PAGES

Una storia sociale delle salse – Parte IV

Una storia sociale delle salse (2013) – Parte IV

Una storia (II) Nella cucina romana erano molto popolari i brodetti o “corboglioni” di pesce come il tarantinum, l’apicianum e il martianum, si collocavano accanto agli intingoli per gli animali da piuma quale la salsa per condire la carne di struzzo a base di erbe aromatiche e liquamine, cioè strutto fuso, addensata con l’amido.  Un posto a parte avevano le salse a base di vino in cui erano messe a macerare bacche di mirto, di ginepro e di mortella, degne di pavoni e fagiani.  Ne parla anche Lucio Giunio Moderato Columella, agronomo ed autore di un De re Rustica in dodici volumi.  Un’altra salsa buona per le carni bianche era a base di avellane, le nocciole di Avella, tritate e mescolate con miele, vino, melissa e nipitella.

Due preparazioni particolari erano la salsa verde, profumata con lo spigonardo (lavanda), e la salsa bianca, specifica per l’oca allessata.  La prima aveva come ingrediente principale i pinoli tostati, la seconda le mandorle pestate, c’è chi scorge in questa preparazione un preludio di ciò che sarà il “biancomangiare” nel Trecento.  Una salsa forte era invece destinata agli uccelli di palude, come le folaghe, per scacciare il persistente odore di putrido delle loro carni, per questo sempre lessate in un fondo d’aceto.  Si componeva di aneto, menta, radice di laser, strutto, senape, olio di Liburnia e sapa(°).  In un certo senso tutte queste preparazioni sono confluite nella ravigote francese, una salsa leggermente acida che si può preparare sia a caldo, partendo da una vellutata, che a freddo.  Quanto al pollame era reso gustoso da salse brusche a base di aceto di Lesbo o salse bianche a base di panna liquida, uovo e aromi.  Un ricetta popolare era quella del pollo frontoniano, da Frontone, un ghiottone vissuto sotto l’imperatore Severo, a base di salsa verde con l’aggiunta di aneto, porri, peverella e coriandolo.

Anche per il maiale e il cinghiale esistevano salse ad hoc.  Erano per lo più a base di bacche di lauro pestate come nel “porco laureato” o da vino e garum che compongono l’enogaro.  Sosteneva Lucio Anneo Seneca che questi intingoli avevano più lo scopo di “irritare” che di soddisfare la fame.  Ma non tutti erano d’accordo, il gaudente imperatore, siriano di origine, Eliogabalo, amava istituire premi per chi avesse trovato la ricetta di un nuovo intingolo e lui stesso si era cimentato in questa gara con una salsa ginestrata o ginestrina, di colore giallino a base di mostarda e zafferano.  Vivrà negli epulari italiani fino al quattordicesimo secolo.

 

(°) –  Il Silphium si ritiene fosse un’Ombrellifera o un’Apiacea, originaria della Cirenaica.  Cresceva, ad ascoltare Teofrasto, in modo spontaneo negli aridi ed incolti terreni del plateau costiero di questa regione.  I botanici sostengono che l’unica pianta oggi esistente che le assomigli nell’aspetto è la Ferula communis.  I Romani la chiamavano Laserpitium e Laser o Lacrima cyrenaica fu chiamato il succo resinoso che si estraeva dalle radici e dal fusto. Questo succo era poi impastato con farina per essere conservato e venduto.  Rappresentava una delle ricchezze di questo angolo del Mediterraneo che la scambiava con i metalli preziosi.  Plinio ne parla come di un dono della natura, ma già a partire dal quinto secolo dell’era comune se ne perdono le tracce, forse a causa del suo intenso sfruttamento.  Resta il fatto che ogni tentativo di ritrovare questa varietà botanica, anche in epoca recente, non ha dato risultati.  La forma del frutto, infatti, è l’elemento principale che consente di distinguere le diverse specie di Ombrellifere e nessuna delle piante che conosciamo possiede un frutto dall’aspetto simile a quello che aveva il silphium che sulle monete dov’è rappresentato appare chiaramente cordiforme, cioè di una forma molto simile a quella di un cuore.  A questa Ombrellifera le si attribuiscono molte virtù salutari, dalla cura dei disturbi femminili alla risoluzione degli ascessi, alla guarigione dal morso dei serpenti.  Durante il fascismo ebbe il triste onore di diventare il simbolo araldico dei carristi della Cirenaica.

A Roma le salse a base di laser facevano concorrenza al garum, lo si usava nella minestra di castagne, per condire le zucche, nel sugo per l’orzo e la spelta, nella ricetta del pollo Numidico e per farcire le lepri.  Coloro che non potevano permettersi il costo salato dell’originale silphium cirenaico, utilizzavano il silphium cosiddetto “asiatico”, una varietà che cresceva nell’area della mezzaluna fertile.  Corrisponde probabilmente alla Ferula asa foetida, da cui si estrae l’asafetida, una sorta di droga detta anche stercum diaboli, ma dal gusto più amaro e dall’odore più pungente. 

Quanto alla sapa a cominciare dal sedicesimo secolo divenne molto popolare nelle comunità ebraiche italiane come salsa per condire pesci e oche.  Lo dimostra tra le altre cose il notevole commercio di mosto da cuocere con esse soprattutto nelle regioni venete dove si diceva che gli ebrei pregavano in jiddish, ma mangiavano in italiano. 

 

Le salse dovrebbero educare l’odorato, lo sostenevano gli Abderiti di Tracia, forse è per questo che un amante del merluzzo sottosale com’era Kant ha scritto un libro così insulso come l’Antropologia pragmatica (1798) (°).  A differenza degli animali e dei ghiottoni questo filosofo non aveva capito che l’odorato è uno dei varchi attraverso il quale si percepisce il senso del mondo a dispetto dell’idealismo, rappresenta un modo spavaldo di “penetrare” nel reale e di farsi “trapassare”.  Possiamo anche aggiungere che è proprio la rozzezza pagana delle salse e il pungente dei loro fumi che spingeva i greci a circondare i banchetti di ghirlande di fiori dalle fragranze più diverse e a bruciare resine profumate nei bracieri (°°).  Per ingannare!

 

(°) – I portoghesi, meno filosofi e più pratici, hanno composto per il bacalhau una salsa per ogni giorno dell’anno.

(°°) – Poi, nell’impudica Belle Époque, venne l’odio per le fragranze e il conseguente amore per i cimiteriali fiori finti.  Nel 1886 Auguste Escoffier, scultore mancato, pubblicò il loro decalogo, Le traité de travailler les fleurs en cire.  La parola odio appare forte, ma come dimenticare che condivide il suo etimo con odore?

Nella pratica cucinaria i fiori in cera sostituirono, anche se lentamente, quelli di burro e strutto gelato per la facilità con cui potevano essere realizzati.  La loro composizione consisteva in cera vergine sciolta a bagno-maria con un quinto del suo peso di “bianco di balena” e un quinto di trementina.  Possono essere fusi in forme di legno o stampi arrangiati con carote o rape.  La cera poi si colora con colori ad olio quando è ancora liquida.  Un tempo la cera era la materia di un genere artistico con un passato sorprendente, si veda di Julius von Schlosser, nella traduzione francese, Histoire du portrait en cire, 1997.

 

Come il disprezzo degli odori è per molti la spia di un disprezzo del corpo, così gli aromi troppo pronunciati di certe salse sono l’espressione di una disapprovazione della ghiottoneria.  A loro favore l’impossibilità di classificarli nonostante la loro natura materialista ne favorisce la vocazione di chiasmi.  Un esempio per tutti, il profumo dello zafferano è stato per secoli assimilato a quello dell’oro.  I signori indoravano – con quello vero – il becco e le zampe dei pavoni.  I poveri coloravano con lo zafferano le torte di rape, finirà nel risotto dei milanesi quando costoro scoprirono il “riso del sabato”, una ricetta ebraica.

 

Nelle salse si verifica un curioso paradosso, quello per cui l’odorato acquista nel corso della cottura un postulato di certezze superiori alla vista che il ghiottone riassume, dopo aver annusato il piatto, con un sospiro.  Del resto, a differenza della vista che mira invano alla verità, l’odorato sogna la jouissance che compone la sua natura materiale.  Qui vale l’assioma fenomenologico per il quale l’odore fumoso di una salsa è la salsa stessa, a differenza di ciò che capita agli arrosti e al babysh della politica politicata.

 

Una buona salsa non dissolve il suo profumo nell’aria, lo moltiplica in modo che chi la

odora non debba allo stesso tempo pensare.  In quest’ottica è assimilabile alle ghiandole animali, causa prima dell’attrazione sessuale, o all’odore materno che assicura al neonato ricordi gradevoli che persisteranno per tutta la vita.  Del resto l’odore è pedagogico, l’ignoranza che lo denigra asociale.

Gli uomini hanno paura di perdersi negli odori perché temono la solitudine della soggettività, ma soprattutto quella stagione della loro infanzia durante la quale non era il potere economico a fare la differenza, ma il naso.  Di riflesso il pudore appare una sorta di controllo dei processi di costruzione dell’Altro che va di pari passo con la socializzazione dell’odorato.  In questo senso non bisogna mai sottovalutare il nesso etimologico che lega odore e odio o, meglio, che concorre alla costruzione di quei codici che spingono ad associare l’odore a circostanze che possono essere gradevoli o sgradevoli.

 

Tutte le volte che una salsa è prima nella testa e poi nella pentola non si fa altro che legittimare l’imperio della tradizione classica, l’ubbidienza ad una volontà che ha nei suoi modelli ideali il prototipo di cui la salsa è una copia.  La stessa cosa avviene con la democrazia borghese e il sempre eterno ritorno delle sue archetipiche illusioni, che come le piogge, cadono immancabilmente dall’alto.

 

Una storia (III)Sono le Crociate che hanno cominciato a cambiare il gusto della tavola in Europa.  Anche se molte spezie erano conosciute fin dai tempi dei romani, le attività delle “spezierie” si diffusero soprattutto in seguito a queste inqualificabili guerre di religione dal sapore predatorio.  In Italia i primi ad approfittarne furono i veneti, anche grazie ai viaggi orientali di Marco Polo, i pisani e i fiorentini.  Una notizia sul pepe, che si teneva “stricado”in borsette di cuoio, la troviamo nella geniale “Maccaronea” di Merlin Cocaio, che riscattò la letteratura italiana dalle dabbenaggini dell’Orlando Furioso.   A Venezia i Mocenigo erano detti “del pevere” e ci sono numerosi documenti nell’Archivio di Stato che attestano dei loro importanti commerci, soprattutto con la Spagna e il Nord Europa.  La famiglia dei Fugger ad Augusta in Germania, con gli ingenti guadagni del commercio delle spezie intercorso con i veneziani, arrivò fino al punto di mettere in pericolo il monopolio bancario italiano.  I Medici e i Salutati a Firenze che gestivano i prodotti dell’industria tessile e il mercato del denaro liquido, erano grandi commercianti di spezie.

Si può dire che a parte le “agliate” realizzate con i bulbi importati dalla Spagna e dagli orti dei Mauri del Sahara, tutte le salse, dalla “peperata”, alla “cominata”, compresa la “garofolata”, erano a base di droghe coloniali.  Tra queste certamente la più famosa era la camelina o cannellina, composta di cannella, chiodi di garofano(°), gengevaro (zenzero), uva passa.

In Francia si formò, sotto Carlo IV, una corporazione, quella dei salsieri (saulciers) che nel 1514 diede vita ai “vinaigriersmoustardiers”, cioè, ai mostardieri dell’aceto, un liquido acido che già da tempo affascinava gli alchimisti e gli imbroglioni.  In seguito sotto Luigi XII si suddivisero in distillatori di acquavite o di spirito di vino e credenzieri.  Sono anche gli anni in cui le salse, soprattutto la mostarda, venivano vendute agli angoli delle strade delle principali città della mitteleuropa.  Anche se la mostarda è una preparazione tutto sommato romana – come tra l’altro afferma un celebre medico Hermannus Boerhaave (1668-1738) (°°) – sono le città di Digione e di Angers a fabbricare questa salsa come le conosciamo ancora oggi.  A questo proposito fu l’antipapa digionese Clemente VII abile nel meretricio di cose sacre – tanto che non cascò nella trappola dell’autenticità della “sindone” che dichiarò, con una bolla, essere solo il  risultato di una frode ingegnosa – a creare per primo la carica di “mostardiere del Papa” per favorire, si racconta, la sua golosità e gl’affari dei suoi nipoti.  Quanto all’ayolì o all’agliata, considerata la teriaca dei poveri, si vendeva insieme alle aggiugate o alla “bottarigata” di cefalo e di barracuda sciolta nell’olio e spesso adulterata con le uova del barbo che sono tossiche.  Una curiosità, il tartufo che i ghiottoni romani avevano celebrato nella cucina medioevale scompare dalle tavole.  Bisognerà aspettare il Rinascimento per vederlo di nuovo trionfare.

 

(°) – Le cronache raccontano che i chiodi di garofano furono importati in Italia da un viaggiatore senese, Nicolò dei Salimbeni che Dante Alighieri ricorda in un passo dell’Inferno.  Secondo Dante “discoperse” il costoso vizio dei chiodi di garofano, allora costosissimi, e lo “appiccò nell’orto”, una metafora per indicare la città di Siena, “Nicolò che la costuma ricca del garofano primo discoperse…”, Canto XXIX.  Va anche detto che per alcuni storici non si tratta di Nicolò Salimbeni, ma di un Buonsignore.  Questa spezia è citata per la prima volta come condimento domestico nel sesto secolo in Apici Excerpta di Vinidarius.  La prima ricetta che ne parla, invece, è contenuta nell’Epistola de observatione ciborum di Anthimus, un testo dietetico del quinto, sesto secolo.  Al tempo dell’Alighieri un piatto che abbondava di chiodi di garofano era il manzo pastizzà dei veneti, una sorta di stufato speziato.

(°°) – Nella storia della medicina questo medico è ricordato per aver identificato il cremore di tartaro nel mosto d’uva, l’espressione di tartaro deriva dall’arabo e significa deposito del vino, ma soprattutto lo si celebra come il fondatore dell’insegnamento clinico del moderno ospedale.

 

In Europa le salse negli anni a cavallo tra la cacciata degli ebrei dall’Andalusia e l’assoggettamento degli indigeni americani sono un fenomeno convulso e cangiante come gli uteri transmotio di cui parla Ippocrate.  In esse non c’era il divenire ideale delle utopie, ma la franca arroganza dell’appetito senza denti, c’era la voracità dei signori e l’imbarazzo dei chierici.  Erano schiave di un’economia della rarità resa meschina dal superfluo(°).

 

(°) – In qualche modo il commercio delle spezie ha inaugurato i mercati dell’immateriale forgiando gli strumento della speculazione finanziaria.  Rapportato alla data di questo libro il commercio di pepe e cannella della Serenissima si può stimare in difetto in venti milioni di euro a stagione.  Su di esso, poi, dopo l’esplorazioni di Vasco da Gama, dominerà la corona portoghese.

 

05

Le nostalgie alimentari vanno scrutate nei loro arrière-pensées.
Katharina di Niewerve

Una storia (IV)Le salse come le conosciamo oggi cominciano a diventare ricette nel Rinascimento.  Sono innumerevoli e il loro nome dipendeva o dal sapore dell’ingrediente principale o dal colore.  Nel primo caso, per esempio, abbiamo la “limonia” a base di succo di limone e la “limia” o “lumia” a base di arancia agra o di melangola, nel secondo la camelina che ricorda il manto dei cammelli e il suo ingrediente principale, la cannella.

Popolare era il “cisame de pesse”, una salsa veneziana agrodolce.  Se ne può leggere la ricetta in un antico manoscritto oggi conservato presso la biblioteca dell’Università di Marburg, in Germania: Toy lo pesse e frigello, toy zevolle e tagliale menude, po’ frizelle ben, poy toli aceto et aqua e mandole monde intriegi, et uva passa, e specie forte, e un pocho de miele, e fa bolire ogni cossa insema e meti sopra lo pesse.  Questa salsa era la base delle sarde o sardelle “in saor”.  Un’altra salsa era la “rucata” caratterizzata dalla ruchetta.  Poi, c’era il “sartramone” una salsa al sapore di carni diverse.  La “peverada scleda”, con peperone rosso, mele, aceto e zafferano, buona per la carne di “castron o di capreto”.  La “nocellata” a base di nocciole,  la “saracinesca” alle erbe aromatiche, agresto di uva e visciole, la “finocchiata” con il finocchio selvatico e la “salsa verde”, a base di prezzemolo, zenzero, chiodi di garofano, cannella e aceto, forse la più popolare e riuscita, arrivata fino a noi anche se con una composizione diversa.

Curioso era il “sapor tartaresco” con aglio, mandorle, cinnamomo, zenzero, chiodi di garofano, zucchero e tuorlo d’uovo.  Nelle salse di questa stagione cucinaria una presenza fissa era costituita dall’agresto che si consumava anche da solo, soprattutto con la carne di piccione e con le cosce di rana che il Platina raccomanda di cucinare solo nei mesi estivi.

Due altre salse importanti erano quella a base di aglio e quella di cipolle.  Quest’ultima, in particolare, mescolata con il sangue dell’animale cucinato serviva a preparare la salsa “zeunìa” per pollastre e colombe e la salsa “romanìa” per polli in padella.  Ne parla un anonimo libro di cucina toscano che risale al XIV secolo.  Particolari erano le salse a base di frutta e di fiori, alcune delle quali sopravvivono nelle cucine tedesche ed inglesi.  Sono salse a base di prugne, mele cotogne, more selvatiche, succo di melograno, visciole, ribes nero (cassis), uva spina, fiori di sambuco, camomilla, cumino, coriandolo, sommaco (°).

 

(°) – Sommaco o Sommacco (Rhus coriaria).  Un arbusto a foglie pennate dai fiori giallo-verdastri riuniti in pannocchie e dai frutti di colore rosso-bruno.  I frutti, raccolti prima che giungano a maturazione, essiccati e tritati, danno vita ad una spezia dal sapore acidulo, simile al succo di limone, quasi sconosciuta in Occidente, ma particolarmente usata nella cucina mediorientale.  In Libano e in Siria la impiegano per insaporire il pesce.  In Turchia la mescolano alle insalate.  In Iran serve ad insaporire il kebab.  Ideale con le lenticchie, le farce di carni bianche, le salse alla cipolla e allo yogurt.  Se ne ricava anche un succo immergendo i semi triturati in acqua.  Del sommacco ne parla Plinio nella sua “historia” come di una pianta usata per la concia delle pelli e la preparazione di medicine.  Fu introdotto dagli arabi in Sicilia, una regione nella quale attecchì bene soprattutto nel territorio di Piazza Armerina dove all’inizio dell’Ottocento se ne cominciò la coltivazione intensiva.   Alcune antiche cronache raccontano che gli ebrei la usavano per preparare un pane di carestia, buono per accompagnare le lumache cotte sotto la brace, una cibaria poco kasher, ma capace di riempire lo stomaco.    

 

…riverrun, past Eve and Adam’s, from swerve of shore to bend of bay,

brings us by a commodius vicus of recirculation back to Howth Castle and Environs…

James Joyce

Quando l’appetito era il miglior condimento gli aromi si chiamavano aperitivi, il sapore si costruiva con il sale, le droghe coloniali servivano ad imbalsamare i cibi e a produrre sia sulle papille gustative che sull’“apparecchio stomatico” un eccitamento benefico che facilitava la loro completa “chimicazione”.  Ogni inizio comincia con una fine come nel Finnegans Wake.

 

L’aspetto polisemico delle salse le apre ad una proliferazione di significanti, complessi e strutturati:   “…Ebbene, permettimi di darti una ricetta di cui mi ringrazierai in eterno.  Mescola, trenta grammi di vasellina, cinque grammi di farina di senape, due grammi di pepe di Caienna, tre grammi di acido borico.  Intingi la punta del dito in questo composto e ungiti con movimenti circolari la clitoride e le piccole labbra prima di cominciare a masturbarti.  La reazione non è troppo dolorosa?  No. Per niente. Le dosi sono misurate. …”(°).

 

(°) – Da, Pierre Louÿs, Douze douzains de dialogues on petites scènes amoureuses, Parigi 1927.

 

Alcune preparazioni preliminari o appareil(°):  Fondo bruno di vitello chiarificato, di pollame e di selvaggina.  Brasature preparatorie per la spagnola e la demi-glace.  Fondo bianco di vitello, di pollame e di selvaggina.  Brode e consommé semplici o in marmitta, di manzo, vitello, pollame e selvaggina.  Fumetto di pesce al vino rosso.  Essenze da fondi chiari bruni o bianchi molto ristretti.  Ghiacce di brode di carne condensate a partire da un fondo chiaro o da un fumetto.

Fondo bruno di vitello, di pollame e di selvaggina legati.  Spagnola.  Demi-glaceAméricane per pesci e crostacei.  Coulis di crostacei.  Vellutata di vitello, di pollame, di selvaggina.  Vellutata di pesce.  Besciamella.  Salsa al pomodoro.  Concassée al fondo di pomodoro.  Purea o coulis di pomodori.  Salse al vino bianco senza o con panna.  Salsa al vino rosso.  Olandese.  Maionese. 

VinaigretteRoux bianco.  Roux biondo.  Roux bruno.  Roux cotto per gli allestimenti.  Burro maneggiato.  Mirepoix di magro, grassa, alla bordolese.  MatignonSalpiconDuxelle secca, bonne femme per le farce e per le guarnizioni.  Farcia per pâté di vitello, maiale, pollame, selvaggina, fegati, per gratin di paste calde.  Farcia di maiale per salsicce.  Farcia da desserte magra e grassa.  Farcia per duxelle, inglese, Maître d’Hôtel, rouennaise.  Farcia per pesci brasati.  Farcia à gratin per crostoni.  Farcia mousseline grassa e magra.  Panata di pane, di farina, frangipane, di riso, di patate.  Godiveau di vitello, alla lionnese.  Marinata cruda, cotta.  Bianco per cuocere i legumi, le frattaglie.  Courtbouillon al latte, all’acqua, à la nage, al vino rosso, all’aceto.  Salamoia al sale, liquida.  Gelatina semplice, di pollame, di selvaggina, al vino bianco, al vino rosso.  Burri.  Da quello all’aglio alla vinaigrette di burro, sono almeno sei dozzine.  Infine le salse lavorate.

L’impoverimento lessicale in cucina va di pari passo con la sua trasformazione in industria.

 

(°) – In cucina si chiama appareil una preparazione normalizzata e codificata di ingredienti diversi che viene usata in concorso con altri prodotti per realizzare la ricetta.

***

Leggi le altre parti
Una storia sociale delle salse – Parte I
Una storia sociale delle salse – Parte II
Una storia sociale delle salse – Parte III
Una storia sociale delle salse – Parte IV
Una storia sociale delle salse – Parte V
Una storia sociale delle salse – Parte VI
Una storia sociale delle salse – Parte VII
Una storia sociale delle salse – Parte VIII
Una storia sociale delle salse – Parte IX

Una storia sociale delle salse – Parte III

Una storia sociale delle salse (2013) – Parte III

04

 

I roux sono i propilei del tempio delle salse.
Anonimo.

Una storia, preambolo.  In, Le Cuisinier Parisien, ou L’art de la cuisine Française au XIXe siècle – Traité élémentaire et pratique des entrées froid, des socles et de l’entremets de sucre, suive d’observations utiles aux progès de ces deux parties de la cuisine moderne (1828), Antonin Carême scrive: Le salse del repertorio francese sono considerate le migliori che si possano fare…nessuna salsa straniera è comparabile a quelle della nostra grande cucina moderna…”  “Alla nostra spagnola e alla nostra alemanna aggiungerei la salsa suprema, la salsa al dragoncello, la salsa ravigote, la salsa verde (vert-pré), la salsa besciamella, la salsa finanziera, la salsa Périgueux, la salsa tortue, la salsa matelote, la salsa al vino di Champagne, la salsa à la régence, la salsa alla bourguignotte (sic), la salsa esturgeon, la salsa peverata, la salsa chevreuil, la salsa agro-dolce, la salsa piccante, la salsa salmis, la salsa al pomodoro, la salsa alla lepre legata al sangue, la salsa parigina, la salsa Robert, la salsa al rafano, la salsa magnonaise (sic), la salsa provenzale, la salsa al burro di gamberetti(°), la salsa all’astice, la salsa ai gamberi, la salsa alle ostriche, la salsa al burro di alici, la salsa alla panna, la salsa à la pluche (a base di prezzemolo o cerfoglio), la salsa al burro detta bastarda, la salsa ai capperi.”  E conclude:“Noi abbiamo francesizzato la salsa italiana, la salsa veneziana, la salsa olandese, la salsa russa, la salsa polacca, la salsa portoghese e la salsa milanese…”.

Questo era di fatto il catalogo delle salse francesi all’inizio del diciannovesimo secolo, mentre alla fine del ventesimo secolo tra salse brune, bianche, emulsionate, calde o fredde si arrivava a circa un centinaio.  Centocinquanta anni dopo in La cuisine du marche (1976) Paul Bocuse scrive:”La raffinata diversità delle salse è l’appannaggio della cucina francese…Divido le salse in tre grandi categorie, le bianche, le brune, le emulsionate.  Le salse bianche e brune sono costituite da un’associazione di roux bianchi, biondi o bruni con latte o sughi o fondi preparati ad hoc, le salse emulsionate da un’associazione di tuorli d’uovo con olio o burro o panna”.

La salsa bianca, besciamella o vellutata e la salsa bruna detta spagnola, sono salse madri dalle quali è derivata una miriade di altre salse.  Della famiglia delle salse emulsionate è madre la maionese.

La besciamella si prepara con roux bianco e latte, la vellutata con roux biondo e sugo o fondo bianco, la spagnola con roux bruno e sugo o fondo bruno.

In breve, l’opera cucinaria di Antonin Carême appare in prospettiva come il gesto resoluto di quei capitani che incendiavano i loro vascelli sulla spiaggia per prevenire ogni debolezza e ogni tentazione di ritorno dell’equipaggio.

 

(°) – Per essere perfetta, dicevano i libertini del XVIII secolo, la sua bianchezza burrosa deve assumere una sfumatura di rosa, come di un lieve smarrimento virginale.

 

Il genere salsa è uno dei temi condivisi dai localismi alimentari europei.  Il modo di cucinarle disegna il paradigma delle differenze, queste sono spesso inessenziali sotto l’aspetto gustativo, ma fondamentali per la loro identificazione sul territorio dov’è la denominazione a fare senso.  Come tema condiviso rinvia a delle affinità, ma non a un’identità, anche sull’asse del divenire.  Da salsa madre a figlia non c’è incesto, solo un’evoluzione di sintomi.

In termini funzionali la salsa è una sovrastruttura, come sovrastruttura cambia con il vento delle mode e della storia e può essere definita a partire dalla struttura che la determina, in questo caso il valore della forma di gusto.

 

Le salse domestiche sono state e lo saranno ancora per molto le grandi alleate dei resti e degli avanzi.  Un’alchimia di precetti pratici che il bibliofilo Olindo Guerrini(°) volle associare alla lesina – che rigenera trasformando – con un solo obiettivo: “ricucinare” l’odioso allesso esausto dopo che ha sudato il brodo.  Un alleanza benedetta dall’estratto di Justus von Liebig, poderoso factotum del sapore che ha ingannato folle di affamati attratti dal glutammato – oggi promosso a radice del saporito – come mosche dagli escrementi, anche se quest’ultimi sono meno pericolosi.  Qui le salse come espressione del saper fare sono la differenza, un rimedio al disgusto che gli avanzi provocano o, meglio, una pia rappresentazione sulla quale sventola la bandiera nera del tessuto gommato, coperchio delle casse zincate con le quali per anni si sono trasportati i resti da restaurare.  Dentro questa rappresentazione in forma di ideologia l’odore dei grassi animali, la risciacquatura dei piatti, le lische e gli ossi rimescolati, le indigeste preparazioni all’uovo e burri irranciditi diventano piatti degni della miglior cucina.  Nutrono le illusioni e favoriscono l’acquiescenza.  Una scena sulla quale le salse diventano l’hybris della fame, l’araba fenice, lo specchio sociale che fece di un bibliotecario la caricatura di un gourmet.

 

(° ) – Cfr., L’arte di utilizzare gli avanzi della mensa, Roma, 1918.  Questo libro ha dato a Guerrini una ben misera fama, preferiamo ricordarlo per il suo saggio su La tavola e la cucina nei secoli XIV e XV, per il suo studio su Giulio Cesare Croce o, al limite, per i suoi turpiloqui e le sue storielle cochon.  A sua difesa c’è da dire che quelli erano anni in cui tra cuochi re, sapienti, ed economi un’Italia disorientata chiudeva una stagione in cui la sua tradizione cucinaria era stata basita dalla sua pubblicistica, dirà il Guerrini, cannibalesca.

 

Le salse legate per mezzo della farina hanno concluso la loro avventura con l’apparizione della “nuova cucina”(°).  A partire dalla metà del 1970 si sono rifugiate tra i piatti della tradizione, alla periferia dei domini culinari, testimoni improbabili di un’autenticità che mescola i cattivi ricordi del passato con la succulenza degli affari di territorio improntati ad una micidiale forma d’ideologia: la nostalgia, il più infido degli artefatti in assenza di una cultura(°°).

Il loro potere un tempo fu onnipresente, soprattutto nei piatti dei privilegiati e dei ghiottoni, ne ungevano il cibo facilitando l’ingordigia, non importa se erano di pesce, pollami o carni rosse.  Dovevano tutto ricoprire e, coprendo tutto, entro la cornice del piatto, tutto dissimulare(°°°).  In questo modo le salse acquisivano un tratto materno, si facevano identità ed una volta raccolte fino all’ultima goccia dal pezzetto di pane dell’affamato, diventavano memoria, ricordo.  Struggente esperienza delle cose che passano(°°°°).

 

(°) – Davanti alle geometriche costruzioni astratte della sedicente “cucina creativa” la volontà di potenza delle salse perlomeno non è architettonica.

(°°) – Cfr., G.E. Simonetti, Fuoco amico, Roma 2010. 

(°°°) – Non è singolare che questa “rappresentazione” della salsa sia contemporanea all’invenzione del paesaggio, cioè di una particolare creazione e interpretazione delle forme naturali?  Come i paesaggi sono una descrizione della natura fatta tra uomini, le salse sono una descrizione del gusto.        

(°°°°) – Un’antica tradizione fa derivare il panis latino dal greco pan, che significa tutto.  Questa fantasia etimologica mostra il ruolo del pane come alimento più che di complemento, forse è per questo che in francese l’espressione di miche (pagnotta) viene dal latino mica, che vuol dire frammento.  Da qui la mie, briciola e la lombarda michetta.    

 

Le salse, di per sé, sono qualificanti come lo spirito nazionale o il colore della politica.  Come le ideologie, in prospettiva rappresentano una visione del mondo: quella dominante dei populismi.  Nel piatto inducono al consenso come tutti i legami ordinati dalla socialità, lo inducono nel modo peggiore per lo stomaco e migliore per lo spirito, consolando.       

In breve, la nouvelle cuisine ci ha abituato a salse svestite dalla farina come le odalische potelées di François Boucher. 

 

Nostalgie parigine.  La moralizzazione dei luoghi corre parallela al mutarsi in sciacquatura delle salse. Basta una sera nel Marais per verificarlo, un quartiere che era scampato al piccone del barone Haussmann.  I plats canailles non sopravvivono all’igiene dei moralisti se non sui fornelli di qualche conciergerie di Belleville.  Alcuni lo dicono con un sospiro, la cuisine des abats ha fatto il suo tempo insieme alla buona salsa Robert in cui affogavano i maiali guasconi!

 

Le neo-salse, come le neo-lingue, imperano un po’ dappertutto.  La loro simbologia varia con il variare dell’immaginario legato al corpo.  Per essere “in forma” le salse devono oggi essere leggere a dispetto della loro antica reputazione ottocentesca e del loro acre carattere feudale.  Con esse avanza il tema della trasparenza, della loro glasnost, così cara ai regimi delle democrazie borghesi e facile da realizzare in cucina, basta togliere la farina, la polvere del tempo depositata dai nomi obsoleti, la burocrazia delle procedure.  Poi al momento del servizio si mettono da parte nel piatto, in un apposito contenitore – il più delle volte simile al vasetto da notte di Barbie – o si spruzzano direttamente sul cibo.  Naturalmente la sostanza alimentare che vanno a “decorare” dovrà essere irriconoscibile ed estetizzata dai tagli o “formata” con stampi o filiere simili a quelli dei giochi di spiaggia dei bambini.  In questo la cucina orientale, che è stata costretta a fare della penuria di combustibili una virtù, ha rappresentato un significativo esempio esaltando il processo di confezione e sovente la crudità che eccita l’appetito gesuitico dei nuovi chierici.

 

Le salse nobili non hanno mai avuto fortuna nei reality show cucinari che dominano i programmi televisivi, da tempo sono state sostituite dalle neo-salse, che l’estetizzazione riduce a cumshot, anche se non ci sono più principesse che, di fronte ad una particolarmente gustosa, esclamino leccandosi le labbra: Quel dommage que ce ne soit pas un péche!

 

L’antica salsa spagnola esprimeva l’oscena untuosità cerimoniale di corte di Luigi XIV, le nuove salse sono capitoli di strategie di mercato all’assalto del piatto unico, cioè, del tutto.  Così le giovani generazioni sono regredite alle formule suggerite loro dal marketing, niente paradigmi per una socialità che imbarazza, meglio la salsa in bottiglia o in tubetto, poco importa se colorate dal rosso di pomodori anemici o legate dalle “uova” in taniche da trecento tuorli.  Del resto oggi la salsa è segno senza storia, sostanza o politica, con essa si digeriscono tutti i simulacri della società dello spettacolo e i suoi riti conviviali(°).

 

(°) – Scriveva Gustavo Strafforello (1818-1903), letterato e patriota, come recita la targa sulla sua casa natale a Porto Maurizio: “La salsa (spagnola) ha quel ricco colore di terra d’ombra che Murillo imitò così bene e non meraviglia, dacchè egli estraeva il suo color bruno speciale dalle ossa cotte dell’olla.  Questo colore bruno (negro de huesso) è la livrea della Spagna abbronzata, dove tutto è bruno, dalla Sierra Morena alle Asturie.  Codesta salsa ha non solo lo stesso colore, ma anche lo stesso sapore in ogni dove, quindi la difficoltà di indovinare i materiali ond’è composto ogni piatto, se lepre o gatto, vitello o vacca, bue o asino”.

Va da sé, l’origine spagnola della salsa spagnola nasce da un abbaglio di Brillat-Savarin e non ha nessun fondamento.

 

Se s’insiste nel vedere ancora qualche legame tra sapere e sapore la “spagnola” rappresenta, grazie all’epistemologia di Gaston Bachelard, una delle prime avventure nella tradizione della nascente modernità che nella storia materiale aveva esordito con la scoperta delle Americhe e non si è ancora cicatrizzata(°).

 

(°) – A livello della piccola storia, il Cinquecento è stato il secolo del Rinascimento italiano e delle paste alimentari, il Seicento il secolo francese del Barocco e dei condimenti, analogie.

 

Come le ideologie non devono più mascherare la cultura d’impresa, così le salse non devono più mascherare la sostanza alimentare, piuttosto assecondarla, esaltando la dubbia freschezza della forma di capitale e di mercato.  Il ritorno degli individualismi, del resto, lacera le forme della sociabilità e di riflesso banalizza il destino festivo delle salse, delle quali rimane – in astratto – l’emozione ostentativa.  Di esse oramai è svaporata la consistenza lipidica e la pesantezza domenicale che favoriva gli abbiocchi.

 

Solo la ristorazione delle periferie urbane conosce ancora la salsa come identità, come veicolo conviviale, come esorcismo per la fame.  I mangioni, vale a dire gli antichi proletari, sanno che le salse come le tessere di partito fanno parte dei rituali della socialità, contengono i capitoli della loro revanche sociale, illuminano la domesticità festiva e i suoi riti conditi da intingoli sapidi e ubriachi, da civet, da meraviglie stufate con gli aromi dell’orto.  Salse che cominciano con il dito del cuoco nella casseruola e finiscono con un pezzo di pane strofinato sul piatto restituito al suo candore.

 

Il naturalismo alimentare è soltanto un miraggio
gastronomico.  Torbiere e vulcani, che altro ci vuole per
alimentare il focolare della civiltà?
Anonimo.

Una storia (I)Il primo ingrediente delle salse è stato il sale, ci aiuta a provocare la diastasi salivare e la produzione di saliva.  È un bisogno che l’uomo condivide con molti animali, specialmente gli erbivori che quando possono leccano le rocce coperte da sali nitrosi.  Nella capitale morale della fantomatica Padania un tempo si mangiava la minestra dè peruc, o minestra camuna, a base di spinaci selvatici (chenopodium bonus henricus).  Si raccoglievano vicino alle baite dove il terreno è più ricco proprio di sali nitrosi grazie all’attività metabolica dell’uomo e delle sue deiezioni.  Per completarla bastavano un paio di patate, aglio, olio e scandella o orzetto.  A parte questo, il pulviscolo di sale marino e acqua che ricopre la Maremma o le coste della Bretagna e della Normandia rende più appetitose le carni dei montoni e degli agnelli.

Come predicava la “Scuola di Salerno” gli olii volatili contenuti nell’asperula, nel timo, nell’aneto, nella ruta, nella menta, nel rosmarino e nella salvia, per citare alcune piante aromatiche popolari, esercitano un’azione antisettica sul tubo digerente: Cur homo moriatur si habet salvia in horto?

Salamoie, salmistrature, marinature con aceti, agliacei, antiputridi (tali sono il basilico, la maggiorana, il dragoncello, il comino, il coriandolo, l’anice, il finocchio), aromi, droghe e resine contribuirono nel corso dei secoli a gettare le basi delle salse.  I romani oltre al garum(°) usavano per le loro salse olii composti, come quello di Lesbo, di Liburnia, i mosti d’uva o sapa (sape, in dialetto) mescolati a semi piccanti come il rafano o la senapis indica, da cui derivò la mostarda, alla lettera mustum ardente, mosto di fuoco.

Come è facile constatare la radice di salis la ritroviamo, oltre che nelle salse, nella salgama o salmixtra, cioè, nella salamoia, che diventa in francese salemine saupiquet, una specie di salsa alla diavola di cui è possibile trovare delle tracce nella Condmnation de Banquet del 1507, una “moralità”(°°) di Nicole de La Chesnaye.  Dalla salmixtra deriva anche la salmigondis che il dizionario francese definisce un miscuglio eterogeneo e confuso di oggetti, di persone o d’idee, cioè un ragoût con delle cose che galleggiano, ma che in origine indicava il salis mixtum et conditus, una salsa per le carni di selvaggina frollate.

L’eleganza del “tanto per tanto” del roux è francese, ma già a Roma si combinavano delle salse con l’aggiunta di farine abbrustolite o fritte nei jus (fondi) di carne completate da muria o moria – acqua  mescolata a sale marino –  alex – il residuo solido del liquamen – garum estratto dalle interiora degli sgombri o degli zerri, aceto, olio, mosto, vino.  Tutte varianti per ottenere l’idrogarum, l’oleogarum, l’oxigarum, l’enogarum.  Altra materia base per le salse era il sangue degli animali da pelo.  Famoso era il minutal leporinum, che potremmo definire una sorta di civet di lepre a cui si aggiungeva il fegato arrostito e pestato al mortaio con degli aromi.

Anthelme Brillat-Savarin amava ripetere che era un destino dei pasticceri finire “guastasalse” considerati i tentativi di fare delle buone salse nel corso dei secoli, più simili ad intrugli spesso mescolati con asafetida e benzoino insieme ad aromi costosi o a droghe rare ed insulse.  In Celio Apicio troviamo citate altre due preparazioni interessanti, l’hypotrimma, a base di mosto, miele, aceto, olio, formaggio o cacio vestinate, uva passa, pepe ed erbe aromatiche e la moretaria detta anche piccatiglio, formata da menta, ruta, coriandolo, finocchio, pepe, miele, garum ed aceto.  Più che salse, in realtà, per usare un’espressione dialettale, erano delle “conce” che venivano servite con i ghiri, gli scoiattoli e i porcospini, oppure, con gli uccelli di palude.  In rare occasioni si adoperavano anche per accompagnare i tartufi.           

Una nota sul garum e l’Oriente.  Il nuoc-mam, il liquore-condimento dei vietnamiti, è ambrato e dal profumo insolito.  Proviene dalla fermentazione in grandi vasche esposte al sole di pesci che sono stati immersi in una marinata variamente dosata.  In questo modo si produce una gamma abbastanza vasta di condimenti ricchi di elementi minerali e vitamine.  Quando si è cominciato ad apprezzare e produrre il nuoc-mam nel sud asiatico non è certo, di contro sappiamo che nel bacino del Mediterraneo all’inizio della cosiddetta era cristiana si utilizzavano condimenti simili di cui troviamo ancora le tracce nei testi di cucina del quindicesimo e sedicesimo secolo.

Nel Thesaurus della lingua greca il garum è descritto come un liquido vischioso composto di resti di pesce bagnato con una marinata e lasciato macerare.  Si produceva partendo da un piccolo pesce il garon.  In questo modo il garum si presentava come una sorta di pasta ed esso – come i suoi derivati – era detto anche muria, allex o allec.  Curiosamente le ricette di questo condimento sono le più diverse.  Plinio scrive che lo si prepara a partire dall’intestino dei pesci, Isidoro con gli storioni, Strabone con i merluzzi, altri autori parlano di tonni.  C’è addirittura chi come Dioscoride, medico e botanico contemporaneo di Nerone, sostiene che lo si prepara a partire dalla carne di animali.

La tesi a favore degli scombridi è suffragata dal modo in cui si pescavano, cioè con una rete a maglie più o meno larghe.  Quando un banco era segnalato dagli avvistatori appollaiati sulle torri alzate sulla battigia si gettavano le reti dalle barche e si stringevano i pesci in un’unica grande sacca.  È la pesca con la tonnara con la quale si arriva a catturare pesci di più di un quintale di peso, detta madrague in Francia, armaçao in Portogallo e almadraba in Spagna.

Per molti versi il garum è stato un prodotto sia artigianale che “industriale”.  Quest’ultimo aveva le sue fabbriche vicino a quelle del murex e lontano dai centri urbani per via dei miasmi prodotti.  Oltre alla produzione mediterranea nell’alto Medio Evo notevole era quella bretone di Croisic.

I pesci grandi e piccoli, sventrati e tagliati a pezzi per favorire il contatto con il sale, erano raccolti in vasche che arrivavano fino a venti metri cubi di capienza, lì restavano in salamoia per almeno tre settimane.  Il liquido che se ne ricavava era successivamente impiegato nella produzione industriale del garum con la macerazione in esso di piccoli pesci e crostacei in vasche più piccole o in marmitte dove si accelerava la confezione scaldandole su dei fuochi o in stanze riscaldate dall’aria calda fino ad ottenere una pasta semiliquida.

Diversa era la fabbricazione artigianale.  Il pesce era esposto al sole in recipienti di varia misura e rigirato di tanto in tanto finché non si era completamente decomposto, il che avveniva nel giro di un paio di mesi.  A questo punto il liquido fermentato era passato al setaccio e venduto come garum.  Il residuo ottenuto, invece, era l’allex.  A questa preparazione di base si contrapponevano ricette più raffinate.  Sembra impossibile, ma il gusto del garum cambiava con il tipo di pesce usato e ignoriamo completamente il gusto e la consistenza di quelli che impiegavano le uova o il sangue.

In ogni modo aveva un impiego in base al suo sapore, dalle ostriche alle aragoste, ai gamberetti.

Il garum sociorum o degli “alleati” era preparato con il merluzzo a cura di un associazione militare e veniva venduto come garum nero.  Plinio parla anche di un garum kosher che si preparava solo con pesci a squame e conservato in orci sui quali era scritto, “garcast” – garum castimoniale.  Un editto di Diocleziano arrivò a stabilire due qualità di garum, primum e secundum.  Un congio – dal latino congius, piccolo vaso – del migliore poteva costare anche cinquecento denari.  Gli orci che lo contenevano erano accuratamente marcati ed etichettati, molto richiesto era il flos garum cruoris, rosso sangue.

Un garum di prestigio veniva preparato con le ostriche, lo si deduce dai giacimenti di gusci che ancora si trovano sulle coste atlantiche, si estendevano per centinaia di metri, alti fino a dieci metri.  Gli antropologi non hanno un’altra spiegazione plausibile per questi cumuli giganteschi fino a mezzo milione di metri cubi.  C’è in proposito anche una testimonianza di Plinio il Vecchio.  In ogni modo in epoca romana le marinate della Dalmazia valevano quelle della Provenza e una notorietà straordinaria era riservata alla muria di Antibes, preparata con il sangue di tonno.  I pezzi di pesce delle marinate venivano venduti in anfore sigillate, ciò ha permesso, con i reperti rinvenuti, di studiare il loro contenuto, in genere residui di tonno e salamoia.  Anche il garum, liquido o semiliquido, era trasportato in recipienti di terracotta e la piccola dimensione di essi testimonia l’alto prezzo a cui erano venduti.  Si produceva il garum in famiglia?  In base ai resti delle cucine possiamo dire che non era una pratica diffusa.  In ogni modo la muria serviva a condire carni, pesci e formaggi e, curiosamente, prepararla entrava nelle mansioni delle Vestali.  L’allex di pesci comuni era invece destinato ai più poveri e agli schiavi, che lo usavano come pulmentarium , cioè come condimento.  Un commercio di garum nel Mediterraneo intorno al quinto secolo prima dell’era comune fu organizzato dai Fenici, pressappoco negli stessi anni in alcune commedie greche si parla di salamoia di storione, Plinio il Vecchio vanta quello di Provenza e Ausonio canta i meriti di quello di Spagna.  Apicio parla del garum come di un condimento con il quale si può rimpiazzare il sale e si possono combattere i cattivi odori, un rimedio a tutto, nel vino rafforza gli aromi, nell’aceto (oxygarum) combatte la cattiva digestione.  Con le invasioni cosiddette barbariche la produzione di garum diminuisce, ma non sparisce, concentrandosi soprattutto nei conventi e nei monasteri.  È citato nella regola di S. Pacomio, l’inventore della vita monastica, e di Gregorio di Tours, devoto di San Martino, che lo definisce come un ingrediente importante nella cucina di Marsiglia.  Una citazione di questo condimento la troviamo anche in un capitolato, che possiamo far risalire ai monaci di San Benedetto, intorno all’ottavo secolo.  In ogni modo nel dodicesimo secolo il suo uso si era rarefatto a condimento per le ostriche e dobbiamo aspettare il Cinquecento per vederlo ricomparire in Rabelais come garon e compromesso con le insalate composte d’herbes vénériques(°°°).

In breve, tra il dodicesimo secolo e il quattordicesimo smette di essere un protagonista della cucina europea e prende la via dell’Estremo Oriente.  Delle due forme con cui si produceva – come pasta o “caviale dei romani” e come liquore condimento – è quest’ultimo che si muterà in nuoc-mam

 

(°) – Cfr. G.E. Simonetti, La vivandiera di Montélimar, Roma, 2004, pp. 127-8.  Tra questo modello di salse va compreso anche il murri o almori, come veniva chiamata in Andalusia questo condimento a base di orzo fermentato della cucina araba.  

(°°) – Le moralità come le farse, le sottie, le parodie, i monologhi sono una forma letteraria molto popolari tra il tredicesimo e il quindicesimo secolo, soprattutto in Francia. 

(°°°) – A cercare azzardate analogie la bagna calda, in cui si stemperano nell’olio bollente delle acciughe salate con dell’aglio è tutto ciò che resta di questa salsa che il Buzzi traduce con salsa d’Apicio: “Tempo fa un amico mi ha mostrato una boccetta di Nuoc-Mam, una salsa usatissima nel Viet Nam, e quando mi ha detto che essa è fatta di sale, spezie, erbe e pesci lasciati macerare al sole ho capito che il Nuoc-Mam altro non è che la misteriosa salsa d’Apicio”.  Cfr., L’uovo alla Kok, Milano, 1979.  una curiosità.  Le cosiddette invasioni barbariche non distrussero solo la cucina di Roma, ma anche l’abitudine di commensare straiati sul triclinio.   

 

Le ricette per le salse non sopravvivono mai alla pretesa razionalità delle istruzioni, alla cristallizzazione delle procedure, alle immagini fisse dei regimi e, così facendo, falliscono com’è destino dei riformismi senza riformatori onesti, ma questo è un ossimoro, nella pratica invece è una condizione impossibile tanto che le teorie riformiste hanno sempre raccolto la simpatia degli autoritarismi per il loro presentarsi imbelli.

 

La piccola storia ci dice che Immanuel Kant metteva la mostarda dappertutto, un modo di scotomizzare la differenza e le novità, lo infastidivano.  Soffriva di stomaco, aveva digestioni disordinate e continue costipazioni.  Fatto significativo per chi con convinzione fissava la sede delle affezioni mentali negli organi digestivi o legati alla digestione.

Nel frattempo, tra un Settecento libertino e un Ottocento licenzioso, l’impudicizia scopre i bolliti e le sue salse, il sogno carneo dei diseredati, lo sciogliersi in gelatina della cartilagine, lo stesso orifizio per il sesso e il cibo: la bocca.  Scrive Claude Prosper Jolyot de Crébillon, più conosciuto come Crébillon fils, in Les Égarements du coeur et le l’esprit: “L’idée du plaisir fut, à mon entrée dans le monde, la seule qui m’occupe”.  Aveva ricevuto la sua educazione nell’elitario liceo parigino Louis-le-Grand retto dai gesuiti.

 

Anno 1754, Casanova è a Venezia.  In una piccola casa di piacere ha un appuntamento con una delle sue innamorate occasionali, l’enigmatica religiosa M.M., amante ufficiale di François-Joachim De Pierre, cardinale de Bernis e suo amico(°).  Prima di gustare l’ostrica palpitante senza scaglie di M.M. divora per gioco quelle liberate dalle scaglie che questa le offre sulla punta della lingua.  “Quelle sauce que celle d’une huître que je hume de la bouche de l’objet que j’adore!  C’est sa salive.  Il est impossibile que la force de l’amour ne s’augmente quand je l’écrase, quand je l’avale”(°°).  Qui la saliva della propria partner è la salsa assoluta, trasforma l’ostrica in un’ostia dolce e blasfema e realizza la più materialista delle transustanziazioni in nome della più pura delle religioni, quella delle passioni. 

 

 (°) – Figura singolare questa di de Bernis, protetto della Pompadur e vizioso.  Amava dire che nonostante l’aria del paradiso sia da ritenere eccezionale, dopo morto avrebbe preferito l’inferno per le sue frequentazioni.  L’aneddotica racconta che non diceva mai messa se non poteva farla con un vin de Meursault, un Bourgogne della Côte de Beaume, uno dei più pregiati vini bianchi di Francia.  È un vitigno che risale al decimo secolo ed ha un bouquet caratterizzato dall’aroma di mandorla, mela verde e nocciole.  Per il de Bernis era l’unico che poteva essere accostato al vino di Cana.  Va da sé, spiegava,era una preoccupazione altruistica: “Non avrei mai osato costringere nostro Signore a fare le smorfie al padre per colpa di un vino diverso”.   

(°°) – Giacomo Casanova, Histoire de ma vie, 1960.         

 

 Come ha saggiamente notato Joyce Mansour davanti ad un corpo spiumato, a un paio di gambe generose, come davanti a un intingolo, se si obbedisce ai sensi lì la religione, la filosofia e la politica cessano di esistere.  Una buona salsa è la prova provata che i desideri del corpo sono il fondamento della ragione e della sua critica pratica. 

Á rebours, nei termini di una logica immanente le salse costituiscono il carburante delle macchine desideranti e perfino la loro bava, lo diceva Isidore Isou che stigmatizzava l’obesità del cinema commerciale.

 

Proclamava Talleyrand – l’uomo a cui le casseruole servivano più delle istruzioni diplomatiche – il primato delle salse francesi è morale e costituiscono lo stile laico della diplomazia di Francia.  Al contrario gli inglesi non hanno che tre salse, ma pregano trecentosessanta religioni, un’ossessione.  Con lo stesso metro aveva già deprecato la relazione di una salsa per trentadue religioni in America.  Se gli riconosciamo un inconscio politico da boulanger(°) come non vedere che la sauce vaut mieux que le poisson.      

 

(°) – In questa veste comparve in molte vignette satiriche, come quella celebre di James Gillray del 1806 in cui è ritratto con Tiddy-Doll mentre “sfornano” dei re.  

 

Da sempre cucina e sessualità condividono i destini del divenire.  Non c’è più un’aristocrazia sociale dei vizi come non c’è più una pericolosità morale dei desideri!  Le code dei montoni, le lingue e i palati dei buoi, i piedi dei porci, les rognons dei caproni, le vulve delle scrofe, le orecchie dei maialini, non nuotano più nelle salse del maître d’hotel cuisinier.  Il senso delle parole sembra sul serio disgiunto da quello delle cose nella promozione della loro evoluzione semantica.

***

Leggi le altre parti
Una storia sociale delle salse – Parte I
Una storia sociale delle salse – Parte II
Una storia sociale delle salse – Parte III
Una storia sociale delle salse – Parte IV
Una storia sociale delle salse – Parte V
Una storia sociale delle salse – Parte VI
Una storia sociale delle salse – Parte VII
Una storia sociale delle salse – Parte VIII
Una storia sociale delle salse – Parte IX