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Racconti gourmand. Tre.

Racconti gourmand. Tre

 

 

Lo avevo conosciuto nel 1972. Era venuto in Italia a presentare una raccolta di suoi scritti, La cosa freudiana. Ricordo ancora l’incontro in un corridoio dell’Università Statale di Milano, quello su cui si affaccia anche la mitica aula 110 dove – dopo aver saltato le lezioni dell’ultimo anno delle superiori – correvo a sentire il professor Martini tenere il corso sugli epigoni kantiani, era il 1958.

In quel corridoio eravamo in quattro. Io, che mi trovavo lì solo perché avevo accompagnato Enrico Filippini. Filippini, che si trovava lì perché chiamato da Elvio Fachinelli a dargli man forte con il maître. Jacques Lacan, che aveva convocato Fachinelli per assicurarsi un “seguace” laico, visto che l’alternativa erano un paio d’intellettuali in odore di sacrestia. “Hai avvisato Paci?”, chiese Lacan a Fachinelli. La presentazione del libro era prevista per il giorno dopo. “Si, mi ha detto che verrà”, rispose Fachinelli. Indossava una giacca stazzonata e una camicia con il collo alla coreana color crema. Teneva in mano un Culebras chiaro, sono quelli che si vendono a mazzetti intrecciati tre a tre, sciolti sembrano sigari schiacciati da un’automobile. Si ficcò il sigaro in bocca e si strofinò le mani, poi sputando una nuvola azzurrina di fumo esclamò, “Bene, bene. Io ho letto tutti i suoi scritti, lui invece ignora i miei”. Sembrava un lupo mannaro in agguato.

Lo rincontrai l’anno dopo in circostanze che si possono definire bizzarre. Un piccolo lavoro editoriale mi portava a Roma per qualche giorno una o due volte al mese. Tornavo di solito prendendo un treno rapido che partiva da Termini alle undici del mattino e fermava soltanto a Firenze e a Bologna. Il secondo turno della carrozza ristorante iniziava appena dopo la partenza da Firenze. Era il più affollato. Ero seduto ad un tavolo da quattro ed avevo già ordinato il vino quando un cameriere fece accomodare nei posti liberi un uomo e due donne. L’uomo era Jacques Lacan. Aveva la solita camicia alla coreana e una orribile giacca a quadrettoni. Ordinarono una bottiglia di vino rosso, dell’acqua minerale, penne al pomodoro e roast-beef al forno con purea di patate e piselli. Lacan mangiava con appetito, parlava con le due donne, una bruna e una bionda, entrambe sui trent’anni, bellocce e ben vestite. Esprimevano degli apprezzamenti non certo lusinghieri su qualcuno che avevano incontrato a Firenze. Mentre mangiava palpeggiava la donna bruna che era seduta al suo fianco. Aveva un vestito nero che terminava con una specie di pettorina in organza sotto la quale si erano intrufolate le sue mani tra il primo e il secondo. Io avevo ordinato una omelette al prezzemolo. In quegl’anni il personale di cucina dei vagoni ristoranti aveva frequentato la scuola alberghiera e l’omelette era un perfetto “pesce d’uovo”, come avrebbe detto Marinetti, morbido e cotto a puntino. Me la portavano adagiata su una foglia di lattuga. Lacan la guardò con la coda dell’occhio e inorridì, ma riprese subito a toccare le gambe della bruna. Continuava a parlare. Poi arrivò il caffè e qui fece una cosa sorprendente. Si frugò in tasca e tirò fuori un coltello a serramanico con una dozzina di accessori. Ne estrasse uno, era un ferro sottile che finiva con un piccolo gancio e cominciò a frugarsi i denti in modo plateale, senza ripararsi la bocca con la mano. Andò avanti per parecchi minuti poi soddisfatto mandò una delle due donne a pagare il conto e lui sparì con l’altra.

Che cosa aggiungere? Che per qualche anno anch’io fui uno dei tanti rigorosamente distinti in base al biglietto di viaggio, Wagon Lits, cuccetta di prima o di seconda classe, posto a sedere di prima o di seconda classe, che prendevano il “neuro-europe-express” (sic), partiva dalla Stazione Centrale di Milano e ti sbarcava alla Gare de Lyon alle sette e qualche minuto, giusto il tempo per un petit dejeuner e poi di corsa al Sainte-Anne per occupare i posti in prima fila per le sue memorabili lezioni.

 

Omelette e omelette…

Nel 1960 le omelette cucinate con la ricetta di Anne Boutiaut (1851-1931) la mitica mère Poulard a Mont-Saint-Michel meritavano un viaggio e un appetito da pellegrini! La loro fama è universale pertanto ci limiteremo a ricordare soltanto quali sono i principi di una omelette ben fatta. Uova fresche e burro di qualità. Le uova vanno sbattute velocemente in un tegame di rame. Poi, in una padella di ferro si getta mezza noce di burro per ogni uova e mentre sfrigola le uova sbattute. Oltre al burro l’unico altro condimento è il sale nelle uova, queste vanno rimescolate durante la cottura affinché si gonfino. Per sbatterle usate una frustra, resistete alla tentazione di aggiungere della panna liquida fresca nelle uova. In rete abbiamo rintracciato l’ultimo prezzo per questo piatto. L’omelette costa diciotto euro per cento grammi. La porzione minima è di duecentocinquanta grammi.