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FLUXTALES 14

FLUXTALES 14

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Dove siamo adesso? Bella domanda, specie se a porgerla, dopo dieci anni di silenzio, è David Bowie, tornato nel giorno del suo 66esimo compleanno con il nuovo album “The Next Day”, dove si interroga sull’essere e il tempo con quella leggerezza pop sconosciuta ad Heidegger.

La notizia, testuale, è ripresa dall’ultimo numero dell’Espresso, il settimanale dei vecchi turchi della politica italiana. Quanto a Bowie, sappiamo dov’è stato. È ritornato dallo stadio di Norimberga dove hanno suonato anche i Blue Öyster Cult e dopo che aveva salutato i suoi fans alla Victoria Station con la mano levata.

 

Ultima moda newyorkese. Dipingere con il cioccolato bianco il proprio blacktoyboy. L’articolista, dalla foto appare giovane e carina, consiglia di sciogliere il cioccolato con un po’ di miele, del burro e del Grand Marnier. Un suggerimento. Perché il tutto sia ancora più trandy dovreste usare il Cuvée Louis-Alexandre Marnier-Lapostolle. Purtroppo dall’altra parte dell’oceano lo vendono solo in Canada. (Se hai una certa età, conclude l’articolista puoi incrementare il piacere delle sue zone erogene mescolando, per un massaggio, un flacone di baby oil con venticinque gocce di spearmint essenzial oil.)

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I lift the glass to my mouth, I look at you, I sigh…

(William Butler Yeats)

Un cocktail per il 31 dicembre, consigliato da un esperto in mixologia. Mescolate in uno shaker con molto ghiaccio e in parti uguali del rum scuro (Va bene un Rum Cadenhead’s Green Label), del liquore di frutto della passione ( Esclusivamente dell’Alizé Gold Passion) e del succo di mango fresco e setacciato. Aggiungeteci del succo di lime a piacere, mescolate con uno stir, versate il cocktail in una doppia coppetta con il bordo gelato e sporcato di zucchero grezzo. Servite.

 

Mélo per mélo, la notte di capodanno passatela con la Signora delle camelie. Una donna governata dai sensi. Se non vi piace il teatro che diventa cinema rifugiatevi in Un coeur simple di Flaubert.

 

La Lemierre l’a trop étroit/ L’on n’y saurait mettre le doigt ;/ L’Harpie du Bois l’a trop large;/ La Rivière trop décharge;/ La Sixte fout trop lentement./ Et voilà comme l’homme n’est jamais content. Spesso la filosofia materiale la si trova nei posti più impensati, come in questo couplet del 1765.

 

Un libro ancora da scrivere: Delle viziose maniere del difendere le cause nei parlamenti borghesi.

 

Un regalo che in queste feste non ho ricevuto. La Recueil dit de Maurepas, pubblicata a Leida nel 1865. Non sempre la rete viene per nuocere! È stato digitalizzato dalla biblioteca della Harvard University.

 

C’è un aspetto di Hegel che irrita, da troppa corda ai poeti romantici, anche se – neanche a dirlo – Walter Scott è più gradevole del Manzoni.

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Per comprendere i disastri della passione basta leggere uno dei romanzi giovanili di Crébillon fils, Lettres de la Marquise de M. au Comte de R. (1732). Non per caso, visto che Claude Prosper studiò presso i gesuiti del Collège de Louis-le-Grand. Questo collegio si trova lungo l’antico cardo di Lutezia, oggi è un liceo di cui vale la pena di visitare il museo scientifico al suo interno. Quanto all’autore che dire? La sua nota stilistica è pari alla sua intelligenza psicologica.

 

Una forma rozza di idealismo politico: Vegna Franza, vegna Spagna / Mi me n’fott, pur che se magna! Finita l’epoca delle courtisanes di Brianza il nuovo volto della politica avanza!

 

Una scrittrice da rileggere, Claire Louisa Rose Bonne de Duras. Il suo romanzo Ounika del 1823 fa giustizia dei pregiudizi razziali. In inglese fu tradotto da John Fowles che ne rimase affascinato, come si può osservare leggendo The French Lieutenant’s Woman del 1969. Naturalmente occorre fare le debite proporzioni!

 

Già che ci siamo. Con pochi euro in rete si può ancora trovare una buona edizione di Le Rut ou la pudeur éteinte uscito nel 1676 di Pierre-Corneille Blessebois, conosciuto come il Casanova del secolo dei libertini per il tratto autobiografico dei suoi romanzi: Ce n’est pas toutefois, que ma Muse normande/ Ne pût, en s’efforçant, cueillir une guirlande… Una curiosità. Nel suo La comtesse de Cocagne del 1697 c’è la prima citazione di uno zombi nella letteratura europea. Cosa significa “con pochi euro”, che con un po’ di fortuna potete pagarla milleduecento volte meno di un’operetta del signor Cattelan.

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Infine, alle prime luci dell’alba del 31, perché non prendere in mano The Trembling of a Leaf di W.S. Maugham? Il Cro Magnon che dorme in noi qualche volta ha bisogno di deserti e donne fatali!

(Lo si trova anche con il titolo Pioggia e altre storie. Se invece avete una tablet tra le mani godetevi Rain con un’indimenticabile Joan Crawford.)

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Prolegomeni a una definizione di Arte – 4

PROLEGOMENI A UNA DEFINIZIONE DI ARTE 4.

 

Che cosa da un punto di vista fenomenologico dobbiamo intendere con il termine di arte?

Proviamo a chiarirlo in termini didascalici.

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Da una parte s’identifica l’arte con l’opera, con ciò che essa è o che appare da un punto di vista fattuale. Cioè di entità dotata di un valore culturale in senso antropologico, dunque simbolico e, in successiva istanza, economico nell’ambito della modernità occidentale.

Per definizione questa entità appare il punto di arrivo dell’attività creativa e il punto di partenza del piacere di fruirne.

Secondo quest’ottica l’arte è dunque nella forma di un “prodotto”, sia esso una pittura, una scultura, un pezzo musicale o teatrale, un event, un edificio, un balletto, eccetera.

Come prodotto, l’oggetto in sé rappresenta l’essenziale, mentre il processo creativo è una modalità culturale più o meno evoluta dal punto di vista della mera tecnica.

A partire dalle avanguardie storiche appare, però, un altro modello di valorizzazione dell’arte che la modernità ha successivamente legittimato.

Quello per cui l’opera è il divenire del fare, come la vita è il divenire dell’esistenza.

L’attività creativa, in questo caso, non è orientata alla produzione di opere, ma è azione, accadimento, performance, processo intellettivo, concettuale o comunicativo di qualcosa che deve poter dare l’impressione di sollevarsi al di sopra dei fini materiali, economici o politici, diretto a coinvolgere emotivamente lo spettatore.

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Questi due modelli del fenomeno arte esprimono la secolarizzazione in cui sono incorse le attività simboliche e finiscono, da un lato, per appiattire l’esperienza estetica sull’opera, prescindendo da tutto ciò che ne condiziona l’esistenza o la storicizza.

Dall’altro, a spalmare questa esperienza contro la realtà, prescindendo dallo spessore e dall’opacità incomprensibile – per usare un’espressione freudiana – del reale.

Naturalmente, accanto a questi due modelli di definizione dell’arte ce n’è un terzo, di cui non parleremo, è quello che rivendica per le arti uno statuto fondato sulla trasmissione della tradizione e della solennità dei valori.

Per questo modello, va da sé, esse possono trovarsi solo nei luoghi di elezione dell’arte, che non sono certo quelli della modernità e del primato della forma di capitale.

Da un punto di vista funzionale i primi due modelli esprimono, pur da posizioni diverse, due opposte tendenze.

Una, volta a celebrare il segno e, dunque, l’apparenza che porta alla rappresentazione.

L’altra, diretta ad esplorare l’esperienza della realtà attraverso l’elaborazione di nuovi simbolismi.

La prima ha per compito quello di favorire la percezione estetica intesa come una sonda del senso.

La seconda ha per obiettivo la drammatizzazione del processo narratologico, dando per dimostrato che la forma di dramma sia un modo percettivo più intenso di altri.

Da un punto di vista figurale abbiamo così due modi di rappresentare l’arte.

Nella prima rappresentazione dominano le forme dello spettacolo, le poetiche dell’effimero, gli aspetti infantili ed edonistici, la de-realizzazione della fatticità.

È un arte che si lascia associare al predicato di virtuale e che non esita a sfruttare la potenzialità dei mezzi di comunicazione di massa e i loro incubi.

Nella seconda rappresentazione si assiste, invece, alla fermentazione brutale del contenuto, sterilizzato a segno, nel mondo delle forme simboliche. Ciò ha consentito di coinvolgere gli aspetti più crudi e inesplorati della vita corrente – sesso e morte, in particolare – nell’ambito della creazione artistica come se fossero i suoi aspetti più rilevanti.

Questo mero realismo formale, però, impoverisce la mediazione simbolica, mirando direttamente a suscitare sgomento, ripugnanza, se non addirittura ribrezzo.

È come se la categoria del disgusto fosse penetrata nella riflessione estetica soppiantando, per una sorta di esaurimento storico, quella di gusto.

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In una prospettiva mercantile essa domina, proprio per il suo forte impatto spettacolare, le vecchie strutture artistiche, verso le quali è indifferente, aumentando lo “spaesamento” dello spettatore, anche perché, sempre più spesso, fa leva sul corpo umano compromettendo la sua integrità, al contrario di ciò che avveniva nella statuaria classica.

Così, a partire dal fenomeno della body-art, sempre di più l’organico è mescolato con l’inorganico, il naturale con l’artificiale, per giungere all’apologia del cyborg, un tempo mero delirio della fantascienza, oggi, nuova e ripugnante cavia di una neo-umanità.

Perché abbiamo preso questo abbrivio?

Perché il carattere eminentemente sperimentale e pionieristico dell’arte moderna, o contemporanea, come anche si dice, può essere assimilato alla psicosi, se non altro per il suo modo di svalutare il reale attraverso il sintomo, mostrando una grande unità d’intenti – in nome della domesticazione – e al di là delle sue diverse poetiche.

Lo sprofondare di tutti gli anacronismi interpretativi legati alla funzione di mediazione dell’estetica ha, infatti, generato la convinzione che si possa cogliere il reale senza alcuna mediazione simbolica – come mero processo sintomatico – e senza neppure la cautela di sterilizzarlo in un processo cerimoniale, come un tempo facevano le avanguardie, comprese quelle delle ultime decadi del secolo scorso.

Come hanno sottolineato gli studiosi della società, nella modernità la cultura ha cominciato a rinunciare al senso, tanto che, per molti di loro, le cose e il mondo non hanno più un senso in una prospettiva culturale, ma solo sintomatologie.

Il senso era lapalissiano e senza ombre, significava che, quando-voi-dite-qualcosa, questo qualcosa-che-dite rinvia a qualcosa-che-si-è-detto e che si è in qualche modo storicizzato.

Cioè, rinviava ad una cornice argomentativa (clinica), meglio, ad un Bestand (Heidegger).

In buona sostanza si può dire che, a partire dalla metà del ‘900, ad una cultura del senso, si è sovrapposta, a partire dalle arti visive, una cultura del segno come sintomo.

Meglio, una cultura del segno come luogo in cui si organizza il vuoto (Lacan) o, se si preferisce, una cultura nella quale i significanti si rinviano l’un l’altro senza più rinviare a dei significati avendo sviluppato un forte potere morfogenetico.

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Che cosa consegue a questo stato di cose?

Che entra in crisi la legittimità dei valori e dei modelli ad essa correlati. Sparisce ogni assiologia. Così, i segni divenuti sintomi valgono di per sé, rifiutano di aderire specificatamente ad un significato e sono autoreferenziali.

Il sintomo in sé rispetto al senso, per il “senso comune” sembra possedere dei vantaggi. È facile da “indossare”, in equivoco, si coagula frammentandosi, non occorre farsi domande sul suo potere totalizzante, né chiedersi da dove viene e dove vada. Non ha un dentro ed è estremamente flessibile, oltre che opaco nella sua abiezione.

I critici della società fanno notare che un’analisi di sintomi è un’analisi povera di esplicazioni, incapace di comprendere l’economia delle passioni e dei sentimenti, un’analisi, cioè, che svaluta il vissuto e le forme materiali della cultura, l’importanza dell’Altro che balugina attraverso il sembiante.

In altri termini, come si è verificato con la peggiore analisi strutturalista, una cultura dei segni che mutano in sintomi trasforma le arti e la letteratura in un sistema chiuso che non prevede di spiegare in che modo viviamo questi segni.

Essi sono dati come degli oggetti che hanno un senso solo se considerati come parte del discorso a cui danno vita.

Per quanto riguarda gli atti alimentari il problema e ancor più lesionato, perché una cultura dei segni, o una cultura che attraversa i segni rifiuta il senso, nello stesso movimento rifiuta anche il soggetto, ed esalta l’oggetto come se fosse un farmaco che elimina il senso.

Ma, allora, come fa il sintomo a ingannare il soggetto?

Lo costringe a attraversare l’enigma del senso, lo condanna alle aporie del dettaglio, lo ingarbuglia, lo traguarda attraverso principi estetici determinati dalle istituzioni, lo educa a legittimare l’evidenza, lo esilia dall’ombra. O, se si preferisce, lo educa a credere solo all’ineluttabilità della cosa che fa trou. Ogni “cosa”, così, è rappresentazione sintomatica, inveramento dell’oggettività del vuoto.

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Tutto, dunque, finisce nella morsa dell’inflazione discorsiva. Tutte le analisi devono restare confinate nel sistema da cui ricevono una legittimità, pena l’incubo della dissomiglianza. Questo stato di cose altera la formazione del simbolico che nel meccanismo dello spettacolo – che tutto inflaziona e insuffla – ha la sua fisiologia.

Dentro questo quadro il simulacro non è un’apparenza, ma l’illusione di un’apparenza. I segni che i simulacri veicolano sono segni che non vogliono dire nulla, ma sono destinati a “affettare” ’immaginazione e poi ad evaporare.

Se poi l’essenziale dell’arte è la finzione dell’attività liberale dell’artista le opere non sono che un residuo, un resto.

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Un resto che appare più importante dell’essenziale.

In questo modo, l’opera d’arte appare come la presentazione dell’intenzione dell’artista

 

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