FLUXTALES 7
La rappresentazione è il luogo dove lo spettacolo si traveste da sensazione, diventa emotività.
Lì, arrugginisce il rasoio del senso.
L’esserci è la formula patica dell’impensabile nel buio del palcoscenico.
Privilegiando i temi, Fluxus ha svalutato la connessione che lega l’idea di arte moderna ai “motivi artistici”. Motivi indigesti se sono quelli contenuti nei barattoli di zuppa industriale.
Come non vedere nei Fluxevent la centralità causativa del non-sense?
La forma di spettacolo ha sempre rimproverato a Fluxus un eccesso di memoria. La ragione sta nel carattere rizomatico delle immagini, che non possono sottrarsi alla storia come sintomo.
Un immagine. Se è visibile è illeggibile. Perché? Perché non siamo in grado di cogliere la componente d’invisibilità che la completa (nel senso che l’esaurisce, la “trae fuori”). In ogni modo: Nel campo dell’iconologia l’orrore è sempre metafisico.
Sul palcoscenico della vita corrente i simili sono soli nella similitudine. Significanti equivalenti dello stesso sintomo sociale.
Non c’è sapere che possa “dire” con le immagini ciò che le immagini minacciano come loro verità.
Nel Quattrocento l’abilità di un artista si misurava dalla sua capacità di organizzare il vuoto sulla superficie del campo pittorico. Oggi l’abilità sta nel rappresentare l’ovvio come sintomatico, cioè come una “condensazione” che “rattoppi” le immagini portatrici di crisi.
Come ieri la svastica degli iniziati era stata sovrapposta alla bandiera rossa degli operai, così oggi la forma di spettacolo è il segno che si sovrappone al destino dell’uomo senza qualità.
Nei neoluoghi la merce è al servizio della loro phisis di cui ne interpretano la natura distinguendo il puro mercantile dall’impuro delle passioni.
Il dominio dello spettacolo non è installato nell’articolazione significante/significato, esso è piuttosto una condensazione sintomatica, una sorta di heideggeriano Stoss che altera il disordine della Cosa.
Nella sostanza la forma di spettacolo è la più grande impresa di rimozione del vissuto, ecco perché la sua perversa dimensione è iniziatica: una forma di rappresentazione inaccessibile.
Lydia Flem racconta che Sigmund Freud sulla tavola non voleva sorprese, per questo si condannò ad un rituale alimentare costituito sostanzialmente di pot-au-feu di cui solo il fondo o l’eventuale salsa cambiavano.
Chissà perché tutto ciò appare osceno se lo si considera freudianamente!
Che succede se invece che alla cultura del desiderio si legano gli alimenti al materialismo delle passioni? Se li pensiamo come un filo d’Arianna, da quale labirinto ci fanno uscire?
Occorre una certa prudenza nel pensare il cibo come un’opera d’arte, si corre il rischio di confondere l’idealismo della dissomiglianza l’etica con l’an-estetica, con la conseguenza di slegare il ciò che si mangia da ciò che si è!
In quest’ottica come non vedere una continuità tra Spinoza e Jakob Moleschott? Come non apprezzare Ludwig Feuerbach?
Lo spiedo ha contribuito all’invenzione dell’omofagia, le salse a digerirne il senso di colpa.
Il sacro è la rappresentazione più oscena di una salsa.
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