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Une confiture à la dernière mode – Esercitazione 2 – 2011/12

Politecnico di Milano, Anno Accademico 2011-2012.

Cattedra di FOOD-DESIGN.

Esercitazione numero due.

(Mercoledì 14 marzo 2012.)

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UNE CONFITURE

à la dernière mode.

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La Poésie est l’expression, par le langage humain ramené à son rythme essentiel, du sens mystérieux des aspects de l’existence : elle doue ainsi d’authenticité notre séjour et constitue la seule tâche spirituelle.

(S.M.)

 

Stéphane Mallarmé (1842-1898) scrive che la ricetta di questa esercitazione è di Zizy, una cameriera mulatta di Surate. Un vezzo tra i tanti di questo grande poeta che ha saputo rivoluzionare il linguaggio della poesia moderna. La ricetta compare su l’effimero giornale La Dernière Mode, di cui uscirono solo otto numeri tra il 1874 e il 1875. Questo giornale costituisce un piacevole monologo sulla moda e l’eleganza femminile voluto e scritto da Mallarmé e più volte ripubblicato in facsimile a partire dall’edizione di S.A. Rhoses del 1933.

La “confiture Zizy” non è la sola ricetta che si attribuisce a questo poeta che, nel suo modesto salotto di rue de Rome a Parigi, raccoglieva ogni martedì un circolo d’amici, i “mardistes” come amavano definirsi. Tra gli habitués troviamo W.B. Yeats, Rainer Maria Rilke, Paul Verlaine, Stephan George, Paul Valery, Claude Debussy, in particolare di quest’ultimo ricordiamo come il suo capolavoro sinfonico il Prélude à l’apres midi d’un faune, che traduce per certi versi la filosofia della musica simbolista che questo cenacolo discuteva nei suoi incontri, fu inizialmente concepito proprio come sottofondo musicale a un poema di Mallermé.

Qui non possiamo ripercorrere né la genesi e il senso di quel complesso e profondo movimento di rinnovamento della cultura europea che inizia con il Decadentismo – erede a suo modo del Romanticismo – e si conclude con gli orribili fuochi della prima guerra mondiale, né il percorso intellettuale di Mallarmè a cominciare dal suo incontro con la poesia di Charles Baudelaire. Così come sarebbe arduo ripercorre una stagione di poeti maledetti, d’insurrezioni operaie, di prose simboliste, d’impressionismi, di libertinaggi e di segni poetici che vedremo inverarsi con le avanguardie storiche. Ma questa breve nota non può non ricordare almeno il poema mallarmiano che ha fatto compiere alla poesia il suo salto assoluto nella modernità: Un coup de dés jamais n’abolira le hazard del 1897. Un salto prima di tutto nel contenuto civile della poesia e poi nella sua musicalità, nel senso delle parole, nel modo di disporle sulla pagina e nel modo – mentale – di leggerle.

 

Quanto alla confiture (°) c’è d’aggiungere che tra i suoi aromi “culturali” spicca quello orientalista. In quegl’anni l’orientalismo è stato uno “stato d’animo” in cui s’inverava l’esperienza coloniale europea e la scoperta che ci sono luoghi “lontani da dove” con cui abbiamo avuto e abbiamo ancora paura di confrontarci.

 

La confiture di ZiZy. Ricetta.

Mettete in una casseruola di rame o di acciaio mezzo chilo di zucchero fine, un bicchiere d’acqua e il succo di mezzo limone. Quando lo zucchero ha assorbito i liquidi (aiutatevi con un cucchiaio di legno) integrateci una noce di cocco grattugiata. In un’altra casseruola a bagno-maria e con l’aiuto di una frusta sbattete tre tuorli d’uovo freschissimi con mezzo bicchiere di rum agricole o rum della Martinica. Aggiungeteci il contenuto della prima casseruola, un baccello di vaniglia tagliato per il lungo e senza semi, mezzo tronchetto di cannella sbriciolata, l’acqua filtrata con una garza del cocco, qualche goccia di acqua di fiori d’arancio. Proseguite la cottura per altri cinque minuti, poi dividete il tutto in coppette di vetro e lasciatelo raffreddare in frigorifero. Al momento del servizio spolverate la confiture (°) di zenzero candito.

(°) – Una confiture – che noi definiamo marmellata (*) – è una “confettura” ottenuta dalla cottura di frutta e zucchero. Essenzialmente è una tecnica di conservazione alimentare, soprattutto per quei frutti che non si conservano o sono fragili. In qualche raro caso serve a consumare frutta astringente o amara.

In Europa arrivò tramite la cucina araba verso la fine del Medio-Evo e in principio il termine comprendeva qualunque confetteria realizzata con la cottura nel miele o nello zucchero. Il suo successo fu immediato divenendo la regina dei boutehors, cioè di quelle “carinerie” che si servivano a tavola dopo che si era sparecchiato o che venivano offerte in un’altra stanza. Le più popolari erano al gusto di zenzero, coriandolo, finocchio, anice, pinoli e nocciole. Si consideravano oltre che piacevoli, digestive. Spesso venivano preparate dai farmacisti per il conforto degli ammalati. Va notato che le confetterie erano alimenti di lusso per via del costo dello zucchero di canna, solo nella seconda metà dell’Ottocento, con il diffondersi dello zucchero di barbabietola, divennero popolari.

La normativa europea sulle confetture è contenuta in una direttiva del 2001 e riguarda anche le gelatine, le marmellate propriamente dette e la crema di marroni.

(*) – La differenza tra confettura e marmellata sta essenzialmente nella quantità dello zucchero impiegato, in ogni modo il termine di marmellata dovrebbe essere limitato agli agrumi.

 

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L’identità soggettiva – Looking through the food – Esercitazione 1 – 2011/12

Politecnico di Milano, Anno Accademico 2011-2012

Cattedra di FOOD-DESIGN.

(Prima esercitazione, mercoledì 7 marzo 2012)

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L’IDENTITA’ SOGGETTIVA.

LOOKING THROUGH THE FOOD.

(Premessa)

L’espressione d’identità deriva dal latino idem che implica continuità e permanenza del medesimo. Nella storia delle idee è un concetto che è stato spesso usato per esaminare la permanenza nel cambiamento e l’unità nella diversità. Nella modernità invece l’identità è strettamente legata all’emergere dell’individualismo. Tradizionalmente si fanno risalire i primi studi sull’identità alla filosofia inglese, in particolare a John Locke e a David Hume. In ogni caso è solo a partire dalla seconda metà del ‘900 che il termine identità diventa d’uso comune sulla scia della psicologia, della psicoanalisi e delle scienze sociali, traboccando nella letteratura, nelle arti e, attraverso la “società di massa” , nel costume e nella vita corrente oltre che nella lotta di classe e nei pregiudizi razziali.

La tradizione sociologica della teoria dell’identità è legata soprattutto al’interazionismo simbolico e si sviluppa a partire dal pragmatismo americano sia con William James che Goerge Herbet Mead. Per James l’identità si rivela quando possiamo dire: “Questo sono realmente io!”

In altri termini quando il se – una capacità tipicamente umana – permette agli individui di riflettere su se stessi, di distinguere l’io dal Me, di interagire con la società nella quale l’identità è costruita, sostenuta e trasformata socialmente.

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In particolare l’identità soggettiva è l’insieme delle proprie caratteristiche auto-percepite. Costituisce un’identità fluida, difficile da circoscrivere, carica di ombre, di tenerezze, di agguati, con la quale dobbiamo fare in continuazione i conti. È anche tutto ciò che ci caratterizza, ci rende inconfondibili, ci consente di dare un senso all’idea di “Io”. Così, l’identità soggettiva serve sia ad identificarci che a discriminarci, producendo spesso degli stereotipi culturali che alimentano il pregiudizio, in essa convergono almeno tre rappresentazioni di ciò che siamo:

La nostra identità fisica, che si desume principalmente dal volto, dalla postura e dal sesso.

La nostra identità sociale, ovvero l’insieme di alcune caratteristiche quali l’età , lo stato civile, la professione, la classe di reddito.

La nostra identità psicologica, costituita dalla personalità che abbiamo, dalla conoscenza di sé, dallo stile di vita e di comportamento.

Sono identità che variano più o meno rapidamente e coscientemente. Più o meno indipendentemente da quello che noi vogliamo o siamo in grado di volere.

Va considerato che queste rappresentazioni dell’identità, anche se non coincidono, sono profondamene intrecciate tra di loro. Per esempio, il mio modo di vedermi è in larga misura il riflesso della maniera in cui mi guardano gli altri e della maniera in cui io so che gli altri mi vedono, con il risultato che molto spesso i giudizi che esprimiamo o riceviamo sono improntati sulla malafede, sulla cortesia, o godono di una benevolenza parentale ed amicale.

L’identità soggettiva indica anche la capacità degli individui di aver una coscienza dell’esistere e di “permanere” attraverso tutte le fratture dell’esperienza.

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È opinione condivisa che gli atti alimentari riflettono la nostra personalità.

Se gli alimenti che ingeriamo sono indispensabili alla vita, il nostro gusto, lo stile con cui mangiamo, les nos manières de table ci situano nel mondo e nella società.

La nostra identità, da questo punto di vista, si costruisce attraverso le abitudini dell’infanzia, i modi alimentari della classe alla quale apparteniamo o quella alla quale vorremmo appartenere, dalle nostre relazioni familiari.

Obiettivo dell’esercitazione è la realizzazione di un autoritratto che esprima

la nostra “identità soggettiva” o quello che riteniamo sia una rappresentazione di essa identificando noi stessi in un piatto, in un cibo, in un sapore, nel colore di qualcosa che amiamo mangiare o abbiamo mangiato, in un ricordo di una “madeleine” come ci racconta Marcel Proust in Alla ricerca del tempo perduto, quando in un biscotto rivive la sua Combray.


L’autoritratto può essere elaborato con il mezzo espressivo che si ritiene più opportuno, disegno, foto, fumetto, collage, rappresentazione elaborata per via elettronica.

L’elaborato dovrà essere presentato stampato su un foglio A4.

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“…il mio modo di vedermi è in larga misura il riflesso della maniera in cui mi vedono gli altri e della maniera in cui io so che mi vedono gli altri: normalmente si “chiede” ad altre persone di dirci chi siamo. A questo punto, però, veniamo a trovarci in una situazione abbastanza spinosa, perché di norma non domandiamo a tutti gli altri di definirci e di illuminarci sul nostro carattere, ma operiamo una selezione tra le persone che reputiamo deputate a tal compito: esse sono essenzialmente i nostri familiari e i nostri amici. In questo modo accade che coloro che dovrebbe farci conoscere le nostre peculiarità caratteriali, sono proprio quelle persone che tendono a presentarci la versione più gradevole e più accettabile della nostra personalità. Di conseguenza, spesso si vengono a creare delle situazioni improntate sulla malafede, perché l’immagine di me stesso che mi sono creato risulta più favorevole dell’immagine che ho delle persone esterne alla cerchia più intima dei miei conoscenti.”

Giovanni Jervis 1933-2009.

 

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