GLOSSA NR.DUE
IED – ANTROPOLOGIA CULTURALE
(Ricapitolazione per punti)
Comunicare, scambiarsi informazioni è un fatto che appartiene
alla natura. Tener conto delle informazioni che ci vengono date è un fatto culturale.
Johann Wolfgang Goethe.
C’è un mistero nella nostra condizione umana.
È il momento, nella nostra infanzia, in cui ci siamo resi conto per la prima volta che le parole hanno un significato.
Questo momento ha avuto nella nostra vita un’importanza capitale perché significa non solo il fatto che abbiamo acquisito la lingua natale, ma che abbiamo sviluppato la possibilità di comprendere la produzione simbolica che da un senso alla cultura in cui viviamo.
Si può affermare che la comunicazione, verbale e non, è alla base delle società umane, è indispensabile alla loro creazione, è funzionale al loro mantenimento, ne determina i cambiamenti e ne segna profondamente l’identità.
Non è per caso che nella lingua latina communicare significa condividere, spartire ciò che è in comune.
Per estensione possiamo allora dire che tutti i sistemi linguistici sono costituiti da simboli pubblicamente accettati attraverso i quali cerchiamo di condividere le nostre esperienze.
A questo proposito però dobbiamo anche sottolineare il fatto che le parole non comunicano tutto ciò che sappiamo di una situazione e che la nostra capacità di comunicazione non è limitata al linguaggio.
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A parte questo, la comunicazione non-verbale sembra comune a tutte le culture conosciute.
Meglio, pare che tutti gl’uomini comprendano le espressioni del volto nello stesso modo.
Oltre ai test effettuati sul campo con le fotografie, abbiamo anche una prova indiretta che ci viene dall’arte.
Il volto rappresentato sulle tele, scolpito nel marmo o realizzato con una maschera sembra evocare sentimenti simili in molte culture diverse.
Detto questo, per concludere, va osservato che la lingua parlata è ancora oggi il principale veicolo di trasmissione della cultura perché permette di condividere e tramandare la nostra complessa articolazione di atteggiamenti, credenze e modelli di comportamento.
I sistemi di comunicazione non sono un’esclusiva degl’esseri umani.
Altre specie animali hanno vari modi per comunicare, per esempio, con i suoni, l’odore o il movimento del corpo.
Uno dei grandi dibattiti accademici del Novecento ha riguardato il modo in cui i primati comunicano.
In pratica si riteneva che solo la comunicazione umana fosse simbolica.
Oggi, però, sappiamo che anche alcuni richiami delle scimmie antropomorfe, e in particolare dei bonobo, nelle foreste sono simbolici.
Ma che cosa significa che una comunicazione ha dei contenuti simbolici?
Prima di tutto che la comunicazione produce un significato anche in assenza di un referente, cioè di un elemento del mondo reale o di un concetto a cui un’espressione linguistica fa riferimento.
In secondo luogo il significato è arbitrario, non è ancorato alla sua astrazione.
Vale a dire chi riceve la comunicazione non può coglierne il significato basandosi esclusivamente sui suoni. Né può conoscere per certo quel significato per via intuitiva.
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C’è una differenza che possiamo ritenere significativa tra le vocalizzazioni umane e quelle dei primati.
I sistemi vocali dei primati sono chiusi.
Cioè i differenti richiami non si combinano tra di loro per produrre nuovi significati o si combinano in modo primitivo.
Le lingue umane, al contrario, sono sistemi più o meno aperti e retti da complesse regole su come i diversi suoni possono essere combinati per produrre dei significati.
Un altro tratto che in qualche modo è peculiare al genere umano è l’abilità a comunicare intorno agli eventi passati e a quelli futuri.
Il che equivale a dire che gli animali vivono in un eterno presente.
Ma di recente si è scoperto che i nostri cugini bonobo lasciano quelli che sembrano messaggi agli altri bonobo per indicare loro una pista.
Essi spezzano la vegetazione dove il sentiero si biforca e puntano le pianticelle rotte nella direzione da seguire.
Non sappiamo da quando l’uomo fa uso della lingua parlata.
La data di trecentomila anni fa è attendibile, ma è solo da centomila anni che l’anatomia della bocca e della gola è identica a quella dell’uomo moderno.
Da un punto di vista antropologico la domanda più importante è:
Come ha fatto la selezione naturale a favorire il carattere aperto del linguaggio?
Di fatto tutte le lingue umane sono aperte.
Vale a dire, le articolazioni linguistiche vengono combinate in vari modi per produrre significati diversi.
In principio possiamo ipotizzare un sistema basato sul richiamo che è presto evoluto verso un sistema basato su piccole unità sonore da collegare tra di loro secondo differenti combinazioni in modo da formare enunciati significanti.
Noam Chomsky, filosofo americano e professore di linguistica al MIT (Massachusetts Institute of Technology) – riconosciuto come l’ideatore della cosiddetta teoria della grammatica generativo-trasformazionale – sostiene che nel cervello esiste un dispositivo di acquisizione della lingua che nell’uomo è innato o, comunque, frutto di un lungo processo evolutivo, così come sono innati negli animali i sistemi di richiamo.
In pratica, tale dispositivo sarebbe diventato parte della nostra eredità biologica con l’evoluzione della parte frontale del cervello.
È una tesi che va completata osservando che lo sviluppo del linguaggio non è stato condizionato solo da fattori biologici.
Diciamo che se così non fosse ci sarebbe una radice comune a tutte le lingue, al contrario gli studi sul campo hanno individuato più di quattromila lingue diverse e tra di loro incomprensibili.
Più di duemila di esse si parlavano fino a pochi anni fa, molte delle quali da popolazioni che non possedevano una scrittura.
A questo proposito ricordiamo che per comprendere l’origine del linguaggio molti antropologi hanno provato a studiare le lingue delle società prive di scrittura, ma non hanno concluso nulla perché si è scoperto che queste lingue non sono né più semplici, né meno evolute di quelle del mondo occidentale.
È come dire che la presenza di tecnologie complesse non è un indice di una corrispondente complessità dei linguaggi.
In sostanza ogni cultura ha o possiede un estensione del vocabolario necessario alla popolazione che parla la lingua corrispondente e questa si evolve in risposta ai cambiamenti culturali.
Il vocabolario, in questo senso, è l’inventario degli elementi che ogni cultura categorizza per dare un senso al mondo in cui vive.
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L’inventario linguistico del nostro pianeta è molto vario e diversificato.
Basti questo dato, il quattro per cento della popolazione parla circa il sessanta per cento delle lingue del mondo.
Queste isole linguistiche sono perlopiù situate nelle regioni tropicali, le stesse che hanno un tasso di biodiversità maggiore.
A queste isole si contrappongono delle macro-regioni caratterizzate da una bassa intensità di stock linguistici.
In ogni modo il parlare è così congeniale alla specie umana che in molte culture il termine per indicare il parlare è proprio la lingua, qui intesa come una parte importante dell’apparato fonatorio.
Da un punto di vista geo-storico alcune lingue si sono sviluppate di recente.
Sono quelle delle popolazioni che sono state oggetto di mire coloniali.
Queste popolazioni – impiegate il più delle volte come schiavi – comunicavano con i loro padroni attraverso una sorta di versione pidgin – semplificata – della lingua degli oppressori.
Le lingue pidgin, di solito, mancano di quei tasselli coesivi come sono le proposizioni e i verbi ausiliari.
Molte lingue pidgin si sono poi sviluppate dando origine alle cosiddette lingue creole.
A questo proposito molti antropologi sostengono che esistono forti somiglianze grammaticali tra le lingue creole di tutto il mondo e questa somiglianza sembra coerente con l’idea di una grammatica archetipica comune a tutti gl’uomini.
Se così fosse, ma non è dimostrato, le lingue creole potrebbero somigliare alle prime lingue umane.
La lingua non è solo uno strumento per registrare la realtà, di più, essa contribuisce a creare la realtà.
Paradossalmente il mondo che noi conosciamo come reale è anche una costruzione fondata sulle nostre usanze linguistiche.
Per molti antropologi sarebbero le categorie linguistiche a determinare di fatto le rappresentazioni percettive e concettuali.
In sintesi, potremmo dire che abitiamo il mondo grazie a un linguaggio e, grazie a questo, interpretiamo e creiamo il mondo perché il linguaggio vive tanto di aspetti formali quanto di aspetti performativi.
Prima di proseguire non possiamo non accennare a due lingue particolari.
L’esperanto e il grammelot.
L’esperanto è una lingua costruita a tavolino e sviluppata tra il 1872 e il 1887 dall’oftalmologo polacco di origini ebraiche Ludwik Lejzer Zamenhof.
L’esperanto è la più conosciuta e utilizzata tra le LAI – Lingue ausiliarie internazionali.
Presentata nel Primo Libro (Unua Libro, 1887) come Lingvo Internacia (“lingua internazionale”), prese in seguito il nome esperanto (“colui che spera”, “sperante”) dallo pseudonimo di Doktoro Esperanto utilizzato dal suo creatore.
Scopo di questa lingua è quello di far dialogare i diversi popoli cercando di creare tra di essi comprensione e pace con una seconda lingua semplice ma espressiva, appartenente all’umanità e non a un popolo.
Un effetto di ciò sarebbe in teoria quello di proteggere gli idiomi “minori”, altrimenti condannati all’estinzione dalla forza delle lingue delle nazioni più forti.
Per questo motivo, l’esperanto è stato ed è spesso protagonista di dibattiti riguardanti la cosiddetta democrazia linguistica.
Le regole grammaticali dell’esperanto sono state scelte da quelle di varie lingue studiate da Zamenhof, affinché fossero semplici da imparare ma nel contempo potessero dare a questa lingua la stessa espressività di una lingua etnica, esse non prevedono eccezioni.
Anche i vocaboli derivano da idiomi preesistenti, alcuni (specie quelli introdotti di recente) da lingue non indoeuropee come il giapponese, in gran parte da latino, lingue romanze (in particolare italiano e francese), lingue germaniche (tedesco e inglese) e lingue slave (russo e polacco).
Vari studi hanno dimostrato che si tratta di una lingua semplice da imparare anche da autodidatti e in età adulta, per via delle forme regolari, mentre altri dimostrano come dei ragazzi che hanno studiato l’esperanto apprendano più facilmente un’altra lingua straniera.
Il grammelot o gramolot, la voce non è francese, ma d’origine imitativa e forse derivata dal veneziano è uno strumento recitativo che assembla suoni, onomatopee, parole e foni privi di significato in un discorso.
Gli attori utilizzavano e utilizzano il grammelot con il fine di farsi comprendere anche senza saper articolare frasi di senso compiuto in una lingua straniera, oppure per mettere in parodia parlate o personaggi stranieri.
Ciò che ne risulta è una recitazione fortemente espressiva e iperbolica.
Il linguaggio usato acquisisce inoltre un surplus di espressività musicale, in grado di comunicare emozioni e suggestioni.
Sembra che questo artificio recitativo fosse utilizzato dai giullari, dagli attori itineranti e dalle compagnie di comici della commedia dell’arte.
Questi professionisti dello spettacolo pare recitassero usando intrecci di lingue e dialetti diversi miste a parole inventate, affidando alla gestualità e alla mimica, quel tessuto connettivo che rendeva la comunicazione possibile a prescindere dalla lingua parlata dall’uditorio.
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Nella nostra vita quotidiana utilizziamo spesso forme di linguaggio non-verbali, come strizzare l’occhio, gonfiare le guance, mimare con le dita della mano le forbici per dire a qualcuno di smetterla.
Anche questo tipo di comunicazione è culturalmente caratterizzato.
Va da se, anche questa gestualità è da interpretare.
Per esempio il gesto delle forbici in Giappone è considerato un invito a andare a mangiare qualcosa, visto che le dita mimano i chopstick.
Diciamo che il comportamento è un codice e di conseguenza una forma di comunicazione. Come ha teorizzato Erving Goffman la nostra vita è una forma di rappresentazione che corre su due piani paralleli.
Quello pubblico, che Goffman chiama front–stage dove l’attore – ciò noi – mettiamo in scena il nostro io sociale, ciò che si vuole mostrare.
Poi c’è il back–stage dove l’attore torna a essere se stesso.
In breve la rappresentazione di noi stessi è culturale e è il frutto di una codificazione sociale.
La gestualità, la mimica, la lingua sono i pilastri di questo codice che spesso è un segno identitario, vale a dire un atteggiamento nel quale i membri di un gruppo si riconoscono.
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Il linguaggio del corpo è un aspetto importante della comunicazione non-verbale.
In quest’ambito si tende a interpretare, ai fini dell’interazione sociale, postura, gesti, movimenti, movimenti, espressioni e mimica che accompagnano o meno la parola rendendo la comunicazione umana più esplicita e comunicativa.
Attraverso il linguaggio del corpo si può arrivare a conoscere l’individuo nella sua interezza ed interiorità, sia che si usino o meno alcuni gesti o che si compiano determinati movimenti.
A un buon osservatore la mimica, in generale, rivela i pensieri e le intuizioni altrui più delle parole.
Il primo linguaggio studiato è stato quello facciale.
Uno dei primi documenti su questo argomento è il saggio di Charles Darwin (1872)The expression of the emotions in Man and Animals.
Un importante studioso di questo linguaggio è l’americano Paul Ekman (1934, vivente), uno dei più famosi psicologi americani.
Ekman ha dimostrato che alcune emozioni come la rabbia, tristezza, felicità, sono uguali e condivise da tutti in modo uguale, qualunque sia la cultura di appartenenza.
Secondo Ekman osservando le emozioni del volto si riesce a comprendere se le espressioni sono sincere oppure no, nel suo libro I volti della Menzogna, mette in luce tre elementi per leggere le emozioni del volto e per capirle:
– L’asimmetria, perché nelle espressioni facciali sono coinvolte asimmetricamente le due metà del viso, in quanto su una metà l’espressione è più intensa che nell’altra.
– Il tempo, in quanto l’espressioni veritiere durano pochi attimi (all’incirca 1/10 di secondo), mentre se vi è un’espressione “tirata”, che dura più di un secondo, questa è probabilmente una falsa emozione, eseguita volontariamente.
– La collocazione nel discorso. La mimica che accompagna le parole se è posticipata o anticipata non rispecchia la reale espressione verbale.
Se una persona è arrabbiata e accompagna l’espressione di rabbia in diretta relazione con le parole vuol dire che la persona è realmente arrabbiata. Se i gesti di rabbia vengono dopo le parole si denota che probabilmente la persona non è così in collera come vorrebbe far credere.
Il vocabolario del linguaggio del corpo è completato anche gesti che differiscono da cultura a cultura e gesti che cambiano con l’evolversi dell’età dell’uomo.
I gesti che variano da cultura a cultura sono quei gesti che col tempo sono diventati come una sorta di esperanto, ma che in alcune culture assumono un significato diverso.
Il segno dell'”OK”, ha assunto col tempo il significato di okay, “tutto bene”, in tutti i paesi di lingua inglese.
In Europa e in Asia, ci sono però alcune aree linguistiche, come ad esempio la Francia, in cui il segno “OK” assume il significato di “zero” o “niente”.
Questa espressione deriva infatti da un segnale che al termine di uno scontro armato serviva ai soldati per comunicare a distanza zero kills cioè’ “zero uccisioni” tra i nostri soldati.
In Giappone, poi, vuol dire soldi.
Il pollice girato verso l’alto, in Australia, Inghilterra e Nuova Zelanda ha diversi significati, vuol dire: Va bene, è un segnale di autostop o è usato in senso ironico.
Di contro in Grecia è prevalentemente usato in senso dispregiativo.
Ci sono poi gesti che si modificano con l’evolversi dell’età dell’uomo.
Ne è un buon esempio il gesto di un bambino che dice una bugia. Egli tende a coprirsi la bocca con le mani.
Nell’adolescente il gesto cambia, la mano tocca appena con le dita la bocca.
Nell’adulto il gesto diventa più evoluto e raffinato la mano sfiora il naso.
Il linguaggio del corpo ha una propria grammatica e esso va letto e interpretato rispettando tutta una sintassi composta da parole, frasi e punteggiatura.
Ogni movimento è come una parola, cioè assume un significato diverso a seconda dell’uso che se ne fa in una “frase” per cui, nell’analizzare il gesto va tenuto presente soprattutto il contesto in cui si esplica.
Essere percettivi significa saper interpretare e capire un gesto con tutte le sue sfumature interpretandolo nel contesto.
Sfregare le mani, per esempio, può avere un duplice significato.
Se il gesto è fatto in una giornata fredda significa che quella persona ha freddo.
Lo stesso gesto fatto da una persona mentre esprime un desiderio piacevole, risulta sinonimo di gioia, allegria, buon umore, soddisfazione.
Oltre al contesto, bisogna tener presente anche lo spazio che il corpo occupa e con il quale comunica.
Ognuno di noi possiede un self , una percezione della propria identità soggettiva che dipende dalla cultura in cui si è cresciuti.
Per esempio, nella cultura orientale dove vi è un’alta densità di popolazione e gli spazi sono ristretti le distanze sono più ravvicinate, mentre molti occidentali, che vivono in ambienti aperti, amano mantenere le distanze.
Grossomodo nella cultura anglosassone abbiamo:
Un area intima intesa come area che può essere occupata solo da persone con le quali si condivide un rapporto intimo (amici, genitori, amanti, ecc…).
Un area personale intesa come la distanza che ci separa dagli altri (in un contesto quale può essere una riunione di lavoro, uscite, feste ecc…);
Un area sociale ovvero la distanza fra noi e gli estranei.
Un area pubblica cioè quella distanza che decidiamo di avere in un contesto pubblico.
Nella cultura americana lo studio del linguaggio del corpo è sempre stato molto popolare.
Interessanti, a questo proposito sono le osservazioni o le intuizioni di Ralph Waldo Emerson (1803-1882), un filosofo e scrittore americano, contenute nei saggi Manners (Maniere) del 1844 e Behavior (Contegno) del 1860.
Ricordiamo questo filosofo per due ragioni.
Perché fu molto amato dagli studenti americani degli anni’70 per le sue idee libertarie e perché ebbe in Nietzsche un suo grande lettore e estimatore.
In anni più recenti s’interessarono al linguaggio del corpo l’antropologo Ray Louis Birdwhistell (1918-1994).
Negli anni ’50 del secolo scorso inventò la cinesica, una scienza che studia gli aspetti comunicativi appresi o eseguiti attraverso i movimenti del corpo.
Birdwhistell, rifacendosi alla linguistica descrittiva, sosteneva che tutti i movimenti del corpo hanno un senso (non essendo casuali), e che la grammatica di questo paralinguaggio si può analizzare analogamente al linguaggio verbale. Egli chiamò cinèma l’unità minima analoga al fonema in linguistica.
Ricordiamo poi Margaret Mead e soprattutto Gregory Bateson che portarono a termine molte ricerche sul linguaggio del corpo, con l’esame di filmati che permettevano di cogliere aspetti poco evidenti dell’interazione sociale a livello non verbale.
Infine, un’osservazione importante, la lingua dei segni, utilizzata dai sordi o dai sorastri è una trascrizione della lingua parlata, dunque non è un modo di comunicazione non verbale, ma è un codice.
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