L’“artificazione” degli atti alimentari.
Da qualche anno a questa parte un neologismo inglese – più correttamente in franglais – artification, declina un lemma che ha per obiettivo di mettere a fuoco le regole di quel processo che consente – assecondando gl’interessi mercantili delle istituzioni che lo gestiscono – di promuovere a forma di arte ciò che non lo è.
In questo senso ha aperto un nuovo campo d’investigazione che, a ragione della sua natura, ha interessato di più le scienze sociali e la cultura materiale che l’estetica o il circuito dell’arte d’avanguardia per la sua capacità di registrare i cambiamenti sociali e culturali.
Va detto che l’espressione di artification conserva in inglese delle connotazioni mercantili e tecniche che agli occhi di qualcuno ne opacizzano l’autenticità, tuttavia nel contesto di questa nota lo useremo esclusivamente come un congegno esplicativo senza altre accezioni.
In particolare,negli atti alimentari l’artification, che traduciamo con artificazione, ci consente d’illuminare un insieme di strategie operative che stanno radicalmente cambiando il modo di “apprezzare” la gustazione spostando il baricentro del sapore nell’immaginario culturale, nell’immateriale simbolico.
Abbiamo un processo di artificazione quando è contestualmente riconosciuta una categorizzazione artistica a degli oggetti, a delle procedure o a delle performance, vale a dire quando essi funzionano simbolicamente.
La teoria dell’artificazione ha le sue radici nei lavori del filosofo americano Nelson Goodman, precisamente in un suo saggio del 1977 intitolato “Quando siamo in presenza di arte?”
Secondo la filosofia analitica americana la domanda che “cos’è l’arte” è priva di fondamento perché dobbiamo renderci conto che una cosa può funzionare come opera d’arte in certi momenti e non in altri. Tutto, infatti, dipende dal contesto che definisce l’arte come una categoria, ma questo è qualcosa che in fondo sappiamo già.
I ready-made di Marcel Duchamp possono essere arte solo nel contesto delle avanguardie europee, tanto è vero che Fountain, l’orinatoio che nel 1917 Duchamp firmò con il nome di R. Mutt è stato considerato da un gruppo di esperti di lingua inglese l’opera d’arte più importante del ventesimo secolo. Che dire? Diverso è l’apprezzamneto degli incontinenti!
Dunque, l’artificazione definisce quel processo di trasformazione da non-arte a arte che risulta da un lavoro che in qualche modo, ma deliberatamente, implica un cambio di definizione e di statuto a degli oggetti o a delle attività.
Qui ne accenniamo perché come è successo per la fotografia, per i graffiti urbani, per il fumetto, la moda o l’art-brut, come sono chiamati i lavori dei pazienti psichiatrici, anche la cucina in qualche modo sta per essere riconosciuta come un’attività artistica in senso proprio.
Questo processo di artificazione tra l’altro ha in qualche modo contribuito a separare negli atti alimentari la cucina dalla gastronomia.
La cucina tende sempre di più a diventare un atto culturale con valenze artistiche.
La gastronomia, invece, costituisce il paradigma che in qualche modo la contiene e che registra la dimensione socioculturale degli atti alimentari, una sorta di sismografo dei movimenti più significativi e profondi della società materiale.
Oggi si ritiene, dunque, che la cucina – considerata come una techne – cioè un’attività creatrice, sia in grado di sviluppare un’estetica visuale e un’estetica dei sapori che stimolano i sensi e compongono il gusto.
Tutto questo cambia profondamente lo statuto della cucina sia sul piano sociale, istituzionale, che discorsivo e soprattutto sul piano estetico. Al limite sul piano professionale, alterando le gerarchie tra la batteria di cucina che artifica e il personale di sale ridotto a rango di presentatore delle “opere”
Diciamo che siamo arrivati a un punto di svolta di una lunga storia che inizia – come si può vedere dal materiale pubblicato in questo sito – nel Medioevo.
È una svolta che può essere datata intorno agli anni ’70 del secolo scorso con la comparsa della nouvelle cuisine e è segnata da molte tappe significative di cui ne ricordiamo almeno una.
L’invito a Ferran Adrià, chef del ristorante “El Bulli” di Barcellona a Ducumenta XII nel 2007, la più importante esposizione d’arte europea.
Prima di arrivare a definire l’artificazione cucinaria c’erano – dal punto di vista della semiosi o, più semplicemente della significazione – tre o, meglio, quattro configurazioni principali nella relazione arte/food.
Vediamole velocemente.
Nella prima configurazione il cibo o, più precisamente, gli atti alimentari, in particolare le forme conviviali come sono i banchetti, nella loro duplice accezione religiosa o laica, hanno rappresentato l’oggetto delle opere d’arte.
Lo sono stati da un lato come dei palcoscenici del cibo, alla maniera dei bankjete o delle nature morte, in principio, fiamminghe e poi spagnole, dall’altro come delle tavole imbandite che suggellavano, diventandone anche i simboli, avvenimenti della vita civile, sociale o religiosa.
Nella seconda configurazione, che abbiamo visto nasce con la nouvelle cuisine, tanto per indicare una data di comodo, si comincia a allestire il cibo come se fosse un’opera d’arte.
Vale a dire esso si “cucina” e poi si “costruisce” nel piatto – divenuto un campo semiotico – cercando di coniugare nella forma finale la sensibilità estetica con le necessità cucinarie e nutrizionali.
È evidente qui il peso della globalizzazione che ha fatto conoscere alla cultura occidentale molti dei principi estetici e culturali delle tavole orientali.
In realtà anche nelle corti del Rinascimento e del Barocco il cibo era teatralizzato, diveniva spettacolo attraverso la meraviglia e l’eccesso.
Oggi diremmo che costituiva uno spettacolo totale riservato al mondo dell’aristocrazia.
I due cuochi più famosi di questa tendenza, iniziata indirettamente da Paul Bocuse, sono stati il catalano Ferran Adrià ( che, come abbiamo ricordato, in veste di “artista dei sapori” è stato invitato a una grande rassegna d’arte) e l’inglese Hestor Blumenthal.
Va però anche detto che entrambi sono finiti di recente al centro di numerose polemiche a causa del loro modo spregiudicato di usare per le loro “architetture” alcune sostanze di sintesi ed alcuni prodotti agglutinanti. Così come va detto che la cosiddetta “nuova cucina creativa” ha oggi le sue capitali negli Stati Uniti e in Spagna.
Nella terza configurazione si utilizza il cibo come materiale espressivo a prescindere da ciò che esso è in sé. Si parla in questo caso di eat art, anche se in propsettivas appare come un termine restrittivo.
Questa espressione fu utilizzata per la prima volta e in modo deliberato da DanielSpoerri negli anni ’70, come naturale continuazione dei suoi quadri trappola.
All’inizio, questa ricerca di nuove esperienze poetiche da parte di Spoerri si formò anche con la gestione di un vero e proprio ristorante a Dusseldorf, inaugurato nel 1968, ma questa è un’altra storia ancora.
En passant va notato che il discorso sugli aspetti formali del cibo come materiale espressivo coinvolge sempre di più, da qualche tempo a questa parte, anche i food–designer e le aziende dell’agroalimentare, spesso in polemica con il ritorno ai valori della tradizione. Valori, di contro, esaltati da un atteggiamento nostalgico di molte élite culturali.
C’è poi una quarta configurazione che sta emergendo a latere di tutto questo. È quella che lega il cibo alle funzioni corporali e, o, alle sue patologie.
Si può definire una sorta di body-food art, che va dal body-sushi alla simulazione o alla sperimentazione dell’anoressia, della bulimia e, soprattutto del vomiting.
In generale e fino a metà degli anni ’60 – che sono, va sottolineato, gli stessi anni in cui si sviluppa in architettura il post-moderno – è stata sostanzialmente la prima configurazione quella egemone sulla scena artistica. Rappresentava la fine della cultura cucinaria borghese.
Poi, con il consolidarsi della novelle cuisine è nata la tendenza a pensare il cibo direttamente come opera d’arte, tanto che molti chef si sono spinti fino ad esigere il brevetto dei loro piatti o perlomeno a chiedere che siano protetti dalle imitazioni e ricordati con il loro nome al momento di servirli. Esattamente come da secoli succede con i brani musicali.