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Corso Food-Design a.a. 2011-12 – Design degli atti alimentari – (2 di 5)

(E’ possibile scaricare il testo integrale in formato PDF da questo link: Corso Food-Design a.a. 2011-12)

La relazione “mangiatore-mangiato”.

L’atto di mangiare, in sé, è un atto vitale che concerne gli esseri viventi, dalla loro nascita alla loro morte. Tale atto è determinato dai bisogni e dai meccanismi biologici e fisiologici ma, come è evidente, non tutti mangiano allo stesso modo, né si mangiano le stesse cose. Dipende dal fatto che gli atti alimentari obbediscono a delle pulsioni sociali che non sono solamente biologiche o razionali, tanto che esse richiedono, per essere comprese, la confluenza di molte discipline.

 

Cominciamo con il considera la relazione dei due principali soggetti dell’atto alimentare: Colui che mangia e il mangiato.

In questa relazione colui che mangia è al centro di una cornice argomentativa (di un frame) in cui s’intrecciano dei contenuti cognitivi che provengono dalla biologia, dalla genetica, dalla psicologia, dalla sociologia e dalla storia.

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La nozione di frame, che possiamo anche tradurre con cornice metacomunicativa è un concetto che Erving Goffmam (1922-1989) riprese da Gregory Bateson (1904-1980), psichiatra e antropologo americano di origine inglese. Per Bateson il frame è uno schema interpretativo che conferisce un senso ad un flusso di eventi o di segnali. Con questo schema Bateson intendeva migliorare la comprensione del disagio psichico contestualizzandolo nella sue ragioni, invece di reprimerlo con i farmaci. Il frame è, nel contesto del nostro corso, ciò che produce l’ethos, vale a dire, tradotto nel discorso delle scienze sociali, una maniera di esistere e di agire collettivamente strutturata o, se si preferisce, il modo in cui un individuo e un gruppo sociale interpretano e interiorizzano le regole morali. Determinano il loro stile di vita. Queste cornici non collimano mai, ma si sovrappongono in modo significativo divenendo quello che chiamiamo costume. Per esempio, c’è una significativa differenza di costume tra coloro che sono vegetariani e coloro che sono onnivori e certamente questa differenza non si limita al mangiare o non mangiare una bistecca…

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Il mangiato, invece, non esiste di per sé, è piuttosto una categoria fenomenologia. Significa che si mangia solo ciò che appare mangiabile alla luce delle nostre abitudini alimentari che sono, quasi del tutto, abitudini acquisite.

Dobbiamo anche considerare che in questa relazione, tra colui che mangia e il mangiato, certi meccanismi, come sono quelli biologici e fisiologici, hanno un potere normativo, cioè, costituiscono delle pulsioni irrinunciabili, mentre il comportamento di colui che mangia, il modo, le cerimonie a cui ricorre sono essenzialmente dei fatti sociali. Come ha dimostrato l’analisi psico-analitica, già con la nascita l’uomo è immerso, attraverso il meccanismo della suzione, in una situazione nella quale è determinante e discriminante l’interazione sociale ed affettiva che vive.

L’alimentazione, in definitiva, è un atto sociale che coinvolge la nostra esistenza e la determina, e, proprio per questo, si arricchisce costantemente con l’esperienza e la conoscenza, dando vita a delle complesse rappresentazioni mentali.

Per considerare la struttura di questo atto sociale (e gli stretti legami con le forme più generali della socialità) si deve cominciare con l’osservare che, il patrimonio genetico della specie determina un certo numero di tratti specifici che sono propri della condizione umana.

Le caratteristiche del nostro metabolismo, per esempio, mettono in luce due fatti importanti, che l’uomo è diventato un onnivoro e che possiede delle particolarità che lo distinguono radicalmente da tutte le altre specie viventi.

Com’è oramai convenuto l’uomo si è distaccato dal ramo delle scimmie antropomorfe tra i sei e i quattro milioni di anni fa. Allora era giocoforza vegetariano, come lo sono ancora in parte gli scimpanzé e i bonobo. Successivamente, l’abilità manuale acquisita nell’uccidere per mezzo di strumenti di offesa produrranno una risposta culturale che corrisponde anche ad un vantaggio economico e l’uomo si trasformo in un carnivoro.

L’impulso alla stanzialità e l’abilità all’adattamento all’habitat svilupperanno in seguito dei modelli diversi di onnivoricità che hanno come punto di partenza la condizione del “cacciatore-raccoglitore”. Questo passaggio all’onnivoricità ha poi determinato alcuni comportamenti coattivi sul piano nutrizionale, anche questi acquisiti culturalmente, come quello di dover mangiare degli alimenti diversi per poter accedere a certe sostanze indispensabili alla vita, che non siamo in grado di produrre con il nostro organismo o che, si può presumere, non siamo più in grado di produrre in modo autonomo, come per esempio si ritiene la vitamina C, a differenza dei felini.

Dalla condizione di onnivori è successivamente derivato un incremento della capacità adattativa, in rapporto alle risorse disponibili e alla messa in opera di certi comportamenti, che non tutte le specie animali possiedono. Un esempio limite è quello del panda, che si nutre soltanto di germogli freschi di bambù. Una strategia alimentare talmente specializzata d’averlo messo a rischio di estinzione.

Ricordiamo che, accanto al patrimonio genetico, la specie uomo ha sviluppato anche un grande patrimonio culturale, costituito dall’insieme delle credenze, dei comportamenti, delle attitudini e delle pratiche messe in atto dagli individui e maturate nelle comunità di origine.

La complessità delle forme culturali, specifiche della specie umana, non può essere trasmessa che attraverso l’apprendimento, ed esse rappresentano un ingente patrimonio che si evolve e si modifica nel tempo.

Con le forme culturali gli individui sono in grado sia di costruirsi un’appartenenza comune che di differenziarsi dagli altri gruppi umani. Nel caso degli atti alimentari va considerato che la cultura gioca un ruolo determinante fin dalla nascita, perché è in funzione di essa che gli adulti adottano le pratiche alimentari ed educative del bambino ed è sempre in funzione di essa che ne modellano le risposte.

Ma torniamo al ruolo dell’apprendimento.

Come dicono i sociologi l’essere umano è programmato per apprendere e, nel caso specifico degli atti e delle pratiche alimentari, l’apprendimento gioca un ruolo capitale nel suo sviluppo. Quando nasce, infatti, l’uomo non è in grado di nutrirsi se non attraverso l’assunzione di prodotti lattei e preferibilmente zuccherati. Al di là di questa iniziale programmazione, che deriva dal nostro patrimonio genetico, tutto il resto è dovuto all’apprendimento, cioè all’utilizzo delle capacità sensoriali e all’acquisizione di quelle che i francesi chiamano les manières de table.

In breve, tutti gli esseri viventi mangiano, l’uomo cucina, cucinando produce cultura e concorre alla costruzione di quelle istituzioni che gli garantiscono una certa stabilità culturale, soprattutto per quanto riguarda l’equilibrio nel tempo delle comunità nomadiche. È questo il motivo che fa ancora oggi della cucina ebraica un grande elemento della tradizione, così come lo è stata ieri degli uomini del deserto.

Le ricerche effettuate sul comportamento alimentare dei neonati hanno poi messo in luce che il loro apprendimento è molto precoce. Gli apparati sensoriali, in particolare quelli gustativi ed olfattivi, cominciano a funzionare già in utero, cioè dal quarto mese circa dal momento del concepimento.

Queste forme di apprendimento, va da sé, sono molto rozze e non possiedono un significato coerente, riguardano specialmente la percezione del dolce, dell’acido e di alcuni specifici aromi, tra cui, curiosamente, spicca quello del limone o, meglio, dell’acido citrico.

Nell’analisi fenomenologia dei comportamenti alimentari c’è anche da considerare una circostanza che li complica notevolmente, nonostante sul piano sensoriale le sensazioni legate al gusto e all’odorato siano molto importanti, noi non possiamo sapere ciò che prova l’Altro se non attraverso quello che dice o, meglio, che è capace di esprimere.

Così, il trattamento cognitivo delle informazioni sensoriali ha bisogno di un apprendimento che si dispiega su diversi fronti, non da ultimo, quello dell’adozione di un vocabolario di convenzioni sociali e culturali agite all’interno di una stessa cornice metacomunicativa.

Per quanto riguarda il gusto e l’odorato non esiste per l’uomo una scala di grandezza della loro intensità iscritta nell’organismo, diciamo che è l’esperienza che lo insegna, assaggiando e confrontando gli alimenti.

La frazione d’intensità, vale a dire, della stimolazione necessaria per apprezzare queste esperienze, varia da individuo ad individuo e nello stesso individuo in rapporto all’età, allo stato di salute, alle condizioni oggettive di vita, alla cultura. In genere, questo apprendimento implica il ricorso ad una scala di valutazione personale il più delle volte memorizzata. In tutti i casi, malgrado le grandi differenze che sussistono tra gli individui, differenze che sono accresciute anche dalle diverse esperienze culturali e dalla contingenza della vita materiale, esiste quella che possiamo chiamare una sorta di consenso che caratterizza il gusto di una comunità.

Questo consenso, nella forma di un apprendimento, ha un’origine culturale, deriva dalle abitudini della comunità in questione e contribuisce alla creazione della sua identità sociale.

Ne consegue, per esempio, che noi tutti riconosciamo certi alimenti come “nostri”, come “loro” o degli “altri”.

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La stessa radice etimologica, nelle espressioni di odio e odore, sottolinea l’importanza dell’odore nella formazione della sociabilità.

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Nel contesto degli atti alimentari la sensazione è il primo passo della scala che porta al messaggio sensoriale.

La sensazione rappresenta tecnicamente l’impressione che si riceve per l’intermediazione dei sensi.

Possiamo definirla un fatto psico-fisiologico elementare proprio degli organismi superiori, il risultato dell’azione di un eccitante su un recettore sensoriale (organi del senso, muscoli, viscere…) che per l’intermediazione dei nervi trasmette l’eccitazione ad un centro nervoso.

La soglia di sensazione, invece, è un concetto psicofisico che corrisponde alla quantità minima di eccitazione necessaria per dare luogo ad una sensazione minima in un dato ambito.

Non va confusa con la soglia differenziale, un concetto sviluppato dallo psicologo tedesco Gustav Fechner (1801-1887), che rinvia all’aumento o alla diminuzione dell’intensità necessaria ad una eccitazione perché la sensazione passi ad un grado superiore o inferiore d’intensità.

A questo proposito, la legge di Weber afferma che la soglia differenziale è proporzionata all’intensità iniziale dell’eccitazione.

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Wilhelm Weber, medico tedesco, nel 1834 stabilì che la soglia differenziale (deltaR) di ciascun stimolo è una frazione (o, proporzione) costante (K) dell’intensità dello stimolo iniziale R , esprimibile secondo la formula:

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Tornando al messaggio sensoriale il suo significato si acquisisce con l’apprendimento, con la ripetizione e con le associazioni che si fanno intorno ad esso.

Quella che invece chiamiamo la percezione gustativa si costruisce attraverso la ripetizione delle esperienze e l’assemblaggio dei diversi messaggi in un dato significativo, che dovrà essere memorizzato dalla coscienza. Come lavoro di formazione delle categorie, la percezione gustativa è, probabilmente, uno degli elementi più importanti che intervengono nelle pratiche alimentari, mettendo in gioco il chi mangia con il mangiato.

Torniamo al neonato, sappiamo che preferisce i sapori dolci. Occorre aggiungere che questa predilezione va di pari con il rifiuto del sapore amaro. Questo schema si ritrova anche nella stragrande maggioranza delle specie animali, soprattutto tra i mammiferi.

Nell’animale culturale chiamato uomo non c’è solo una propensione al consumo di alimenti dolci, ma anche che non c’è un rigetto a priori di tutti quelli amari.

Come è facile constatare, se pensiamo alle nostre esperienze soggettive, l’accettazione di un nuovo alimento si elabora con l’apprendimento e questo è soprattutto legato all’osservazione. È osservando gli altri che un individuo si sente invitato ad imitare e ad apprendere ad imitare.

Un esempio significativo, nell’ambito del gusto, è l’accettazione del piccante. Sappiamo che il piccante è sgradevole e dovrebbe indurci ad evitarlo. Ciò non toglie che esso sia largamente presente in molte cucine nel mondo.

L’apprendimento può anche avvenire per emulazione di ciò che avviene nell’ambiente, è un fenomeno che si osserva fin dalla più piccola età e prosegue nella vita adulta. Questo apprendimento è poi avvantaggiato dalla familiarità con l’alimento, nel senso che un alimento conosciuto, anche se non lo si è mai consumato, è preferibile ad uno totalmente sconosciuto.

Un altro ruolo importante è giocato dall’ambiente, i bambini sono molto attenti a ciò che consumano gli adulti e a come ne parlano, è provato, come tutti i genitori sanno, che una presentazione calorosa ed entusiasta di un alimento ha un grande potere persuasivo. Si è anche costatato che gli alimenti della prima infanzia possono generare degli imprinting alimentari legati al colore e alla consistenza che possiedono.

Siccome questo colore frequentemente è una variazione del beige, se ne è dedotto che la resistenza dei bambini a mangiare verdure dipende dall’estraneità dei verdi rispetto alle loro abitudini alimentari costruite prima sul latte e poi sugli omogeneizzati.

Possiamo a questo punto enunciare due lemmi.

Il primo afferma che le condotte alimentari – sia personali che collettive – giocano un importante ruolo nei processi di socializzazione e nella creazione delle identità culturali. Il secondo afferma che, nel campo delle pratiche alimentari, l’acquisito è di gran lunga più importante dell’innato.

 

Passiamo, adesso, al mangiato e interroghiamoci su che cos’è un alimento? La risposta più ovvia è: Tutto ciò che si mangia. Possiamo aggiungere, che apporta delle sostanze nutritive all’organismo, che risponde a certi criteri di sicurezza e di igiene, che da piacere. Ciò è sostanzialmente vero, ma non è tutto. Infatti, ciascuna comunità o gruppo non consuma che una piccola parte di tutto ciò che è commestibile. I casi sono numerosi. In quasi tutte le culture ci sono delle interdizioni culturali e religiose. Per fare degli esempi che tutti conoscono pensiamo alla proibizione di consumare la carne di maiale presso gli arabi e gli ebrei o la carne bovina presso gli indiani. Oppure al fatto che i latini mangiano carne di cavallo e rane, che non sono considerati appetibili in Inghilterra o negli Stati Uniti. Che i russi fanno inorridire gli inglesi, mangiando le volpi. Che i vietnamiti e i cinesi, mangiando i cani e le scimmie, fanno inorridire gli occidentali. Si possono anche fare esempi più esotici, perché c’è chi mangia le meduse, i topi, i serpenti, certe famiglie d’insetti o di larve, che hanno il merito di essere ricche di proteine, le tartarughe, le balene, i delfini. Tutti questi animali, in pratica, sono degli alimenti per certuni e un abomina per altri, e lasciando stare i vegetali, le alghe, certi frutti, le muffe e i funghi.

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Inciso.

Verosimilmente è un fattore economico che ha interdetto all’Islam il consumo della carne di maiale e del vino, esattamente come lo è il divieto di consumare carne bovina in India o, nel medioevo cristiano, di mangiare carne di cavallo. Del resto, il Corano promette ai fedeli fiumi incorruttibili d’acqua, di latte, di miele e di vino. Sentieri alla rovescia, rispettivamente, della vita, del nutrimento, della dolce saggezza e della conoscenza divina. In ogni epoca e sotto ogni latitudine, le argomentazioni economiche hanno sempre esercitato un dominio sulla politica o le convinzioni spirituali. Non fa eccezione il destino del maiale, che s’inscrive in uno dei tanti conflitti nella storia del progresso, quella tra la campagna e la città per il predominio dei loro interessi. C’è stato un momento nelle cronache della fame in cui l’allevamento diffuso di questo animale era divenuto pregiudiziale al controllo che la politica esercitava sull’individuo e sull’esercizio del potere economico derivato dal controllo dei mercati alimentari, anche in considerazione della sua dieta integrata con gli stessi cereali della dieta umana. Centralizzando l’ammasso del grano e proibendo l’uso del lardo, in favore dell’olio d’oliva, più facile da commercializzare, si spezzò l’indipendenza delle comunità di campagna che vivevano, oltre che sulla coltivazione dei cereali, sul consumo del sangue, del latte e delle carni. C’è poi la questione del nomadismo, tipico delle regioni aride ed ostile a un animale che non cammina, così distante dal modo di vivere dei beduini e così vicino alle culture stanziali. Nell’ambito di queste condizioni era inevitabile che gli stili di vita finissero per diventare distintivi. L’allevamento del maiale per gli ebrei e i mussulmani diventò così la metafora di un cambiamento che poteva, per la sua radicalità, degenerare nel dramma, inscritto nell’ambito di un’economia dove l’erba spontanea e i vasti territori abitati dal nulla garantivano un equilibrio tribale. Di più, c’è da considerare come dietro la stanzialità baluginava una tragica concorrenza tra due mammiferi onnivori, con l’aggravante, per uno dei due, di non produrre latte o lana, di non tirare un carro, di non poter essere montato. Fa eccezione in questa storia la Cina, dove i poteri centrali hanno sempre preferito politiche improntate al lasser faire, ma si deve considerare che nelle uniche zone irrigate del Medio Oriente si coltivavano soprattutto datteri, fatta esclusione un tempo per la Siria, la madre dei cereali. In breve, oltre all’influenza della cultura ebraica sulle norme alimentari islamiche, le ragioni dell’interdizione della carne di maiale sono più vicine a quelle di un usurante scontro politico-economico che a quelle dell’etica religiosa.

Nella religione ebraica Dio non si spiega mai con i suoi figli, né direttamente, né con i suoi profeti, “il-così-è-perché-dev’essere” non ha né una causa né una logica, ma appare come una rappresentazione del nome della legge, la cui ragione è essenzialmente il limite, la mutilazione del godimento che”la” esalta.

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Tra gli uomini, il consumo di un alimento non è sempre il frutto di un processo razionale o di una scelta imposta esclusivamente da un imperativo economico e non è sufficiente che un prodotto sia biologicamente assimilabile per l’organismo perché sia accettato sul piano culturale.

In pratica, sia considerato un cibo. Imparare a mangiare significa apprendere a riconoscere la cornice argomentativa entro la quale i prodotti sono accettati e considerati come commestibili.

Questa cornice argomentativa, questo repertorio culturale ha, per gli individui, dei punti in comune, ma anche dei punti di divergenza.

Imparare a ri-conoscere un repertorio alimentare significa anche socializzare. È come apprendere una lingua per poter comunicare meglio.

A questo proposito osserviamo che da tempo l’antropologia e le scienze sociali riconoscono che il ruolo dell’alimentazione e della cucina è simile a quello del linguaggio, di creare uno spazio comune di comunicazione. Spazio che può essere più o meno ampio, profondo e intrecciato da riti e da cerimonie.

Gli atti alimentari, come la lingua parlata, permettono di costruire dei legami di appartenenza e, per conseguenza, di classe e di distinzione sociale.

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La distinzione nelle scienze sociali identifica il segnale destinato a far riconoscere immediatamente l’appartenenza di un individuo ad un gruppo generalmente considerato come superiore. Più in generale, essa descrive le maniere di essere e i fatti socialmente determinati, cioè, gli “habitus” e li riassume negli stili di vita. Rimandiamo su questo tema a:

Pierre Bourdieu, La distinzione. Critica sociale del gusto, Bologna 1983 (L’edizione francese è del 1969). Bourdieu attribuisce una grande importanza alla capacità degli attori sociali – in una posizione di dominazione, come sono le élite – d’imporre la loro produzione culturale, simbolica e materiale nella costituzione dei rapporti sociali dominanti. In questo contesto egli elaborò il concetto di violenza simbolica.

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Il problema, dunque, è riconoscere l’identità del mangiato, per la quale ha una grande importanza il concetto di gusto. Gusto è un’espressione polisemica, nel linguaggio comune significa una sensazione connessa ad un insieme di proprietà. Nell’ambito alimentare, per metonimia, indica il sapore stesso, acido, amaro, zuccherato, salato. Gusto è anche sinonimo di appetito.

Questa sensazione sul piano cognitivo, può essere abbastanza facilmente identificata, nominata, padroneggiata ed è per questo che noi apprendiamo fin dalla più piccola età a nominare i sapori e a riconoscere gli alimenti. Sul piano affettivo, invece, questa sensazione richiama, anche nostro malgrado, il piacere o il disgusto.

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Prima di procedere fermiamoci sull’espressione di self, un’espressione con la quale nella lingua inglese si identifica l’identità dell’individuo nelle relazioni face to face. È un concetto molto usato in psicologia e in psicanalisi, da cui è stato mediato. Didier Anzieu, un decano della psicoanalisi francese, a questo proposito, ha scritto una quindicina d’anni fa un libro sui confini del self, intitolato, Le moipeau, (L’io-pelle). Perché è importante la nozione di self? Perché gioca un ruolo decisivo nel rapporto che noi abbiamo con il nostro corpo e il corpo degli altri. Il self caratterizza anche il modo con cui noi percepiamo la sostanza corporale con la quale siamo fatti e che non si limita a un po’ d’acqua, lipidi, aminoacidi, eccetera. La nostra esperienza della vita quotidiana ci dice che la percezione della nostra sostanza corporale cambia di contenuto davanti ai nostri occhi quando supera i limiti del self. In questo modo il self si è rivelato un concetto molto importante per studiare il gusto e il disgusto e il modo di percepire la prossimità con gli altri.

Facciamo qualche esempio. Non abbiamo disgusto della saliva che si trova nella nostra bocca, ma se la raccogliamo in un bicchiere molto difficilmente riusciremo a rimetterla in bocca e inghiottirla. Questo perché quando le nostre secrezioni superano il limite del nostro iopelle ci diventano estranee, e simmetricamente, quelle degli altri ci provocano disgusto più si avvicinano a noi. É come se le vivessimo in modo intrusivo, è come se dovessimo difenderci da esse.

La stessa cosa si può dire per il sangue, a noi non da fastidio succhiare il nostro sangue, che esce da un dito ferito affettando del pane, ma se questo sangue lo raccogliamo con una garza, difficilmente avremmo il coraggio di succhiarla. Di contro, il self diventa tollerante con le relazioni di vicinanza derivate da un’attrazione emotiva. Nelle relazioni intime il self diventa, di fatto, un acceleratore dell’intimità, come nel caso della saliva del bambino che non è ripugnante agli occhi della madre, così come non lo sono le secrezioni dei partner sessuali, ma che tornano ad esserlo se l’intimità viene spezzata, non importa come.

Con il self, tra l’altro si possono spiegare anche molti dei meccanismi del feticismo, che trasformano la distanza e la familiarità degli oggetti che appartengono al soggetto amato. In questo senso l’intimità come la tenerezza contaminano positivamente gli oggetti avvicinandoli, esattamente come il disgusto li allontana.

Qui, c’è un altro tema che si affaccia, è quello della contaminazione che insieme alle tesi sul pensiero magico sono state l’oggetto di studio di un grande antropologo inglese in un’opera famosa: Il ramo d’oro, di James (George) Frazer (1854-1941).

La nozione di self, infine, serve anche a completare il paradigma della prossemica, intesa come quel capitolo della semiologia che studia il linguaggio del comportamento umano (gesti, posizioni, distanze, posture) dal punto di vista dei processi comunicativi.

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Per ritornare in argomento nell’ambito del gusto dei prodotti alimentari il problema della sensazione si presenta più complesso che altrove. Nella sua valutazione intervengono, oltre al senso proprio del gusto, l’olfatto, la percezione termica e la stereognosia boccale.

Vale a dire la percezione del volume, della textures, della visione e dell’ascolto di ciò che si sta mangiando, perché molti alimenti hanno anche un suono e una voce, com’è il caso di quelli che si sgranocchiano, come i pop corn.

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Inciso.

A Strasburgo, in Alsazia, c’è un’antica salsiccia affumicata – risale al 1500 – che si chiama knack. Il suo nome deriva dal rumore della pelle quando la si morde e si rompe. In tedesco è knacken. Gli specialisti del Gruyère hanno l’abitudine di “suonare” il formaggio per capire la dimensione e la struttura dei suoi buchi, che sono la sua specialità. In Italia, in Spagna e in genere nel bacino del Mediterraneo la maturazione delle angurie e dei meloni si prova facendoli “scrocchiare” e percuotendoli con le nocche. La marmitta ci ricorda che le zuppe borbottano e profumano. I francesi dicono che i fondi e le salse fanno la gargote, cioè, gorgogliano. Da qui il nome di gargote ai ristoranti dove si spende poco e si mangia male. In natura le mele mature crocchiano quando si mordono. I francesi dicono “croquez la pomme!” crocchiano come i buoni peperoni o le patatine fritte. Lo schiocco del tappo che esce dalla bottiglia invita ad alzare i bicchieri e a bere. Le allitterazioni nel mondo alimentare sono numerose. Da croccante a crunchy a crispy. Ne parlò per la prima volta Roland Barthes in un articolo intitolato, “Pour une psychosociologie de l’alimentation contemporaine”, pubblicato nel 1961 su un numero di Annales.

Barthes parte dalla baguette che per essere fresca deve essere croccante e profumata e mostra la complessità del concetto di craquant, croustillant e di croquant.

Il marketing alimentare presta molta attenzione al croccante. Per esempio, i cereali che si usano per la prima colazione devono restare croccanti quando si mangiano e contrapporsi alla dolcezza del latte. Nell’immaginario alimentare il croccante può trasformarsi in rammollito solo se si ritiene che così il cibo migliora. Ma è un passaggio raro, perché il croccante si associa ad un’immagine positiva di leggerezza e di appetibilità di un cibo. Ricordiamo, infine, che il marketing ha inventato l’espressione di crunch per amalgamare il croccante al colore e alla sensazione di freschezza.

Crunch è un’espressione di franglais, come si chiama quel linguaggio che mescola le parole francesi con quelle inglesi.

Questo rumore dei cibi appare in contraddizione con il tacere a tavola, una regola di galateo religiosa prima e borghese dopo. Ma non è sempre così. A parte il mangiare rumorosamente la zuppa per sottolineare che la si apprezza, come fanno i cinesi, si è scoperto che il brusio dei ristoranti concilia la convivialità. Del resto, da tempo, i pranzi di gala sono accompagnati dalla musica. Naturalmente, negli atti alimentari, le regole della conversazione, un tempo ferree, sono oggi molto allentate, ma non per questo meno importanti quando la convivialità diventa una forma diplomatica o politica di relazione.

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Per tornare in argomento ciascuna di queste modalità sensoriali apporta delle informazioni sull’alimento e la loro risultanza, che noi chiamiamo sinestesia, ci permette di caratterizzare l’alimento nella sua totalità.

Il senso stereognostico è la facoltà di riconoscere la forma degli oggetti. La sinestesia è la capacità di connettere le sensazioni integrandole l’una all’altra.

 

Va rilevato che la sinestesia ha una grossa componente soggettiva che deriva dall’acuità sensoriale specifica degli individui e dalle loro esperienze anteriori. Queste esperienze riguardano sia le conseguenze somatiche delle consumazioni, senso di sazietà, di piacevolezza, di pesantezza digestiva, che gli aspetti affettivi del contesto sociale in cui avviene la consumazione.

A questo proposito è importante sottolineare il ruolo giocato dalla memoria, sia quella esplicita che quella implicita, costituita dalle tracce mnemoniche che si agitano nell’inconscio dell’individuo. L’episodio famoso della madeleine di Marcel Proust, prima ancora di un’invenzione letteraria è una perfetta illustrazione di come agisce la memoria implicita. Qual era l’obiettivo di Proust? Trasformare un semplice riferimento metaforico legato ad un atto alimentare in una figura stilistica. A questo proposito Roland Barthes ha notato che il dettaglio alimentare in letteratura tende sempre ad eccedere il significato per diventare un supplemento (enigmatico) di senso.

Va osservato che stiamo parlando di fenomeni relativi al mondo occidentale e, in particolare, di coloro che in questo mondo vivono nell’abbondanza mercantile o, se si preferisce, possono accedere a forme di consumo elaborate. Per questo mondo il mangiato non è solo un nutrimento per vivere e il colui che mangia è in genere un soggetto che può scegliere.

In questo contesto quali sono gli elementi che guidano le scelte?

Le componenti fisiologiche del piacere provocate dall’alimento e le componenti gustative apprese socialmente ed individualmente agiscono in ogni istante, così, non c’è molto margine negli atti alimentari per gli alimenti che non hanno un’identità.

Per chi mangia c’è solo un problema, conoscere gli elementi contestuali che gli permettono di scegliere il mangiato da un punto di vista edonico, cioè, del massimo piacere?

Perché è su questi indici che nel tempo si costruisce l’identità del mangiato. In pratica, un primo indice è fornito dal colore degli alimenti. Chi mangia è abituato a riconoscere d’acchito gli alimenti che sceglie. A questo proposito ci sono dei tests, resi spesso popolari dai mass-media, che hanno dimostrato come il colore può arrivare a far apparire o più saporiti o più indigesti certi cibi.

A parte ciò, gli aspetti organolettici non sono i soli in gioco. Le scelte non sono mai razionali.

Gli alimenti sono sempre circondati di qualità e di difetti. Di virtù e di poteri. In breve sono assediati da tutta una serie di attributi magici. Così, nell’immaginario popolare, s’istallano anche gli stereotipi e i pregiudizi, la carota rende amabili, la carne rossa aggressivi. Mangiare in bianco, poi, è tra le illusioni la più paradossale, come se lo stomaco riconoscesse i colori invece dei grassi del burro e dei formaggi. In realtà, ancora una volta e la psicologia a spiegarcelo, il bianco ricorda la dieta lattea della nostra infanzia, attenua l’ansia che prende allo stomaco e ci purifica.

Si può dire, in sostanza, che gli alimenti ci appaiono in funzione delle idee che uno si è fatto delle loro virtù, tanto che si può parlare di una identità ideale del mangiato.

 

C’è un’intera letteratura sulle virtù dei brodi ristoratori che attraversa l’Ottocento, brodi che oggi ci appaiono disgustosi con i loro occhi gialli di grasso… Era la stagione delle acque benefiche e salvifiche, delle città termali, delle piscine trasformate in una terapia psichiatrica…

Nel complesso l’Ottocento, nonostante i progressi positivi delle scienze e della fisica, appare permeato dal fascino barocco dei fluidi, dalle condense bianchicce e nebbiose degli alambicchi, dalla natura metafisica delle essenze, dalle intemperanze della “grascia”, del piacere del masticare.

Si riteneva che le qualità motrici del corpo umano nascessero dagli umori e si trasformassero in forza muscolare. La parola d’ordine era una sola, ci vuole più carne. Un alimento che assecondava l’edonismo un po’ rozzo dei nuovi padroni del mondo che aspiravano alle virtù della bonne chère scambiata per la douceur de vivre.

La gastrosofia romantica dell’alimentazione, che identificava nel mondo rurale e contadino un universo ideale, è adesso considerata una predicazione pericolosa e malsana, troppi amidi, troppi vegetali, le fibre fanno volume, imbarazzano, esattamente come imbarazza la castità, in un secolo che ha preteso di confrontarsi con la perversione. L’epoca vittoriana era ossessionata dalla sessualità esattamente come la nostra dalla privacy. Alla resa dei conti l’ordine fisiologico doveva rispecchiare l’ordine politico-economico dominante come se fosse uno stile di vita.

Questa svolta scientifica, a cavallo tra igiene ed economia, che investe la nutrizione e ricama con l’unto dei suoi intingoli metafisici gli incubi delle fami metropolitane, ha i suoi prodromi nel diciottesimo secolo, con la scoperta delle gelatine e le ricerche di laboratorio sui “succhi nutritivi”. La fisiologia era allora convinta del principio dell’unicità nutritiva, da raggiungere con la gestione e la trasformazione degli alimenti. Un sogno fin troppo prossimo alle chimere dell’alchimia per poter apparire credibile, ciononostante molti s’industriarono ad identificare questa sostanza nella forma della gelatina, che più tardi si rivelerà ricca di aminoacidi essenziali, a causa della sua natura mucosa. È il trionfo dell’apparenza e del potere suggestivo delle descrizioni razionali. Gli alimenti sono farinosi, mucillaginosi, zuccherati, acidi, oleosi o grassi, caseosi, gelatinosi, albuminosi e fibrosi.

Nasce la sperimentazione sugli animali, le prime vittime sventrate dimostrano che il consumo di sostanze azotate è indispensabile alla vita. Dopo che si riuscì a ridurle a degli albuminoidi presero il nome di proteine. Successivamente si arrivò alla distinzione tra protidi, lipidi e glucidi. La base essenziale dell’alimentazione ideale dei mammiferi era gettata, la costituivano tre gruppi di sostanze ben distinte, le materie albuminose, quelle grasse e i saccaroidi.

Spetterà al barone Justus von Liebig, titolare della cattedra di chimica a Giessen e imprenditore fortunato nel Sud America, sottolineare l’importanza degli elementi azotati nella formazione della carne, li chiamerà, poeticamente, gli elementi plastici della nutrizione, da non confondere con gli alimenti respiratori, quelli che si bruciano, fonti di calore e di energie.

L’euforia neo-liberista del secolo travolge anche l’alimentazione, l’analisi sensoriale e il gusto non interessano più di tanto, tutto diventa una questione di valore, il valore classifica, costruisce gerarchie e la chimica sperimentale consente di costruire liste di alimenti che rivelano le loro capacità energetiche.

Le calorie diventano, in nome della combustione, il principio nutritivo del sangue, con esse il corpo umano si garantisce il calore costante e, per conseguenza, il funzionamento degli organi e la vita dei tessuti. Un altro esito dei loro processi di valorizzazione è l’interscambiabilità e la combinatorietà, a peso uguale tanto da tanto. Il grasso fornisce tre volte più calore delle fecole e sei volte di più delle sostanze ricche di albuminoidi. Per gli scettici ci sono gli esperimenti di laboratorio. Si brucia di tutto e si misura tutto. In questi esperimenti il cibo ideale, quello che tutti prendono in considerazione per i raffronti è la carne rossa, il pollame, infatti, è anemico, meglio, nel caso, le viscide e pesanti carni della selvaggina.

È una corsa a chi stabilisce prima e con prove inoppugnabili la quantità ideale per un uomo tipo in un regime di clima temperato. A circa trecentocinquanta grammi di un buon manzo basta aggiungere un chilo di pane e due litri d’acqua. L’analisi chimica, su questo punto, è perentoria. Dal lungo elenco degli alimenti analizzati emerge l’inutilità o lo scarso valore energetico di molti di essi, come la frutta, i legumi, gli aromi e le spezie. Ai maestri di scuola si distribuirono analisi, tabelle e conclusioni, un’alimentazione carnea e un po’ di ginnastica svedese sui quadrati avrebbero fanno miracoli a livello antropometrico.

Gli erbaggi, in genere, non avevano che un ruolo ausiliario, consentono di variare la forma e i sapori delle preparazioni alimentari e, in subordine, ci permettono di ingurgitare dei liquidi e dei sali minerali. Quanto alla frutta. Carl Anton Ewald, fondatore della Berlin klinische Wochenschrift, è perentorio. Anche se ispira fiducia dal punto di vista della salute ed anche se in qualche caso è adatta a variare la dieta, non deve farci dimenticare che le sue sostanze nutritive sono inquinate dalla dovizia dei principi acidi in essa contenuta.

Il giudizio sulle spezie è più conciliante, non servono a nulla, ma possono giocare un ruolo positivo sul sistema nervoso, meglio, possono attenuare la ripugnanza per certe preparazioni cucinarie, peccato che molte di esse riscaldino.

Sul clima gastrosofico della prima parte dell’Ottocento c’è un libro che vale la pena di leggere, Si tratta di uno dei romanzi sociali di Eugène Sue (1804-1857), I sette peccati capitali. Precisamente il capitolo dedicato alla “gola”. Se piace si può poi passare al suo capolavoro. I misteri di Parigi.

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Torniamo in argomento. Esiste una identità ideale del mangiato con la quale spesso si contribuisce a distinguere, e in seguito vedremo il perché, gli alimenti destinati a dei gruppi o a degli aggregati sociali particolari: i bambini, gli anziani, le donna incinta, gli sportivi, gli italiani, gli stranieri, eccetera. In altri termini queste identità del mangiato concorrono a formare delle categorie consensuali, definite culturalmente ed utili a disegnare le strategie di mercato. Sono distinzioni che si apprendono nella giovane età e che ci servono in età adulta da modelli.

Nei bambini i gusti pronunciati e decisi sono considerati “cibi da grandi”, in questo senso hanno un forte imprinting nella formazione del gusto.

In quasi tutte le culture, però, una categoria ideale è quella che concerne l’autenticità dei prodotti.

Che significa autentico? Nell’accezione comune significa vero. Ma che cos’è un alimento vero?

Chi ne stabilisce l’autenticità? Come si può costatare è un problema di costume sociale che rinvia a delle specifiche costruzioni culturali.

In linea generale possiamo dire che gli atti alimentari sono multi determinati e che, quello che più conta di essi, deriva da come sono percepite, da una parte, l’identità di chi mangia, costruita attraverso l’interazione di certi determinismi biologici e di apprendimenti sociali. Dall’altra, l’identità del cosa è mangiato, costruita sull’esperienza e, soprattutto, sui criteri e le norme apprese da chi mangia.

Queste due identità s’incrociano sul piano della rappresentazione e danno vita ad un vero e proprio teatro della vita corrente modellando gli stili di vita e i processi cerimoniali che hanno ha fondamento l’atto alimentare. Naturalmente la frontiera tra le figure che queste due identità generano è difficile da tracciare ed è molto complessa, anche perché è la conseguenza di certi fattori razionali e irrazionali della conoscenza. Va anche aggiunto che queste due identità si muovono nel tempo storico senza una logica apparente. A complicare maggiormente la relazione del colui che mangia e del mangiato ci sono altri due aspetti che meritano di essere sottolineati, anche per l’importanza sociale che rivestono e che avranno nel nostro futuro.

La molteplicità sempre più complessa dei modelli sociali e degli stili di vita in una società globalizzata. L’accelerazione sempre più spinta alla trasformazione dei criteri di riferimento per apprendere a mangiare.

Nel primo caso, questa molteplicità dei modelli sociali e degli stili di vita agisce soprattutto sulla popolazione giovanile che non ha più davanti a sé, come riferimento culturale, il solo ambito familiare, ma prima di tutto quello del mondo della pubblicità e delle varie istituzioni che lo gestiscono, la scuola materna, l’asilo, le mense scolastiche e quelle dei campus universitari.

Il problema di una mancata armonizzazione dei modelli sociali fa si che ancora oggi, in Italia, nelle refezioni scolastiche si arriva in molti casi a buttare fino al quaranta per cento per cibo preparato.

Va anche notato che la circolazione delle informazioni, dei prodotti alimentari e dei modelli culturali agisce sull’intera società moltiplicando in essa le spinte emulative intorno agli stili di vita delle classi agiate e dei loro consumi ostentativi, come sono gli alimenti di lusso o certe classi di bevande. Tipico è il caso del vino, di cui diminuisce costantemente il consumo pro-capite di quelli sfusi ed aumenta quello – sia pure in maniera molto minore, soprattutto a causa del prezzo – dei prodotti di “cantina”.

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Le definizioni di classe agiata e di consumi ostentativi sono di Thorstein Veblen (1857-1929).

Veblen è un economista e un sociologo americano di origine scandinava. I suoi testi sono molto caustici nei confronti di quelle classi che sono al riparo dai problemi economici – le classi agiate – e che Veblen accusa di muoversi spinte solo dalla vanità e dai desideri di beni costosi. Classi che ostentano la loro ricchezza per distinguersi dagli altri, anche quando questa ostentazione è paradossale, come nel caso dell’ozio, di cui si vantano per sottolineare la loro libertà dal lavoro.

Il suo libro più famoso è intitolato, Theory of the Leisure Class (La teoria della classe agiata), uscito nel 1899. Un esempio della sua ironia la possiamo cogliere nella sua teoria sui tessuti lucidi. Egli scrive che i ricchi amano i cappelli lucidi perché servono loro a mostrare che ne hanno sempre di nuovi, mentre disapprovano la stoffa dei pantaloni quando è lucida, perché portano i pantaloni lucidi (cioè, lisi) coloro che non hanno i mezzi per comprarne altri.

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Dunque, la complessità dei modelli sociali comporta lo sgretolarsi delle decisioni imposte dai quadri sociali tradizionali, per esempio nell’imporre un dieta o un certo piatto in una certa ricorrenza. Un dato, da anni le vendite natalizie del panettone tradizionale solo calate a favore del pandoro e di quelli farciti, che appaiono come dei prodotti nuovi e giovanili, così come sono calati i consumi di certi alimenti legati alle tradizioni religiose, quali gli agnelli a Pasqua…un caso, questo, che rimanda alle nuove sensibilità verso l’ambiente e il mondo animale, in una, all’avanzare dell’antispecismo.

C’è poi da notare che nelle trasformazioni dei criteri di riferimento per “apprendere a mangiare” il sapere cucinario non scaturisce più dalla tradizione conservatrice dei piccoli gruppi o delle comunità, ma dalla famiglia nucleare, ispirata e sollecitata da fonti eterogenee di trasmissione di questo sapere rispetto a quelle tradizionali, come sono le rubriche dei mass-media, la pubblicità, i programmi televisivi.

In breve questi due aspetti, soggettivo ed oggettivo, della fenomenologia degli atti alimentari sono in rapida trasformazione e tendono ad influenzarsi tra di loro così come ad essere manovrati dalle grandi strategie di marketing. Se guardiamo poi alla velocità delle trasformazioni avvenute negli atti alimentari in questo ultimo mezzo secolo è facile verificarne l’unicità e la portata, due caratteri che sono propri della modernità e di cui non c’è traccia nella storia passata degli uomini.

Per riassumere, diciamo allora che sono tre gli ambiti emergenti che caratterizzano gli atti alimentari: L’ambito organolettico. Vale a dire le modalità sensoriali e formali che determinano il gusto di un alimento. La stessa moda della “de-strutturazione” dei piatti è una poetica sensoriale a tutti gli effetti. L’ambito edonico. Cioè, le dimensioni del piacere, o meglio, l’apprezzamento o il disgusto che ci apporta un alimento. L’ambito ideale. Costituito da ciò che si pensa a proposito di un alimento, delle sue virtù, delle sue qualità e dei suoi pericoli, prescindendo se quello che si pensa sia corretto o vero dal punto di vista scientifico. Da almeno trent’anni a questa parte il marketing dei prodotti alimentari dei paesi ad industrializzazione avanzata si gioca su una costruzione deliberata di cibi ideali senza nessun riferimento ai fatti, come nel caso dei cibi light.

Corso Food-Design a.a. 2011-12 – Design degli atti alimentari – (1 di 5)

(E’ possibile scaricare il testo integrale in formato PDF da questo link: Corso Food-Design a.a. 2011-12)

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Design degli atti alimentari.

(Sintesi metodologica ad uso accademico)

puis, après le potage, on servit une truite rose

comme de la chair de jeune fille.

Guy de Maupassant, Bel-Ami.

 

 

Che cosa legittima, sul piano scientifico, questo insegnamento all’interno di una università che ha per vocazione lo studio delle forme di progetto?

Una constatazione che dobbiamo all’incontro, nel corso del Novecento, di diverse discipline quali l’antropologia, la psicoanalisi, la sociologia dell’alimentazione, le ricerche sulla sociabilità e la mediazione sociale, non da ultimo, con la ripresa della cultura materiale, la storia sociale dei sistemi cucinari e delle forme di convivialità.

Qual è questa constatazione?

GLI ATTI ALIMENTARI SONO STRUTTURATI COME UN LINGUAGGIO.

Da qui ne discende che essi possiedono, oltre ad una storia e ad una tradizione:

un patrimonio lessicale.

– una grammatica, con la quale possiamo studiare la loro morfologia.

– una sintassi, cioè, delle regole di composizione delle parti che li compongono.

– una logica. (Che gli atti alimentari abbiano una logica comporta, poi, che essi possono essere considerati scientifici nelle forme e nelle leggi che li regolano, se non altro, dal punto di vista nutrizionale.)

In altri termini, al pari di un linguaggio, la cucina possiede dei vocaboli – che sono i prodotti e gli ingredienti. Questi vocaboli sono organizzati secondo delle regole di grammatica che contribuiscono a formare le ricette. Possiedono una sintassi, data dall’ordine delle vivande e, infine, una retorica, rappresentata dai comportamenti conviviali che riflettono i diversi stili di vita.

Ma c’è di più, gli atti alimentari hanno anche una semiotica, che qui possiamo intendere, in senso lato, come il fatto che si compongono di segni che si possono interpretare e di simboli ad essi relativi da cui deriva un’importante funzione simbolica.

Ma che cosa vuol dire che essi si compongono di segni?

I segni, dal punto di vista degli atti alimentari, sono dei fenomeni sensibili, degli elementi dell’interpretazione con i quali possiamo conoscere, riconoscere, prevedere o ipotizzare sia sulla scorta delle nostre conoscenze acquisite che di studi specifici.

In generale i segni possono essere naturali o convenzionali. Charles Peirce (1839-1914), che assieme a William James rappresenta uno dei protagonisti di quella corrente di studi filosofici che va sotto il nome di pragmatismo, è ritenuto l’inventore della semiotica. Nei suoi studi egli distingue tre tipi di segno, l’icona, l’indice, il simbolo. Tutti e tre contribuiscono alla significazione.

Il simbolo, nel contesto degl’atti alimentari, può essere definito il segno figurativo di un’idea astratta, perché con i simboli si attribuisce un contenuto materiale ad un concetto che non sapremmo esprimere altrimenti.

Non è difficile dedurne che gli atti alimentari sono un immenso catalogo di simboli e di cerimonie, più o meno storicizzati e culturalmente rilevanti che formano un paradigma consolidato.

Vediamo questo paradigma velocemente risalendo il percorso storico compiuto dagli studi sull’alimentazione.

Uno dei primi ricercatori di quella che potremo chiamare l’antropologia alimentare o nutrizionale è Audrey Isabel Richards (1899-1984), allieva di Bronislaw Malinowski e pioniera dell’antropologia sociale. Nel corso di un’indagine su alcune popolazioni dell’Africa sub-sahariana, avanzò una tesi, oggi largamente condivisa, dell’alimentazione come di un processo vitale fondamentale, sia considerato di per sé che per i suoi legami con i costumi sessuali.

Negli anni subito dopo la seconda guerra mondiale Margaret Mead (1901-1978), un’antropologa americana, allieva di Franz Boas, autrice di un Manuale per lo studio delle pratiche alimentari, rimarcò l’importanza degli aspetti socio-culturali e psicologici dell’alimentazione, dimostrando che l’atto alimentare s’inscrive non soltanto in un contesto naturale, ma anche e soprattutto sociale.

Successivamente la corrente strutturalista, nella quale si distingue il lavoro del suo fondatore, Claude LéviStrauss (1908-2009), mette in luce l’importanza delle strutture culturali legate all’alimentazione, indicandole tra le matrici fondative dell’ordine e dei modelli sociali che viviamo.

Partendo da questi presupposti Mary Douglas (1921-2007), un’antropologa inglese, specializzata nello studio dei meccanismi attraverso i quali le persone attribuiscono un significato alla realtà, ha poi studiato l’alimentazione come un vettore di comunicazione, dunque, come un vero e proprio linguaggio la cui struttura può essere compresa per mezzo di una grammatica adeguata che tenga conto del fatto che nutrirsi è un atto simbolico, un’azione biologica e un comportamento sociale.

Da parte sua, Pierre Bourdieu (1930-2002), un sociologo francese che qui ricordiamo per aver studiato e definito il potere di violenza del simbolico, nel suo lavoro sulla formazione del gusto sostenne che questo dipende direttamente dall’origine sociale di colui che mangia. In altri termini, gli stili di vita concorrono e rafforzano la conservazione dei rapporti sociali come sono quelli intorno alle abitudini alimentari. In questo modo il cibo si rivela un efficace strumento di classe.

In particolare, quanto più numerosi sono gli status, cioè, le posizioni sociali che formano il meccanismo della stratificazione sociale, tanto maggiore è la varietà degli atti alimentari.

Convenzionalmente si ritiene che la ripresa nel secondo dopoguerra degli studi teorici sul tema dell’alimentazione, considerata in tutte le sue implicazioni culturali, artistiche, politiche, antropologiche e nutrizionali, ha avuto inizio in Europa con la pubblicazione del numero 31 della rivista francese Communications, nel 1984, interamente dedicato a questo tema, sotto la direzione di Claude Fischler e l’avvallo di Edgar Morin, sociologo e filosofo, con il quale Fischler aveva fondato, nel 1970 un “Groupe de diagnostic sociologique”.

Sotto un altro aspetto potremmo dire che questa nuova importanza accordata agli atti alimentari corre parallela ad una constatazione anche di ordine socio economico, specifica del mondo occidentale, che di fatto ha accentuato l’aspetto comunicativo di questi atti, vale a dire, le funzioni cerimoniali degli alimenti sono diventate più importanti del loro valore nutritivo.

In linea generale possiamo dire che la “socio-antropologia dell’alimentazione” ha da qualche anno ricomposto, anche a seguito di questa considerazione, il suo paradigma.

La lingua inglese, a questo proposito, definisce food studies l’insieme delle ricerche dedicate agli aspetti antropologici, storici, psicologici, sociologici ed estetici dell’alimentazione. Una sorta di macro-disciplina che s’interseca e si mescola con i consumption studies volti ad analizzare modi, miti e rappresentazioni intorno alle pratiche e alle cerimonie di consumo e del valore e significato delle merci nei diversi contesti socio-culturali che determinano i nostri stili di vita.

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Attraverso lo studio del sistema alimentare è oramai opinione diffusa che sia possibile delineare l’organizzazione sociale di un popolo, della sua vita domestica, della sua etica e della sua religione.

Dietro la soddisfazione di questo bisogno fisiologico, infatti, c’è un preciso impianto comunicativo. In questo senso, il modo di alimentazione è un linguaggio che stabilisce l’identità e individua la diversità, a tal punto che anche nei casi estremi di sradicamento dalle proprie condizioni di vita e dalla propria cultura la cucina è una della tradizioni che più denota la provenienza etnica.

È oramai ampiamente provato che certe dominanti alimentari resistono ai cambiamenti, anche profondi, dell’ambiente sociale ed ideologico.

Per esempio, gli emigrati, anche quando hanno abbandonano tutte le tradizioni del loro paese di origine, restano in qualche modo fedeli alle loro tradizioni culinarie più di quanto non lo restino alle loro convinzioni religiose e di costume.

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Prima di proseguire occorre ora considerare le implicazioni di queste due paradossali specificità culturali dell’uomo.

Se provassimo a sommare tutte le proibizioni e i tabù che circonda la forma di cibo, a partire da quelli di natura religiosa per finire a quelli legate al gusto o alle circostanze dell’ambiente naturale, l’umanità morirebbe di fame nel giro di una generazione.

Di contro, se provassimo a sommare tutto ciò che l’uomo ha classificato come cibo e che ha usato per nutrirsi nel corso della sua storia l’intero mondo dovrebbe essere considerato una sostanza alimentare, dalle deiezioni al suo stesso corpo che la morte riduce a res.

D’altro canto le fonti di cibo nel mondo, che tanti appelli promuovono a proposito della fame, sarebbero, per adesso e per molto tempo ancora illimitate se gli uomini smettessero di rifiutarne culturalmente una parte, spesso consistente. Infatti, ogni società più o meno deliberatamente ha un ristretto catalogo alimentare ereditato dal passato che si modifica nel tempo con grandi difficoltà e molto lentamente.

 

Gi atti alimentari dal punto di vista della semiotica.

Gli atti alimentari, visti nella prospettiva del fooddesign e dato per acquisito il fatto che sono strutturati come un linguaggio, possono essere considerati anche come una disciplina che ha cominciato da qualche tempo, come abbiamo già osservato, a produrre un suo paradigma unitario.

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Paradigma è il termine che esprime la matrice comune di un’argomentazione scientifica (un archivio) nella quale sono contenuti ed elaborati i valori, le credenze, le tecniche le opinioni condivise. Di fatto delimita il campo, la logica e la prassi come principio ordinatore delle ricerche che in questa matrice si svolgono. Secondo Thomas Kuhn (1922-1996), epistemologo e filosofo della scienza, americano, il carattere paradigmatico stabile di una disciplina è un indice della sua maturità. In sub ordine, all’interno di una disciplina, con il tempo, tende sempre a formarsi un paradigma prevalente che rappresenta una forma specifica di vedere la realtà o d’impostare le ricerche. Naturalmente non esistono metodologie neutrali o oggettive, così, un altro problema che entra nell’analisi di un paradigma è quello relativo ad una sintesi organica tra teoria e metodo impiegati nella ricerca.

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Nel food-design per giungere ad un vero ed effettivo modello paradigmatico occorre che sia elaborata una effettiva sintesi organica tra i suoi ambiti concettuali ed operativi.

Per operare questa sintesi si devono individuare degli strumenti concettuali che rendano esplicita la specificità del punto di vista progettuale.

Come ha scritto Luis Jorge Prieto, linguista e studioso delle teorie strutturaliste, la semiotica non è una categoria della conoscenza, piuttosto è una teoria della ragion d’essere della conoscenza o, meglio, come nel nostro caso, della ragion d’essere della conoscenza della realtà materiale.

Questo discorso semiotico si costituisce a partire dal fatto che la validità di una simile conoscenza non dipende solo dalla sua veridicità, ma anche dalla sua pertinenza.

Sono due condizioni profondamente intrecciate l’una all’altra. È evidente, infatti, che la questione della veridicità di una conoscenza si pone soltanto per una conoscenza già considerata come pertinente.

In altri termini, veridicità e pertinenza sono due degli elementi fondamentali che concorrono a formare la validità di una conoscenza.

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La teoria della pertinenza, fin dalle sue origini, intreccia l’antropologia alla linguistica ed ha per obiettivo quello di sviluppare uno dei caratteri essenziali della comunicazione, cioè, l’espressione e il riconoscimento delle intenzioni.

In questo senso, il problema centrale della semantica, intesa come una teoria del significato, è quello di stabilire le condizioni di verità degli enunciati dichiarativi. Perché? Perché per afferrare il significato di un enunciato bisogna conoscere le circostanze in cui quel enunciato è vero. Cioè, bisogna conoscere le sue condizioni di verità.

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Il punto di vista condiviso e da tutti adottato per giungere ad una conoscenza degli atti alimentari è quello di considerare la cultura materiale come una fonte primaria, ovvero, il luogo fisico di una serie di processi culturali, storici, e in sub-ordine politici e tecnici, in continua evoluzione. In questo contesto le fonti scritte e la tradizione orale sono un corollario che possono dare un senso e una validità ai contenuti della cultura materiale.

Dobbiamo anche rilevare che nel rapporto cognitivo che lega l’idea di progetto agli atti alimentari gli oggetti svolgono, come è intuitivo, un ruolo fondamentale, ma tutto si complica se proviamo a definire questi oggetti.

In linea generale, una volta osservato come il mondo in sé è composto di cose e che la divisione in cose è il risultato della mente umana sul mondo delle percezioni sensibili, gli oggetti possono essere definiti come delle invarianti della materia. Un oggetto, in breve, non è altro che un frammento della realtà materiale che il soggetto riconosce come tale o, meglio, come un frammento di questa realtà. Questa definizione ci serve per affermare che gli oggetti e gli eventi sono, o in potenza o nei fatti, semiotici.

Sono semiotici perché essi, agendo sulla nostra esperienza del mondo, mettono in movimento un processo di risposta e d’interpretazione, di percezione e di giudizio. In altri termini, una semiosi intesa qui come il frutto della correlazione tra la forma dell’espressione e la forma del contenuto.

In altri termini, dentro gli atti alimentari c’è una potenziale dialettica di segni, oggetti, eventi, cerimonie che, producono e lasciano dei segni che circondiamo di intenzioni e ai quali ci sforziamo di dare loro un senso.

L’universo semiotico nell’ambito del food-design può essere dunque considerato come un insieme di atti alimentari dove ciò che conta non è questo o quel atto, ma il sistema che forma la semiosfera, dentro la quale si forma la semiosi. L’azione semiotica che seziona l’atto alimentare in unità significanti deve poi essere regolata da un principio di pertinenza che renda ragione dei criteri di frammentazione adottati.

A questo punto è legittimo definire il food-design come una semiotica della cultura materiale rivolta all’analisi dei segni e delle tracce che compongono gli atti alimentari in previsione di un progetto.

 

La frammentazione concettuale della cultura materiale che declina gli atti alimentari è intuitivamente un atto cognitivo con il quale questa cultura, percepita inizialmente come un tutto indistinto, può essere pensata formata da oggetti o da singoli atti (azioni). Va però rilevato che questo può avvenire solo se il soggetto possiede qualche forma di conoscenza di questa cultura materiale, soprattutto dal punto di vista della sua storia.

L’atto semiotico che porta alla conoscenza della forma di progetto non consiste dunque nella produzione di segni, ma nella comprensione di un senso. Questo significa ricondurre gli atti alimentari non a delle leggi generali o ipotetiche, ma semmai di considerarli come se fossero dei testi, da interrogare per coglierli e/o collocarli nel loro contesto.

Testi nei quali occorre afferrare la differenza dal loro contesto (differenza sintagmatica). La differenza con ciò che potrebbe essere al loro posto (differenza paradigmatica), e la ragione di queste differenze che compongono la testualità dell’atto alimentare.

Immaginare la cultura materiale e i rituali – nella fattispecie, gli atti alimentari – come un testo significa considerare i rapporti intercorrenti tra gli oggetti come se fossero delle parole che lo compongono, come il più delle volte è una ricetta o una cerimonia.

Da qui la possibilità di concepire l’analisi degli atti alimentari anche come una lettura sociale del passato.

In semiotica il termine contesto ha funzioni diverse. Il contesto degli atti alimentari è l’orizzonte di riferimento di un testo.

Esso è anche l’ambiente culturale in cui matura un testo e, va da sé, l’insieme dei testi che concorrono a definirlo. Una importante funzione del contesto è di attribuire una pertinenza al testo, segnalare, cioè, che cosa è testo, in una ricetta, per esempio, non è testo il rabbocco di una preparazione a seguito di un errore di preparazione.

Un’altra funzione è quella di attribuire una categoria al testo e di indicare le funzioni che assumono, nello specifico della comunicazione, questo o quel elemento testuale,un rabbocco, alla fine di una preparazione cucinaria, può significare la fine della ricetta.

L’interpretazione in termini semiotici degli atti alimentari concepiti come un tutto presente all’interno della cultura materiale, che possiamo scomporre in frammenti significanti, ci pone un ulteriore problema, perché se questi atti ci appaiono come un tutto indistinto significa che noi non siamo in grado di definirli al di là del fatto che sono atti alimentari.

Sembrerebbe, in altre parole, che gli atti alimentari siano un testo senza contesto, ma è falso perché noi pensiamo agli atti alimentari come se fossero un testo a cui si oppone ciò che non fa testo.

Nel food-design il termine contesto ha una serie di accezioni. Esso viene impiegato soprattutto per denotare vari concetti specifici di esso. In generale s’intende per contesto la situazione, la cerimonia o le circostanze in cui un oggetto o un gruppo di oggetti sono ad esso funzionali. Qui, come si vede, il contesto svolge anche la funzione di perimetro di riferimento, di frame.

 

In una prospettiva storica gli atti alimentari sono una realtà materiale di partenza ed essi possono apparire inerti, indistinti e sconosciuti. Parti di una cerimonia, di un evento o di un fatto legati tra di loro solo dall’osservazione e dalla constatazione che lo sono nel tempo.

In queste condizioni essi non sono che siti trattenuti da cornici argomentative. Perché questo è importante? Perché la frammentazione in siti è una frammentazione che può essere sia reale, che concettuale, e portare a conclusioni diverse. Qui notiamo soltanto che i confini reali, simbolici e culturali di un atto alimentare sono sempre il riflesso dei confini concettuali all’interno dei quali il soggetto inscrive gli interrogativi che ha posto sul campo.

 

Gli atti alimentari possono essere interpretati con un processo sintetico o analitico. Il primo, a causa della sua natura, rivela sempre una certa soggettività interpretativa. Il secondo, invece, richiede un intervento sul campo di tipo ricognitivo. In ogni caso, se si concepisce la cultura materiale come un testo la comprensione del senso di questo testo non potrà non avvenire senza l’ausilio di criteri di verifica, cioè, senza l’ausilio di un codice interpretativo. Questo codice è costruito a partire dall’obiettivo della ricerca e si configura sempre come un codice semiotico.Qui intendiamo per codice l’insieme delle regole che strutturano le associazioni tra le unità di un sistema di significazione. Queste unità sono i segni.

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Il segno è la risultante dell’associazione di un significante ad un significato. Il significante esprime la dimensione materiale del segno. Il significato la dimensione immateriale.

Queste due dimensioni possono essere a loro volta scomposte su due piani. Il piano dell’espressione e quello del contenuto. La significazione è l’unione del significante con il significato da cui scaturisce un segno.

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Uno dei caratteri del segno è l’arbitrarietà, perché non c’è un rapporto di necessità o di conseguenza che leghi un dato significante ad un determinato significato. Tuttavia, negli atti alimentari può esserci un qualche legame tra il significante e il significato che concorre alla formazione di un segno perché in essi è rilevante la presenza di icone, simboli ed indici.

Naturalmente se il segno è arbitrario questo non comporta che ne sia arbitrario l’uso. I rapporti tra i segni, poi, si sviluppano su due piani. Il piano del sintagma e il piano del paradigma.

 

Il rapporto sintagmatico è un rapporto tra termini presenti. Quello paradigmatico (o associativo) unisce dei termini che non sono presenti. In linguistica il piano sintagmatico è quello della catena parlata cioè quello su cui si articola l’uso dei segni. Il paradigma, invece, è il luogo delle associazioni (legate alla memoria o all’osservazione) che formano dei gruppi in cui dominano rapporti diversi. Un attributo importante dei segni è il valore perché esso consente di cogliere la relazione tra un singolo segno e tutti gl’altri che si trovano all’interno di uno stesso atto alimentare.

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Ferdinand de Saussure chiarisce la natura di questo rapporto ricorrendo all’esempio del foglio di carta. Se prendiamo un foglio e lo tagliamo a pezzi otterremo dei singoli pezzi, cioè, dei singoli segni. Ciascun pezzo ottenuto in seguito a questa azione avrà un valore che dipende dal suo rapporto con gli altri pezzi di carta, ciò nonostante in ciascuno di questi pezzi rimarrà invariato il rapporto interno esistente tra il diritto e il rovescio del foglio, cioè il rapporto tra significante e significato.

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Vediamo ora la significazione con le parole di Roland Barthes tratte da Elément de sémiologie, 1964. Abbiamo detto che ogni sistema di significazione comporta un piano di espressione e un piano di contenuto e che la significazione coincide con la relazione dei due piani.

Se supponiamo che un tale sistema diventa a sua volta il semplice elemento di un secondo sistema, che gli sarà così estensivo, ci troveremo di fronte a due sistemi di significazione che s’innestano l’uno nell’altro, ma che nondimeno sono sganciati. Il modo di questo sganciamento dei due sistemi può avvenire in due modi completamente diversi a seconda del punto di inserimento del primo sistema nel secondo. Da qui ne derivano due insiemi opposti.

In un caso il prima sistema diviene il piano di espressione o significante del secondo sistema. Il primo sistema, allora, costituisce il piano di denotazione e il secondo sistema il piano di connotazione. Diciamo, in conclusione che un sistema connotato è un sistema in cui il piano di espressione è esso stesso costituito da un sistema di significazione.

Nel secondo caso di sganciamento il primo sistema diviene non già il piano d’espressione, come nella connotazione, ma il piano di contenuto (o significato) del secondo sistema, è il caso di tutti i meta-linguaggi. Un metalinguaggio è un sistema in cui il piano del contenuto è esso stesso costituito da un sistema di significazione.

In altri termini, la denotazione si riferisce ad un segno in cui il significante non è costituito da un altro segno. La connotazione si riferisce ad un significante in cui il segno è un altro segno, vale a dire quando ad un significante si sovrappone un nuovo significato che lo assimila senza però sostituirlo. In questo modo, nel passaggio dalla denotazione alla connotazione si verifica un progressivo aumento della complessità semantica.

In breve, il codice stabilisce le regole combinatorie dei segni tra di loro, in pratica codifica le modalità secondo le quale i segni di un sistema possono combinarsi sia sul piano sintagmatico che su quello paradigmatico.

Il codice, ancora, codifica la corrispondenza tra significanti e significati organizzando la corrispondenza tra la forma dei singoli segni e i loro significati. Se ne arguisce che le regole che concorrono a formare un codice sono di natura convenzionale.

Nella fattispecie degli atti alimentari significa dire che i codici non sono modificabili dai singoli individui i quali possono soltanto riconoscerli e rifiutarli, oppure ignorarli se non li riconoscono.

Essi possono cambiare solo grazie ad un’azione collettiva e condivisa, strutturata nel tempo, una azione che si struttura dialetticamente e in modo dinamico tra le tendenze conservatrici e quelle innovatrici che agiscono all’interno di una data comunità.

 

Osserva ancora Roland Barthes, oggetti, immagini, comportamenti e cerimonie possono significare, ma mai in modo autonomo. Ogni sistema semiologico, infatti, ha a che fare con il linguaggio.

La sostanza visiva degli atti alimentari, evidente soprattutto nei processi di simbolizzazione di questi, si conferma accompagnandosi ad una lettura di tipo linguistico che si trova in un rapporto strutturale di ridondanza con il sistema della lingua.

Di contro, gli insiemi di oggetti e di cerimonie non accedono allo statuto di sistema se non passando attraverso la mediazione della lingua che ne evidenzia i significati.

Da qui la difficoltà di concepire un sistema di immagini, comportamenti e cerimonie i cui significati possano esistere fuori da un linguaggio.

Scrive Barthes testualmente: ”Non c’è senso che non sia nominato, e il mondo dei significati non è altro che quello del linguaggio”.

Nell’ambito degli atti alimentari si comprende bene come il problema linguistico (e, dietro di esso, quello etimologico) sia d’importanza capitale e come sia pericoloso, dal punto di vista della sua equivocabilità, il carattere della “oggettività” e, dietro di esso, della sua comunicabilità.

 

Come avviene anche in altri campi che investono la cultura materiale, gli atti alimentari ricevono la maggior parte del loro vocabolario dalla materia stessa che li compongono. Nei fatti questo vocabolario è consunto e falsificato dall’uso, quando non è ambiguo fin dall’origine.

In altre parole gli atti alimentari degli altri tendono ad imporci la loro nomenclatura, anche se non sempre questo è inevitabile. In buone parole, nel tempo, le “cose” cambiano paradossalmente più veloci delle parole e solo in un secondo tempo portano con sé i cambiamenti dei loro nomi.

C’è poi i caso inverso, quello dei nomi che mutano, nel tempo e nello spazio, indipendentemente dal mutare delle “cose”, con l’aggravante specifica – nel caso degli atti alimentari che s’intrecciano con i temi della sessualità e della religione – del ruolo giocato dalle opposizioni istituzionali (e, più in là, dalle ideologie), tendenzialmente conservatrici e, spesso, culturalmente reazionarie.

Su tutto questo svolge un ruolo decisivo anche l’aspetto semiotico, perchè la funzione delle entità linguistiche non sarebbe di fatto denotativa, ma connotativa.

Un esempio semplice di quello che abbiamo visto, che prescinde dalle influenze di tipo sessuale o religioso, è il termine garum. Di questo condimento romano, diffuso e popolare, non abbiamo notizie che non siano frammentarie e contraddittorie. Tuttavia sappiamo che in età romana designava una salsa, Apicio con essa condisce una ventina di piatti, ma da la ricetta per scontata. Questa ricetta nelle Geoponiche (Ieri attribuite all’imperatore Costantino, oggi a Cassiano Basso, detto lo Scolastico, agromono greco, nell’edizione di Tramezino del 1543, redatta sull’edizione francese di Jean Ruelle medico di Fraancesco I, che per altro né da altrove un’altra ricetta) è diversa da quella di Marziale la quale, a sua volta, è diversa dalla descrizione del garum in Plinio il Vecchio. Nei libri di cucina tra il Seicento e l’Ottocento, poi, si contano più di trenta diversi modi di prepararlo alla maniera dei romani. Oggi, dunque, l’elemento connotato definito come garum ha inglobato sul piano dell’espressione molti altri sistema di significazione con il risultato che il senso che gli attribuiamo sarà necessariamente di tipo connotativo perché esso ha assimilato nel tempo il valore originario più quello che nel tempo abbiamo finito per definire come garum. Per intenderci, qualcosa che va da una salsa vietnamita, il “Nuoc Mam”, al “garum” che si fabbrica ancora oggi a Cetara, sulle porte della penisola sorrentina, confezionato con le alici di maggio messe in salamoia e filtrate a dicembre.

Tutto ciò mostra come il linguaggio è una delle manifestazioni più solari della distanza cronologica e culturale che ci separa dal passato e dalla cultura materiale che lo ha prodotto e come questa distanza tende ad aumentare, nell’ambito degli atti alimentari, quando il linguaggio non è l’unico codice semiotico utilizzato per tradurre la realtà culturale, ma si somma ad altri codici, per esempio, iconici o tratti dalla tradizione orale.

In altri termini, questi codici, possono essere anche culturalmente codificati, ma non implicano che siano in qualche modo correlati, nonostante possiedano una forte carica di persuasione retorica.

Parafrasando Barthes, le rappresentazioni degli atti alimentari comportano due messaggi. Uno denotato (l’analogon stesso), e un messaggio connotato, che il modo in cui nella cultura questo messaggio si riflette. Questa dualità dei messaggi è evidente e rivela l’importanza dello “stile” nella rappresentazione. In altri termini, la sottovalutazione del carattere convenzionale della rappresentazione può spingere ad interpretazioni soggettive che finiscono per essere delle impronte personali che danneggiano il contenuto delle rappresentazioni stesse.

 

 

La glaciazione. J-P Aron

Jean-Paul Aron è un filosofo francese che si è occupato a lungo dello studio delle scienze sociali e naturali e, in questo contesto, di gastronomia e di storia degli atti alimentari. In particolare, ha studiato il modo di formarsi della cucina moderna nel corso dell’Ottocento. Il motivo è che essa rivela meglio di molte altre indagini il carattere di una classe allo stato nascente, la borghesia.

Su questo tema ha scritto un saggio che è stato tradotto in molte lingue, La Francia a tavola dall’Ottocento alla Belle Epoque. Qual’era il suo obiettivo? Trovare delle relazioni significative tra i modelli di pensiero, in letteratura, nelle scienze umane e nelle arti, con il modo di formarsi del gusto e delle pratiche alimentari.

Nel saggio sulla glaciazione l’osservazione da cui è partito è l’asepsi, cioè, l’insieme delle regole e dei mezzi usati per sterilizzare, che lui interpreta nel suo significato metaforico di pulsione verso l’astrazione, l’immaterialità, intesa come uno dei caratteri culturali della modernità.

Una pulsione che Aron definisce come una sorta di spirito di glaciazione manifestatosi dopo la fine delle seconda guerra mondiale. La sollecitazione a questa ricerca gli arrivò dalla rilettura di un intervento al Collège de sociologie di Roger Caillois intitolato Le vent d’hiver, tenuto nel 1937.

Caillois, scrittore e antropologo, ha dedicato molti dei suoi studi ai miti sociali dell’uomo. È stato vicino ai surrealisti e accademico di Francia. Questo testo, Il vento d’inverno, è una metafora climatica di come apparivano l’Europa e gli europei alla vigilia della seconda guerra mondiale. Jean-Paul Aron la recupera per descrivere la situazione della cultura europea così come si è delineata a partire dagli anni ’50.

In cosa consiste questa glaciazione? Sostanzialmente nel fatto che la cultura moderna ha cominciato a rinunciare al senso. Per conseguenza, le cose e il mondo si sono come allontanate dall’uomo o, meglio, sono tornate ad essere in qualche misura incomprensibili.

Il senso, in questo contesto, significa che, quando voi dite qualcosa, questo qualcosa che dite rinvia a qualcosa in un contesto condiviso. Rinvia a uno sfondo ( ad un Bestand, ad una cornice argomentativa) dove le cose dette, con tutte le loro implicazioni, contribuiscono a costruire un significato o a rivelare la loro radice simbolica. Per Aron, ad una cultura del senso si è progressivamente sostituita una cultura del segno, ripresa successivamente anche da Jean Baudrillard.

Una cultura del segno per il segno o, se si preferisce una cultura in cui i significanti si rinviano l’uno con l’altro senza più un ancoraggio ai significati. Come se questi non avessero più un valore.

Che cosa comporta tutto ciò sul piano assiologico? Che entra in crisi la legittimazione dei valori e dei suoi modelli. I segni, insomma, hanno cominciato ad essere sufficienti di per sé.

Tendono ad essere autoreferenziali.

Il segno rispetto al senso ha certi vantaggi, anche se apparenti. È puro, semplice, senza equivoci. Non occorre domandarsi cosa vuol dire, né chiedersi da dove viene o dove va. Non ha un dentro o un fuori, non ha la rigidità tipica delle strutture di senso. I segni, in un altro contesto, sono i protagonisti dell’analisi strutturalista. Claude Lévi-Strauss lo mostra, in modo magistrale in uno dei suoi primi libri, il Saggio sulle strutture elementari della parentela in cui mette a profitto le ricerche linguistiche di uno degli autori più prestigiosi della Scuola di Praga, Roman Jakobson, che Lévi-Strauss conobbe a New York durante la seconda guerra mondiale. Sono gli anni nei quali Lévi-Strauss lavora alla fondazione di una etno-antropologia, cioè di una disciplina in grado di una interpretazione globale della società, cioè, che non parta da un dettaglio o da un aspetto delle pratiche della società umane, utilizzando determinati segni marcatori liberati dal loro contenuto.

I critici dello strutturalismo sostengono, a questo proposito, che un’analisi dei segni può risultare un’analisi povera di effusioni, incapace di considerare le passioni e i sentimenti, un’analisi che teme il vissuto. In altri termini l’analisi strutturalista trasformerebbe le arti e la letteratura in un sistema che non prevede di spiegare in che modo noi viviamo questi segni. Essi sono dati come degli oggetti che hanno un senso solo se considerati come parte del discorso a cui danno vita.

Per quanto riguarda gli atti alimentari il problema è ancora più complicato perché una cultura dei segni o una cultura che attraverso i segni rifiuta il senso rifiuta nello stesso movimento anche il soggetto. Lo ingessa, lo sterilizza, lo traguarda attraverso principi estetici determinati dalle mode. Dietro questo rifiuto del soggetto c’è poi un altro rifiuto, più viscerale ancora, il rifiuto delle cose.

In altri termini, viviamo in una società nella quale ciò che conta non è la cosa o la sua sostanza, ma il discorso sulla cosa. Tutto nella modernità è ricondotto a discorso e a rappresentazione. Tutto subisce l’inflazione discorsiva. Tutte le analisi devono essere confinate nel sistema da cui ricevono una legittimità.

Aron, a questo proposito, ne deduce che la forma di pubblicità non è un aspetto marginale della società moderna, ma un specie di movimento fondamentale che regola il divenire della società e dell’economia, che condiziona la formazione del simbolico. La pubblicità in quest’ottica è un discorso sulle cose, evanescente, che si nega da solo, che si contraddice in continuazione perché è l’obsolescenza delle merci a guidare la sua stessa logica, un discorso che, in ultima analisi, serve a costruire il consenso a-critico. Essa è moderna nel senso che ha contribuito a instaurare una rappresentazione del mondo moderno rimpiazzando le cose con i loro simulacri. La natura del simulacro non è un’apparenza, ma l’illusione di un’apparenza, che legittima una cultura che è capace di rifiutare le forme del vissuto, del significato, delle emozioni. Questa cultura, contemporanea della stagione post-moderna, scrive Aron, è una cultura fredda perché i segni, che sono i veicoli dei simulacri, sono dei segni che non vogliono dire nulla, ma sono destinati a colpire l’immaginazione e poi a sparire.

Cosa comporta tutto questo sul piano degli atti alimentari?

Che la stagione della gastronomia come sostanza del desiderio, come trionfo della vita materiale borghese, come strumento d’effusione si è radicalmente trasformata. Di contro, sono nate le mitografie alimentari, dietro le quali troviamo il fenomeno delle mode che in modo anche brusco condizionano le pratiche sociali. Nella fattispecie degli atti alimentari le mode sono la messa in opera delle rappresentazioni gastronomiche.

Lo vediamo a partire dagli anni ’60 del secolo scorso, con il culto della personalità degli chef, con le stelle concesse ai ristoranti, con il moltiplicarsi delle guide legate al mondo della ristorazione, con la pubblicità, che trasforma gli atti alimentari in eventi socioculturali. Tutto questo di fronte ad una società che nel suo complesso mangia ancora male o mangia la sua stessa fame nella forma dei “regimi”. In termini funzionali la velocità con la quale si succedono le mode legate alle mitografie alimentari fa si che le trasformazioni nella sostanza degli atti alimentari sono approssimative, parziali e volubili e non consentono il formarsi di una cultura che in qualche modo le storicizza.

Per dirlo in un altro modo, il tempo alimentare si è profondamente trasformato. Nell’800 esso era caratterizzato, per chi poteva permetterselo, dai caratteri della convivialità, dai piaceri della “grandes bouffes”, dalla lentezza cerimoniale. Oggi si parla molto di cibo e di piaceri della tavola, ma noi stiamo sempre meno a tavola e tutto porta a credere che questo parlarne sia più un risarcimento che una conquista. (Di contro la convivialità ritorna, soprattutto alla periferia dell’impero, come succede nel terzo mondo con il fenomeno dello streetfood. È un paradosso che si spiega facilmente ricorrendo alla nozione di “tempo sociale” di Émile Durkheim.)

Questa contrazione del tempo alimentare non è solo a livello di convivialità. Essa si manifesta anche all’interno della famiglia, che sta sempre di meno a tavola, disdegna le sue cerimonie e introduce una certa freddezza o solitudine sociale nel corso del pasto votandosi al culto dei massmedia. Dove ci porterà tutto questo? È difficile prevederlo perché gli atti alimentari sono sempre più oberati di un senso che è loro estraneo. Il fastfood, i piatti pre-cucinati, i servizi a domicilio, la rottura della significazione nella catena alimentare, per cui non sappiamo quello che mangiamo, producono nonsense. Sono segni senza un significato. La glaciazione, dice Aron, non ha colpito solo gli atti alimentari, ma anche lo spazio alimentare.

Tutto ciò ha delle importanti implicazioni anche sulla gastronomia come l’arte delle preparazioni cucinarie. Diciamo che, con gli anni ’70 del secolo scorso, la glaciazione degli atti alimentari ha coinvolto anche la scienza dei fornelli dando vita a quel fenomeno chiamato nouvelle cuisine.

Questa nuova tendenza che oggi si è parcellizzata in mille rivoli, dalla cucina etnica o di fusion, a quella non-figurativa o destrutturata della nuova cucina catalana, molti la interpretano come un esito tardivo delle istanze sessantottesche. Per il suo rifiuto della città come stile di vita, anche pratico, i cuochi della nouvelle cuisine lavorano nei piccoli centri o in campagna, esaltano la cultura degli orti. Per il ritorno alle sorgenti della buona tavola. Per il ritorno alla natura che appare nella sostanza come un’accusa alla cucina come cultura.

Ciò non toglie che possiamo darne una diversa interpretazione a partire dall’opera di Claude Monet, Impression,soleil levant. A partire da quest’alba, come è noto, la poetica impressionista dilaga e si diluisce dappertutto nell’arte europea.

Ritroveremo i suoi umori anche molto tempo dopo un po’ dappertutto, nello spirito della musica del “Gruppo dei sei”, in particolare in Claude Debussy o se si vuole in Ravel. Nella moda, nell’abbigliamento, nell’architettura d’interni, addirittura nel cinema, intorno al 1920. In questo senso, possiamo dire che l’ultima metamorfosi di questa poetica l’abbiamo conosciuta con la nouvelle cuisine.

La tesi appare sorprendente, ma vediamo il parallelo a cominciare da quel déjeuner sur l’herbe, che stupisce ancora per l’audacia di un pic-nic domenicale con le sue cocottes nude e ruspanti, dentro un paesaggio di verdi e di acque azzurrate, carico di colori e di ombre, le stesse che Pissarro e Renoir cercheranno di strappare ai flutti della Senna o che Monet inseguiva sulle spiagge della Normandia. La parola d’ordine sembrava allora una sola, dipingere all’aperto dove la luce è colore, dove ogni ora del giorno è diversa dall’altra, dove il tempo è feroce e l’aria è dolce. Dipingere per ritrovare le emozioni della natura e dimenticare le accademie. Dipingere con la verità o, se è troppo, senza le sue illusioni.

Dunque, basta con i grassi, le salse untuose e codificate dalla tradizione, basta con la rigida geometria dei servizi, con le pietanze accademiche dai nomi di principi e puttane, indigeribili e foriere di incubi notturni. Basta con la pasticceria che sembra una gipsoteca di arte greca, la banalità dei sapori, la dittatura del burro. La cucina diventa di mercato, agisce en plein air.

Basta con le liste cibarie tronfie e immutabili, meglio menu agili, costruiti giorno per giorno, con il cavalletto sulle spalle e una scatola di colori, seguendo le verzure e i frutti che maturano, seguendo le antiche alchimie del territorio, inventando nuovi profumi e nuovi colori, affidandosi ai tempi imprevedibili, al sole o alle piogge, ai caldi snervanti o ai gelidi inverni, senza mai profanare un sapore o alterare un aroma.

Dopo la stagione impressionista la cucina moderna ha poi avuto le sue avanguardie storiche, le sue rivolte, le sue anomie alimentari e i suoi ricorsi., intanto si moltiplicano i linguaggi.

Ci sono i naïf, i vernacolari, le fusion, i ritorni al territorio, le diete catacombali, gli slow food, la gastronomia industriale, il Kitsch dei Mc. Donald.

Abbiamo perfino una cucina neo futurista – vedi il caso di Heston Blumenthal, tre stelle a Londra, con fiamma ossidrica e piaccametro – che segue quella futurista, che viene prima dell’espressionismo in cucina, come la scapigliatura “Dada” dei lombardi, nelle arti visive, viene prima della maturità delle ninfee di Monet.

Infine prolificano le nuove accademie. Quelle delle suntuosità formali e quelle del disegno industriale. Poi, sul versante opposto, abbiamo Daniel Spoerri, i funghi di John Cage, la eat art, i canali televisivi speciali, gli speciali televisivi, il cinema di Ferreri e dei suoi mille imitatori.

Ritorniamo alla natura. Questo ritorno ha stimolato l’ascesi, una certa ideologia ascetica si è diffusa tra gli atti alimentari sia sul piano formale che culturale, con un forte interesse per l’Estremo Oriente e il Giappone. Ma ha anche stimolato le ansie dietetiche, il mito del “cibo buono”, e le “piacevoli” punizione del piacere gustativo. Qui la psicoanalisi ci suggerisce che ascetismo e godimento non sono mai in contrapposizione tra di loro, ma si completano a vicenda ed ognuna favorisce l’altra in una ricerca di un equilibrio sostenibile.

Ma c’è anche dell’altro, la gastronomia moderna non è solo quella della leggerezza, dell’impalpabilità, delle mousses, dei coulis, è anche una gastronomia del discorso.

Discorso sui prodotti, discorso sulle cose, discorso sulle preparazioni, discorso sulle quintessenze che confonde il cibo con il dire gastronomico e su tutto domina il rifiuto della cosa in nome del discorso… e questa è la glaciazione.

Colui che mangia.

Prima di procedere all’analisi dei caratteri di colui che mangia dobbiamo osservare un’altra peculiarità della modernità. Da qualche tempo a questa parte siamo in presenza di un fatto assolutamente nuovo per la specie umana, possiamo alimentarci senza dover produrre il cibo che consumiamo. Questa circostanza ha un’unicità caratterizzante sia rispetto al nostro passato che rispetto a molte altre culture che abitano la periferia del “villaggio globale”, che s’intreccia con gli effetti perversi della globalizzazione.

Un esempio accademico di questi effetti e quello dei Luo, o Lwo, un insieme i gruppi etnici che vivono in un’area che si estende, pressappoco, dal Sudan all’Uganda, dal Congo al Kenya, che da qualche tempo a questa parte utilizzano la “coca-cola” come bevanda rituale per i loro riti d’iniziazione.

Veniamo ai tre punti chiave della personalità di “colui che mangia”.

Primo. Chi mangia elabora sempre un sistema classificatorio entro il commestibile e il non-commestibile, che non è meramente funzionale, ma rinvia a delle rappresentazioni (simboliche) e all’immaginario. Questo vuol dire che la razionalità di colui che mangia non è puramente nutrizionale o economica, ma include dei valori.

Secondo. Mangiare significa incorporare, vale a dire, attribuire delle qualità nutrizionali a degli alimenti ma anche delle qualità simboliche, che sconfinano spesso nella magia o nel pregiudizio, secondo il principio che divengo ciò che mangio.

Terzo. L’onnivoro, com’è l’uomo soprattutto, si trova costantemente di fronte ad un paradosso, perché egli oscilla in continuazione tra spinte neofile ( di provare delle novità) e spinte neofobiche (la paura del nuovo o del diverso).

Da questo insieme di circostanze scaturisce la personalità spesso di tipo ansiogeno di colui che mangia e, semplificando, molte delle sue patologie, come la bulimia o l’anoressia.