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Una storia sociale delle salse – Parte VI

Una storia sociale delle salse (2013) – Parte VI

 

La patata e il pomodoro hanno tanta vitamina!
Noi cantiamo lieti in coro: l’Inghilterra non ci mina,
ecco quanto in Patria basta per il sobrio bocconcino!
Filastrocca fascista.

Le salse nei programmi di pranzi suggestivi e determinati.  Nella cucina futurista di Marinetti e Fillìa la prima “salsa” è per il cefalo bollito “cucinato” per ventiquattrore nel latte, rosolio, capperi e pepe.  Si mangia al rullo di tamburo.  La seconda è l’odiata salsa al pomodoro – perché maritata agli spaghetti nell’iconografia dell’immaginario popolare – che finisce spalmata sulla polenta di un pranzo estivo.  La terza, per così dire, serve a condire lepri e pernici cotte nel vino drogato.  Si confeziona con la poltiglia di altre pernici quasi fradice e macerate con delle vecchie robiole al rhum.  Commenta Marinetti, “… i convitati ne mangiano abbondantemente innaffiandole con barbera e barolo”.  Nel pranzo “dichiarazione d’amore” la salsa per le costolette di pollo è profumata all’ambra è completata da “un sottile strato di marmellata di ciliegie(°).  Lei, mentre mangia, si ammirerà riflessa nel piatto”.  Poltiglia di ananas e marmellata sono anche le salse del “pranzo sacro”.

Per la lepre di Fillìa cotta nel vino spumante la salsa, abbondante, è “verde a base di spinaci e ginepro, punteggiata di bomboni argentati che ricordano i pallini dei cacciatori”.  Verde è anche la salsa per l’”ultravirile”, preparata a partire da uno zabaione.  Per i “rombi in ascesa” la salsa “si compone di sugo d’ossa di vitello brasate al marsala e un po’ di rum, scorza di arancia tagliata in filettini sottili, bolliti con l’odore di aceto”, poi “aggiungere succo di aranci.  Profumare con salsa nazionale (°°) che si trova in commercio”.  Salsa di pomodoro anche per la “Compenetrazione”, ma con un anello di mela, una fetta di prosciutto e un frutto candito.  La ricetta è del proprietario del Santo Palato (°°°).  Di fatto le salse non brillano nel catalogo delle invenzioni futuriste è la spiegazione è di Fillia, toglierebbero alle persone che si cibano “la sensazione di mangiare oltre che dei buoni cibi anche delle opere d’arte”.  In altri termini l’estetizzazione degli atti alimentari corre di pari passo con una regressione infantile che esalta il dolce a scapito del salato.  L’odore a danno dell’aroma.  La distrazione teatrale a svantaggio della nutrizione.

 

(°) – Marinetti, nato ad Alessandria d’Egitto, amava il visne suyu, il succo di ciliegia.  Impossibile da trovare in Italia ne fece una scorta in occasione del suo secondo viaggio in Russia grazie alla compiacenza di alcuni suoi ammiratori moscoviti che trafficavano “papaveri” con la Turchia.

(°°) – La “salsa nazionale” è la cosiddetta “salsa rubra”, la risposta autarchica al ketchup americano.  Una salsa, questa, a base di soia che molti ritengono di origine cinese o malese, destinata ad intingere il pesce.  Si racconta che alla fine del diciassettesimo secolo i mercanti inglesi e olandesi cominciarono ad importarla in Europa, dove perse la soia e si arricchì di aceto, acciughe salate, noce moscata e chiodi di garofano. Ma non era ancora la mitica salsa rossa, lo diventerà con il pomodoro, prendendo il nome di Tomato-KetchupLa salsa rossa o rubra, invece, è una preparazione originaria del Piemonte, rallegra il bollito misto, composto da almeno sette tagli di bovino e cinque d’accompagnamento e servito con non meno di quattro salse diverse, una delle quali è appunto la rubra. 

Salsa rubra, ricetta.

Fate un soffritto con due cipolle rosse tagliate fini, due carote tagliate alla julienne, due gambi di sedano schiacciati con una lama, uno spicchio d’aglio.  Uniteci un chilo e mezzo di pomodori maturi, spellati, privi di acqua di vegetazione e semi.  Quando il tutto comincia a bollire aggiungeteci 200 grammi di zucchero fine, una foglia di alloro, qualche pilucco di timo fresco, un mezzo tronchetto di cannella sbriciolato, un cucchiaio di senape, tre chiodi di garofano un cucchiaino di fecola.  Una volta amalgamato passatelo al setaccio con una spatola e rimettetelo sul fuoco, aggiungeteci tre cucchiai di brandy, regolate il sale e il pepe.  Potete conservare questa salsa in bottigliette sterilizzate.  Un tempo serviva per il bollito, oggi si può usare anche per le frites

(°°°) – Nella “Taverna del Santo Palato” di Torino l’8 marzo del 1931 si tenne la prima cena futurista.  Questa taverna era stata decorata da Djulgheroff e da Fillìa e per qualche anno fu luogo d’incontri, di accese polemiche e di scontri artistico-letterari.  Ricordiamo che Fillìa è lo pseudonimo di Luigi Colombo, nato in quel di Cuneo, ma fervente torinese.         

 

La modernità della cucina futurista si arresta per ragioni risibili davanti alla forma di salsa.  Nelle salse, del resto, la ripetizione e la sensibilità personale possono operare una loro individuazione, la cucina futurista invece è monolitica e autocratica.  Il gusto non è più soggettivo, ma nazionale come sono i criteri che lo definiscono, la socialità dipende dall’interesse economico.  L’estetizzazione del cibo non è più il risultato di una ricetta, ma di una formula che deve fortificare il fantasma della razza.  L’innovazione è nutritiva, salsicce ed acqua di Colonia aboliscono la mediocrità del quotidiano grazie al piacere del palato.  Alla goffaggine degli intingoli i futuristi rispondono accampando una teleologia estetica: si mangia per consumare opere d’arte.  Dirà Salvador Dalí, la bellezza sarà commestibile o non sarà, perché in fondo l’importante è produrre desiderio (°).

 

(° ) –  Per restare in tema possiamo aggiungere, dal punto di vista del cotto come istituzione nutritiva (Lévi-Strauss) le salse costituiscono una speranza per l’estetica positiva.

 

Nel manifesto della cucina futurista la ghiottoneria diventa uno strumento per cambiare il mondo dalle radici, non importa se l’aveva già detto Ludwig Feuerbach, che per altro Marinetti conosceva e stimava.  Questo proclama vi aggiunge un tratto estetico che presagisce il pugno, lo schiaffo, il passo di corsa.  Niente paste, niente sughi, la ghiottoneria piegata agli imperativi economici ha virtù dietetiche.  Del resto l’umami particolare delle salse aveva subito il suo primo significativo rovescio con il futurista Jules Maincave quando nel 1913 pretese di trasformare con gli aromi chimici i condimenti di cucina da lui definiti ridicolmente limitati.  Questa auspicata mutazione, che trasferisce nel naso il primato del gusto e da un senso all’anglosassone flaveur, è nella sostanza un apologia degli additivi che forse non stona con una cucina trasformata in un atelier d’artista, ma pericolosamente prossima ad una adulterazione o meglio ad una manipolazione della natura.

 

Marinetti, caffeinomane e inappetente, mangiava per rassegnazione dicevano gli amici.  La salsa per lui era il contesto di un accadimento in cui domina la drôlerie, lo stesso modo d’intenderla degli “antropofagi” diplomatici – la definizione è sua – che si raccoglievano a Ginevra e divoravano nazioni, carne cruda speziata e sogni operai.  Esteticamente in quegl’anni era facile confondere con una salsa l’organico e il mineralizzato, la carne degli sfruttati e il piombo del moschetto degli sbirri.

 

La tartare è una salsa a base di olio, limone e aceto, ma diventerà una carne cruda condita e sarà innalzata, nel Novecento, a privilegio dietetico, che fa il paio con l’espressione di nutriente e fresco.  Perché questa regressione per una “poltiglia” che viveva solo nel cibo immaginario dei nomadi?  Rappresenta una disperata reazione alla routine del cucinato, in un’epoca di massimalismi.

 

Una storia (VI).  Tre salse di Bartolomeo Scappi. 

Civiero: Mettete in una terrina due libbre di prugne secche, due tra visciole e marasche secche, una d’uva passa, sei once di pane bianco abbrustolito con due libbre e mezzo di vino “gagliardo”, due di mosto cotto e una e mezza di aceto.  Aggiungeteci un’oncia di cannella sbriciolata, mezza di pepe, mezza di gengevoro, mezza tra chiodi di garofano e noce moscata, due di mostaccioli pestati.  Mescolate il tutto e cuocetelo in una casseruola a bagnomaria per quaranta minuti.  Passate il tutto al setaccio e poi aggiungeteci quattro once di malvasia, tre di succo di melagrana, portate a  bollore e spegnete, completate con due once di acqua di rose con zucchero e cannella in polvere ed eventualmente con dei pinoli confettati come decorazione.  Questa salsa è adatta per la piccola selvaggina da pelo. 

Miraus: Pestate due libbre di mandorle “ambrosine” abbrustolite in una padella e due libbre di mostaccioli napoletani, stemperateli in due libbre tra malvasia, agresto e succo di melangole alle quali avrete aggiunto otto once di brodo.  Passate il tutto al setaccio, aggiungeteci una libbra e mezza di zucchero, un’oncia di cannella, mezza di pepe, mezza tra chiodi di garofano e noce moscata il tutto pestato in un mortaio, cuocete a fuoco dolce finché la salsa non “pigli corpo”.  Valutate se c’è un giusto equilibrio tra il dolce e l’agro, cospargete il tutto di cannella in polvere ed usate questa salsa per la selvaggina allo spiedo. 

Peverata:  In una pentola di coccio mettete una libbra di mollica di pane abbrustolita con otto once di mosto cotto, una libbra di brodo di vitello e quattro once di aceto.  Aggiungeteci un’oncia di cannella sbriciolata, una di pepe, chiodi di garofano, noci moscate e zenzero pestati.  Cuocete il tutto a bagnomaria e poi passatelo al setaccio.  Ricuocetelo con sei once di zucchero e tre di malvasia, spolveratelo di cannella e “sbruffatelo” di acqua di rose.  Potete allungare questa salsa con un po’ di brodo.  Serve per gli arrosti di “quadrupedi selvatici”.  Come si vede non ha nulla in comune né con la “poivrade” della cucina francese, né con la salsa diavola degli inglesi(°).

 

(°) – La libbra nel Medioevo variava notevolmente da luogo a luogo.  Si passava dai 328 grammi della libbra romana ai 500 grammi circa di quella d’Oltralpe.  L’oncia è la dodicesima parte di una libbra.

 

Torniamo ad una particolare “salsa rubra”, il ketchup che da tempo è percepito in modo ambivalente.  Da una parte è consumato con golosità. Dall’altra è vissuto come un fattore di omogeneizzazione se non addirittura di alienazione.  Rappresenterebbe, di fatto, la ragione di un impoverimento del gusto soprattutto presso le giovani generazioni e, associato al fast food, di dissoluzione del pasto sia da un punto di vista nutrizionale che cerimoniale.

Untuoso, dolcigno, dal colore brillante focalizza la funesta egemonia dell’american way of life.  Il suo uso generalizzato è considerato la concausa della scomparsa di altri sapori più antichi, complessi e raffinati.  Insieme alla mostarda e alla maionese in tubetti serve soprattutto a nappare certi cibi o a radicare certi sapori industriali.  A differenza di altri aromi, come il pepe, il peperoncino o le erbe aromatiche, non è mai usato per cucinare, ma svolge un ruolo additivo, del resto difficilmente potrebbe essere integrato agli altri sapori nel corso della cucina. 

Ketchup, mostarda e maionese sono oggi serviti direttamente a tavola e in genere se ne usa la quantità che si desidera perché la loro funzione è di marcatori della sapidità.  Maionese a parte, ma quella industriale ha poco a che fare con quella domestica, questi marcatori non possono essere preparati, ma sono acquistati pronti all’uso.  Se si guarda alla loro “geografia” si nota come il ketchup nonostante sia la “salsa” più recente delle tre è quello che sta scalzando le altre due per la semplice ragione mercantile che è meno “aspro” rispetto alla mostarda e possiede una nota “agrodolce” che manca alla maionese.  Indagini sul campo hanno rilevato che il ketchup ha un’alta capacità di dissimulazione dei sapori iniziali ed è percepito nell’immaginario come una “salsa” che aggiunge una nota “dolceacida”, molto speziata.  Rispetto alla maionese, considerata una “salsa” per cibi semplici o crudi, appare innovativo per l’alleanza di dolce e salato nonostante che il dolce sia pensato come qualcosa che minaccia la linea e il sale sia da qualche tempo diventato moralmente e medicalmente sospetto.

 

Le salse, a differenza della cucina di sacrificio agli dei di Abele, esprimono il sudore di Caino, l’agricoltore.  Gli arrosti possono essere sacralizzati, le salse sono irrimediabilmente pagane.  I primi hanno ripercussioni morali e di classe, le seconde sono immorali, femminili, intestinali.  Dalle brode di cereali tritati tra due pietre del neolitico alle salse borghesi dell’Ottocento europeo questi condimenti hanno sempre espresso un sentimento di parentela verso il venereo e le torbide fantasie ginofobiche.  Alla resa dei conti le salse, come sostenevano i sensualisti inglesi, sono la rappresentazione più oscena del sacro.    

 

La necessità d’inzuppare la fetta della pagnotta nel companatico eleva la ghiottoneria per una salsa a virtù, non si vive di solo pane!  “Lèonie, che piatto hai preparato con questo tirapasta?  È tutto impiastricciato!  Oh! Madame, lo lecchi!  É buono.  Ma cos’è mai non riconosco il sapore.  Cos’è?   Ma è sugo di fica.  Uso quel mattarello per godere.  Lo faccio spesso… ” (°).  Perché le creme si leccano e le salse no?  Senso di colpa!

 

(°) – Da, Pierre Louÿs, Douze douzains de dialogues on petits scènes amoureuses, cit.  Il disprezzo di Louÿs per le donne è da vaudeville, più complesso quello del Divino Marchese, un circolo vizioso dove cibo e escrementi s’identificano spesso con il corpo dell’Altro.  Il libertino costantemente perseguitato da una fame che non controlla svuota il corpo dell’altro per vuotarlo della vita.  Come osserva Serge Safran nel suo testo sul libertinaggio gastronomico al XVIII secolo, “il n’y a plus d’autre sauce que celle des larmes, du sperme, du sang, de la merde et de l’urine.  Une sauce ultime qui accompagne la mort de l’autre et l’incapacité criminelle de libertin, au bout du compte, à se nourrir d’amour sans la mort.  In una prospettiva teologica, come racconta Marco (7, 14-23), Gesù dice che si può mangiare di tutto perché non è quello che entra dentro che determina il rapporto con Dio, ma quello che dal di dentro esce fuori.

 

Una storia (VII).  Le salse verdi fin dal tempo della cucina romana erano confezionate con grano non maturo, prezzemolo, ruta, maggiorana, menta, assenzio ed altre erbe aromatiche.  Altre salse si preparavano con uva passa, mele “appie”(°), cipolla, nocciole, ciliegie, marasche, prugne e poi melagrane, uva spina, ribes (come ancora oggi si fa nella cucina inglese), melangole (come nella salsa bigarrade dei francesi), limoncello, bacche di mirtillo, di ginepro, di sambuco, more selvatiche, chicchi d’uva nera, ingredienti che coloravano le salse come le carote o gli spinaci, quest’ultimi ottimi con le salse bianche a base di latte di mandorle.  Sono salse simili alle confetture che ancora oggi sono preparate nella mitteleuropa.  Si potrebbe dire con l’Orazio dell’Ars Poetica: “Multa renascentur quae iam cecidere”.

Vale la pena di ricordare qui Charles de Marguetel de Saint-Denis de Saint-Évremond (1613-1703) epicureo e libertino francese che teneva le salse in gran conto.  Nell’edizione londinese dei suoi scritti si dilunga a spiegare agli inglesi quali sono i piaceri della tavola e si compiace di mostrare loro la sua competenza di salsiere, raccomandando intingoli e medicamenti.  Lo aveva colpito molto la cattiva abitudine inglese di bollire e successivamente arrostire le carni per poi aromatizzarle con salse esotiche come l’Albert sauce, l’aromatic sauce, la brown oyster sauce, la melted butter sauce (una variante della salsa bastarda), la Porto wine sauce, la Yorkshire sauce e la più che famosa salsa al pepe dalla quale nell’Ottocento derivò la Reform sauce del “Reform Club”, una salsa servita esclusivamente per le costolette di montone. 

 

(°) Cfr., G.E.Simonetti, La sostanza del desiderio, Roma 2005, pag. 83.

 

Le cattive salse sono i condimenti degli altri!
Pampille.  

Soupieres et vieilles dentelles.

“Le vin est non seulement une des richesses, mais un des honneurs de la France. Seul existe le vin de chez nous. Quiconque a jamais trempé ses lèvres dans l’effroyable piquette allemande, à goût d’eau de Seltz et de cirage, quiconque a eu le palais brûlé par la rioja espagnole, l’estomac pelé par ce chianti dont les Italiens sont si fiers, quiconque a subi ce sirop exaspéré, le tokay, sait parfaitement qu’en dehors de notre vignoble tout est simulacre, amertume, effervescence vaine ou sucre sans mesure” (°). 

(°) – Léon Daudet, da l’Almanach d’Action française, 1925.

 

Le giovinette in fiore, che i vizi dei nemici di Francia attirano
 nei cinema e nelle balere, non sanno più come si cucina una salsa.
Marthe Allard Daudet.

La profanazione untuosa dei sapori gli procurava orgasmi celesti come quelli di Santa Teresa alla Vittoria in Roma.  In cucina era “Pampille”, un ninnolo, in salotto era Marthe Allard cugina e sposa di Léon Daudet, reazionaria, antisemita, integralista.  Per Pampille era necessario che una buona salsa si accordasse con la cortesia, la moda, il patriottismo, i vini, un amore quest’ultimo che condivideva con il marito.  Le cerimonie della tavola con lei e la sua corte di malviventi divennero de facto il paradigma compositivo di tutti i fatti sociali legati al cattivo gusto e alla deboscia mascherata da santità politica.   Le salse come le spose, per l’Allard, esprimevano una virtù farcita di languori e sospiri, a questo proposito amava identificarsi con la bordolese, una salsa che riteneva avesse domini morali e radici antiche.

“Fusa una noce di burro in una casseruola” scrive “allo sfrigolare uniteci un paio di cucchiai di scalogno tritato fine.  Appena è imbiondito aggiungeteci uno spicchio d’aglio in camicia, mezza foglia di alloro, qualche pilucco di timo, un sospetto di noce moscata, tre grani di pepe nero schiacciato con una lama e un quarto di litro di Bordeaux”.  (La nostra cuoca suggerisce tra i tanti un Pessac Leognan 1911, dello Château Haut Brion, un 1er Cru Classé, ma l’urbanizzazione del territorio ha modificato molte cose nel bordolese).  “Riducete tutto a qualche cucchiaio di fondo.  A questo punto mettete nella casseruola una tazza di salsa spagnola e fate bollire per una decina di minuti.  Passate la salsa con una garza, rimettetela sul fuoco, aggiungeteci un’altra noce di burro che avrete passato con un colino insieme a cinquanta grammi di midollo di bue freschissimo e scottato per cinque minuti in acqua bollente.  Regolate il sale e tenete la salsa al caldo fino al momento dell’uso”.  Che aggiungere?  Con le salse l’inconscio delle brave massaie scopre le voragini dell’immanenza e l’untuosità dei desideri.

 

Per il nazionalismo culinario le salse sono il linguaggio del fornello, che si fa focolare, quartiere, paese, regione.  In breve, sono le ideologie che fanno le salse patriottiche, le donne puttane e i gourmet “frigoristes”, per difendere l’onore perduto delle Halles e la cucina rurale.

 

Nella prospettiva dei cultural studies c’è una differenza abissale tra le salse dei paesi coloniali da quelli che fallirono questa bieca avventura espansionista.  Una béance fatta di nostalgie, di monumenti, di bronzi, di coccarde, di reduci, di pellegrinaggi all’insegna di un “orientalismo” del gusto che ha conosciuto le minestre in bottiglia, le carni argentine raffreddate e le sauces fabriquèes dans le mines, come scrive Robert Brasillach, un fedele del fiore di lys fucilato da De Gaulle per i suoi crimini contro la Francia, il paese che l’aveva adottato e fatto diventare uno scrittore di un certo successo.

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Leggi le altre parti
Una storia sociale delle salse – Parte I
Una storia sociale delle salse – Parte II
Una storia sociale delle salse – Parte III
Una storia sociale delle salse – Parte IV
Una storia sociale delle salse – Parte V
Una storia sociale delle salse – Parte VI
Una storia sociale delle salse – Parte VII
Una storia sociale delle salse – Parte VIII
Una storia sociale delle salse – Parte IX

Una storia sociale delle salse – Parte V

Una storia sociale delle salse (2013) – Parte V

 

Una sinossi.  Nella cucina dei “pre-parati” le grandi brode, con l’avanzare tra il pentolame del diciottesimo secolo, s’inspessiscono e perdono la loro opacità, diventando progressivamente dei fondi sempre più brillanti, ma costano attenzione e fatica.    

Primi passi.  Si diffonde la mirepoix, che gli italiani colti chiameranno dadolata e le massaie soffritto, anche se in principio le verdure (cipolla, carota, sedano) erano tagliate alla julienne.  Un’idea geniale di un cuoco al servizio di un individuo incapace e mediocre il duca de Lèvis-Mirepoix, lo sosteneva Pierre Larousse, come scrive Eaton Alan Davinson in Oxford Companion to Food.

Molto probabilmente questa “santa trinità” esisteva già da tempo, ma è in questo momento che diventa un appareil cucinario e, in casa del duca il nobile sudario per le quaglie che portano il suo nome.  Di fatto, però, questo termine tra i cuochi s’impone solo a partire dal diciannovesimo secolo, anche in modo strampalato.  Carême, per esempio, la chiama Mire-Poix, altri Mire-Pois.  Col tempo si arricchisce di un mazzetto guarnito e di un po’ di vino, quasi sempre bianco e secco, anche se Jules Gouffe, l’apostolo della cucina decorativa, consiglia il Madeira.  Oggi la si può preparare au maigre e spesso è impropriamente chiamata brunoise, oppure au gras con carne e prosciutto.  È spesso arricchita, soprattutto in Francia, con porri, scalogno, funghi e peperoni.  In Spagna il sofrito – che non è il nostro soffritto – ha come ingredienti principali il lardo e il pomodoro.  Una mirepoix si può preparare anche con il peperone al posto della carota, come nella cucina cajun, o illudersi che sia un “falso ragù”, come in Toscana.  La proporzione ideale è di due parti di cipolla per una di carota e una di sedano.  I francesi chiamano Matignon qualcosa che assomiglia alla mirepoix, ma è una dadolata preparata per essere portato in tavola come un contorno.  Gli ingredienti di un Matignon sono spesso tritati, saltati nel burro, profumati con il timo e addolciti con una punta di zucchero.  Servono da “divano” alle carni e al pesce.

All’apice del secolo nasce la spagnola – una preparazione completamente assente dalla cucina iberica.  La leggenda parla di cuochi spagnoli al seguito di Anna d’Austria sposa di Luigi XIII che usarono del pomodoro per migliorare il sapore di una salsa bruna preparata per il suo matrimonio.  Una fantasticheria se pensiamo al circostanze di queste nozze, di un quattordicenne costretto dalla madre, Maria dei Medici, ha consumarle in fretta e in modo maldestro sotto gli occhi di alcuni medici che dovevano certificarlo per i bisogni delle diplomazie.  Altri parlano di un tentativo francese di arricchire il loro pot-au-feu con i ricchi sapori dei prosciutti di Estremadura.  È sostanzialmente composta da una mirepoix e da una broda.  Richiede molte ore di lavoro costellate da sgrassature, riduzioni, passaggi alla stamina.  Grazie a questo con la spagnola il sapore diventa un’architettura alchemica.

Demi-glace.  Il clima si fa ancora più spirituale, la riduzione esasperata.  Si lascia asciugare la spagnola fino a quando non diventa gelatinosa.  La ricetta sarà codificata da Escoffier, segna il trionfo della chimica organica, il punto più alto raggiunto dalla decomposizione degli alimenti.  Oggi nessuno più la prepara, per anni è stata la salsa maggiormente falsificata dai cuochi che preferivano realizzarla semplicemente facendo ridurre un po’ di brodo di vitello.

Infine nasce la glace.  È una demi-glace portata alle sue estreme conseguenze.  Una quintessenza che ha la densità e la consistenza del miele e aromi inaspettati.  Se ne sono perse le tracce già intorno alla prima guerra mondiale.  Se non fosse macabro si potrebbe dire che risuscita la carne.

 

Le brode sfamano.  Quando diventano salse formano il gusto e diventano festive.  Le prime possono elevarsi a potage e consegnarsi all’appetito, si diceva che rigenerassero.  Le salse soddisfano e seducono.  Una buona salsa è la prova logica che il corpo è il fondamento, alla lettera, della sapienza empirica.

 

Dal punto di vista di una “critica della ragione cucinaria” nulla è più simile ad una salsa dell’illusione di democrazia parlamentare che spaccia per evoluzione politica l’ignominia degli impasti di coalizione e dei loro rimpasti che fanno masticare amaro gli illusi.

In questo contesto la critica del giudizio invera i prolegomeni di quella del gusto e se è corretto, come scrive Kant, che l’odorato è anomico, mentre favorisce la “sociabilità” gioca un ruolo di senso di una convivenza impossibile.

Tale equivalenza mette in luce anche un altro aspetto del problema: le salse come le democrazie borghesi cucinano i sentimenti e non le idee.  Sono scienze dell’impreciso in cui l’indeterminazione, una forma di regime, indossa la maschera della metamorfosi.  In questo modo le ricette impersonano l’ufficio di stratagemmi, formalizzano il contingente.

 

Dopo Kant, per fissare il punto, le riflessioni sulle ricette seguono e non precedono la pratica, diventando legittime solo nella forma dell’interpretazione, perché non è possibile separare le ricette dal contesto in cui operano.  Si può dire che inizia la stagione nella quale l’immaginazione signoreggia dispoticamente e si chiude quella del bricolaggio alimentare praticato dai soggetti senza storia.

 

Come dicono gli “argomentisti” della “french culture” e le “widow” della “fresh culture”, le buone salse costituiscono dei dispositivi che mutano in formazioni discorsive e così facendo trasformano i sapori in saperi – cioè in sistemi formalizzati – ingannandoli, perché la storia materiale è à rebours rispetto agli archivi della natura e non giova ai sapori apparire troppo vicini al potere economico degli ingredienti.  Nello svaporare in poteri, poi, i sapori si rivelano un paradigma condiviso senza un valore che non sia quello identitario della nostalgia, capace di regolare gli stereotipi e modellare le illusioni, cioè il gusto.  Questo che potremo definire un post-kantismo è d’ascrivere, per paradosso, a merito di La Varenne che muta in metaforici i contesti metonimici che avevano guidato i salsieri fino ad allora.  Da questo momento la salsa come la politica è una rappresentazione del potere.  Esibendo la sua singolarità, la tecnica diventa ora matrice di nuovi insiemi, di nuove regole monastiche che il potere trasforma in regimi.

 

Anche evitando di ridurre la polemologia a broda, le salse sono la continuazione metonimica della politica con altri mezzi.  Del resto tutto è condimento, come sapeva bene il divino marchese, confondendo deliberatamente la funzione degli orifizi – dipende dal paradigma.  Per esempio lo è la forma politica quando ingozza i comitati d’affari che dominano le democrazie borghesi…prima di sodomizzarli(°).

 

(°) – Cfr., Noëlle Châtelet, Il corpo a corpo culinario, 1980.

 

Che cos’è un ruscellamento?  È un bouquet.

Jacques Lacan, Lezione su Lituraterra”, 1971

Dopo Antonin Carême il valore di rappresentazione delle salse ha finito di evaporare i loro antichi meriti o virtù, ha liquefatto la loro sapida cristallizzazione gustativa.  Prima s’infarinavano per non farle ruscellare, oggi la loro acquosa cremosità industriale fa la felicità dei consumatori di finger food.  Queste salse scivolano sulle dita e si leccano, sono colorate come la livrea di un pappagallo.  Del resto l’infantilizzazione sociale non poteva limitarsi alla sessualità, ma doveva invadere anche il campo degli atti alimentari dopo aver travolto i risibili precetti religiosi sopravvissuti al Novecento.  Come ha sottolineato caustico Charles Baudelaire, lo style coulant è quello che più piace ai borghesi.

 

In Aurora Friedrich Nietzsche solleva una questione inquietante secondo la quale imparare a digerire le cose può portare, oltre misura, a digerire le ideologie, lui stesso inciampa su questo punto quando sostiene che un eccesso di riso nell’alimentazione può indurre al consumo di oppio.

 

 06

Una storia (V).  “Piglia libra una d’uva passa monda e mollena di tre pani brustellati e mogliati in aceto forte e pesta bene ogni cosa insieme, poi piglia una caraffa di buon vino nero e due bicchieri di bono aceto forte…”, così inizia la ricetta della salsa o “savore camelino” secondo Cristiano o Cristoforo di Messisburgo, cuoco degli Estensi a Ferrara, e prosegue “…distempera ogni cosa insieme e passa per la stamigna, poi aggiungeli libra una di mele e più o meno, si che al tuo Giudicio abbia del dolce & acetoso.  Oncia una di cannella pesta ed oncia mezza di pevere e oncia mezza di gengevoro, un quarto de garofani e lo porrai in un vaso con libra una d’uva passa e lo farai sciogliere tanto che s’inspessisca sempre mescolando e facendolo cuocere a bell’agio, poi lo porrai in piatelli da sua posta e sopra Uccelli e Carne Arrosto o Pesce Fritto o dove ti piacerà.  Tal sapore si puote fare anche col pane grattato”.  In questo caso, va notato, diventerebbe una variante ante litteram della “bread sauce” inglese.

Altre salse d’epoca erano il “savore bianco” con mandorle, mollica di pane, agresto o succo di limone regolato con un pizzico di zucchero.  Il “savore grattonato” confezionato con uova sbattute in latte di mandorle ed agresto, addensato con fegatini scottati alla brace, il tutto passato allo staccio messo in una casseruola e cotto a bagnomaria con l’aggiunta di zucchero, cannella pesta, pepe, garofani, noce moscata e succo di melangole.

Bartolomeo Scappi nella sua Opera detta anche la ricetta di due salse destinate al popolo.  La cabirottata preparata con cacio fresco, com’è il marzolino delle crete di Rapolano o le formaggelle di Urbino, pestato con grana reggiano, spicchi d’aglio, polpa di cappone arrostito, tuorli d’uovo, zucchero, brodo di pollo, passato “alla stamegna” e cotto con cannella, pepe, chiodi di garofano e zafferano.  L’altra, la ginestrata si preparava con latte di capra munto di fresco, farina di riso, zucchero, cannella in polvere, zenzero, pepe, zafferano e sale.  Si cuoceva a bagnomaria in una bastardella nella quale venivano aggiunti datteri freschi e fichi secchi tagliati minutamente, pinoli, zibibbo, uva passa di Corinto, il tutto passato al mortaio.  Era una salsa calda e come la precedente serviva a “coprire” tordi o altri uccelletti allo spiedo.

Una salsa per pesci era la malmona, una sorta di rozzo “biancomangiare” con tuorli d’uovo sbattuto e succo d’arancia, che diventava salsa per legumi, asparagi e piselli in particolare, con l’aggiunta di brodo, zucchero e cannella, il tutto cotto con il burro.  Questa specie di zabaione era anche usato come “ristoro” per gli sposi novelli, lo preparava la madre di lei.  Nel complesso sono salse povere di grassi e ricche di spezie e zucchero, mercanzie che gli speziali si facevano pagare a peso d’oro.

 

In punta di eresia.  Dopo Antoine-Laurent de Lavoisier il roux, burro più farina, si rilevò un matrimonio imperfetto consolidato dalla tradizione.  Le salse però tengono soprattutto a partire dalla loro riduzione, basta fare una prova.  Mettete una salsa sul fuoco e rigiratela in continuazione con un cucchiaio perché non attacchi. In capo a qualche minuto, grazie all’evaporazione, diventerà gommosa e lucida al pari di una vernice.  Lo stesso effetto si ottiene con la fecola di patate o, lontano dalla fiamma, con il tuorlo d’uovo e, con qualche abilità, lavorando il burro crudo(°).

 

(°) – Il burro è l’elemento che rende una salsa specchiante.  Esso, per così dire, cede la sua lipidica materia agli aromi con i quali lo si mescola.

 

Come parte liquida del piatto le salse sono il pivot della classificazione cucinaria europea, sia nella forma arcaica e già vista di brode – nel Viandier appaiono divise in broets e potages lyans – che d’intingoli, nel duplice ruolo di condimento che accompagna e di fondo in cui viene cucinata o, al limite, apparecchiata la parte solida di una pietanza (°).

Nel Fait de cuisine di maître Chiquart questa parte, indipendentemente che sia carne o pesce, è definita grein e è definita a seconda di come viene servita in tavola.  Il primo è en escuelles belle et nectes che lascia ai commensali la libertà di servirsene.  Nel secondo l’intingolo è versato sopra la pietanza già cotta al momento del servizio.  Nel terzo modo viene incorporato durante la cottura per facilitarla e insaporirla.  È quello che chiamiamo in umido.  Nel quarto il grein viene immesso nell’intingolo quando già troneggia sul mobile di servizio, il dreceur.  Sono modalità che il più delle volte si coniugano con il colore degli intingoli e con la gestualità teatrale degli scudieri destinati al servizio.  In breve gli intingoli rappresentano ciò che caratterizza un piatto e gli da un nome, sia per il ruolo che giocano, sia per la funzione caratterizzante, almeno a tutto il diciottesimo secolo, medico-dietetica.

 

(°) – Sulla pietra tombale dell’autore di Le Viandier, Guillaume Tirel, detto Taillevent – che si può ancora oggi vedere nel museo di Saint-Germain-en-Laye, invece la sepoltura nella chiesa di Notre-Dame d’Honnelont fu distrutta dai giacobini nel 1793 – campeggia lo scudo portante le sue armi: tre marmitte e sei rose.  Quale migliore insegna per la cultura materiale!

 

Tecnicamente gli intingoli, a partire dai manoscritti medioevali, possono essere classificati in legati e non-legati, in cotti o crudi.  Successivamente si divideranno tra quelli destinati alle carni, da cortile o di selvaggina, e quelli destinati ai pesci e ai crostacei.  In principio sono pensati ed impiegati soprattutto per riequilibrare il temperamento delle parti solide del piatto, una sorta di forma mistica la cui epifania può essere acre o liquorosa, sempre immersa nelle spezie.  Con il tempo molti di questi intingoli, laicizzandosi, diventeranno salse come le conosciamo oggi.  L’evoluzione materialista comincia con quelli cotti e legati.

 

Ci sono tra le salse figlie alcune che sono “orfane” della grande famiglia borghese, sono quelle rimaste impudicamente innocenti davanti al maturare delle tecniche.  Salse celibatarie il cui sapore non si è evoluto con la storia cucinaria e non lo si trova sulle labbra delle donne.  Salse succulenti e patriottiche, che contribuiscono all’idea di tradizione e a mala pena tollerano l’esotico del pigmentato.  Sono le benevoli testimoni del paesaggio alimentare d’autrefois che gli amici della lentezza, nutriti di luoghi comuni e cacatori di stoppini, adorano come il frutto di un Eden al servizio dell’immaginario e che la scrittura trasforma in sogni che si possono acquistare per abbonamento.  Queste salse affollano le pagine dei petit bréviaire de la gourmandise che non mancano mai nelle cucine delle canoniche e delle case di campagna.

 

Steli, statue, inscrizioni e salse: sono i confini politici dei regionalismi d’operetta usciti dalla Grande Guerra

 e cresciuti all’ombra dei revisionismi.   

     Bernard Rosenthal.

Negli atti alimentari l’ideologia conservatrice è stata costretta a ripiegare sulla nostalgia dopo essere stata schiacciata dall’industria, la stessa che le ha fornito le ragioni per il suo cahier de doleance farcito di “idée reçue”.  Del resto non poteva agire diversamente, almeno fino a quando l’alimentazione ha continuato a modellarsi sul costume.  In fondo sono gli odori che fanno la povertà e questa impregna con il suo fetore la cronaca, lo dice un esperto, Maurice Sailland, che ebbe il meritato privilegio di portare la rosetta al bavero dell’orbace grazie al suo pseudonimo di Curnonsky, principe della gastronomia.

 

Colette e Marthe(°) – che mandava in visibilio con le sue ricette la signora Guermantes – sono divise da un abisso.  La prima si adoperò per tutta la vita a inseguire gli odori venerei della sua infanzia.  La seconda – nonostante un certo seguito tra i lettori di L’Action française – aveva capito, inascoltata, che il fascismo si poteva difendere anche a partire da una teoria delle salse che condisse con la sua autorevolezza patriottica gli intrugli nazional-affaristici.  Poi tutto sarà banalizzato dalla guerra.  Molte argenterie cambieranno di cassetto, intere collezioni di cristallerie spariranno dalle vetrine dei buffet in direzione dei monti di pegni, la casalinghitudine al lumicino si esprimerà nelle forme efemeridi dei piatti “asciutti” montati dalle cuoche in cucina e muniti di zoccoli vegetali sui quali troneggiare.  Fatto importante dal punto di vista della rappresentazione perché rivela una perversione sospetta, per meglio dire una denegazione, quella di voler restituire una vita “monumentale” alle carogne animali e la forma di scultura alla sostanza organica.  Ancora una volta  la metamorfosi condizione l’azione e condanna il gourmet a un détournement del sapore a profitto dello sguardo.

 

(°) – Sono, rispettivamente,  Sidonie-Gabrielle Colette (1873-1954), da molti considerata una delle maggiori scrittrici francesi della prima metà del ventesimo secolo e Marthe Allard Daudet (1878- 1960) detta Pampille.

 

Le salse sono servite alla modernità per nascondere dentro una broda le illusioni sulle virtù nutritive dei c.a.n.i.(°) definiti un tempo come PAF, produits alimentaires falsifiés – e le speranze che in essa affogano.  Del resto dai condensati della moderna chimica organica e fino alla fine della seconda guerra mondiale le salse “apprettate” apparivano riservate a coloro che avevano dei bisogni e non dei desideri.

A questo proposito una delle ultime metamorfosi delle salse “povere” è stata inaugurata dai dadi per il brodo che trasformano l’idea di alimento in oggetto per proiettarlo su dei nuovi scenari cucinari dominati da un insolito cubisme culinaire.  Una poetica dello sguardo sul piatto che dovrebbe rendere meno dura la letargia delle idee.

 

(°) – Acronimo di “composti alimentari non identificabili”

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Leggi le altre parti
Una storia sociale delle salse – Parte I
Una storia sociale delle salse – Parte II
Una storia sociale delle salse – Parte III
Una storia sociale delle salse – Parte IV
Una storia sociale delle salse – Parte V
Una storia sociale delle salse – Parte VI
Una storia sociale delle salse – Parte VII
Una storia sociale delle salse – Parte VIII
Una storia sociale delle salse – Parte IX