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Racconti gourmand. Quindici.

Racconti gourmand. Quindici.

 

  Strani percorsi ha la jouissance. Quando capì che lui non sarebbe più tornato cambiò il parrucchiere e si rifece il guardaroba a partire dalla biancheria. Era una delle protagoniste della Milano per bene, illuminata e corrotta. Era sposata a un grand commis di una grande azienda a capitale pubblico. Il loro era un matrimonio come tanti, finché un giudice molisano lo costrinse all’esilio, in Brasile, con un cospicuo conto in banca e alcuni appartamenti di lusso che aveva acquistato qualche tempo prima a Paraty, in un complesso coloniale con piscina e campi da tennis.

La conobbi a un cocktail in onore del Santo Salone dove si celebrano i salottifici brianzoli e la stoltezza degli architetti. Parlava di design con giornaliste e “pierre” immerse nei gossip di questo rito ambrosiano. Cominciammo a frequentarci, il mio piccolo pied-à-terre sui Navigli l’eccitava, aveva deciso che ero un artista maudit, nulla di più ridicolo. Un pomeriggio uscendo da un vernissage incappammo in un temporale improvviso, non riuscimmo a trovare un taxi libero, si bagnò a tal punto che il pizzo delle sue mutandine le disegnava i glutei sotto lo scamiciato di Versace. Fu così che, rischiando la sua reputazione di vedova bianca perseguitata dalla giustizia, mi portò nel suo appartamento dalle parti di Brera e, dato che eravamo già lì, dopo la doccia e essersi cambiata, decise di preparare una cena leggera. Tu mettiti comodo, mi disse porgendomi una camicia del caro lontano e mettendomi in mano un bicchiere di cachaça, cosa che mi parve di pessimo gusto, ma eccitante. La grande sala da pranzo era collegata al salotto da un arco. Divani bianchi, tavolini con il piano in cristallo, croste alle pareti pagate un occhio della testa e illuminate da applique, tappeti di lana cruda. Attraverso una porta a scomparsa si accedeva ad uno studiolo in legno, con un camino, una piccola libreria, un tavolo di Mollino, se i ricordi non m’ingannano il modello “arabesco”, e una poltrona Chester in pelle rossa. Il Kitsch è uno stato d’animo. Alle spalle della poltrona c’era un basso mobiletto in mogano che aprii per curiosità. Conteneva dei fascicoli ingialliti e legati con uno spago, cancelleria varia, una pistola in un fodero che mi sforzai d’ignorare, tre scatole di sigari cubani Cohiba con la fascetta personalizzata, ne intascai una mazzetta, due scatoloni di vini. Li aprii. Il primo conteneva quattro bottiglie di Comtesse Marie de France 1990 e otto bottiglie di Clos des Goisses brut 1985. Il secondo, dodici bottiglie di André Clouet Bouzy Rouge 1986, lo stesso vino con cui brindava Hegel il 14 luglio di ogni anno. Un tesoro, lessi l’etichetta un paio di volte per capacitarmene. La raggiunsi in cucina con una bottiglia di Bouzy in mano e cercando di essere disinvolto le dissi, ho trovato delle bottiglie di vino, che ne dici se ne apriamo una? Puoi aprirle tutte, mi rispose, sono una mania di mio marito. Era il mio giorno fortunato. Mi affrettai con un cavatappi mentre lei metteva in tavola una torta di verdure mal cotta e sciapita, dei formaggi, una terrina di tordo che non toccai, l’avanzo di una torta di noci di Marchesi, la più meneghina delle pasticcerie nel suo antico edificio di Santa Maria alla Porta, che divorai. Bevvi a più non posso, svuotando praticamente da solo ben tre bottiglie di Bouzy. Come finì? Non lo so, ricordo di aver parlato di poesia francese e di viaggi, di averla vista mentre si spogliava su uno dei divani bianchi del salotto. Per rispetto del talamo nuziale, pensai. Ricordo che al sorgere del sole, il giorno dopo, presi un caffè in una tabaccheria di Santa Maria del Carmine, stanco, ma senza i tradizionali postumi della sbornia.

La confraternita che difende il vino di Bouzy, grand-cru, definisce questo piccolo centro sulle montagne di Reims come la vera madre dei vini rossi. Sono trecentottantasette ettari di territorio votati ai vitigni del Pinot Noir e dello Chardonnay. L’esposizione a NordOvest- SudEst, il suolo argillo-calcareo, la maestria dei suoi viticultori ne fanno un luogo unico.

 

Se amate il vino e le loro cerimonie auguratevi di partecipare almeno una volta al Chapitre des Vins Clairs che si svolge da queste parti a primavera. Un’occasione anche per assaggiare un dessert inimitabile, la Gelée au Bouzy et aux fruits rouges.

Il Pinot Noir – Vitis vinifera – deve il suo nome alla forma e al colore del suo grappolo. La sua vite prospera nelle regioni fredde, ma teme il gelo, è difficile da coltivare a regola d’arte. Per definizione è il vino della Borgogna, diffidate delle sue patrie matrigne come l’Uruguay, il Sud Africa, la Nuova Zelanda, o l’Azeerbaijan. Un proverbio dice: Dio ha fatto il Cabernet Sauvignon, ma il diavolo il Pinot Noir. I sommelier lo definiscono il più romantico dei vini. Colore, aroma, sapore è quello dei piccoli frutti rossi e neri. È leggero di tannino, quello di Bouzy sa qualche volta di petali di rosa e di viola, così come della concretezza delle aie, di cuoio, cedro e perfino di scatola di sigari. Che altro dire? S’ammala facilmente, i romani la conoscevano come Helvenacia Minor e la cominciarono a vinificare fin dal primo secolo dopo l’era comune.

 

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Racconti gourmand. Quattordici.

Racconti gourmand. Quattordici.

Io l’ho conosciuto, era così insignificante che bastò una cena per giudicarlo. Aveva una sola preoccupazione, galleggiare. È il tratto che distingue tutti coloro che temono il confronto delle idee. Le circostanze mi sono tornate in mente leggendo il résumé di una sua intervista al The Guardian di Londra, il quotidiano punto di riferimento dei laburisti inglesi. Improvvido, ha dichiarato che i comunisti in Francia sono scomparsi, prendendo ancora una volta per realtà le sue pie illusioni. Vuole diventare il settimo presidente della Quinta Repubblica francese e forse ci riesce visto l’attuale e la sua concorrente fascista, che sogna di sfilargli i voti da destra.

L’appuntamento – con alcuni amici rumeni – era ad una conferenza di Serge Moscovici, un maestro assoluto per la mia generazione, su alcuni temi di un suo saggio, La société contre nature, uscito qualche anno prima. Oggi Moscovici dirige il LEPS, il laboratorio europeo di scienze sociali. Oltre a diversi esponenti del movimento ecologista erano intervenuti anche alcuni redattori di Interférences, una rivista creata nel 1975 da Antoine Lefébure, che aveva come obiettivo la critica degli strumenti di comunicazione di massa e contribuire a colmare il ritardo francese in quel fenomeno culturale e politico che oggi si ricorda come la stagione delle “radio libere”. Un ritardo dovuto alla legislazione d’Oltralpe che aveva dovuto fronteggiare con disposizioni liberticide la rivoluzione algerina.

Ad Interférences collaboravano anche i redattori di Errata e per simpatia un certo numero di firme famose, come Toni Arno, Philip K. Dick, di cui Fanucci Editore di Roma continua a ristampare l’opera, Jean-Edern Hallier, di cui conservo ancora una copia autografata di Fin de siècle. Lo avevo conosciuto al tempo di L’Idiot International, nei primi mesi del 1970. Dominique Simonnet, giornalista e scrittrice che fondò con Brice Lalonde il movimento Génération écologie, William S. Burroughs e, non da ultimo, Alain Mamou-Mani, che oggi si occupa di cinema, ma che ricordo come un compagno nelle manifestazioni del 1968.

Dopo la conferenza di Moscovici finimmo a cena in uno di quei ristoranti parigini che solo i parigini sanno riconoscere dal di fuori, frequentano e disprezzano platealmente, ricco di boiserie in legno scuro, applique “deco”, velluti color cremisi da basso impero, tappeti Aubusson fatti in Cina, menu gigantesco con la copertina di pelle e un catalogo di preparazioni in stile Larousse Gastronomique. A tavola eravamo poco meno di una ventina, tutti allo stesso tavolo, la parola d’ordine tra noi “portoghesi” era: pagano i politici. Considerata la mia vocazione vegetariana mi dedicai ai vini e ai liquori.

In breve, “Lui” veniva dalla prestigiosa ENA, noi dalle elementari con Amedeo Bordiga e dal liceo del 1968, in più avevamo un vantaggio alcolico. Non fu una lotta ad armi pari, io stesso me ne resi conto quando da una parte assaltammo una bottiglia di Bas Armagnac Samalens del 1967, dall’altra cominciammo a fare riferimenti ai mitici Grundrisse che proprio in quegli anni iniziavano a circolare nella loro versione integrale e, se si potesse dire, sous le manteau.

La sera finì intorno a mezzanotte, andammo direttamente alla gare de Montparnasse, ubriachi, ci aspettavano a Rennes, alcuni amici e molte illusioni.

 L’espressione floc in guascone indica il bouquet de fleurs così come una provincia del sud-ovest della Francia e una mistelle, cioè una mistura molto popolare nel Gers, nelle Lande e nel Lot-et-Garonne realizzata mescolando del moût di uva con dell’armagnac giovane. La proporzione aurea un tempo era di due terzi di succo d’uva e un terzo d’armagnac, in genere quello che i viticultori riservavano al proprio consumo familiare. Nel 2009 è stato riconosciuto come un prodotto tipico e protetto di quella regione. Lo si consuma in genere come aperitivo e si beve entro l’anno. Lo si usa molto anche in cucina. Un modo rapido per accompagnarlo in una sera d’autunno è di usarlo per preparare la farcia per dei sandwich di pane di segale. Mescolate a cento grammi di Roquefort trenta grammi di burro d’affioramento, 50 grammi di farina di mandorle preparata al momento e tanto floc quanto ne serve per preparare una crema.

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