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GLOSSA NR.TRE

GLOSSA NR.TRE

L’uomo e il cibo – antropologia culturale – ied

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Che cosa hanno in comune il discorso antropologico, il design e gli atti alimentari?

Una constatazione che dobbiamo all’incontro – nel corso del ‘900 – di diverse discipline quali l’antropologia culturale, la psicoanalisi, la sociologia dell’alimentazione, le ricerche sulla sociabilità e la mediazione sociale, non da ultimo, la storia dei sistemi cucinari e delle forme di convivialità.

Una constatazione che di recente è stata anche riproposta da un nuovo paradigma costituito dai cosiddetti “cultural studies” (studi culturali) e di una loro recente metamorfosi, quella dei food studies.

Qual è questa constatazione?

 

GLI ATTI ALIMENTARI SONO STRUTTURATI COME UN LINGUAGGIO.

Da qui ne discende che essi possiedono – oltre ad una storia e ad una tradizione:

– un patrimonio lessicale.

– una grammatica, con la quale possiamo studiare la loro morfologia, cioè il loro diventare una forma e, quindi, una struttura.

– una sintassi, vale a dire, delle regole di composizione delle parti che li compongono.

– una logica che, in questo contesto, significa che possono essere studiati e compresi razionalmente.

In termini operativi il fatto che gli atti alimentari abbiano una loro logica comporta, che essi possono essere trattati come scientifici nelle forme e nelle leggi che li regolano, sia sul piano meramente nutrizionale, che culturale.

In sostanza, al pari di un linguaggio, le forme cucinarie possiedono un lessico – rappresentato dai prodotti e dagli ingredienti.

Questo lessico può organizzato secondo delle disposizioni grammaticali, vale a dire una grammatica, che contribuiscono a “disegnare” le prescrizioni, in pratica le ricette.

Ancora, gli atti alimentari possiedono una sintassi costituita da un insieme di regole che le ordinano, per esempio, nel lavorare e/o mettere in una certa successione le vivande.

Infine e non da ultimo, possiedono una retorica, che si invera soprattutto nei comportamenti cerimoniali, retorica nella quale si riflettono e si formano, anche se spesso non ce ne accorgiamo, le tradizioni, le abitudini, gli stili di vita.

L’analogia cucina-linguaggio è un assioma dell’antropologia culturale.

Partiamo da una constatazione.

Tutti gli uomini parlano delle lingue differenti.

Nello stesso modo, possiamo dire, tutti gli uomini mangiano, ma mangiano secondo cucine differenti.

La parola chiave è “differenti”, indica che le cucine costituiscono di fatto un insieme di disposizioni e procedure implicite di cui noi, in genere, non ne abbiamo una consapevolezza quando ci appartengono, ma di contro, s’impongono alla nostra evidenza quando ci sono sconosciute.

Questa ignoranza può suscitare ansia anche se in genere produce degli effetti comici così come suscita disgusto o riprovazione.

In Italia sarebbe inconcepibile condire gli spaghetti al pomodoro con lo zucchero, anche se in Oriente lo fanno.

In un paese che non conosciamo potremmo, per ignoranza dei costumi alimentari, produrre ilarità ordinando pietanze in contraddizione tra di loro o, ed è ben più grave, sollevare riprovazione violando delle norme che derivano dalle convinzioni religiose, come nel caso ordinassimo dell’arrosto di  maiale in un paese islamico.

C’è un’altra osservazione per restare nell’ambito dell’analogia cucina-linguaggio.

Noi non facciamo mai caso al fatto che mangiamo secondo una grammatica e una sintassi alimentare interiorizzate fin dalla più giovane età.

Una cucina, dunque, non è solo un insieme di ingredienti e di tecniche applicate al fine di preparare un alimento, ma anche e soprattutto un complesso sistema di norme e di regole implicite ed esplicite, sempre in continuo mutazione, che strutturano le rappresentazioni e i comportamenti.

Ma c’è di più ed è quello che più conta in una prospettiva progettuale.

Gli atti alimentari possiedono una loro semiotica, vale a dire si compongono di segni che si possono interpretare e di simboli, ad essi relativi, da cui deriva un’importante funzione simbolica che coinvolge spesso anche la sessualità e le forme religiose.

Ma che cosa vuol dire che gli atti alimentari si compongono di segni?

I segni nel nostro caso sono dei fenomeni sensibili o, meglio degli elementi dell’interpretazione con i quali possiamo conoscere, riconoscere, prevedere, ipotizzare, sia sulla scorta delle nostre conoscenze acquisite che di studi specifici.

In semiologia i segni possono essere naturali o convenzionali.

Charles Peirce (1839-1914), che con William James rappresenta uno dei protagonisti di quella corrente di studi filosofici che va sotto il nome di pragmatismo, nei suoi studi distingue tre tipi di segno, l’icona, l’indice, il simbolo.

Tutti e tre contribuiscono alla significazione, vale a dire, concorrono a costruire una relazione tra significante e significato.

Il simbolo, in particolare, possiamo definirlo il segno figurativo di un’idea astratta, ovvero l’aspetto materiale di un’astrazione, perché con i simboli noi costruiamo una rappresentazione materiale di un concetto o di una sensazione che non sapremmo esprimere altrimenti.

In breve, gli atti alimentari sono soprattutto un immenso catalogo di segni da cui derivano simboli e forme cerimoniali più o meno storicizzati e culturalmente rilevanti.

 

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All’inizio gli studi sul cibo riguardavano soprattutto i consumi alimentari.

Il primo di una certa importanza, risale alla fine del ‘700, è di un pastore anglicano, David Davies, che studia il flagello delle fluttuazioni nell’occupazione manifatturiera e si preoccupa di capire come mangiano i poveri e i disoccupati.

Per farlo realizza un’inchiesta su un centinaio di famiglie della periferia londinese che l’industria manifatturiera aveva gettato sul lastrico.

Qualche anno più tardi, nel 1797, una manciata di anni dopo la Rivoluzione Francese, esce un libro dell’inglese Frederick Morton Eden (1766-1809), baronetto per nascita, s’intitola The State of the Poor.

Eden, però, si definiva un investigatore sociale, oggi diremmo che è stato un ricercatore e uno  scrittore sociale.

La sua inchiesta, che mette in luce le contraddizioni sociali e politiche del nascente capitalismo industriale, è da tutti definita ampia ed onesta e per anni ha costituito la fonte dei dibattiti su questo tema.

Lo stesso Karl Marx lo definisce un allievo intelligente di Adam Smith, l’economista scozzese autore di La ricchezza delle nazioni.

Non per caso, si può dire che gli studi sull’alimentazione, come la stessa antropologia culturale nacquero in Inghilterra.

Sono studi che da subito confluirono anche in un’altra disciplina nascente, la sociologia dei consumi.

Una disciplina che studia e registra una mutazione di cui oggi vediamo in pieno le conseguenze:

quella che trasforma i cittadini in consumatori.

Una mutazione, va da sé, che cambia profondamente lo status dei cittadini in ordine ai processi valoriali, alle loro libertà, diritti e doveri.

Una seconda via, che porterà ad elaborare una teoria ed una critica dell’alimentazione, è costituita dagli studi epidemiologici, in particolare sull’igiene, studi che mettono in luce un’influenza degli stili di vita sulla morbilità, vale a dire, sull’impatto delle malattie sulla popolazione.

Su questi studi, poi, c’è da valutare anche l’importante contributo dovuto al diffondersi degli strumenti di una nuova disciplina, la scienza statistica che mette in rilievo enucleandoli i fatti sociali e le loro cause.

Ricordiamo, a questo proposito, gli studi di Alphonse Quetelet (1796-1874), astronomo e statistico belga che con i risultati dei suoi studi esercitò una forte influenza sul pensiero di Émile Durkheim, il padre della moderna sociologia.

Di Quetelet si è detto che fece diventare la statistica una scienza sociale.

Un altro autore di un certo interesse è Ernst Engel (1821-1896), un economista tedesco che ha dato il nome ad una legge che egli dedusse dallo studio dell’analisi di spesa di circa duecento famiglie belghe condotto da Eduard Ducpétiaux.

Questa legge afferma:

La proporzione del reddito destinato all’alimentazione diminuisce quando il reddito aumenta.  Ciò vuol dire che l’elasticità della domanda rispetto al reddito è inferiore all’unità. 

La Legge di Engel è una delle leggi tra le più generali dell’economia.

Può essere applicata sia ai paesi sviluppati che in quelli in via di sviluppo, anche se può mostrare forme di elasticità diverse.

In parole semplici possiamo dire che quando il reddito e il potere d’acquisto salgono anche il bilancio alimentare cresce in valore assoluto, ma – in percentuale – la sua parte relativa, nel bilancio complessivo, diminuisce.

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La distribuzione del cibo all’interno della famiglia

In passato si tendeva a dare per scontato che, se un capofamiglia guadagnava abbastanza da nutrire tutti i membri della sua famiglia, questi sarebbero stati nutriti adeguatamente.

Recentemente la distribuzione del cibo all’interno della famiglia è stata studiata più attentamente. I risultati sono ancora controversi.

Per alcuni le donne e i bambini – specialmente le bambine al di sotto dei quattro anni -, subiscono una discriminazione che favorisce gli uomini adulti e i ragazzi; per altri tale discriminazione viene molto esagerata. Ove si verifichi, il fatto che i bambini e le donne ricevano meno cibo degli uomini adulti può essere in parte spiegato come dovuto alle loro minori esigenze, al loro minore impegno lavorativo o alla loro più bassa produttività.

Gli osservatori generalmente concordano nel ritenere che in alcune culture, per esempio nel Bangladesh e nell’India settentrionale, le bambine al di sotto dei quattro anni subiscano una certa discriminazione alimentare. Naturalmente il numero dei bambini piccoli nelle famiglie povere è sproporzionatamente elevato, ed essi costituiscono uno dei gruppi più vulnerabili. È anche possibile che le famiglie povere debbano privilegiare l’alimentazione dei membri che hanno più probabilità di guadagnare, cioè, il più delle volte, degli adulti maschi. In Africa le bambine sono favorite rispetto ai maschi. In molte culture sono le donne che dispongono del cibo; esse controllano le riserve di cereali e vi attingono per nutrire se stesse e le proprie famiglie. È improbabile che esse siano del tutto prone alle richieste egoistiche dei loro mariti.

In Gambia, per esempio, il peso delle donne, tra il periodo precedente e il periodo seguente il raccolto, diminuiva di 5 chili e la quantità di cibo ingerita giornalmente calava riducendo l’apporto calorico di 60 calorie al giorno. Nel Bangladesh la differenza nel consumo calorico giornaliero andava da 62 a 50 calorie. Ad alcune di queste variazioni si può ovviare in anticipo. Le variazioni possono dipendere da variazioni della domanda di lavoro o dall’alto costo e dallo spreco che il magazzinaggio di generi alimentari comporta. L’aumento temporaneo del peso corporeo può essere il modo migliore per superare queste difficoltà. Come si è visto, entro certi limiti esistono anche forme di adattamento tollerabili; ma per le persone molto povere le carenze alimentari significano un serio stress, soprattutto perché nei periodi di penuria cresce il numero delle malattie e delle infezioni e i prezzi dei generi alimentari sono più alti.
Le leggi di Engel e di Bennett
Il consumo di cibo presenta diverse regolarità che sono state formulate sotto forma di ‘leggi’. La legge di Engel stabilisce che la quota del bilancio familiare destinata al cibo diminuisce all’aumentare del reddito familiare.

 

La legge non si applica alle famiglie molto povere, la cui spesa in generi alimentari cresce proporzionalmente, o anche più che proporzionalmente, all’aumentare dei redditi, rappresentando una quota variabile tra l’80% e l’85% delle loro uscite.
La soglia di povertà è stata talvolta definita come quel livello di reddito in corrispondenza del quale la quota di spesa in generi alimentari comincia a diminuire. È tra i soggetti al di sotto di tale soglia che il rischio di un danno nutrizionale è maggiore.
La legge di Bennett stabilisce che la percentuale dei principali alimenti amilacei nella dieta diminuisce al crescere dei redditi. I principali amilacei, fra cui soprattutto cereali e radici commestibili, sono gli alimenti più economici. All’aumentare dei redditi le famiglie diversificano la propria dieta, consumando alimenti più costosi. La qualità del cibo, misurata in base al suo prezzo, cresce con il reddito. Per determinare il reddito spendibile, allo scopo di verificare queste leggi, si devono sottrarre dal reddito disponibile le spese per acquistare generi di cui non si può fare a meno (per esempio le sigarette) e gli interessi sui prestiti, poiché sono inevitabili, non dipendono da una libera scelta. Mentre la legge di Engel si riferisce alla spesa per il cibo rispetto al reddito, la legge di Bennett si riferisce alle fonti di calorie alimentari rispetto al reddito.

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Dopo Durkheim e grazie alle sue ricerche sulla fondazione del discorso sociologico, gli studi sull’alimentazione diventeranno studi sociali ed essi, anche a seguito di questo mutamento, cominceranno a crescere d’importanza.

In altri termini, gli atti alimentari possono essere configurati, dal punto di vista sociologico o antropologico, come un’istituzione culturale della società.

Nella fattispecie degli atti alimentari si può osservare che il pasto familiare ha un suo sistema normativo molto preciso che comporta, se viene rispettato, un’approvazione benevola, mentre, in aso di trasgressione, comporta riprovazione.

In questo modo tra l’altro e quasi dappertutto nel mondo i minori (in pratica i bambini) interiorizzano le regole dell’educazione, i valori nutrizionali e i valori della pulizia, così come il rispetto dei commensali, la condivisione dei ruoli ed imparano ad apprezzare le cerimonie conviviali.

 

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Uno dei primi ricercatori, di quella che potremo chiamare l’antropologia alimentare, è Audrey Isabel Richards (1899-1984), allieva di Bronislaw Malinowski.

La Richards è stata una pioniera di questi studi.

In una sua indagine sul campo presso alcune popolazioni del Sud Africa, in particolare tra i Bambas del nord della Rhodesia, sviluppò una tesi, oggi largamente diffusa.

Questa tesi definisce l’alimentazione un processo vitale fondamentale, sia considerato di per sé che per i suoi legami con la sfera sessuale.    

Negli anni subito dopo la seconda guerra mondiale, nel 1945, Margaret Mead (1901-1978), una delle più celebri antropologhe americane, allieva di Franz Boas ed esponente della corrente “culturalista”, autrice, tra l’altro, di un Manuale per lo studio delle pratiche alimentari, riprese e sottolineò l’importanza degli aspetti socio-culturali e psicologici dell’alimentazione dimostrando che l’atto alimentare s’inscrive non soltanto in un contesto naturale, ma anche e soprattutto in un contesto sociale.

Successivamente la corrente strutturalista, nella quale si distingue il lavoro del suo fondatore, Claude Lévi-Strauss, mette in luce la complessità delle strutture culturali legate all’alimentazione, indicandole tra le matrici fondative dell’ordine e dei modelli sociali che viviamo.  

Partendo da questi presupposti, un’altra donna antropologa, l’inglese Mary Douglas (1921-2007), studiosa delle forme d’istituzione e delle religioni, ha poi studiato l’alimentazione come un vettore di comunicazione.

In pratica, come un vero e proprio linguaggio la cui struttura può essere compresa per mezzo di una grammatica adeguata che tenga conto del fatto che nutrirsi è, allo stesso tempo, un atto simbolico, un’azione biologica e un comportamento sociale.

Nel suo libro più famoso, Purity and Danger: An analysis of Concept of Pollution and Taboo, del 1966, la Douglas ha messo in luce come il disgusto non è quasi mai un processo reattivo individuale, ma è una conseguenza dalle regole culturali, sociali e religiose apprese.

Dunque, è un importante marcatatore delle culture.

Ricordiamo, ancora, tra i tanti, Pierre Bourdieu (1930-2002), uno dei padri della sociologia francese che mise in luce l’aspetto violento del potere del simbolico.

Partendo dalle osservazioni della Douglas egli studio il carattere classista che agisce sulla formazione del gusto, mostrando che questo si forma e dipende direttamente dall’origine sociale di colui che mangia, ciò implica che esso, più o meno consapevolmente, riproduce la condizione di classe.

Oggi,in un’epoca di forti flussi migranti, si tende ad “impadronirsi”di questo potere del simbolico politicizzandolo, perché con il moltiplicarsi di tali flussi è diventato un tema sensibile capace di dilaniare la dicotomia tra le culture locali e le culture dei migranti, fino ad esacerbarne il senso e a banalizzarne la complessità.

Basta vedere quello che avviene nell’area che abitiamo, la pianura Padana, con la polemica tra la polenta e il cous-cous, dietro cui si celano i nuovi scontri di classe.

In altri termini, gli stili di vita concorrono e rafforzano lo statu quo dei rapporti sociali, in particolare quelli che coinvolgono le abitudini alimentari.

Come concludere?

Che il cibo si è rivelato un efficace strumento – sia attivo che passivo – di classe.

In sub ordine, quanto più numerosi sono gli status, cioè, le posizioni sociali che formano il meccanismo della stratificazione sociale, tanto maggiore è la varietà degli atti alimentari.

Ma perché questa attenzione sull’alimentazione e gli atti alimentari?

Perché essa corre parallela ad una constatazione, anche di ordine socio-economico, specifica del mondo occidentale, vale a dire, oggi, soprattutto in Europa, in Giappone e negli Stati Uniti, le funzioni cerimoniali degli alimenti sono diventate più importanti del loro valore nutritivo.

Sotto un altro aspetto questo vuol dire anche una accresciuta importanza dell’aspetto comunicativo di questi atti,

Questo insieme di considerazioni, che qui abbiamo appena accennato, hanno fatto in modo che la “socio-antropologia dell’alimentazione” abbia, soprattutto nel corso di quest’ultima decade, definito meglio il suo paradigma, anche grazie al perfezionarsi dei cultural studies.

Come abbiamo visto è opinione condivisa che attraverso lo studio del sistema alimentare è oggi possibile, anche in assenza di altri dati, delineare l’organizzazione sociale di un popolo, della sua vita domestica, della sua etica e della sua religione.

Dietro la soddisfazione di questo bisogno fisiologico non è possibile non vedere un preciso

impianto comunicativo.

In questo senso, il modo di alimentazione è un linguaggio che stabilisce l’identità e individua la diversità, a tal punto che, anche nei casi estremi di sradicamento dalle proprie condizioni di vita e dalla propria cultura, la cucina è una della tradizioni che più denota la provenienza etnica.

Da tempo è ampiamente provato che certe dominanti alimentari resistono ai cambiamenti, anche profondi, dell’ambiente sociale ed ideologico.

Per esempio, i migranti, anche quando hanno abbandonano tutte le tradizioni del loro paese di origine, restano in qualche modo fedeli alle loro tradizioni culinarie più di quanto non lo restino alle loro convinzioni religiose e di costume.

In altri termini, queste tradizioni alimentano la nostalgia e i suoi riti.

 

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Sempre a proposito di atti alimentari occorre considerare le implicazioni di queste due paradossali specificità culturali dell’uomo.

La prima è questa: 

Se proviamo a sommare tutte le proibizioni del mondo a proposito di cibo, a partire da quelle di natura religiosa per finire a quelle legate al gusto o alle circostanze dell’ambiente naturale, l’umanità, con quello che resterebbe selezionato, morirebbe di fame nel giro di una generazione.

(Basta far mente locale alle proibizioni più note, carne di animali domestici che hanno ricevuto un nome, di roditori, di serpenti, d’insetti per noi europei, carne bovina per gl’indiani, carne di maiale per i musulmani e gli ebrei e così via…).  

Di contro, se proviamo a sommare tutto ciò che l’uomo ha chiamato cibo e che ha usato per nutrirsi nel corso della sua storia l’intero mondo potrebbe essere considerato cibo, dagli escrementi al suo stesso corpo.

La seconda implicazione è di natura ideologica.   

Le fonti di cibo nel mondo sarebbero, per adesso e per molto tempo ancora illimitate se gli uomini smettessero di rifiutarne con ragioni diverse e persistenti, quasi sempre di natura culturale, una parte, spesso notevole.

Ogni cultura, infatti, più o meno deliberatamente, ha elaborato un catalogo alimentare che si tramanda da generazione a generazione e che si modifica nel tempo con grandi difficoltà e molto lentamente.

Questo catalogo alimentare costituisce di fatto la sua identità soggettiva e spesso viene vissuto dall’Altro come uno stereotipo.

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Una breve nota aggiuntiva.

L’uomo è onnivoro, e come i maiali, i topi e molti altri animali può mangiare e digerire sia cibi di origine vegetale che cibi di origine animale.

Come sappiamo per esperienza la quantità di prodotti commestibili di cui può nutrirsi è praticamente infinita.

Perché allora la maggior parte degli esseri umani consuma poche varietà di prodotti alimentari?
Non è chiaro, possiamo solo dire che la sua fisiologia può spiegare tendenzialmente come l’uomo eviti gli alimenti meno adatti alle sue caratteristiche fisiologiche.

Ad esempio foglie, erba e cortecce non vengono mangiate perché l’intestino dell’uomo non è in grado di smaltire grandi quantità di cellulosa, così come è costretto ad assumere più pasti nell’arco della giornata e non uno solo per favorire i processi digestivi.
Davanti alle svariate tradizioni alimentari del mondo solo le differenze culturali spiegano a sufficienza il perché delle diverse abitudini alimentari.

Quello che è buono e appetibile per alcuni è disgustoso e detestabile per altri.

Insetti, cavallette e lombrichi sono fonti di proteine per milioni di persone.

I lattofobici evitano di bere latte, un alimento estremamente nutriente, perché secreto dalle ghiandole di un animale, al pari della saliva, e così hanno perso la possibilità di digerirlo una volta svezzati.

Alla base delle abitudini alimentari dell’uomo ci sono anche motivazioni di tipo pratico.
I cibi che sono entrati nella tradizione cucinaria di un luogo sono tendenzialmente i più validi per quel luogo dal punto di vista ergonomico e nutrizionale.

Le caratteristiche ambientali sono le responsabili dirette delle scelte produttive alimentari dell’uomo, in questo senso, i prodotti “selezionati” nelle diverse culture sono anche quelli che si sono rivelati più pratici da “allevare” e che hanno dimostrato di sfruttare al meglio le risorse in cui sono stati coltivati.
Per esempio le popolazioni con una ridotta densità demografica e con un territorio poco adatto alla coltivazione hanno privilegiato un’alimentazione a base carnea.

Al contrario, le popolazioni numerose e con disponibilità di terre adatte alla coltivazione hanno sviluppato un’alimentazione basata sul consumo di cereali e vegetali, soprattutto se inserite in un habitat incapace di sostenere i costi energetici dell’allevamento del bestiame.
Un esempio è quello del divieto di consumare carne di maiale, proprio delle religioni ebraica e musulmana.

I maiali hanno bisogno di ombra e di acqua per rinfrescarsi, perché non hanno ghiandole sudorifere e non possono quindi regolare la temperatura corporea con la sudorazione.

Sono tendenzialmente stanziali, non trasportano carichi e non possono essere cavalcati.

Non sorprende  quindi che il tabù sia nato tra popolazioni originariamente nomadi, e in un ambiente arido e caldo come quello del deserto.
A lato di questi due aspetti culturali resta inconsiderata l’opzione biopolitica.

Gli uomini hanno il diritto di togliere la vita ad altri essere viventi per la propria alimentazione e senza che questo sia assolutamente necessario?

 

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Qualunque sia la vostra opinione è bene considerare anche questo.

– le diete a base di carogne animali sono più costose di quelle cerealicole.

– l’allevamento di animali destinati all’alimentazione producono un inquinamento ambientale che sta diventando sempre più insostenibile.

Esamineremo adesso alcune relazioni tra la sostanza alimentare, il gusto, i segni e l’immaginario partendo da questa considerazione: I

l nostro cervello è un congegno insaziabile che divora in continuazione, ri-elaborandoli, glucosio, segni e senso.

Che cos’è il glucosio (o glucoso) è presto detto.  Rappresenta il composto organico più diffuso in natura, sia libero sia sotto forma di polimeri, vale a dire di macromolecole. 

È una fonte di energia più diffuse in natura. 

In assenza di forme di vita che lo sintetizzino può formarsi dalla formaldeide. 

Quindi  è probabile che esistesse già quando nacquero i primi sistemi biochimici primitivi.

Nella modernità, tra questi tre “alimenti” (glucosio, segni, senso), ce n’è uno che ha preso il sopravvento sugli altri due: sono i segni.

Nel secolo scorso questa deriva verso l’immaginario lo intuirono per primi i futuristi, senza però

rendersene appieno conto.

Per esempio quando definirono la pastasciutta una “assurda religione gastronomica italiana”, denunciandone l’apoteosi segnica che la circondava.

Dal fatto che oggi negli atti alimentari tutto tende a trasformarsi in segno ne conseguono due circostanze:

– l’immaginazione diventa sempre di più uno degli stimoli formativi del gusto.

– la dimensione culturale dei segni modifica la relazione tra la sostanza delle cose e la tradizione da cui nasce.

In questo modo, l’origine e la natura del “mangiato” finiscono per essere de-valorizzati rispetto agli elementi formali che lo accompagnano e acquista un’importanza sempre maggiore l’arte di manipolare e comunicare questi elementi.

Non solo, si compie anche una importante metamorfosi, questi elementi o aspetti formali avvolgono i segni con un valore etico derivato da quello estetico.

Una sorta di corto circuito per il quale ciò che è bello è anche buono.

 

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Per riassumere:  Mettersi a tavola significa sempre più entrare in una rappresentazione, perché colui che mangia condividendone la retorica si identifica con questa.

L’immaginario alimentare, del resto, non si limita alla “gustazione”, al piacere orale, ma attraverso essi tende a rivelare tutta una serie di valori, quali un’identità, il ruolo dell’alterità, le vie che conducono alla simbolizzazione della scena alimentare.

Appare chiaro come il “commensare” rappresenta, in tutte le epoche e in tutte le culture, una delle forme materiali più vitali del legame sociale, tanto che il suo significato rituale e simbolico tracima sempre ben oltre il bisogno, dando vita ad una liturgia della commensalità, che qui possiamo intendere come l’apice cerimoniale delle forme della convivialità.

Al centro della commensalità c’è la tavola, nelle sue diverse espressioni, come un oggetto inscritto in un ambiente ed attrezzato per uno scopo, come riflesso culturale della natura e della qualità dei cibi, come luogo d’incontro e di scambio.

Si può dire con il gergo della psico-analisi che paradossalmente il problema, sul piano simbolico, non è mai il mangiare, ma il saper mangiare nel “nome del padre che si fa legge”.

Solo a questa condizione la commensalità è nomos – la legge positiva degli uomini che si contrappone alla physis la legge di natura – nutre, aggrega e crea coesione, così come, allo stesso tempo, la comunità che esprime (questa legge) si forma, si ritrova e si riconosce.

Verticalizzandosi, poi, la commensalità invera rendendoli visibili la gerarchia, l’ordine, i ruoli, i ranghi, le forme del potere, le posizioni amicali e familiari, il distacco e, insieme, il bello, il gusto, la capacità di cogliere le nuances del sublime ed esprimere gli stili di vita.

Essa è unificante e trascendente, esprime la follia festiva e struttura le forme sociali, rivela le libertà di dicembre e l’interdetto.   Diventa la Calicut delle passioni e garantisce la stabilità delle relazioni umane, così come, allo stesso tempo, può rivelare la crisi di tutto ciò.

Vale a dire, può annunciare la crisi delle tradizioni e la glaciazione della scena alimentare (per usare una efficace espressione di Jean-Paul Aron), rivelare l’asepsi delle pratiche cucinarie, i nomadismi del consumo, le crisi identitarie, i radicamenti reazionari ad un territorio, la necessità di sensazioni forti o smemoranti.

Va notato, en passant, che la funzione simbolica del cibo appartiene anche al mondo animale, dove non è difficile constatare come spesso esso sia preso in comune e diviso.

Tra gli insetti sociali, per esempio, è un legame biologico che serve a costruire la loro società.  Negli uccelli è un legame maternale condiviso.

Tra i mammiferi che vivono in gruppi è uno strumento che gerarchizza la loro struttura sociale.

Tra gli uomini gli antropologi stimano che il fenomeno della simbolizzazione alimentare sia comparso circa cinquecentomila anni fa.

Questa data corrisponde grossomodo a quando la preparazione del cibo ha cominciato a svolgersi intorno ad un fuoco e si è diffuso il suo consumo in gruppo.

Sono elementi che hanno favorito lo svilupparsi di una radice a viso, funzionale della convivialità e, di conseguenza, il nascere di luoghi privilegiati – com’è nell’immaginario l’idea di “focolare” – da  adattare alla cucina e all’incontro.

A causa delle dinamiche sociali è anche realistico immaginare come la scelta degli alimenti, che non poteva essere indifferente, ha prodotto da subito le prime ineguaglianze o, se si preferisce, la costituzione delle prime élite.

L’ineguaglianza ha poi agito da volano sui processi di simbolizzazione, accentuandoli.

Come ha osservato Lèvi-Strauss, l’umanizzazione corre parallela alla cucina del simbolico.

In altri termini, da subito il banchetto è apparso carico di contenuti magici e, comune a quasi tutte le culture appare l’abitudine di dividere con le divinità gli animali uccisi.

Un’abitudine che, giocoforza, si è andata rafforzando in presenza di avvenimenti eccezionali come le nascite o le morti.

Questa cucina del simbolico ha due livelli.

Il primo è quello dell’incorporazione, vale a dire, dell’ingestione di valori positivi o negativi legati al cibo.

Il secondo è quello in cui il valore simbolico degli alimenti si costituisce in una sorta di legame tra coloro che mangiano insieme, perché la commensalità si manifesta sia come azione del cibo sull’individuo che come processo di condizionamento e di controllo delle scelte alimentari.

 

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Una breve nota sul disgusto.   

Di recente sul tema del disgusto, e del rifiuto che spesso lo forma, sono usciti numerosi lavori antropologici che, per certi versi, hanno rivisto il modo d’intenderlo.

Ad aprire il dibattito qualche anno fa è stato un film The meaning of life (Il senso della vita) del 1983 dei Monty Python, un gruppo comico inglese che, con questo film, ha vinto la Palma d’oro al Festival di Cannes del 1983.

La tesi di questo film è quella classica: il disgusto non è assolutamente il contrario del gusto, ma è un paradigma a se stante.

Per esempio, mentre il gusto esprime sempre una dimensione soggettiva e appartiene alla sfera della nostra sensibilità culturale il disgusto è una sensazione che ingloba in sé il mondo fisico e la morale come una sua rappresentazione, una sua espressione retorica.

Le discipline che lo studiano sono diverse.

Molti lo definiscono un rompicapo epistemologico per la difficoltà a fissarne i confini e per la sua mutevolezza.

È indagato dall’antropologia culturale, dalla psicologia, dalle scienze cognitive, dalla biologia, perfino dalla filosofia del pensiero.

Di recente poi, per cercare di definirlo, sono entrati in campo anche i dietologi, gli igienisti, gli specialisti delle malattie tropicali.

Perché?

Tutto parte da un’osservazione empirica.

I bambini fino a circa tre/quattro anni e gli scimpanzé – come dire, ciò che siamo diventati e ciò che siamo stati – si mettono in bocca tutto e in genere non provano disgusto per nulla.

O meglio, il bambino o lo scimpanzé, se mettono in bocca qualcosa che non piace loro lo sputano, ma non perché provano disgusto.

Di fatto il disgusto non si può insegnare e non si può apprendere con l’insegnamento.

È connaturato ai meccanismi dell’auto-coscienza e si suppone che si manifesti quando questi meccanismi – condizionati dalla cultura – sono maturi.

In questo senso gli animali che sono privi di autocoscienza non sviluppano il disgusto e dunque non lo provano.

Il disgusto fisico è un’emozione selettiva che coinvolge i sensi, ma non il senso dell’udito.

Se ne deduce che questo senso estremamente complesso non è collegato ai meccanismi che trasmettono il disgusto alla coscienza.

Il disgusto come espressione socioculturale si manifesta quando ci sono consolidati principi morali, oppure convinzioni, pregiudizi, abitudini, ma anche ossessioni, fantasmi, compulsioni, pulsioni anali.

Spesso il disgusto socioculturale si confonde o si mescola al disprezzo, al rifiuto e all’indignazione anche perché i meccanismi nervosi che lo generano sono in parte comuni.

Se consideriamo come si evoluto il disgusto nel tempo storico e nello spazio vissuto, il posto che occupa tra natura e cultura è ambiguo.

 

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Charles Darwin che lo ha studiato con attenzione rimase meravigliato del suo modo di formarsi.

Darwin osservò senza riuscire a farsene una ragione come una minestra sbrodolata su una barba è disgustosa mentre di per sé né una minestra né una barba lo sono.

Per i francesi le lumache sono Delikatessen, ma ci sono delle ricerche che dimostrano come alcune culture non mangerebbero una lumaca per nessuna ragione al mondo.

In molti individui la vista di gente drogata, trasandata o ubriaca attiva i centri nervosi del disgusto e della paura.

Questo ci suggerisce che il disgusto può spegnere o annebbiare i meccanismi nervosi dell’empatia e della compassione, che sono forme di amore anche se deboli.

I primi studi di una certa ampiezza sul disgusto risalgono ai prima metà dell’800, il secolo delle scienze sperimentali.

Un tempo lo si considerava una reazione ai cibi amari o troppo salati.

Karl Rosenkranz, uno dei più brillanti allievi di Hegel, definisce il disgusto come la deformazione delle forme a seguito di una putrefazione fisica o morale.

Questi studi, nel complesso, non sono arrivati a nulla e non hanno spiegato molto di questo fenomeno.

In generale sono disgustosi i prodotti di natura organica come il sudore, gli escrementi, il vomito, il catarro, la saliva, lo sperma, salvo poi apprezzarli o tollerarli con coloro con cui dividiamo il nostro self, la nostra identità soggettiva.

Disgustosi ci appaiono certi luoghi, come gli stagni pieni di piante marcite, i corpi in putrefazione e gli animali che se ne nutrono, topi, vermi, scarafaggi, rospi.

Va anche notato come il cattivo odore moltiplica sempre la sensazione di disgusto.

La filosofia fenomenologica negli anni ’30 del secolo scorso considerava il disgusto un meccanismo di difesa anche se non sempre ciò che è disgustoso e pericoloso.

Una lumaca bavosa può essere disgustosa ma non è pericolosa.

Un terremoto non è disgustoso, ma è pericoloso.

La psicoanalisi, sempre intorno agli anni ’30 del secolo scorso stabilì delle connessioni tra ciò che è disgustoso e tutto ciò che striscia, s’insinua, s’annida, secerne.

Perché?

Perché sono espressioni di un sinistro e primordiale modo di apparire della vita.

C’è anche da osservare che il disgusto e la paura aumentano più la cosa disgustosa e vicina alla bocca e diminuiscono più sono vicini ai piedi.

In termini funzionali possiamo dire che il disgusto è scaturito da scopi ed esigenze che sono spariti dalla nostra vita corrente, anche se hanno lasciato delle tracce, e che esso oggi ricompare in noi sotto forme diverse e recuperate.

È evidente, per esempio, che oggi il disgusto è parte integrante dei meccanismi dell’intolleranza razziale e dell’avversione per il diverso.

 

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Vediamo adesso di traguardarlo con un altro tema, quello del rifiuto a partire da alcune osservazioni di Elias Canetti.

Canetti (1905-1994) è stato uno scrittore e saggista bulgaro di lingua tedesca naturalizzato inglese.

Nel 1981 è stato insignito del Nobel per la letteratura, è considerato l’ultima grande figura della cultura mitteleuropea.

Il libro che lo ha reso famoso s’intitola Massa e Potere, fu pubblicato nel 1960.

Canetti lavorò su questo libro per quarant’anni, facendo confluire sul suo tema riflessioni filosofiche, sociologiche, storiche e politiche.

In una delle sezioni dell’opera dedicata agli organi del potere, Canetti, con una certa spregiudicatezza intellettuale, mescola osservazioni psico-analitiche e antropologiche con il modo di formarsi del dominio e delle forme di controllo.

Proviamo a leggere e a commentarne alcuni passaggi.

Va premesso che questo autore ha scorto delle somiglianze funzionali tra il modo di formarsi delle mute degli animali predatori e le masse d’individui, intese come un insieme più o meno indifferenziato d’interessi.

Scrive Canetti:

Il vero e proprio atto d’incorporare la preda comincia dalla bocca.

Essa era guidava in origine da tutto ciò che era commestibile.

Poi la bocca inghiottiva e spingeva la preda nel suo viaggio attraverso il corpo.

Durante tale viaggio la preda era metamorfizzata e sfruttata, le veniva sottratto tutto ciò che poteva essere da un punto di vista alimentare utilizzato.

Di essa non rimaneva che un po’ di rifiuti e un odore disgustoso.

Scrive Canetti questo processo con cui si conclude ogni conquista animale, è particolarmente istruttivo per conoscere l’essenza del potere.

Chi vuole dominare gli uomini cerca sempre di svilirli, di privarli della loro forza di resistere, di sottrarre loro i loro diritti perché lo scopo del dominio è sempre quello di incorporarli e di sfruttarli.

Al potere poi è indifferente ciò che resterà di loro.

Infatti, quando non sono più nulla di sfruttabile, il dominio se ne libera di nascosto, come fa con i propri escrementi, preoccupandosi che non appestino l’aria della sua spazio vitale.

Va da sé, scrive sempre Canetti, il dominio non ammetterà mai di comportarsi in questo modo e siccome non fa macellare i suoi sudditi nei mattatoi e non li trasforma in un vero e proprio cibo per il suo corpo, negherà di sfruttarli e di digerirli.

Anzi, formalmente è lui che dà loro da mangiare.

Ma anche prescindendo dal dominio, prosegue Canetti, il rapporto di ogni uomo con i suoi escrementi rientra nella sfera del potere.

Nulla è appartenuto a un uomo più di ciò che si è trasformato in escremento.

Si tratta di un processo così naturale, così spontaneo ed estraneo alla coscienza, che se ne sottovaluta l’importanza.

Così ogni giorno si digerisce e si torna a digerire.

I rifiuti che rimangono al termine di questo processo sono una rappresentazione di ciò che siamo.

Da essi si può capire cosa o chi noi abbiamo ucciso o abbiamo delegato a farlo.

Sono una raccolta di indizi e puzzano come i nostri peccati quotidiani, reiterati e ininterrotti.

Noi ci liberiamo dei nostri escrementi in locali particolari che servono solo a questo scopo.

L’uomo è veramente solo, commenta Canetti, soltanto con i suoi escrementi.

Proviamo a trarre qualche conclusione da queste riflessioni di Canetti.

Da esse se ne deduce che prima ancora di essere necessari alla costruzione consapevole dell’identità soggettiva secondo modelli condivisi, i processi di scarto e di rifiuto costituiscono tout court la forma attiva dell’identità.

In altri termini, nella costruzione del sé, anche sul piano simbolico, prima ancora di scegliere cosa acquisire e cosa scartare, siamo costretti a divorare per affermarci.

Allo stesso modo, prima ancora di elaborare delle strategie di controllo, di sfruttamento e di esclusione delle categorie considerate inferiori, i sistemi di potere si sono strutturati attraverso il divoramento sociale, economico e culturale delle forze vive della società che poi hanno trasformato in escrementi maleodoranti.

Tuttavia, quanto più articolato e complesso nella storia di una civiltà è il bisogno di affermare la propria identità, sia sul piano individuale che su quello collettivo, tanto più grande diventa la massa di ciò che è stato rifiutato, ovvero, digerito, sfruttato ed espulso.

In questo senso la modernità ha prodotto, nel giro di alcuni decenni, una gigantesca mole di rifiuti interni ed esterni, geografici e psichici, localizzabili fisicamente.

Man mano che l’identità occidentale è andata ‘costruendosi’ sia sul piano individuale che su quello collettivo, ha avvertito la necessità di isolarsi nell’atto escrementizio e di isolare l’escremento, sottoponendosi ad un’attenta profilassi nei confronti del rifiuto, dello sporco, dell’inferiore.

Così facendo, però, non ha potuto evitare la crescita esponenziale del materiale rifiutato, così come la necessità altrettanto fisiologica di consentire, di tanto in tanto, la contaminazione e/o il ritorno di ciò ch’era stato digerito, sfruttato ed espulso.

È facile, anche se appare di pessimo gusto, trovare esempi di ciò nella storia occidentale, a cominciare dall’ossessione dell’Altro che puzza, ebreo, nero o islamico che sia.

L’Occidente si è a lungo esercitato nell’arte escrementizia per accrescere la propria potenza, non senza essere attratto da ciò che respingeva.

Lo vediamo di riflesso proiettato nella fiorente industria dei sanitari o se volete nel fatto che un orinatoio intitolato Fountain e firmato Mutt – in realtà Marcel Duchamp – è considerata l’opera d’arte più significativa del ventesimo secolo.

Questa sorta di metafora storico-sociale conferma il principio generale, secondo cui l’odio è contiguo all’amore e condivide il suo etimo con odore.

Detto ancora in altri termini, l’incorporazione dal punto di vista dell’identità è strutturalmente ambigua e storicamente variabile.

Storicizzando l’analisi di Canetti sul nutrimento è possibile delineare una sorta di schematica stratificazione del rifiuto.

Il primo livello è quello biologico, elementare, del metabolismo individuale.

La metamorfosi metabolica del nutrimento che penetra nel corpo e poi è rifiutato, nega l’identità corporea come solidità, purezza e separazione.

È un tema chiave di molte religioni.

Viceversa, l’identità corporea individuale si rivela essere prodotta di continuo attraverso violenza, sfruttamento, sporcizia ed espulsione solo parzialmente controllabile.

Questo primo livello costituisce il fondo opaco, l’in-sé, per usare un’espressione di Jean-Paul Sartre o della filosofia tedesca del Novecento.

Il secondo livello è quello psichico.

Incorporare l’altro equivale a rifiutarlo per identificarsi con lui (si veda la contiguità di odio e amore).

Il terzo livello è quello storico-sociale.

In questo livello può essere tematizzata la questione del passaggio dalla modernità all’attuale fase del metabolismo identitario.

La modernità ha infatti conferito al metabolismo psichico degli individui e delle masse una specifica forma storica, determinata da due fattori complementari:

il principio dell’ordine e quello dell’economia nella forma di capitale.

Come afferma la filosofia nel corso di quattro secoli (dal XVI al XX), l’Occidente ha costruito il proprio ordine culturale, politico ed economico, che si riassume in un nomos planetario, come scrive Carl Schmitt.

Per chi non ha studiato filosofia diciamo che in greco il termine phisis indica la natura, mentre il termine nomos è la legge positiva della polis, cioè l’ordinamento del mondo, la legge.

In breve noi operiamo grazie ad un complesso meccanismo di espulsione sempre più intensiva dei rifiuti e  secondo l’ideale del “giardino”, dell’hortus conclusus.

Un ideale che ha permeato sia l’ideologia dell’igiene borghese, che quella totalitaria.

Lo spazio interno della nostra civiltà, recintato e protetto, è stato coltivato e tenuto pulito, buttando ‘fuori’ le erbacce e la sporcizia – ovvero i resti scomodi dell’incorporazione/sfruttamento.

Con la globalizzazione, però, l’illusione moderna di respingere i rifiuti fuori di noi o di riciclarli nelle forme seducenti del benessere e del godimento, si è esaurita.

Si è esaurita non solo a causa della sparizione del ‘fuori’, ma anche in virtù di una spaventosa incertezza e diseguaglianza riguardo al godimento dei diritti sociali.

Di fatto ci ritroviamo ad essere noi stessi, noi occidentali, dei potenziali rifiuti – rifiutati, oltre che sommersi dalle scorie in eccedenza.

L’economia globalizzata non è più in grado di gestire la globalizzazione secondo l’ideale del giardino: le forme ordinate del controllo e della pianificazione hanno lasciato il posto al disordine, all’inquinamento, al divario economico abissale fra Nord e Sud del pianeta.

Soprattutto hanno fatto esplodere nell’immaginario collettivo il carattere ‘interno’, fantasmatico e insopportabile del rifiuto dell’Altro da noi.

Eppure, il vero e proprio ribrezzo generato dal rifiuto indica paradossalmente il fallimento dell’immaterialità che ci era stata promessa dall’esperienza ‘globale’ del mondo.

La materia, che avrebbe dovuto essere esorcizzata dalla mondializzazione tecnologica e riassorbita nel paesaggio virtuale, ha fatto irruzione nell’esperienza individuale e collettiva incarnando in forme sempre più brutali la metafora alimentare di cui parla Canetti: esplosioni, epidemie, mutilazioni, rovine, smembramenti e liquami hanno invaso l’immaginario, sfruttando, anziché piegarsi alla straordinaria amplificazione del virtuale.

È come dire che i rifiuti mostrano di poter tornare come doppi negativi di coloro che li hanno rifiutati, come residui ostili del metabolismo economico globale.

Si pensi ai flussi migranti o, in piccolo, al tema riassunto dall’acrostico di nimby, not in my back yard, non nel mio giardino.

In parte si tratta, come sostiene il sociologo polacco Zygmunt Bauman, della perdita della forma ‘solida’ della modernità e della sua trasformazione in una ‘modernità liquida’ – alludendo con questa espressione alla  incapacità di ordinare e governare le situazioni e di indirizzarne i processi.

Per concludere è forse per questo che la cultura occidentale è affascinata da ciò che la rifiuta, come dal proprio fantasma: rivelando l’infantilità di ogni cosiddetto scontro di civiltà.

 

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Una recente classifica dei cibi più disgustosi tra quelli più popolari.

 

Poutine.

Al primo posto c’è il poutine canadese, non perché è il più disgustoso, ma perché è il più consumato.

È una specialità del Quebec francese.

Si tratta di una preparazione da fast food condita con una salsa molto densa e un formaggio che ricorda la ricotta.

La versione leggera oggi la si trova spesso nelle catene di fast food anche del nord degli Stati Uniti, mentre è più raro trovare la versione con carne di maiale, agnello, confit di coniglio e gamberetti, tutto mischiato insieme.

 

Nidi di rondine.

Seguono i nidi di rondine che non sono costruiti dalle rondini, ma da alcune specie di rondoni marittimi che popolano l’Asia.

Sono composti con il muco secreto da questi uccelli, ricordano come forma le tagliatelle di riso e si servono in una tazza in brodo dopo tre ore di cottura.

Si ritiene che rallentino l’invecchiamento, ma nessuno l’ha provato scientificamente.

 

Al terzo posto troviamo il lutefisk norvegese.

È una preparazione lunga e particolare del merluzzo nella quale c’è anche una macerazione per due giorni in una soluzione di idrossido di sodio, vale a dire soda caustica, che rende il pesce gelatinoso.  Siccome la sua acidità è molto alta lo si rimette in acqua altri sei giorni prima di consumarlo.

Dicono che è un alimento vichingo che si mangia con patate e piselli, ma anche in Norvegia sono pochi quelli che lo apprezzano anche tenuto conto del suo odore disgustoso.

 

Dietro il lutefisk troviamo il surströmming svedese.

Si tratta di aringhe fermentate che vengono lasciate al sole per un paio di mesi e poi messe in conserva.  Naturalmente la fermentazione prosegue anche quando sono in conserva e la scatoletta in cui sono confezionate finisce per gonfiarsi e bombarsi.

C’è anche il rischio che esplodano e è per questo che è proibito portarle a bordo degli aerei.

L’odore di queste aringhe è terribile, ancora peggio di quello delle uova marce.

Una curiosità, in molti condomini svedesi è proibito aprire le scatolette di surströmming per evitare che l’odore raggiunga gli spazi comuni e vi permanga.

 

Poi c’è l’hakarl.  L’hakarl è una specialità islandese.

Si tratta di carne di pescecane che è tossica se mangiata fresca a causa di un alto contenuto di acido urico, che è molto tossico e si forma negli organismi viventi come sottoprodotto del metabolismo e  di ossido di trimetilammina, un enzima che spesso viene ricercato nel pesce per valutarne la freschezza.

I pescecani usano queste due sostanze come un antigelo.  Mentre la carne mangiata fresca provoca vomito di sangue.

Gli islandesi per mangiare questa carne la sotterrano per diversi mesi sulla spiaggia e poi la fanno seccare.  Neanche a dirlo odora di ammoniaca, come certi formaggi.

 

Quindi viene il Fogu.

Dopo il pescecane c’è il fogu o pesce palla che è velenoso, ma al contempo una tradizione della cucina orientale.

 

Ci sono poi le ostriche delle montagne rocciose.

Naturalmente non sono ostriche, ma i testicoli di bue di cui sono ghiotti gli americani dell’Ovest americano.

Si spelano, s’impanano, si appiattiscono e poi si friggono.  Si servono con una salsa bruna.

 

Nelle Filippine troviamo il balut.

È l’uovo di anatra fecondato.  Si mangia dopo due settimane dalla fecondazione, quando nel pulcino cominciano a spuntare le piume e il becco s’indurisce.

Si prepara bollito e si serve nel guscio.  I buon gustai lo condiscono con un po’ d’aceto.

 

In Cambogia si mangiano le tarantole.

Si catturano nei boschi, si fanno crescere e poi le si cucina con il wok, con aglio, sale e glutammato di sodio, un aminoacido che si trova nei dadi per il brodo, nei formaggi nei salumi e in altri alimenti.  Ritoneremo su questo glutammato perché è quello che i tecnici chiamano il quinto sapore dopo l’acido, il dolce, il salato e amaro.  Si tratta dell’umami.

 

Gli ultimi due cibi disgustosi sono le escamoles messicane che in Messico vengono definite come un caviale locale.

Si tratta delle larve delle formiche che vivono nelle radici dell’agave.  Sono come delle piccoleFOOD uova bianche, si friggono in padella con la cipolla e si servono con la guacamola e tortiglie.

 

L’altro cibo è un formaggio italiano, meglio sardo, chiamato casu marzu.

Si tratta di un formaggio pecorino colonizzato dalle larve della mosca casearia.

L’Unione Europea, però, qualche tempo fa ne bloccò la produzione.  I sardi allora lo hanno inserito nella banca dati dei prodotti agroalimentari tradizionali italiani e ne hanno richiesto il marchio DOP.

In realtà in Europa ci sono almeno una decina di formaggi con i vermi.  Ricordiamo tra tutti il Milbenkäse tedesco che si produce con gli acari che sono una sotto specie dei ragni e tra i più antichi abitanti della terra.

 

Fine

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

GLOSSA NR.DUE

GLOSSA NR.DUE

IED – ANTROPOLOGIA CULTURALE

(Ricapitolazione per punti)

 

Comunicare, scambiarsi informazioni è un fatto che appartiene

alla natura.  Tener conto delle informazioni che ci vengono date è un fatto culturale. 

Johann Wolfgang Goethe.

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C’è un mistero nella nostra condizione umana.

È il momento, nella nostra infanzia, in cui ci siamo resi conto per la prima volta che le parole hanno un significato.

 

Questo momento ha avuto nella nostra vita un’importanza capitale perché significa non solo il fatto che abbiamo acquisito la lingua natale, ma che abbiamo sviluppato la possibilità di comprendere la produzione simbolica che da un senso alla cultura in cui viviamo.

Si può affermare che la comunicazione, verbale e non, è alla base delle società umane, è indispensabile alla loro creazione, è funzionale al loro mantenimento, ne determina i cambiamenti e ne segna profondamente l’identità.

Non è per caso che nella lingua latina communicare significa condividere, spartire ciò che è in comune.

Per estensione possiamo allora dire che tutti i sistemi linguistici sono costituiti da simboli pubblicamente accettati attraverso i quali cerchiamo di condividere le nostre esperienze.

A questo proposito però dobbiamo anche sottolineare il fatto che le parole non comunicano tutto ciò che sappiamo di una situazione e che la nostra capacità di comunicazione non è limitata al linguaggio.

***

A parte questo, la comunicazione non-verbale sembra comune a tutte le culture conosciute.

Meglio, pare che tutti gl’uomini comprendano le espressioni del volto nello stesso modo.

Oltre ai test effettuati sul campo con le fotografie, abbiamo anche una prova indiretta che ci viene dall’arte.

 

Il volto rappresentato sulle tele, scolpito nel marmo o realizzato con una maschera sembra evocare sentimenti simili in molte culture diverse.

 

Detto questo, per concludere, va osservato che la lingua parlata è ancora oggi il principale veicolo di trasmissione della cultura perché permette di condividere e tramandare la nostra complessa articolazione di atteggiamenti, credenze e modelli di comportamento.

 

I sistemi di comunicazione non sono un’esclusiva degl’esseri umani.

Altre specie animali hanno vari modi per comunicare, per esempio, con i suoni, l’odore o il movimento del corpo.

 

Uno dei grandi dibattiti accademici del Novecento ha riguardato il modo in cui i primati comunicano.

In pratica si riteneva che solo la comunicazione umana fosse simbolica.

Oggi, però, sappiamo che anche alcuni richiami delle scimmie antropomorfe, e in particolare dei bonobo, nelle foreste sono simbolici.

Ma che cosa significa che una comunicazione ha dei contenuti simbolici?

Prima di tutto che la comunicazione produce un significato anche in assenza di un referente, cioè di un elemento del mondo reale o di un concetto a cui un’espressione linguistica fa riferimento.

In secondo luogo il significato è arbitrario, non è ancorato alla sua astrazione.

Vale a dire chi riceve la comunicazione non può coglierne il significato basandosi esclusivamente sui suoni.  Né può conoscere per certo quel significato per via intuitiva.

***

C’è una differenza che possiamo ritenere significativa tra le vocalizzazioni umane e quelle dei primati.

I sistemi vocali dei primati sono chiusi.

Cioè i differenti richiami non si combinano tra di loro per produrre nuovi significati o si combinano in modo primitivo.

Le lingue umane, al contrario, sono sistemi più o meno aperti e retti da complesse regole su come i diversi suoni possono essere combinati per produrre dei significati.

Un altro tratto che in qualche modo è peculiare al genere umano è l’abilità a comunicare intorno agli eventi passati e a quelli futuri.

Il che equivale a dire che gli animali vivono in un eterno presente.

Ma di recente si è scoperto che i nostri cugini bonobo lasciano quelli che sembrano messaggi agli altri bonobo per indicare loro una pista.

Essi spezzano la vegetazione dove il sentiero si biforca e puntano le pianticelle rotte nella direzione da seguire.

 

Non sappiamo da quando l’uomo fa uso della lingua parlata.

La data di trecentomila anni fa è attendibile, ma è solo da centomila anni che l’anatomia della bocca e della gola è identica a quella dell’uomo moderno.

Da un punto di vista antropologico la domanda più importante è:

Come ha fatto la selezione naturale a favorire il carattere aperto del linguaggio?

Di fatto tutte le lingue umane sono aperte.

Vale a dire, le articolazioni linguistiche vengono combinate in vari modi per produrre significati diversi.

In principio possiamo ipotizzare un sistema basato sul richiamo che è presto evoluto verso un sistema basato su piccole unità sonore da collegare tra di loro secondo differenti combinazioni in modo da formare enunciati significanti.

 

Noam Chomsky, filosofo americano e professore di linguistica al MIT (Massachusetts Institute of Technology) – riconosciuto come l’ideatore della cosiddetta teoria della grammatica generativo-trasformazionale – sostiene che nel cervello esiste un dispositivo di acquisizione della lingua che nell’uomo è innato o, comunque, frutto di un lungo processo evolutivo, così come sono innati negli animali i sistemi di richiamo.

In pratica, tale dispositivo sarebbe diventato parte della nostra eredità biologica con l’evoluzione della parte frontale del cervello.

È una tesi che va completata osservando che lo sviluppo del linguaggio non è stato condizionato solo da fattori biologici.

Diciamo che se così non fosse ci sarebbe una radice comune a tutte le lingue, al contrario gli studi sul campo hanno individuato più di quattromila lingue diverse e tra di loro incomprensibili.

Più di duemila di esse si parlavano fino a pochi anni fa, molte delle quali da popolazioni che non possedevano una scrittura.

 

A questo proposito ricordiamo che per comprendere l’origine del linguaggio molti antropologi hanno provato a studiare le lingue delle società prive di scrittura, ma non hanno concluso nulla perché si è scoperto che queste lingue non sono né più semplici, né meno evolute di quelle del mondo occidentale.

È come dire che la presenza di tecnologie complesse non è un indice di una corrispondente complessità dei linguaggi.

 

In sostanza ogni cultura ha o possiede un estensione del vocabolario necessario alla popolazione che parla la lingua corrispondente e questa si evolve in risposta ai cambiamenti culturali.

Il vocabolario, in questo senso, è l’inventario degli elementi che ogni cultura categorizza per dare un senso al mondo in cui vive.

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L’inventario linguistico del nostro pianeta è molto vario e diversificato.

Basti questo dato, il quattro per cento della popolazione parla circa il sessanta per cento delle lingue del mondo.

Queste isole linguistiche sono perlopiù situate nelle regioni tropicali, le stesse che hanno un tasso di biodiversità maggiore.

A queste isole si contrappongono delle macro-regioni caratterizzate da una bassa intensità di stock linguistici.

In ogni modo il parlare è così congeniale alla specie umana che in molte culture il termine per indicare il parlare è proprio la lingua, qui intesa come una parte importante dell’apparato fonatorio.

Da un punto di vista geo-storico alcune lingue si sono sviluppate di recente.

Sono quelle delle popolazioni che sono state oggetto di mire coloniali.

Queste popolazioni – impiegate il più delle volte come schiavi – comunicavano con i loro padroni attraverso una sorta di versione pidgin – semplificata – della lingua degli oppressori.

Le lingue pidgin, di solito, mancano di quei tasselli coesivi come sono le proposizioni e i verbi ausiliari.

Molte lingue pidgin si sono poi sviluppate dando origine alle cosiddette lingue creole.

A questo proposito molti antropologi sostengono che esistono forti somiglianze grammaticali tra le lingue creole di tutto il mondo e questa somiglianza sembra coerente con l’idea di una grammatica archetipica comune a tutti gl’uomini.

Se così fosse, ma non è dimostrato, le lingue creole potrebbero somigliare alle prime lingue umane.

La lingua non è solo uno strumento per registrare la realtà, di più, essa contribuisce a creare la realtà.

Paradossalmente il mondo che noi conosciamo come reale è anche una costruzione fondata sulle nostre usanze linguistiche.

Per molti antropologi sarebbero le categorie linguistiche a determinare di fatto le rappresentazioni percettive e concettuali.

In sintesi, potremmo dire che abitiamo il mondo grazie a un linguaggio e, grazie a questo, interpretiamo e creiamo il mondo perché il linguaggio vive tanto di aspetti formali quanto di aspetti performativi.

 

Prima di proseguire non possiamo non accennare a due lingue particolari.

L’esperanto e il grammelot.

L’esperanto è una lingua costruita a tavolino e sviluppata tra il 1872 e il 1887 dall’oftalmologo polacco di origini ebraiche Ludwik Lejzer Zamenhof.

L’esperanto è la più conosciuta e utilizzata tra le LAI – Lingue ausiliarie internazionali.

Presentata nel Primo Libro (Unua Libro, 1887) come Lingvo Internacia (“lingua internazionale”), prese in seguito il nome esperanto (“colui che spera”, “sperante”) dallo pseudonimo di Doktoro Esperanto utilizzato dal suo creatore.

Scopo di questa lingua è quello di far dialogare i diversi popoli cercando di creare tra di essi comprensione e pace con una seconda lingua semplice ma espressiva, appartenente all’umanità e non a un popolo.

Un effetto di ciò sarebbe in teoria quello di proteggere gli idiomi “minori”, altrimenti condannati all’estinzione dalla forza delle lingue delle nazioni più forti.

Per questo motivo, l’esperanto è stato ed è spesso protagonista di dibattiti riguardanti la cosiddetta democrazia linguistica.

Le regole grammaticali dell’esperanto sono state scelte da quelle di varie lingue studiate da Zamenhof, affinché fossero semplici da imparare ma nel contempo potessero dare a questa lingua la stessa espressività di una lingua etnica, esse non prevedono eccezioni.

Anche i vocaboli derivano da idiomi preesistenti, alcuni (specie quelli introdotti di recente) da lingue non indoeuropee come il giapponese, in gran parte da latino, lingue romanze (in particolare italiano e francese), lingue germaniche (tedesco e inglese) e lingue slave (russo e polacco).

Vari studi hanno dimostrato che si tratta di una lingua semplice da imparare anche da autodidatti e in età adulta, per via delle forme regolari, mentre altri dimostrano come dei ragazzi che hanno studiato l’esperanto apprendano più facilmente un’altra lingua straniera.

 

Il grammelot o gramolot, la voce non è francese, ma d’origine imitativa e forse derivata dal veneziano è uno strumento recitativo che assembla suoni, onomatopee, parole e foni privi di significato in un discorso.

Gli attori utilizzavano e utilizzano il grammelot con il fine di farsi comprendere anche senza saper articolare frasi di senso compiuto in una lingua straniera, oppure per mettere in parodia parlate o personaggi stranieri.

Ciò che ne risulta è una recitazione fortemente espressiva e iperbolica.

Il linguaggio usato acquisisce inoltre un surplus di espressività musicale, in grado di comunicare emozioni e suggestioni.

Sembra che questo artificio recitativo fosse utilizzato dai giullari, dagli attori itineranti e dalle compagnie di comici della commedia dell’arte.

Questi professionisti dello spettacolo pare recitassero usando intrecci di lingue e dialetti diversi miste a parole inventate, affidando alla gestualità e alla mimica, quel tessuto connettivo che rendeva la comunicazione possibile a prescindere dalla lingua parlata dall’uditorio.

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Nella nostra vita quotidiana utilizziamo spesso forme di linguaggio non-verbali, come strizzare l’occhio, gonfiare le guance, mimare con le dita della mano le forbici per dire a qualcuno di smetterla.

Anche questo tipo di comunicazione è culturalmente caratterizzato.

Va da se, anche questa gestualità è da interpretare.

Per esempio il gesto delle forbici in Giappone è considerato un invito a andare a mangiare qualcosa, visto che le dita mimano i chopstick.

Diciamo che il comportamento è un codice e di conseguenza una forma di comunicazione.  Come ha teorizzato Erving Goffman la nostra vita è una forma di rappresentazione che corre su due piani paralleli.

Quello pubblico, che Goffman chiama frontstage dove l’attore – ciò noi – mettiamo in scena il nostro io sociale, ciò che si vuole mostrare.

Poi c’è il backstage dove l’attore torna a essere se stesso.

In breve la rappresentazione di noi stessi è culturale e è il frutto di una codificazione sociale.

La gestualità, la mimica, la lingua sono i pilastri di questo codice che spesso è un segno identitario, vale a dire un atteggiamento nel quale i membri di un gruppo si riconoscono.

***

 

Il linguaggio del corpo è un aspetto importante della comunicazione non-verbale.

In quest’ambito si tende a interpretare, ai fini dell’interazione sociale, postura, gesti, movimenti, movimenti, espressioni e mimica che accompagnano o meno la parola rendendo la comunicazione umana più esplicita e comunicativa.

Attraverso il linguaggio del corpo si può arrivare a conoscere l’individuo nella sua interezza ed interiorità, sia che si usino o meno alcuni gesti o che si compiano determinati movimenti.

A un buon osservatore la mimica, in generale, rivela i pensieri e le intuizioni altrui più delle parole.

Il primo linguaggio studiato è stato quello facciale.

Uno dei primi documenti su questo argomento è il saggio di Charles Darwin (1872)The expression of the emotions in Man and Animals.

Un importante studioso di questo linguaggio è l’americano Paul Ekman (1934, vivente), uno dei più famosi psicologi americani.

Ekman ha dimostrato che alcune emozioni come la rabbia, tristezza, felicità, sono uguali e condivise da tutti in modo uguale, qualunque sia la cultura di appartenenza.

Secondo Ekman osservando le emozioni del volto si riesce a comprendere se le espressioni sono sincere oppure no, nel suo libro I volti della Menzogna, mette in luce tre elementi per leggere le emozioni del volto e per capirle:

– L’asimmetria, perché nelle espressioni facciali sono coinvolte asimmetricamente le due metà del viso, in quanto su una metà l’espressione è più intensa che nell’altra.

– Il tempo, in quanto l’espressioni veritiere durano pochi attimi (all’incirca 1/10 di secondo), mentre se vi è un’espressione “tirata”, che dura più di un secondo, questa è probabilmente una falsa emozione, eseguita volontariamente.

– La collocazione nel discorso.  La mimica che accompagna le parole se è posticipata o anticipata non rispecchia la reale espressione verbale.

Se una persona è arrabbiata e accompagna l’espressione di rabbia in diretta relazione con le parole vuol dire che la persona è realmente arrabbiata.  Se i gesti di rabbia vengono dopo le parole si denota che probabilmente la persona non è così in collera come vorrebbe far credere.

Il vocabolario del linguaggio del corpo è completato anche gesti che differiscono da cultura a cultura e gesti che cambiano con l’evolversi dell’età dell’uomo.

I gesti che variano da cultura a cultura sono quei gesti che col tempo sono diventati come una sorta di esperanto, ma che in alcune culture assumono un significato diverso.

Il segno dell'”OK”, ha assunto col tempo il significato di okay, “tutto bene”, in tutti i paesi di lingua inglese.

In Europa e in Asia, ci sono però alcune aree linguistiche, come ad esempio la Francia, in cui il segno “OK” assume il significato di “zero” o “niente”.

Questa espressione deriva infatti da un segnale che al termine di uno scontro armato serviva ai soldati per comunicare a distanza zero kills cioè’ “zero uccisioni” tra i nostri soldati.

In Giappone, poi, vuol dire soldi.

Il pollice girato verso l’alto, in Australia, Inghilterra e Nuova Zelanda ha diversi significati, vuol dire: Va bene, è un segnale di autostop o è usato in senso ironico.

Di contro in Grecia è prevalentemente usato in senso dispregiativo.

Ci sono poi gesti che si modificano con l’evolversi dell’età dell’uomo.

Ne è un buon esempio il gesto di un bambino che dice una bugia.  Egli tende a coprirsi la bocca con le mani.

Nell’adolescente il gesto cambia, la mano tocca appena con le dita la bocca.

Nell’adulto il gesto diventa più evoluto e raffinato la mano sfiora il naso.

Il linguaggio del corpo ha una propria grammatica e esso va letto e interpretato rispettando tutta una sintassi composta da parole, frasi e punteggiatura.

Ogni movimento è come una parola, cioè assume un significato diverso a seconda dell’uso che se ne fa in una “frase” per cui, nell’analizzare il gesto va tenuto presente soprattutto il contesto in cui si esplica.

Essere percettivi significa saper interpretare e capire un gesto con tutte le sue sfumature interpretandolo nel contesto.

Sfregare le mani, per esempio, può avere un duplice significato.

Se il gesto è fatto in una giornata fredda significa che quella persona ha freddo.

Lo stesso gesto fatto da una persona mentre esprime un desiderio piacevole, risulta sinonimo di gioia, allegria, buon umore, soddisfazione.

Oltre al contesto, bisogna tener presente anche lo spazio che il corpo occupa e con il quale comunica.

Ognuno di noi possiede un self , una percezione della propria identità soggettiva che dipende dalla cultura in cui si è cresciuti.

Per esempio, nella cultura orientale dove vi è un’alta densità di popolazione e gli spazi sono ristretti le distanze sono più ravvicinate, mentre molti occidentali, che vivono in ambienti aperti, amano mantenere le distanze.

Grossomodo nella cultura anglosassone abbiamo:

Un area intima intesa come area che può essere occupata solo da persone con le quali si condivide un rapporto intimo (amici, genitori, amanti, ecc…).

Un area personale intesa come la distanza che ci separa dagli altri (in un contesto quale può essere una riunione di lavoro, uscite, feste ecc…);

Un area sociale ovvero la distanza fra noi e gli estranei.

Un area pubblica cioè quella distanza che decidiamo di avere in un contesto pubblico.

Nella cultura americana lo studio del linguaggio del corpo è sempre stato molto popolare.

Interessanti, a questo proposito sono le osservazioni o le intuizioni di Ralph Waldo Emerson (1803-1882), un filosofo e scrittore americano, contenute nei saggi Manners (Maniere) del 1844 e Behavior (Contegno) del 1860.

Ricordiamo questo filosofo per due ragioni.

Perché fu molto amato dagli studenti americani degli anni’70 per le sue idee libertarie e perché ebbe in Nietzsche un suo grande lettore e estimatore.

In anni più recenti s’interessarono al linguaggio del corpo l’antropologo Ray Louis Birdwhistell (1918-1994).

Negli anni ’50 del secolo scorso inventò la cinesica, una scienza che studia gli aspetti comunicativi appresi o eseguiti attraverso i movimenti del corpo.

Birdwhistell, rifacendosi alla linguistica descrittiva, sosteneva che tutti i movimenti del corpo hanno un senso (non essendo casuali), e che la grammatica di questo paralinguaggio si può analizzare analogamente al linguaggio verbale. Egli chiamò cinèma l’unità minima analoga al fonema in linguistica.

Ricordiamo poi Margaret Mead e soprattutto Gregory Bateson che portarono a termine molte ricerche sul linguaggio del corpo, con l’esame di filmati che permettevano di cogliere aspetti poco evidenti dell’interazione sociale a livello non verbale.

 

Infine, un’osservazione importante, la lingua dei segni, utilizzata dai sordi o dai sorastri è una trascrizione della lingua parlata, dunque non è un modo di comunicazione non verbale, ma è un codice.

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