri dopo averli ammaliati.

 

Con la modernità il desiderio di illusioni, che accompagna gli stimoli alla conoscenza visuale, produssero un ulteriore conflitto che la storia dei media e la storia sociale dei processi culturali descrivono spesso come irrisolvibile.

 

Ma c’è un’ulteriore complicazione che deriva dal modo con il quale le lingue concettualizzano lo sguardo, il guardare, il percepire e le immagini.

 

La parole tedesca Blick – sguardo, occhiata – deriva da Blitz che vuol dire lampo, baleno.

Questa derivazione ci suggerisce che uno sguardo in qualche modo ci coglie sempre sul fatto.

 

In francese regard si associa a prendre garde che vuol dire prendersi cura di, cautelarsi, stare attento.

 

In inglese abbiamo regard e regardful, che possiamo tradurre con considerare e che, in qualche modo, si associano a watch e watch outstare attenti.

 

Sempre in inglese abbiamo gaze, look e glance.

Gaze è lo sguardo che fissa, lo sguardo prolungato.  

Look è il guardare o meglio il vedere.  

Glance è lo sguardo fugace, erratico, il colpo d’occhio (coup d’oeil) come dicono i francesi.

 

Per tornare al Blick dei tedeschi l’alternativa e sehen – vedere.

Le varianti, poi, sono composte utilizzando gli aggettivi o meglio i predicati.

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Il predicato, dal latino praedicatum, “ciò che viene affermato”, è un elemento della frase (oppure una parola o un gruppo di parole) o anche una frase elementare che può costituire insieme al soggetto una frase completa.  È destinato a definire meglio il soggetto.

In italiano il predicato è per lo più un sintagma composto da un verbo o un verbo servile unito a un aggettivo o a un avverbio.

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Nella cultura occidentale come in molte altre culture antiche e moderne è stata la pittura a mettere in scena lo spettacolo dello sguardo.

In Europa è soprattutto con il Seicento che il mondo del campo pittorico cominciò a essere costruito (strutturato) a partire dagli sguardi.

Essi sono il tema per eccellenza di questo secolo “illuminato”. 

 

In buona sostanza chi guarda è uno spettatore e lo sguardo è un congegno dell’esperienza. 

Con lo sguardo si possono raccogliere delle immagini così come si raccolgono delle informazioni. 

 

C’è un dipinto di Diego Velàzquez che può aiutarci a comprendere questo tema.

Sono Las Meninas che dipinse nel 1656, un’opera che sedusse Michel Foucault per il suo intreccio di sguardi e di prospettive simboliche.

 

In ogni caso per cogliere appieno il significato di guardare e l’importanza dello sguardo rimandiamo alla lettura di Jean Starobinski, professore di storia delle idee all’Università di Ginevra.

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Ritorniamo ancora per un attimo sulla Alpers.

In qualche modo il punto di vista di questa ricercatrice ha fatto scuola, nel senso che la cultura visuale ha assunto a partire dalla fine del secolo scorso, soprattutto nei paesi lingua inglese, uno statuto accademico. 

 

Oggi possiamo definire la visual culture come un progetto interdisciplinare di analisi e critica dei linguaggi visivi che aggiunge all’approccio storicistico classico una prospettiva antropologica che consente di riflettere su come, nei processi culturali, le immagini vengano prodotte, diffuse, trasformate e manipolate.

 

Per meglio comprendere questo punto pensiamo alla fotografia.

Il suo significato è sempre più o meno connesso alle sue pratiche di fruizione. 

Queste pratiche, a loro volta, sono legate alle istituzioni che le gestiscono.

 

Semplificando è come dire che la fotografia di un volto cambia di significato e di senso a seconda che sia una foto segnaletica delle forze dell’ordine, un veicolo per vendere una crema di bellezza o semplicemente la foto che l’amato mette sulla scrivania per ricordare l’amata.         

 

In sostanza la cultura visuale rappresenta lo sviluppo più recente di un insieme di ricerche che non può più ignorare la centralità assunta dalle immagini, fisse o in movimento, e quindi dai regimi scopici della modernità. 

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Il concetto di regime scopico è complesso, per semplificare possiamo dire che è il risultato dell’incontro di tre fattori. 

Le immagini. 

I supporti che le rendono visibili.

media che ci consentono di realizzarle. 

 

C’è poi da considerare lo sguardo che si posa sulle immagini e che le rivela.       

 

A questo punto occorre far  ricorso a delle modalità interpretative, che ci derivano dalla teoria visuale, dalla tradizione storica della Kulturwissenschaft (scienza della cultura) e al limite dalla tradizione. 

 

Scienza della cultura che possiamo far partire, nel senso con la quale la intendiamo qui, da Aby Walburg (1866-1929, storico dell’arte tedesco, dal cui patrimonio iconologico e dai suoi lasciti finanziari è nato un istituto che porta il suo nome) e che arriva fino a Hans Belting

 

Anche Belting è tedesco ed è uno  storico dell’arte di cui ha sviluppato la cosiddetta prospettiva antropologica

In Italia di questo studioso è stato tradotto, nel 2011, il suo libro più importante, che s’intitola: Antropologia delle immagini

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Per proseguire.

Nell’ambito del discorso sociologico va ricordato come fin dagli anni ’60 del secolo scorso l’analisi delle rappresentazioni visive della cultura di massa è stato un tema studiato e dibattuto, ma ciò che allora era ritenuto rilevante erano le pratiche di fruizione – da parte dell’opinione pubblica – soprattutto del mezzo televisivo.

 

Oggi, come abbiamo rilevato più volte, l’accento si è spostato sull’immagine considerata come un testo significante, ponendo al centro della questione la domanda: fino a che punto un’immagine può essere concepita come un linguaggio? 

 

Soprattutto, come può essere riformulata la relazione tra potere e sapere – messa in luce soprattutto da Michel Foucault – aggiungendovi quella tra vedere e conoscere e dunque tra sapere, vedere e potere? 

 

Un tema che è stato centrale anche in un’altra disciplina, quella dei cultural studies che riuniscono molti paradigmi e assunti teorici che vanno dal campo di formazione del sociale a quello di formazione delle ideologie. 

O meglio, dal modo con il quale (nella società) s’installano i significati simbolici al ruolo dei simulacri in una cultura dominata sempre più dalle forme dello spettacolo.

 

Mettiamo ora “a fuoco” il concetto di immagine

 

Per cominciare dobbiamo osservare che la lingua inglese distingue nettamente tra image e picture.

Lo esprime molto bene e con ironia questa frase: 

You can hang a picture, but you can’t hang an image.

 

In breve, per la lingua inglese, picture è un oggetto materiale che può essere conservato, dimenticato o distrutto. 

Image è ciò che appare nella picture e che può sopravvivere alla sua distruzione o al suo oblio. 

Può sopravvivere nella memoria, nella narrazione così come in altri media

 

Ricordate McLuhan?  Il contenuto di un medium è un altro medium.

 

Osserviamo anche che un’immagine non appare mai se non associata a un medim, che in qualche modo, però, trascende, perché essa può essere trasferita da un medium a d’un altro.

 

Ma c’è di più.

Possono esserci più picture che contengono la stessa immagine.

Tecnicamente queste immagini sono definite delle effigi, cioè delle immagini che ci consentono di identificare il genere di una picture

 

Facciamo un esempio.

Spesso nei cortei operai il padrone della fabbrica è rappresentato come un vampiro.

Sono due immagini – quella del padrone e quella del vampiro – che appaiono fuse in una singola figura – figure – o forma.

Questo è quello che si definisce un caso di metafora visuale.

 

Ma se ci pensiamo bene ogni raffigurazionedepiction come dicono gl’inglesi – si basa su una metafora, cioè, sul vedere comeseeing as.

 

Va notato come oggi attraverso la lettura di Ludwig Wittgenstein,del filosofo inglese Richard Wollheim e del critico d’arte americano Arthur Danto molti corsi universitari affrontano il rapporto tra percezionerappresentazione, con particolare riferimento alle nozioni di “vedere-come”, “vedere-in” e di “trasfigurazione”.

Analisi che s’intrecciano con gli studi del critico d’arte tedesco Hans Belting in un ripensamento del problema del corpo dell’immagine nell’opera d’arte contemporanea. 

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Sempre sul tema delle immagini ricordiamo una scienza recente, l’imagologia, vale a dire lo studio delle immagini, dei pregiudizi, dei cliché, degli stereotipi di una determinata cultura vista dalla prospettiva dell’Altro

Due studiosi importanti dell’imagologia sono Hugo Dyserinck e Daniel-Henri Pageaux (Il primo, belga, uno studioso di letteratura moderna, il secondo professore di letteratura alla Sorbona) che hanno dato una svolta a questa disciplina studiando le images e i mirages che fanno parte di un’imagerie culturelle, ovvero le immagini negative o positive di un immaginario collettivo nella quale al suo interno si formano miti e stereotipi.  

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A proposito invece del corpo delle immagini ricordiamo che Leonardo Da Vinci era affascinato dalle macchie di muffa sulle pareti in cui scorgeva paesaggi, volti, figure di animali.

 

O, per venire più a noi, ricordiamo Honoré de Balzac (1799-1850) grande bevitore di caffè, che si divertiva a completare le macchie che la tazzina o le cadute accidentali di questa bevanda sui fogli gli suggerivano.

 

L’immagine, dunque, è la percezione di una relazione di rassomiglianza o di analogia e, anche se non siamo in un corso di filosofia, di un segno iconico.

 

Torniamo al nostro tema specifico. 

L’osservazione, come oramai risulta chiaro, è uno degli strumenti di ricerca nel campo delle scienze sociali di più radicata tradizione. 

Vediamolo in due grandi autori vissuti in epoche diverse.

 

Il primo è Alexis de Tocqueville (1805-1859) filosofo, storico e studioso della politica.

Nel 1831 durante un viaggio in America fu affascinato dalla democrazia dei neonati Stati Uniti – erano stati proclamati il 4 luglio 1776 – tanto che le sue osservazioni costituiscono uno dei libri più belli dell’800 politico europeo. 

Ma queste osservazioni non sono altro che un resoconto di quello che visse e vide nei nove mesi del suo soggiorno – era stato inviato dal governo francese per studiare sul campo il sistema carcerario americano . 

 

Roland Barthes nel 1970 compì un viaggio in Giappone e al suo ritorno scrisse un libro da tutti giudicato un piccolo capolavoro,  L’empire de signes.

 

In questo libro Barthes – come lui stesso sottolinea – fa tesoro dell’impossibilità di usare una lingua per comunicare con questa cultura che lo affascina per la complessità e la grandiosità della sua scrittura e dei suoi processi cerimoniali.

Diciamo che, per reazione, è costretto a acuisce le capacità di osservazione su quello che vede nelle strade, a teatro, nei modelli della vita corrente, nelle pratiche alimentari.

 

Ne scaturì un documento che, come molti hanno detto, ha capovolto l’oscuro, soprattutto per quanto riguarda la cucina che lo affascinò in modo particolare per il suo complesso sistemi di segni, di cerimonie e di rituali.

Oggi questo libro è fondamentale per poter comprendere molti aspetti del Giappone moderno.

 

Dobbiamo però anche notare questo.  Nei paesi che hanno una grande tradizione letteraria la parola è associata alle regole o per semplificare alla legge, all’alfabetizzazione delle élite che frequentano spesso università umanistiche,mentre l’immagine è associata alla superstizione popolare, all’analfabetismo e alla mancanza di regole, in parole povere alla licenziosità.

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Dunque le immagini.

Nell’ambito della sociologia visuale devono essere pensate come se fossero un testo, vale a dire dei congegni capaci di organizzare dei significati e di descriverne il senso. 

 

Oppure, in termini operazionali, come degli utensili che ci consentono la descrizione, la ricerca dei contesti e l’interpretazione di ciò che le immagini prese di per sé rappresentano.

 

Da tempo sappiamo che le immagini sono polisemiche e che i loro significati sono contestuali e soggettivi.

Come ha scritto Rudolf Arnheim (1904 2007), la percezione visuale mette in atto un processo d’astrazione che trasforma il percepito in nozioni e in categorie di pensiero.

 

Nella modernità gli individui hanno coscienza del mondo che li circonda soprattutto attraverso le immagini visive e acustiche, immagini che sono poi utilizzate per dare una forma – una gestalten, una configurazione  – al concetto di realtà.

 

“Vediamo” due esempi di immagini acustiche, dette anche mappe sonore.  

 

C’è però da rilevare che la rappresentazione della realtà attraverso le immagini è sempre soggettiva perché comunque deve fare i conti sia con il contenuto simbolico che l’individuo investe sulla realtà come con l’interpretazione delle immagini stesse.

 

La centralità della visione, dunque, è in qualche modo uno dei processi di costruzione del senso del mondo. 

A livello elementare la relazione tra l’immagine e l’oggetto da vita a tre situazioni distinte.

– Abbiamo l’immagine come sostituto della realtà il cui scopo in genere è di suscitare emozioni.

– Abbiamo l’immagine documentaria che è al servizio della realtà o di parti essa e che serve a produrre conoscenza.

– Abbiamo l’immagine artistica, che in qualche modo educa o condiziona al significato della realtà.

 

Sul piano disciplinare molti oggi ritengono che nelle scienze sociali la comunicazione orale e quella verbale non siano più in grado di cogliere fino in fondo la complessità comunicazionale delle immagini.

 

Di contro e grazie allo sviluppo delle tecnologie, la qualità estetica dell’immagine e la sua componente documentaria possono essere in qualche modo complementari alle due forme canoniche di comunicazione (orale e verbale) generando un grado più elevato di comprensione.

 

Molti studiosi sono anche convinti che la percezione visuale di un fenomeno ci fornisce delle informazioni diverse dalla conoscenza che si ha tramite la lettura di un testo.

 

Rudolf Arnheim (1904-2007) a questo proposito ha parlato di un pensiero produttivo che si costruisce a partire dalle immagini che noi abbiamo della realtà.

 

Un concetto che va completato con quello che osserva Ludwig Wittgenstein, vale a dire, che è l’uso che definisce il significato e il valore di un’immagine, perché le immagini sono un prodotto sociale.

 

Naturalmente vanno distinte due tipologie di immagini: 

–  le immagini sociali che hanno un valore e una funzione all’interno della società

–  le immagini del sociale che descrivono o rappresentano i fenomeni sociali e la condizione umana. 

 

Ciò che distingue queste due tipologie d’immagini è la loro metodologia interpretativa e l’utilizzo  che si fa delle immagini stesse.

 

Come abbiamo già accennato la storia delle immagini del sociale comincia con la fotografia che nasce negli stessi anni della sociologia.

 

Potremmo dire, guardando la loro storia, che fotografi e sociologi avevano, anche senza saperlo, lo stesso fine: esplorare la società.

 

A questo proposito dobbiamo sottolineare una significativa differenza tra la sociologia europea – impregnata di idealismo – e la sociologia americana – che si è sviluppata con le ricerche sul campo – perché per gli americani e la Scuola di Chicago in particolare, l’utilizzo della camera è sempre stato considerato un modo fondamentale di fare ricerca.

 

Significativa è questa dichiarazione di Margaret Mead (1901-1978) del 1957.  

Gli uomini non solamente s’intendono, parlano e comunicano tra di loro per mezzo delle parole, ma utilizzano tutti i loro sensi, in modo altrettanto sistematico. 

Li utilizzano per vedere e proiettare quello che vedono in forme concrete – come sono i disegni, il costume, le forme architettoniche – e per comunicare attraverso la percezione reciproca d’immagini visuali.    

 

Per cogliere l’importanza di questa affermazione ricordiamo che questa famosa antropologa americana era stata a sua volta figlia di un’antropologa, che fu allieva di Franz Boas e che sposò in terze nozze Gregory Bateson, uno studioso della mente, con il quale fece delle ricerche sul campo a Balì dove ebbe modo di perfezionare le tecniche della ripresa cinematografica in chiave documentaria.

 

C’è un’altra ragione profonda che ha dato vita alla sociologia visuale, è rappresentata dall’esplosione dell’immaginario visuale nella vita corrente.

 

Per comprenderlo, anche se in modo molto rozzo e intuitivo, basti pensare questo: 

Ogni giorno, tra ciò che vediamo con i nostri occhi e quello che vediamo tramite i congegni informatici, noi abbiamo l’opportunità di osservare migliaia di comportamenti e di espressioni umane che fino a un paio di secoli fa – in particolare nelle zone rurali del mondo occidentale – non si riusciva a vedere in tutta una vita.              

 

Dunque, la costruzione di una narrazione visuale – coerentemente con l’interazionismo simbolico – ci permette di registrare migliaia di dettagli utili per una riflessione sulla realtà e a meglio comprendere la complessità della vita corrente e del vissuto all’interno dei contesti culturali.    

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L’interazionismo simbolico è una corrente delle scienze sociali statunitensi che ebbe il suo maggior sviluppo e successo negli anni centrali del Novecento. 

Non ne parliamo in modo esplicito all’interno del nostro corso perché oggi molte delle sue concezioni sono diventate un patrimonio diffuso di molti altri indirizzi della sociologia contemporanea diluendosi in essi.     

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Molti sociologi, poi, sono dell’avviso che quando si usano dei congegni visuali – come macchine fotografiche o videocamere – noi pensiamo teoricamente o, meglio, ideologicamente, vale a dire confezioniamo con questi congegni delle tematiche sociologiche tali per cui il materiale visivo che produciamo, coscienti o incoscienti, corrisponde nelle conclusioni alle nostre premesse.

 

Da questo punto di vista l’immagine può dunque essere considerata sia come un dato che come un mezzo di un processo di rappresentazione.

 

Di più, la comunicazione visuale può essere considerata anche come uno scambio comunicativo o come la traccia di un nuovo paradigma fenomenologico.

In altri termini essa permette di cambiare la prospettiva con la quale facciamo nostri la realtà sociale, l’esperienza, il vissuto e la costruzione del senso.

 

Da questo deriva anche una certa accentuazione di quelle che si chiamano le corrispondenze sociali e naturali che per i più ottimisti tendono a favorire l’interazione, per i pessimisti, la domesticazione sociale.

 

Esaminiamo ora a grandi linee il concetto di rappresentazione.

 

Che cosa significa rappresentare nel discorso comune?

– Riprodurre o raffigurare la realtà con figure disegnate, dipinte o scolpite.

– Descrivere o narrare qualcosa, questo scritto rappresenta il mondo moderno.

Simboleggiare qualcosa, la bandiera simboleggia l’unità della nazione.

– Mettere in scena uno spettacolo.

– Svolgere le proprie funzioni in nome e per conto di altri, i deputati rappresentano gli elettori.

– Sostituire qualcuno nelle sue funzioni.

– Costituire qualcosa, questo anello rappresenta un ricordo d’amore

 

In sintesi, re-ad-praesentare in latino vuol dire rendere nuovamente presente, ma come si fa?

 

Per cominciare possiamo dire che ogni cultura e ogni epoca ha sviluppato una propria forma di rappresentazione.

 

Facciamo un esempio, la rappresentazione dello spazio. 

Nell’ambito della cultura europea ha costituito uno dei temi centrali della scienza e delle arti.

 

Lo è stato sia dal punto di vista della mera prospettiva geometrica, sia per i contenuti simbolici che lo spazio sa esprimere, per fare un esempio, dal punto di vista del potere e del suo modo di apparire come un simbolo della gerarchia.

 

Non è un caso che chi comanda sta sempre più in alto di chi ubbidisce e che questo principio sia arrivato sino a noi, insinuandosi nelle forme lavorative, politiche, culturali e perfino abitative, se consideriamo come gli attici o anche le semplici soffitte con una terrazza sulla città valgono di più degli appartamenti ai piani bassi, come a teatro i posti nei palchi costano di più dei posti in platea.

 

Da molti anni a questa parte e negl’ambiti più diversi si parla di crisi della rappresentazione, ma è un gioco di parole che rimanda a qualcosa di molto più complesso:    

A come si rappresenta in un’epoca globale e iper-connessa le crisi che questa situazione produce.  

 

Imparare a rappresentare le crisi, infatti, non sempre significa mostrarle e tanto meno spiegarle, spesso vuol dire semplicemente occultarle.    

 

In ogni modo possiamo dire che nella modernità l’espressione di rappresentazione è diventata un’espressione polisemica.

Questa espressione fa parte del vocabolario della filosofia, della linguistica, della psicologia, della sociologia, della matematica e di molte altre discipline.

Naturalmente in ognuna di queste discipline la rappresentazione ha un suo paradigma, cioè, delle regole condivise e accettate.

 

Cambiando l’angolo di prospettiva, vista nel tempo, la rappresentazione può essere intesa come una traccia

Una traccia che ha subito una sostanziale rivoluzione materiale e simbolica con l’invenzione della fotografia a metà Ottocento e con il cinema a cominciare dai primi dal Novecento. 

 

Una traccia che all’inizio apparve come una conquista dell’oggettività e che le possibilità di riprodurla ne moltiplicarono il valore emotivo, specialmente in due campi, il volto dell’uomo e il paesaggio, sia rurale che urbano.

 

Oggi, come intuì Marshall McLuhan negli anni Ottanta del secolo scorso, la rappresentazione ha subito un’ulteriore metamorfosi.

È diventata la protagonista non solo dei linguaggi visivi, ma anche di quelli visuali e di quelli astratti.

Questa espansione della rappresentazione ha generato un’illusione: 

Che l’uomo possa padroneggiare il reale e grazie ai mezzi tecnici riprodurlo all’infinito. 

 

Oggi sappiamo che le cose non stanno così e spesso si sottovaluta l’impatto della rappresentazione nella formazione e nella gestione dei processi ideologici, come, per esempio, quelli che formano l’opinione pubblica.

 

Più importante ancora è un’altra osservazione che ha per tema il linguaggio.

Perché la lingua, anche attraverso la parola e la scrittura, è stata per secoli un possente mezzo di rappresentazione.

 

In particolare la scrittura, rendendo visibile la parola, ha fornito per secoli all’uomo uno dei più sofisticati strumenti di rappresentazione.

Basta pensare al mistero e al fascino della poesia o dei processi narratologici.

 

In generale, la potenza di rappresentazione della lingua permette di dire delle cose altrimenti impossibili e di costruire delle immagini che accrescono i suoi (della lingua) significati.

 

Attraverso le figure grammaticali della retorica noi possiamo moltiplicare le figure della rappresentazione immaginate dal pensiero, come sono le rappresentazioni delle emozioni e delle sensazioni.

 

Non è per caso che l’arte della retorica sia un importante strumento comunicativo in tutti i campi in cui è in gioco la sensibilità: dalla politica all’arte, alle relazioni interpersonali, alla stessa pubblicità.

Come sosteneva Platone, ancora oggi lo scopo della rappresentazione e di farci prendere il verosimile per vero. 

 

Un’altra forma particolare di rappresentazione è contenuta nel paradigma delle forme artistiche.

 

In questo senso potremmo definire gli artisti come coloro che traghettano il mondo sensibile nella rappresentazione e per farlo hanno sempre cercato di elaborare nuovi strumenti e nuove tecniche.

 

Queste rappresentazioni degli artisti nella cultura occidentale ubbidiscono al paradigma dell’estetica, cioè, ad una traduzione culturale datata, che è come dire ad un codice di rappresentazione.     

Un codice che si può anche rifiutare a patto di conoscerlo. 

 

Poi, come sappiamo, a partire dalle avanguardie storiche molte cose sono cambiate.

 

L’esempio più evidente è costituito dal fatto che sempre più spesso la rappresentazione s’invera in una riproduzione dell’immagine così com’è, vale a dire diviene una sorta di sembiante che nelle arti ha acquisito un significato artistico, è il caso di Andy Warhol e delle sue scatole di pagliette marca Brillo per pulire le pentole, delle sue Campbell’s soup o delle sue Marylin.

 

Un altro tema oggi legato alla rappresentazione, considerata la complessità di elaborare un’epistemologia visuale, è quello della sua manipolazione.

Le immagini, come tutti sanno, possono essere manipolate in forme sempre più complesse, oggi ci sono centinaia di programmi in rete che possono essere scaricati per farlo.  

In principio era un gioco che è divenuto un problema. 

 

Del fatto che sarebbe diventato un problema lo capirono molti studiosi di scienze sociali, filosofi e artisti fin dalle prime decadi del Novecento.

Proviamo a leggere questa curiosa testimonianza di Gustav Janouch (tratta da:Conversazioni con Kafka) che riguarda Franz Kafka perché ha degli spunti sorprendenti.      

 

Scrive Janouch:

Nella primavera del 1921 vennero installate a Praga due macchine fotografiche automatiche – una recente invenzione straniera – che riproducevano su un unico foglio sei o dieci o più pose di una medesima persona.

Quando portai a Kafka una di queste serie di fotografie gli dissi allegramente: “Per un paio di corone ci si può far fotografare da ogni angolazione. Questo apparecchio è un Conosci-Te-Stesso meccanico.

“Di’ piuttosto un Non-Conosci-Te-Stesso“, disse Kafka con un sorrisetto.

Io protestai. “Cosa intendi dire? La macchina non può mentire”.

“Chi te l’ha detto?” Kafka piegò la testa su una spalla. “La fotografia concentra la nostra attenzione sulla superficie. Di conseguenza abbuia la vita nascosta che balugina attraverso i contorni delle cose come un gioco di luci e ombre.

E questa non si può coglierla neanche con il più penetrante degli obiettivi. Si può solo cercarla a tastoni…

 Questa macchina automatica non moltiplica gli occhi degli uomini, dà soltanto una visione a volo d’uccello incredibilmente semplificata”.

 

La manipolazione delle immagini può avere le motivazioni più diverse, spesso violente e tragiche.

Sono motivazioni politiche, culturali, razziali, militari, per ingannare, diffamare, insinuare sospetti, modificare i volti o l’età, come avviene nei siti porno.

 

C’è d’aggiungere che con l’innovazione digitale sono caduti due caratteri fondamentali della fotografia classica.

La sua immutabilità e il suo essere d’autore.

 

Vale a dire è entrato in crisi il concetto stesso di originale e di autentico e una stessa opera fotografica si troverà a essere figlia di più autori: chi l’ha scattata, chi l’ha trasformata o manipolata, chi l’ha tagliato per impaginarla, chi la inserita in una cornice argomentativa per modificarne il senso.

 

La manipolazione in sé non sarebbe un fatto negativo per la correttezza dell’informazione, se essa si limitasse alla variazione dei colori e dei loro rapporti, alla ricerca di un’immagine migliore dal punto di vista della sua “resa visiva”.

 

Un’altra cosa è la manipolazione del senso delle immagini di attualità, un comportamento diffusissimo sulla stampa e in rete, tanto esteso e perfezionato che ormai non ci si rende più conto di quello che significa dal punto di vista dell’informazione.

 

In relazione a questo molti sostengono che se è inevitabile nella modernità l’alterazione della nostra percezione del mondo allora è importante che questo processo di artificializzazione sia noto e pubblico.

In breve, che è necessario essere consapevoli che le immagini cui ci troviamo di fronte nella modernità non sono necessariamente veritiere nei confronti della realtà.

 

Insomma, se ogni cosa può essere vera, è vero anche il suo contrario.

 

Così, il problema, in ultima istanza, non è la manipolazione, ma la sua dissimulazione

Diciamo che l’era dei media dovrebbe insegnare prima di tutto a dubitare e poi a guardare.

 

Chiudiamo, ricordando una definizione di media dal punto di vista delle scienze sociali.

 

Oggi se usiamo l’espressione di media sottintendiamo quasi sempre visuali, ma non è proprio così.

I media sono un congegno composito, una miscela di elementi sensoriali e semiotici.

Diciamo che sono formazioni miste – mixed – o ibride che combinano suono e vista, testo e immagine.

 

Consideriamo adesso le rappresentazioni collettive e la comunicazione visuale. 

Il concetto di rappresentazione collettiva la dobbiamo a Émile Durkheim che studiando la natura dei fatti sociali arrivò a postulare l’esistenza di una produzione sociale di queste rappresentazioni che è indipendente dalla psicologia individuale.

 

Nel 1909 Durkheim avanzò un’ipotesi rivoluzionaria per quegl’anni, che la coscienza è il risultato di un sistema di rappresentazioni delle quali l’individuo viene in contatto e si appropria nel corso del suo apprendistato alla vita in società.  

È come affermare che attraverso il contenuto del pensiero giungono all’individuo i modi di pensare che strutturano le rappresentazioni collettive di cui poi è succube. 

 

In breve, le rappresentazioni collettive tendono a inculcare nei membri di una collettività, di un gruppo di un’etnia una certa concezione del mondo facendo si che essi assorbano e imparino a divenire dei conformismi. 

 

Accettando il fatto che le rappresentazioni collettive possono anche cambiare la nostra Weltanshauung, cioè la nostra visione del mondo, e soprattutto che – dalla nascita del linguaggio all’invenzione della scrittura per arrivare alla stampa e, oggi, all’ipertesto – queste rappresentazioni funzionano come un amplificatore cognitivo, ne consegue che possono indurci a ricorrere e a credere alle rappresentazioni emotive per esprimere l’indicibile.

 

Esaminiamo ora i caratteri della comunicazione visuale.

 

Questa comunicazione è emotiva, empatica, immediata e coinvolgente. 

Se poi  è il corpo a parlare è anche in qualche modo spontanea.

 

In genere, la comunicazione visuale può essere tradotta in comunicazione verbale perché la loro struttura simbolica è simile.  Ciò non toglie che le due comunicazioni siano qualitativamente diverse.

Questa diversità, in molte occasioni, può essere un vantaggio perché concorre a diminuire il rischio di equivoci.

In genere, la parola più la forza del visuale formano un’evidenza difficilmente confutabile.

 

La comunicazione visuale, di per se, è in un certo senso pre-logica.

Vale a dire viene prima del pensiero astratto e consente di cogliere ciò che rappresenta e comunica in tempo reale.

In questo senso possiamo dire che l’immagine è rispetto all’espressione verbale una vera e propria scorciatoia.

 

Roland Barthes ha affermato che l’immagine fotografica è un messaggio senza codice.

Intendeva dire che, anche se l’immagine fotografica di per sé non è qualcosa di reale tuttavia ne rappresenta un perfetto analogon.

 

Barthes intende questo analogon come l’oggetto (contenuto) di un’analogia.

 

In sostanza il passaggio dal reale all’immagine – fatto salvo l’aspetto tecnico – non implica, la scomposizione dell’oggetto trasformato in immagine, in segni, che devono essere ricomposti tramite un codice in una unità.

 

Questa osservazione del semiologo francese sottende anche un’altra cosa, che le immagini sono naturalmente polisemiche, cioè capaci di generare molti significati e interpretazioni.

 

In linea di massima possiamo distinguere tra due significati.

 

Tra un significato denotativo che costituisce il contenuto dell’immagine.

E un significato connotativo rappresentato da quello che l’immagine richiama alla mente in chi la guarda.

 

Questi due significati in genere non sono scindibili, cioè coesistono l’uno accanto all’altro.

Ne consegue che l’immagine è sostanzialmente dominata dalla soggettività, di chi la produce, di chi la guarda e di chi la interpreta.

 

Va aggiunto che il significato denotato e quello connotato non sono altro che la cornice argomentativa della mia soggettività di osservatore.

 

Le immagini, poi, possono anche essere decontestualizzate.

Per esempio, quando sono prive di una continuità storica provocano una frattura tra presente e passato che rende difficile l’analisi, sia che si tratti di episodi – politici, culturali, sociali – importanti nella storia di una comunità, sia che si tratti di noi stessi. 

 

Nessuno saprebbe trovare una relazione di continuità tra una nostra foto a un anno e la nostra foto alla festa per i nostri diciotto anni.   

 

Anche a questo proposito c’è un’osservazione di Roland Barthes molto importante.

Egli scrive che la polisemia delle immagini decontestualizzate si riduce fortemente quando il passaggio denotato è traumatico.

 

Per esempio non c’è nessun equivoco interpretativo quando guardiamo la foto dei soldati dell’Armata Rossa che innalzano la bandiera con la falce e il martello sul tetto del Reichstag (la dieta che noi traduciamo con l’espressione di parlamento) di Berlino, così come non c’è nessun equivoco quando nel 1969 i berlinesi abbattono il muro che li divide da coloro che vivevano nella parte amministrata dalla DDR.  

 

Si può affermare che la questione dell’interpretazione delle immagini è il terreno più dibattuto nell’ambito della sociologia visuale.

Le due posizioni estreme sono quelle per cui da una parte le immagini parlano da sole, dall’altra che immagine e testo costituiscono un’unità inscindibile.

Va da sé che – in attesa di un’evoluzione della cultura visuale – la comunicazione verbale e quella visuale stanno tra di loro – nella stragrande maggioranza dei casi – in un rapporto complementare capace di generare un grado di comprensione sociologica che possiamo definire elevato.

 

Ripetiamolo, è il contesto che crea il significato.

Una fotografia può essere:

– Un’immagine sociale o più semplicemente uno specchio del mondo in cui viviamo.

– Un’immagine del sociale, cioè un congegno che descrive dei fenomeni sociali sulla base della visione soggettiva del fotografo.

– Un’immagine sociologica, un congegno di studio attendibile sulla base di procedure legittimate sul piano metodologico.  Quest’ultimo caso è quello che più interessa la teoria sociologica.

 

Elenchiamo i principali criteri metodologici che devono essere rispettati.

Sono:

– la validità.  Cioè una corrispondenza tra l’immagine e il concetto che si vuole rappresentare.

– l’attendibilità.  È un criterio professionale perché implica la credibilità tecnica dell’operatore.

– la comparabilità.  Le immagini devono essere confrontabili secondo codici definiti.

– la coerenza.  Le immagini devono essere compatibili con le ipotesi della ricerca.

– la convergenza.  Le immagini devono essere tra di loro congrue.  Cioè, coerenti tra di loro.

 

Apriamo una brevissima parentesi per considerare una relazione tra le immagini e i nonluoghi  nella definizione di Marc Augé.

 

Augé ha scritto che se un luogo si può definire per la sua identità, per le sue strutture relazionali e per il suo vissuto storico allora un luogo che non può essere definito come una fonte d’identità, di relazioni e di storia è un non-luogo.

 

Qual è il nesso con le immagini?

È che la fotografia è un ottimo congegno per svelare la natura dei luoghi.  

 

Infatti, la comunicazione visuale in una ricerca sociologica si può usare in due modi:

Per ottenere informazioni con le immagini.

Per ottenere informazioni dalle immagini. 

 

Nel primo caso le immagini sono congegni per analizzare la realtà.

Nel secondo caso sono congegni per rintracciare elementi indicativi della cultura e delle relazioni sociali.

 

Oppure, spostando leggermente gli obiettivi si può dire che la sociologia visuale può essere considerata formata da due settori.

Da una sociologia sulle immagini, vale a dire da una sociologia che analizza le immagini di una cultura data.

E da una sociologia con le immagini, che considera le immagini dei dati visuali ai fini della ricerca sociale.

 

John Grady, un sociologo statunitense specializzato in scienza della comunicazione, ha elaborato in modo più analitico le aree di studio della sociologia visuale.

 

Queste aree sono tre:

UNO.  Il vedere – seeing – rappresentato dal ruolo dello sguardo nei processi di costruzione dell’organizzazione sociale e di elaborazione dei significati.

 

James Jerome Gibson (1904-1979), uno dei più importanti psicologi nel campo della percezione visiva, a proposito del seeing osserva che lo studio della visione è per sua natura diverso dallo studio delle icone che definisce dei modi o dei momenti, per così dire, congelati della percezione.

In parole povere guardare dei quadri in un museo è un attività visuale diversa da quella che sperimentiamo nella vita corrente.

 

Per capire la complessità della visione proviamo a vedere alcuni verbi della lingua italiana che la definiscono. 

Noi diciamo assistere, osservare, curiosare, scorgere, controllare, discernere, discriminare, distinguere, esaminare, gettare uno sguardo, dare un’occhiata, tenere in vista, ispezionare, sbirciare, notare, accorgersi, eccetera.

 

DUE.  Il communicating with icons – che è l’area che studia la comunicazione attraverso le immagini – più o meno intenzionale – tra persone, gruppi, culture, eccetera.    

 

Diciamo che lo scorrere della vita quotidiana coinvolge la costruzione spontanea e/o deliberata di immagini per comunicare informazioni e gestire le relazioni sociali.

 

Gli americano parlano di kodak culturequando parlano dei processi attraverso i quali l’immaginario visuale è inserito nei modelli quotidiani di espressività.

 

Aggiungiamo che nella modernità agiscono da tempo i processi di mythologizing

Sono i processi di comunicazione istituzionalmente organizzata, che coinvolgono il mondo della pubblicità, della televisione, del cinema.

 

TRE.  Il doing sociology visually – alla lettera, il fare sociologia visivamente.

In pratica le tecniche di produzione e interpretazione dei messaggi visuali che possono essere usate per l’investigazione sul campo dei processi sociali.

 

Questo fare richiede un attenzione sia ai processi della logica che a quelli dell’estetica.

Infatti, in questo fare abbiamo una confluenza di un’attività di spiegazione dei significati simbolici delle immagini già esistenti, di messa in relazione di elementi visuali diversi e di creazione degli stessi.

 

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Appendice.

Le immagini, che secondo un luogo comune sono per definizione mute, da tempo sembrano dirci qualcosa di più intorno al mondo di quanto non ci dica la parola.

 

Nella filosofica dell’arte, di tradizione analitica, è chiamata comunemente iconic turn una teoria che sviluppa un modo nuovo di relazionarsi all’immagine. 

(Svolta iconica per distinguerla dalla linguistic turn, svolta linguistica)

 

In questa teoria sostanzialmente il significato dell’immagine è considerato a partire dal suo continuo rapportarsi ad altre immagini che le sono più o meno contigue.

 

Secondo quanto scrive Gottfried Boehm nel suo libro: Il ritorno delle immagini, l’Iconic Turn questa teoria non si sviluppa tanto in analogia alla linguistica generale, ma segue una via intermedia, quella di una riflessione che affronta allo stesso modo aspetti teoretici, storici, antropologici dell’immagine.

 

Boehm insegna storia dell’arte moderna all’Università di Basilea. È membro del Wissenschaftskolleg di Berlino e corrispondente dell’Accademia delle Scienze di Heidelberg, dal 2005 dirige il progetto di ricerca Eikones: Bildkritik, Macht und Bedeutung der Bilder.  Si è occupato soprattutto dei rapporti tra storia dell’arte, filosofia e teoria delle immagini, ed è autore di importanti contributi sull’arte del Rinascimento e del Novecento.

 

La svolta iconica per Boehm sarebbe, sia pure con prospettive diverse, quello che si compie a partire dall’Ottocento e che integra immagine e parola in un medesimo modello interpretativo.

Si tratta di una prospettiva nuova rispetto a quella tradizionale in cui l’immagine era considerata ingannevole e degradante rispetto alla vera conoscenza.
Questa svolta circoscrive un campo d’indagine che non coincide necessariamente con l’orientamento filosofico del Logos, ma è allargata anche a ciò che ha impedito a lungo di dedicare all’immagine la stessa attenzione concessa al linguaggio.

 

La sua struttura metaforica ha rappresentato un mutamento di paradigma per tutte le discipline che hanno a che fare con il visivo e in questo contesto gli studi di cultura visuale (visual culture studies) – come sono chiamati sulla scia degli studi culturali anglosassoni, al cui centro vi è l’indagine della visual culture – diventano determinanti per comprendere la dimensione culturale dell’arte moderna.

 

Come abbiamo ricordato la prima ad avere utilizzato questo termine è Svetlana Alpers (1972) per indicare un approccio all’analisi delle opere d’arte non solo formalista, ma attenta alla storia che le influenza così come alla cultura che le circonda.

Oggi, parlare di cultura visuale significa dunque abbandonare un’idea positivista della storia, della percezione visiva e dell’estetica intesa come una scienza del sensibile e del bello in quanto tale, per riflettere sullo sguardo come una pratica interpretativa, di cui l’immagine (il quadro, la fotografia) è solo una delle molte componenti.

 

La svolta iconica, nella sua prospettiva di un sapere delle immagini, pur sembrando a molti scontata, appare ricca di sorprese sul piano di una strategia interpretativa che arriva al significato della visione, individuando anche degli obiettivi critici rispetto al tema della visualità e del suo potere nella società contemporanea.

 

Questi studi di cultura visuale sono oggi portatori di nessi e di significati meta-testuali all’incrocio con altre discipline come l’estetica, la filosofia della mente, le scienze cognitive, la storia dell’arte e la semiotica alla quale in qualche modo a riconfigurato il suo paradigma e promosso un nuovo interesse scientifico.

 

Va anche detto che l’approccio degli studi visuali alla dimensione dell’arte non è nuovo specie se viene da storici dell’arte con studi di tradizione medievalista alle spalle, basti pensare ad Aby Warburg (1866-1929) e al suo atlante d’immagini dal titolo Mnemosyne del 1929.

 

Mnemosyne è un atlante figurativo (Bilderatlas) composto da una serie di tavole, costituite da montaggi fotografici che assemblano riproduzioni di opere diverse, dalle testimonianze di ambito soprattutto rinascimentale (opere d’arte, pagine di manoscritti, carte da gioco); ai reperti archeologici dell’antichità orientale, greca e romana e immagini a testimoniare la cultura del XX secolo (ritagli di giornale, etichette pubblicitarie, francobolli. 

 

Per Warburg rintracciare e ricostruire la storia di un’immagine significava superare la concezione crono-logica del tempo, inteso come successione di momenti.

L’immagine, nella sua concezione dell’arte, è sempre il farsi avanti di “un antico presente”, in altre parole di un qualcosa che fonda il suo stesso passato nel momento in cui si mostra (in qualhe modo corrisponde all’immagine dialettica di Walter Benjamin).

 

Va anche detto che questi studi di cultura visuale comprendono tutte le immagini e non soltanto quelle dell’arte.

Del resto, già gli artisti delle avanguardie storiche del primo novecento adoperavano immagini-cose della cronaca e della pubblicità in un processo di assimilazione totale con gli stessi media tradizionali (basti pensare al cubismo o al dadaismo).

 

Tutti i materiali della vita corrente che, in un certo modo, apparivano come nuovi (cioè, extra-estetici) erano prelevati dai loro contesti per divenire parte dell’opera e in molti casi essere la stessa opera.

In altri termini, la vita di tutti i giorni era inclusa nell’opera in un processo d’identificazione totale non solo con l’esistenza vissuta, ma anche con tutte le cose.

 

Arte e vita così non solo tendevano a confondersi come accadrà con Fluxus, ma mutavano il loro essere corpo in immagine.

 

Questa svolta iconica, rispetto alla logica tradizionale con la quale si considera un’opera d’arte, appare ricca di conseguenze soprattutto rispetto a una teoria della significazione, teoria che non esclude gli aspetti più marcatamente etici, ontologici e epistemologici.

 

Si può affermare che la dimensione dell’immagine sia oggi una prospettiva non più secondaria rispetto alla cultura accademica dell’arte o del potere della rappresentazione culturale.

In questo senso già l’approccio semiotico di una teoria capace di guardare le cose dell’arte da un punto di vista segnico, iconico e meta-testuale, rappresentò negli anni settanta una svolta per uscire dalla secca e dal dominio di una cultura tradizionale, marcata dalla linguistica, e da una cultura visiva asservita al fascino della parola.
Anche se gli studi di cultura visuale (come scrive W.J.T Mitchell nel suo libro Pictorial Turn, saggi di cultura visuale) non possono fare a meno del linguaggio, del discorso e di conseguenza dello stesso agire etico, ciononostante vale la pena di rilevare l’importanza che questa svolta ha assunto rispetto sia alle scienze cognitive e agli studi sull’immaginazione, sia per la comprensione dell’arte contemporanea in tutti i suoi aspetti e confini antropologici e critici.

 

La pictorial turn per Mitchell non è soltanto la svolta iconica rispetto alle teorie che facevano capo a una linguistica generale per interpretare i segni verbali e visivi.

 

Per Mitchell l’image è ciò che può essere separato dalla picture e trasferito in un altro supporto anche attraverso un altro canale.

Essa è una sorta di proprietà intellettuale.

La picture è il risultato dell’incontro dell’immagine con il supporto, la manifestazione di un’immagine immateriale su un medium materiale.

In questo senso Mitchell scrive, possiamo “parlare di immagini architettoniche, scultoree, cinematografiche, testuali e anche mentali senza dimenticare che l’immagine che si trova in o su questi oggetti non è ciò che li costituisce”.

 

Questa tesi di Mitchell è funzionale alle tesi di Kendall Walton il cui lavoro consiste nell’esplorare le connessioni tra le questioni teoriche intorno all’arte e gli studi della filosofia della mente, metafisica e filosofia del linguaggio.

Walton scrive, a proposito dell’osservatore che guarda un quadro, come di un gioco.  Come di un far finta che chiama giochi immaginativi, un immaginare di…, un immaginare di fare qualcosa, di esperire qualcosa.

 

In altri termini, chi guarda un dipinto partecipa visivamente e poi verbalmente al gioco di fare finta in cui la rappresentazione funziona come un supporto.

 

In sostanza un supporto, che Mitchell chiama l’image, è qualcosa che, in virtù di un principio generativo, favorisce l’immaginazione.

 

Così, l’opera d’arte rappresentazionale (cioè, che si fonda su una rappresentazione) non è altro che un mondo di verità fittizie, un-come-se, un mondo di gioco, attraverso cui lo spettatore immagina, coinvolgendo anche l’intenzione dell’autore.

 

Gli studi attuali di cultura visuale svolgono ora un compito un tempo impossibile per quanto riguarda l’analisi delle opere d’arte.

Si tratta di affrontare la questione della rappresentazione del reale non solo dall’interno di una metodologia di tipo storicista o di un’ontologia dell’arte, ma utilizzando congegni che arrivano ai processi stessi di produzione delle immagini, fino a giungere agli strumenti materiali e alle tecniche su cui tale processo si regge.

 

La pittura diventa così parte di un contesto più generale, di una mappa entro cui trovano posto e assumono un ruolo le diverse risorse culturali e le pratiche che sono collegate alla visione e alla sua rappresentazione (la fotografia, il cinema, il video ecc).

 

Nella cultura visuale un quadro diventa allora un oggetto che circola entro un’economia che nasce dall’articolazione dei sistemi di rappresentazione, dalle immagini effettive e dai soggetti che tali immagini producono.

 

Occorre qui ricordare che le immagini sia in ambiti non artistici (negli sport, nella scienza, nelle pratiche religiose) sia in quelli artistici non sono copie del reale, ma sono in qualche modo entità concrete di significati metaforici e semantici.

Proprio in funzione di una loro genealogia esse possono essere capaci di farsi mediatori delle interazioni sociali, funzionando come strutture di riferimento che strutturano lo scambio e l’incontro fra esseri umani e in questo senso sono capaci di spiegare e ri-descrivere il mondo in cui viviamo.

Secondo i teorici di questa svolta iconica occorre una nuova relazione verbo iconografica (qui, il riferimento è a quanto sostiene l’antropologo Walter J. Ong in Oralità e scrittura) che sappia coniugare dialetticamente la stessa storia della condizione dell’uomo nel suo evolversi dall’oralità alla scrittura, seguendo una genealogia della cultura dell’immagine.

 

Tale prospettiva va affrontata nel quadro di un’etica della rappresentazione che includa anche un progetto generale dei segni (in sostanza una semiotica delle emozioni) capace di sviluppare un approccio critico, analitico e di conseguenza verbale sulla visualità per portare alla luce il modo con cui le immagini continuano a determinare la nostra vita e il nostro modo d’immaginare il mondo.

Qui non si tratta tanto di leggere l’immagine alla stregua di un testo verbale e viceversa bensì di considerare che entrambi: immagini e linguaggio, visualità e verbalità, sono vettori di significazione, vettori semantici e, per tale ragione, possono corrispondere alle medesime unità segniche di approccio analitico e critico.

 

L’opera d’arte non è solo una rappresentazione, ma diviene un sistema testuale, e, in quanto tale, un oggetto culturale regolato da specifici meccanismi della visione.

Visione che si pone come un’attività che trasforma il materiale pittorico in pratica significante, entro un processo che non ha mai fine.

 

Occorre sapere riconoscere che sia l’immagine sia la parola, nel contesto che spetta loro, funzionano come specchi di polisemie visive, verbali anche desideranti.

Polisemie che reclamano un accesso non solo a una storia, a una verità ma anche a un’intenzione emotiva, esse indicano qualcosa che forse si deve ancora dire, vedere, udire, desiderare, immaginare e, giacché esse sono in movimento, qualcosa che vorrebbero mostrarci o nasconderci.

Alla fine le immagini restano, anzi si moltiplicano, si rigenerano non più come parole ma appunto come corpi del pensato, supporti dell’immaginazione che fanno riflettere.

Spetta all’arte trovare forme che incarnino in modo problematico il debito delle immagini nei confronti del reale.