PAGES

Una storia sociale delle salse – Parte VIII

Una storia sociale delle salse (2013) – Parte VIII

 

08

 

Una storia (IX).  Un tempo le salse madri erano chiamate coulis (colati), tra di essi il più famoso era il coulis spagnolo o sauce-brûlée.  La favola racconta che arrivò in Francia con alcuni cuochi iberici al seguito di Anna d’Austria.  In principio questa salsa fu ignorata, i cuochi francesi erano da tempo abituati ai loro sughi bruni (estouffades) e ai loro fondi dispendiosi.  Fu la penuria e il realismo a rendere popolare la spagnola, prima come supplente dei sughi deboli e in seguito come moda, anche se molti la ritenevano senza un aroma definito e con una sola tonalità, l’insipidezza.  Viaggiatori, tra cui Téophile Gauthier, raccontano che la spagnola era, nella sua patria d’origine, la salsa delle cucine pubbliche e il suo scopo di rimediare alla qualità scadente delle carni o alla loro ambigua provenienza.  Lepre o gatto(°), scrive nel 1892, nel corso di un viaggio in Spagna il libertino Jean Lorrain pseudonimo di Paul Alexandre Martin Duval, che nutriva una vera passione per i lottatori di fiera e le etere, “con la salsa spagnola è impossibile indovinare di cosa è composto un piatto”.  Si può dire che nessun’altro condimento ha mai sollevato tante polemiche, ma c’è una ragione, è la salsa che più di ogni altra cosa ha accompagnato la metamorfosi dei sughi a salse e alla densità dell’appareil che li distingue.

 

(°) – Quella per i gatti serviti al posto delle lepri e dei conigli è una vera e propria ossessione per gli spagnoli che non a caso nel servire l’uno per l’altro ne hanno fatto un proverbio che stigmatizza gli imbrogli dei lestofanti.

 

Le salse nell’alimentazione popolare erano preparazioni feriali così come gli arrosti erano preparazioni festive.  Esprimono ruoli differenti, le vivande salsate sfamano, gli arrosti si consumano dopo averli scalcati, una forma di solidarietà violenta e armata molto diversa dall’intimità del paiolo con le sue brodaglie.  La stessa pittura, al suo nascere, celebrò la brutalità mortale della caccia facendo trasparire nell’erezione del desiderio i balbettii di Eros.  Fu la prima lezione sull’efferatezza.  Poi vennero le ideologie e le brode.

 

Il contadino e il viticultore hanno con i processi di fermentazione la stessa intimità del cacciatore con i processi di putrefazione.  I primo fecondano i campi per salvare la “cultura” dal divino, il terzo lo implora dedicandogli il fumo delle pire per salvare ciò che s’illude sia la sua umanità.

 

A differenza di molte preparazioni alimentari la salsa presuppone la pazienza e l’ordine.  In principio come abilità e sensibilità, poi come ciò che serve alla gerarchia.  Forse è questa la ragione per la quale nel diciassettesimo secolo in cucina entrarono i salsieri e vennero messi da parte i pasticceri.  In superficie su tutto ciò trionfa il sistema dello spettacolo con le sue paillete, ma l’eccesso è un modo indigesto di digerire ciò che nasconde: l’utilità.  Scrive il cardinale Mazzarino alla fine della voce “Banchettare” del suo Breviarium (1684): “Il vasellame altresì della mensa, ove s’introduce tal diversità di vivande a tavola, potrebbe tempestarsi di false gioje, preziosità tutte finte”.

 

Alla fine del Seicento abbiamo ancora salse che sono esplosioni di sapori più che di un calcolo ragionato del gusto.  Non tollerano che il primato dell’ordine, esigono per assecondare i vizi frontiere lontane e speziate.  Al contrario per il popolo il sapore è qui l’altra faccia della fame, esso si rivela inutile e profano da immaginare.  Agl’occhi della penuria striscia lungo i servizi di credenza e di tavola e si mostra imbarocchito e imbellettato, cioè impuro(°).

 

(°) – Il numero delle salse nel Seicento cresce insieme agli obblighi cerimoniali.  Insieme moralizzano il vezzo ostentativo dello spreco.  In questi anni non solo la fame, ma anche l’appetito ha le sue ragioni su cui veglia la sovranità malevola della differenza di classe.

Non va dimenticato che la rassegnazione sofferta genera le jacqueries, la fame vissuta i furori.

Alla fine del quattordicesimo secolo(°) il vino bianco prese il sopravvento su quello rosso nelle tavole degli altari.  Bastava una goccia caduta di quest’ultimo a rendere impresentabili le tovaglie e a far vacillare la fede.  Così, per analogia, qualche secolo dopo mentre comparivano le salse al pomodoro cominciarono a sparire i tovaglioli piegati a “ficca”.  La sessualità ha spalancato più di una porta in cucina, ma mai accompagnata dalla pulsione di morte.

 

(°) –Per i fedeli questo passaggio fu traumatico, per farlo accettare si ricorse ad un miracolo, quello olandese di Boxtel del 1379, quando un sacerdote che aveva tra i primi usato il vino bianco si vide ciò nonostante la stola macchiata di sangue dopo essersene rovesciato addosso per distrazione una fiala di questo.

 

La salsa è un’impronta come il piede delle puttane di Alessandria che incidevano sulla suola dei sandali  un segno o una mappa per indirizzare i clienti al luogo del loro commercio.  Del resto la salsa abita un piatto, dentro i suoi confini semiologici, come l’uomo abita un luogo.  Soltanto i modi sono differenti.  La salsa è lo sputo che contamina il cucinato, la sua identità, come lo è il sudore per un abito.  Uno sputo che la fa propre, nel duplice ambiguo significato di questo termine nella lingua francese.  Come le camere ad ore delle puttane la salsa ha l’odore del desiderio.  Come il pagus, in cui sono seppelliti i morti della nostra storia, forgia i sapori locali e rivela gli interessi degli ideologici.  Va aggiunto che dentro i suoi confini alla consistenza naturale degli ingredienti la salsa oppone la morbidezza ambigua dei segni.  Ritaglia, all’interno del piatto, l’ens.

Da pagus viene paesaggio: la salsa è la neve sulle rovine del panorama carnivoro.  A stare agli etimi – che legano l’avere all’abitare – la salsa abita i piatti di chi se li può permettere, agli altri bastano le brode nei vasi.  C’è anche da rilevare che la salsa è l’unica traccia di senso che consente attraverso le pieghe della cultura materiale di risalire alla sua storia sociale e a dispetto di quella economica che appartiene agli ingredienti e ai capitali.

 

Come un tempo il mistero della lievitazione è stato un affare teologico, così nel Seicento la salsa diventa quel mistero della politica che trasforma la sostanza fisiologica in gusto.  Il perché è fondato sull’analogia.  Come il pugno è legato alla falce e martello, così la salsa lo è allo stomaco per l’intercessione della pentola.  Non per caso le pentole a pressione, quando se ne apprezzavano i vantaggi nutrizionali si chiamavano digerenti.  Fu la fretta che cambiò il loro destino.  Che cosa significa?  Che le salse seguono le tappe dell’evoluzione sociale e culturale.  Per farlo sono entrate nel territorio degli elenchi e dei résumé.  Filano come le parole e al dunque sanno essere patafisiche, vale a dire, reggono ad ogni théorie des exceptions.

 

Al pari di una frontiera le salse nascondono per separare, nonostante il flusso continuo di sapori e di linguaggi impiegati per nominarle.  Diventano uno sperma per le nuove morfologie della sazietà in cui la forma bella prende il posto del buono da mangiare.  Per questo invece di ruscellare come una diarrea, sono spruzzate.  Invece di essere assimilabili agli escrementi diventano un simbolo di potenza creatrice.  Hanno smesso di sedurre, ma poco importa, si sono trasformate in marche simboliche, espressioni della globalizzazione agroalimentare.  Da questo punto di vista,  paradossalmente, lo stesso risotto condito con l’oro dei battiloro, con il quale si è celebrata la recente cucina creativa lombarda, è nella forma più antico dell’opera di Kazimir Malevic a cui s’ispira.  Ora è solo un modo di formalizzare il potere della merda.  Un modo per glorificare l’essere o il nulla dei cumshot.

 

C’è un’inquietante analogia sensoriale tra la composizione delle salse industriali(°) e le gigantesche discariche che circondano le città.  Entrambe si appropriano del naturale rivelandone la natura.  Ciò vuol dire che questa natura diventa per l’uomo appropriata nell’accecamento e senza quella certezza che guida l’animale “al suo proprio”.  In altri termini: l’incolto uccide.

 

(°) – Le salse industriali oggi fanno tendenza e in questo nuovo sbrigativo ruolo soggiacciono all’avvicendarsi delle mode, tendono a de-materializzarsi trasformandosi in “giocattoli cucinari” che nascondono ciò che sono diventate, liquami della cultura materiale.

 

Tutti gli uomini parlano, ma parlano lingue diverse.  Tutti gli uomini mangiano, ma secondo cucine differenti.  Entrambi i fenomeni sono forme di proliferazione che nella modernità si proiettano nel luogo comune generale: inglese e ketchup.  Ciò nonostante restano le nuance.  Io mangio in modo diverso dal mio vicino di casa.  Le piccole frontiere non ancora ideologizzate dai localismi ci proteggono dalle “origini controllate e certificate” e dalla bieca necessità di stare dalla parte del valore, nonostante il suo stretto rapporto con il concime.

 

I segni sopprimono dal piatto la sostanza.  Gli animali si nutrono sfamandosi, l’uomo invece s’illude di consumarli in punta di forchetta dentro un paradigma cucinario che gli impedisce di cogliere il senso materiale della poiesis e dunque dell’immaginario.

 09

Salse brillanti di seghi, sudori, oltraggi.  La carne come il marmo lunensis – dicono chi lo cava a Carrara dal ventre delle Alpi Apuane – si gusta dapprima con la mano unta di grasso, capace di avvertirne le vene e la linfa.  Una mano che sa di lardo, di brode, che conosce la fame e il piacere di un pezzo di pane, ma ignora la cultura dei salsieri che l’affogano – la carne – incuranti di ogni arte funeraria.  Quando le carestie stracciavano le budella le brode sono state sul serio il fonte battesimale del pane(°).

 

(°) – L’inchiesta Jaccini del 1884 – dal nome del senatore che presiedette la commissione, il conte Stefano Jaccini – riporta la cena tipo del mondo bracciantile italiano composta da una pentola d’acqua scaldata nel quale era messo un cucchiaio di sale, un tocco di lardo e o un cucchiaio d’olio.  In questa broda la famiglia inzuppava quello che era avanzato del filone di pane nero che il bracciante riceveva al mattino come integrazione della paga e che costituiva il suo pranzo di mezzogiorno insieme a una caraffa d’acqua di fonte.

 

Le salse incantano profumando, fanno svanire il nome delle carni che seppelliscono.  Sporcano di un altro sangue le labbra dei golosi sui tavoli apparecchiati con tovaglie a quadretti, la brocca di vino, un tovagliolo, la fissità di una finestra spalancata sul frinire delle cicale sul tronco degli ulivi.  Altre forme di godimento.  Altri modi di pensare la intima corporis.  Altri giochi di merlettaie sbadate che succhiano il dito punto dall’ago.

C’è sempre una goccia di sugo che assomiglia ad una goccia di sangue sulla superficie di una salsa.  Ci ricorda la forclusione che rende umana, cioè non sacrificabile, la materia che ha un’anima animale.

 

La cucina lenta, come quella delle salse, ricorda il pennello di Jan Vermeer, più che il “cibo lento” dei pavidi e reazionari riformismi locali.  Lucida le casseruole e le salsiere di pellicole e velature delicate.  Sommerge di ermellini la morte, addolcisce come una polvere gli oltraggiati moncherini degli uccelli da passo, il petto sotto una coperta di pancetta, gli occhi cavati di chi si abbandona al buio della morte.  Come sulle tele di Vermeer, appunto, perché le salse sono la pietà di un “distillato” sulla still life del beccaio.

 

Antonio Canova parlava del colore delle perle addormentate sulla nuda carne – chair – delle giovinette innamorate, una carne che si può mostrare.  Casanova le immaginava come mandorle che si aprono.  Sughi, flussi, ruscellature, metamorfosi macellaie  – viande – soffici e umide come la madeleine di Proust, come il petto delle ragazze di Combray nelle notte di plenilunio o quello immaginato da Giacomo Leopardi(°).

 

(°) – Vagassi per il cielo, vedessi le ragazze andare a letto, si sciolgono dal capo il bianco velo, si liberan dal busto il bianco petto.   

 

Con lo Scappi l’idea di un’Opera cucinaria smette di essere un’illusione e diventa un artificio.  L’ocra scura amalgama le spoglie, la società del Paiolo e della Cazzuola è l’antipode delle pesti dello Zumbo, salse e sacrifici celebrano l’arte uniti dall’amore per le decapitazioni e per le docollazioni.  Un’arte che alleggerisce le Vergini facendole evacuare.  Bisogna rileggere il Pontorno.  Intanto basta il Freud dei tre saggi: “Nella sessualità l’elemento più alto e il più basso si trovano dovunque intimamente connessi”.  Lo sapevano bene le suore del monastero di Santa Maria d’Alcobaça in Portogallo, le loro cucine erano affidate a vecchie sguattere con l’utero prolassato dai vizi e pozzetti sul pavimento sotto i quali scorreva un vero ruscello pieno di pesci.  Un’ossessione.

 

Michel Serres è accorato quando parla di un soggettivo perduto a causa delle lordure ideologiche amplificate – alienate – dai media.  Quando un po’ di condimento diventa sozzura?  Quando si spezza il legame tra gnosi, linguaggio e la “ricetta intuitiva”, che testimonia di un legame sociale e di circostanza, diventando legge nel nome del padre, regola ostensiva di classe, spettacolo culinario per ripiegare sulla routine come destino in attesa – con una splendida immagine di Luigi Pirandello – di un treno che fischia nella notte.  In questo senso l’avventura impressionista della nouvelle cuisine(°), sia pure con un ritardo di un pugno di generazioni, sembrò a prima vista un’aurora, la fine dei fondi bruni, dei burri chiarificati, di quella pesantezza che fu l’aplomb della borghesia, il trionfo autoritario dei brasati e della trippa sui gavroche di Victor Hugo o gli scugnizzi di Matilde Serao.

 

(°) – Conosciamo per convenzione la sua data di nascita, il 1974, più difficile è cogliere la sua scomparsa sublimata nella cucina molecolare.  In pratica liquidata dal ritorno futurista del rimosso, tra fiamme ossidriche, piaccametri, coloranti e addensanti alimentari d’incerta origine.

 

In cucina la naturalezza delle stagioni e l’asprezza della fame si scontrano incessantemente contro i codici e i presidi.  Guai alle massaie se vince il rasoio dei capitolati e la legge del si fa così.  Superato l’imbarazzo dell’incesto, peccato senza fondamenti, l’onnivoro aveva conciliato con il fuoco il double bind della sua inquieta natura, una purificazione senza ricette freudiane, funzionale agli “appetiti dell’appetito”.

 

Marchi, etichette, certificazioni.  Nulla di più pericoloso per i fornelli delle famiglie di questi osceni contrassegni identificativi dei c.a.n.i. travestiti da innocue pecorelle.  Nei “sigilli” industriosi dell’Ottocento perlomeno c’era una parvenza di nobiltà bottegaia.  Nei brand, confezionati d’illusioni, che animano il circuito televisivo dell’agro-alimentare, imputridiscono gli interessati propositi di una giusta, sana ed economica offerta alimentare.  In “rete”, come oggi si dice, si trovano c.a.n.i. di tutte le razze e nessun accalappiacani.  Nonostante le apparenze siamo stati estromessi dai processi di formazione del gusto, tutt’al più, se il reddito lo consente, possiamo visitare gli orti di cartapesta dei nuovi Jourdain dell’autenticità (sic), abili nell’illudere gli allocchi di poter ostentare privilegi di genuinità.

 

Sbarazzarci del nome del padre – o, se si preferisce, della funzione fallica della legge – e liberare Gastarea dai bordelli in cui è rinchiusa.  Superato il punto di non ritorno, doppiata la punta della Salute appare finalmente la missione di queste pagine.  Fanne tesoro, lettore, prima che gl’orfani di Lacan ricomincino a decorare con i nodi di Borromeo la superficie delle brode!

 

Se è pronta si “assaggia”, altrimenti durante la preparazione si “sente”.  Sentire, aistanomai, una postura perfettamente inutile per “gustare” l’arte moderna con le sue immacolate illusioni, concetto chiave per lo studio dei fatti sensibili, lo afferma Alexander Baumgarten.  Le salse sono belle, avrebbe scritto Socrate, se sono conformi allo scopo.  Se lo sono, sono anche buone, cioè espressive.  L’odissea del pomodoro in questa prospettiva è esemplare, se solo pensiamo a come fu temuto per il colore della sua pelle!

***

Leggi le altre parti
Una storia sociale delle salse – Parte I
Una storia sociale delle salse – Parte II
Una storia sociale delle salse – Parte III
Una storia sociale delle salse – Parte IV
Una storia sociale delle salse – Parte V
Una storia sociale delle salse – Parte VI
Una storia sociale delle salse – Parte VII
Una storia sociale delle salse – Parte VIII
Una storia sociale delle salse – Parte IX

Una storia sociale delle salse – Parte VII

Una storia sociale delle salse (2013) – Parte VII

 

Siparietto.  Per Marcel Duchamp che cercava di fuggire le grinfie estetiche dal naturalismo impressionista e cubista – siamo alla vigilia della prima guerra mondiale – l’idealismo di certi condimenti consisteva nel fatto che non erano celibi, tutt’al più potevano far ridere per le loro livree.  Lo racconta a Pierre Cabanne al tempo in cui costui collaborava a Combat.  Erano anni, come si capirà dall’analisi della green box, nei quali il problema che l’assillava s’inverava nel sopprimere dalla sua opera ogni nozione di gusto, una premonizione, considerato il fatto che solo negli atti alimentari il gusto può opporsi allo stile.

In questa prospettiva Air de Paris è una delle opere più misteriose di Marcel Duchamp, ma è anche una rappresentazione della sostanza di cui sono fatti i sapori.  Rimanda alle cerimonie magiche e alle alchimie dei materiali, facendo di un niente senza meriti un percorso iniziatico.  Prendendo a prestito il titolo di una celebrata esposizione d’arte alla Kunsthalle di Berna del 1969 possiamo dire: Quando i sapori diventano forma le attitudini sono l’altra faccia del gusto.  Ma questo “gusto”, per quello che è diventato, si è trasformato in una maniacale macchina ideologica oliata dalla convenienze mercantili.

 

Le salse industriali (°) sono come i ready-made nell’arte contemporanea: dei capolavori alla rovescio dell’astrazione.  Glaciali ed impenetrabili al giudizio.  Non è facile pisciare nella Fountain, anche se, come è scritto in The Blind Man (°°), che la difende come opera d’arte, il contributo americano all’estetica è tutto contenuto nello sviluppo degli impianti sanitari.

 

(°) – Sono coetanee delle brode in polvere.  Dirà di loro lo scrittore umoristico nonché premio Pulitzer, Art Buchwald:  Sono polveri da sciogliere nell’acqua e hanno l’esatto sapore di una povere sciolta nell’acqua.

(°°) – Cfr., The Blind Man, vol. 2, 1917.

 

In ogni salsa c’è un’Assunzione!  C’è una riscossa di fornelli e alambicchi, di colori e fumi, di prose che sfidano l’intelligenza di M. Jourdan.  Queste non vengono mai giudicate per la loro genesi, ma solo per l’ermetismo in cui sono affondate e risorte.  La loro stravaganza è un catalizzatore di senso che allontana dalla natura dei loro ingredienti.

 

Le salse si elogiano, ma non si discutono, perché mettono alla prova, spesso ingannandole, l’erudizione, l’ingegnosità e l’onestà dei loro critici.  Chi ama veramente la Mariée messa a nudo dai suoi scapoli preferisce il “non-sapore” (sic), l’ignoranza che privilegia la sostanza zuccherosa dell’incesto.  Non per caso le salse sono un corpo a corpo cucinario sul terreno delle nomenclature e del senso.  Ma che cosa lega la Mariée alle salse, considerato che è la rappresentazione di una rappresentazione? Al di là del mito della trasparenza – l’altro nome dell’opera di Duchamp è The Large Glass – l’apologia di una interpretazione meccanicista e cinica dell’alchimia del desiderio. Un’alchimia che fa delle vergini e delle puttane le due facce di una speculazione sentimentale e insieme le vittime di una sterilità di senso di cui soffrono le “macchine celibi”.  Su questa apologia ancora oggi inciampano schiere di junghiani, per i quali una broda non sarà mai abbastanza amniotica anche se sacra.

 

C’è un segreto nella natura femminile delle salse.  Le leggi della cucina cosiddetta molecolare o dei piccoli chimici – per definire il ruolo maschile degli scapoli e delle loro livree – subiscono nelle mani delle donne più di una distorsione nella forma di una antromorfizzazione.  I componenti di queste salse diventano l’arena di capricci, morbosità, trasformazioni che ne modificano il sapore e le proprietà a tal punto che molti invocano per esse il segreto dell’opus alchemicum o della maternità ciprigna e lattiginosa.  Dolcemente aromatica come i guanti della madre di Pantagruele.

 

Alla resa dei conti nella ristorazione commerciale dominano, più che le salse, dei semplici indirizzi o riepiloghi salsari.  Il primo è quello bruno con i suoi fondi e le sue glace, il secondo è quello bianco per le fricassea o i più modesti spezzatini.  Questi due indirizzi in molti casi si riducono ulteriormente ad uno solo attraverso la “diluizione”, dando vita ad un paradosso cucinario, di avvicinare il sapore di non importa quale salsa all’umami, se non ad odore di broda da ospedale o di concentrato industriale.

Molta acqua è passata sotto i ponti da quando la spregiudicata Berthe assaggiava “toutes les sauces que la vanité inventa pour faire du mal aux pauvre” (°).

 

(°) É la protagonista del romanzo di Charles-Louis Philippe (1874-1909), Bubu deMontparnasse, Paris, 1901.

 

Una storia (VIII).  Alberto Cougnet nella sua arte cucinaria sostiene che le salse devono dare al gusto quell’impressione differenziale, come avviene in acustica, perché con i suoni si può formare un’armonia, con i rumori si otterrà una cacofonia.  Un’analogia che Cougnet, come egli stesso dichiara, aveva ripreso dal lessicografo Émile Maximilien Littré, accompagnandola con l’affermazione del cuoco di François marchese de Bassompierre, che si sente pronto, con una buona salsa, a portare in tavola cucinati anche gli stivali del padrone di casa.  In ogni modo, conclude il nostro nizzardo chroniqueur della cucina italiana di corte, “un’ottima salsa è, sovente, come la bandiera di una nazione che garantisce la mercanzia anche se questa è avariata o di contrabbando”.  Erano gl’anni in cui i salsieri venivano, nella gerarchia delle batterie di cucina, subito dopo gli chef e le salse erano paragonate alla musica e alla pittura, un’arte della delicatezza condita con l’esperienza e l’educazione.  Un’arte che aveva un solo grande museo: il Ritz di Londra diretto da Auguste Escoffier.

 

LessicoSalsina, salsine: per la lingua italiana è l’alterazione di un sostantivo mediante un suffisso, così esprime riduzione o attenuazione di una qualità o di una condizione.  In questa alterazione un tempo prevaleva il significato vezzeggiativo, oggi è prevalente quello spregiativo-svalutativo.

Dobbiamo stare attenti alle salsine come abbiamo imparato a diffidare dei prosecchini, dei risottini, degli spaghettini e dei bocconcini, soprattutto quando vezzeggiano.

Da qualche tempo a questa parte gli chef “sdoganati” dalla politica e prestati dallo spettacolo all’editoria ungono le pagine della carta stampata con due espressioni in cui, senza eccezione alcuna, naufragano le salse: fusione e contaminazione.

La prima deriva dall’easy listening musicale americano che ha mescolato, per palati da fumatori, stilemi tipici del jazz con la strumentazione rock.  Si può dire che tutto è cominciato con Hot Rats di Frank Zappa, estimatore suo malgrado di Edgar Varese.

Anche la contaminazione è un’espressione musicale, ma qui il parallelo è con la narrativa contemporanea che mescola elementi antinomici considerati ingredienti capace di caratterizzare un genere (o una cucina) rispetto ad altri.  La contaminazione provoca dei veri e propri brividi gastronomici quando diventa ibridismo, cioè innesti di elementi di cucine estranee l’una all’altra e mal combinate, degenerando in un esotismo da operetta.  Il precedente è la cucina futurista di Marinetti e Fillia, ma perlomeno loro lo facevano per l’Idea e con il necessario umorismo nero.

Entrambe queste espressioni sono figlie più che della globalizzazione, di quella tendenza turistica che Johnny Rotten dei Sex Pistols ha così sintetizzato: “A cheap travel in a misery country”.

07

Ogni animale è nel mondo come

l’acqua dentro l’acqua.

George Bataille.

La lama e la ruggine.  La coscienza dell’essere presuppone il desiderio da cui deriva il sentimento di sé, lo scrive Alexandre Kojève introducendoci alla lettura di Hegel.  In cucina, là dove l’uomo pensa con le dita, il desiderio è la leva che rimuove l’accozzaglia di detriti che ci offre la natura per arrivare alla polisemica rugginosità della forma di salsa.  Le conseguenze le conosciamo da tempo, la cultura sommerge le alterità nell’oblio della forma per redimersi.  Redimersi dalla sostanza dell’imaginaire sulla via degli aromi che porta a Berenice, oggi Bengasi.

 

In cucina l’insoddisfazione è incompiutezza.  Corre parallela alla sua natura inachevé, che rifiuta d‘identificare il riuscito con il perfetto: uno scacco del desiderio e una rivincita della sostanza.

Di contro ridurre l’animale mangiato a oggetto o a cumulo di detriti è sempre più difficile.  Le salse qui ci hanno aiutato per secoli – ingannandoci – insieme alle ideologie. Due forme di scotoma.  Oggi si fa strada la riduzione cucinaria a forma bella perché, come dicono i post-moderni, il bello è buono da mangiare e distrae dal pensare.  La battaglia contro l’immanenza, per come la chiama George Bataille, non è ancora vinta e inevitabilmente i lupi si fanno avanti.  Ululando.

 

È forse minore l’ansia se l’animale nel piatto è consumato invece che divorato?  Non c’è in questo consumare carne un richiamo agghiacciante ai macelli come campi di sterminio?  L’igiene dei sogni naturali è dietro il dito di Marcel Mauss, ma non basta.  Nella dialettica padrone e servo questi è la protesi se l’altro e la mano affamata.

In cucina una gallina presa per le zampe riscrive per l’ennesima volta la storia di chi sta dalla parte del cappio.  Lo stesso avviene in fabbrica, con la differenza che la sofferenza operaia è più grande perché l’operaio sa di poter pretendere di essere considerato come un soggetto nonostante la forma di capitale gli abbia tolto ogni autonomia e ogni identità di sé.

L’immanenza (°) in questo caso misura il distacco tra due mondi in cui l’unica relazione è la fame dell’uno per l’altro.

 

(°) – Per la logica.  Le salse sono immanenti perché non sono necessarie ai fini della nutrizione.

 

Sudore umano mescolato con deiezioni di ascessi, ragnatele, blatte morte e lievito tedesco marcito sono gli ingredienti del pane operaio d’affogare nelle brode, lo scrive Kark Marx citando il Report del 1863 “On Bleaching Works…” del signor H.S. Tremenheere(°).

 

(°) – Ricorda da parte sua Miriam Mafai in Pane Nero (1987): “Si inzuppava nel latte la mattina, si inzuppava nel sugo a mezzogiorno, si inzuppava nel brodo la sera”: ecco la Cuccagna operaia!

 

Davanti al camino acceso con le sue brode fumanti il nostro modo di pensare il mondo come un alimento deve mutarsi in una visione ostetrica, in questo modo può arrivare alla coscienza con i suoi enigmi e i suoi simboli.  Del resto, ha scritto Rainer Maria Rilke, solo lo sguardo dell’animale si apre sull’aperto, cioè, sul senso.

 

Il plurale indeterminato e il genere annullano nel piatto il frammento corporale dell’animale tanto quanto la singolarità dell’organismo lo esalta.  In questo modo la nutrizione a differenza della fame ha sempre uno zoccolo ideologico e ragioni proprie.

 

Le antiche brode valevano solo per quello che dissimulavano e che si riduceva all’ingestione feticistica della sostanza animale attraverso delle procedure culturali.  Un tempo tutto ciò costituiva un apertura all’alterità, un passaggio delle brode dal ruolo sociale di produttrici di esperienza a quello – tipico delle salse – di produttrici di valori.

Un paradigma che esprime il culto della materia organica, dapprima inghiottita e poi, nel corso del tempo, trasformata in documento, icona, reliquia, opera d’arte.  Alla fine significazione di una significazione che esprime una denegazione.

 

Precludere l’origine del cibo coprendolo di salsa favorisce il contenuto dell’azione cucinaria e sottolinea la falsa coscienza che la riflette (questa azione) in un mondo in cui è lo sguardo animale più che la sua morte che si sacrifica all’umanità senza minimamente comprenderlo.  Il genio di François Pierre de la Varenne – nel secolo in cui le salse cominciano a cuocere in formazione strutturate – è di averle immaginate come una vischiosa tentazione sulla quale ciò che ci sfugge veglia su di noi(°).  Come volontà che ci appare per sottrarsi al destino.

 

(°) – Qualche volta il nome di questo cuoco che ha servito il marchese di Uxelles è scritto Lavarenne.   Il suo libro di cucina, Le Cuisinier François, uscì nel 1651, la prima edizione italiana è del 1682, ma la più famosa è quella del 1815 dei Remondini di Bassano che con gli stampatori di Venezia sono stati i più importanti in Italia nel campo dei libri di cucina.  Meno fortunato è stato il successo del libro di François Massialot (1660-1733) officier de bouche di illustri personaggi, tra cui Filippo I duca di Orléans, in qualche modo continuatore dell’opera di la Varenne.  Eppure, il suo Nouveau Cuisinier royal et bourgeois (uscì in forma anonima nel 1691, ma fu ristampato più volte e integrato) in cui per la prima volta compare una ricetta che insegna a preparare le meringhe e la crème brulée (detta anche crema catalana, creme anglaise, crema cremada o crema di San Giuseppe) ha il merito non solo di aver “alfabetizzato” l’ordine delle ricette, ma per molti anni è stato il “manuale” di cucina più usato dai cuochi di professione.

 

Le distinzioni portano al nome, producono trascendenze, generano tabu, gli animali nominati non si mangiano, quelli che abitano i processi di simbolizzazione si temono per abitudine, tutti gli altri si squartano, non importa se volino, deambulino, striscino o nuotino, conta il trionfo della morte.  Questo trionfo, scrive Bataille, è osceno se riflettiamo sullo sguardo apatico dell’animale dopo il combattimento, ma l’uomo ha ideologie e salse da vendere per coprire i suoi delitti.  Non si doleva forse Charles De Gaulle del fatto che la Francia avesse tante illusioni politiche quanti formaggi?

 

Le salse presuppongono una cucina e degli arnesi adatti al risultato.  Gli chef  hanno il “cinese”, le massaie i colini.  Da tempo sappiamo che queste protesi cucinarie e politiche generano senso piuttosto che utilità anche se vincolati ad una o più funzioni(°).  Il perché sta nel mezzo come fine che guida l’intenzione.  Sugli squartamenti, infatti, primeggerà sempre il superfluo(°°) che è la forma finale dei condimenti e delle ideologie.

 

(°) – Il destino di queste protesi è l’oggettivazione, esse hanno il compito di ridurre a materia organica il vivente, di allontanare  l’intristimento della condizione animale con il carattere divino della vita offesa.

(°°) – Questo superfluo è il contrario della dépense.

 

La salsa con il pomodoro è una delle forme d’immanenza del colonialismo elevata a cecità.  In cucina la “predazione” si traveste sempre di esotismo, un modo per ammansire attraverso il ventre i sensi di colpa, se mai ci fossero.  Ma che cos’è questo esotismo?  Un ingestione feticistica dell’alterità.  Non sa di niente come tutte le cucine fondate su delle culture refoulé.

 

Che cosa opera nel condimento?  Il costrutto.

Anonimo.

I condimenti e le brode contribuiscono al pari delle ideologie ad affogare la continuità che lega l’uomo al mondo per poterlo sottrarre al terrore o all’apatia.  Non c’è nulla di più profano di una bocca che mangia.  È qui che cucina e sessualità biforcano, la seconda a volte esalta il sentimento del sacro, la prima mai.  Non per caso le sue rappresentazioni sono migrate nella liturgia della forma di religione.

 

Da un punto di vista fenomenologico nella salsa l’insieme è chiaro nonostante la confusione degli elementi che la compongono, ma questa chiarezza è ideologica, cioè, opaca, ha bisogno di nomi e di un “artefice”.  Ancora una volta alchimia e cucina corrispondono.  Cosa vuol dire?  Che le salse, come le ideologie, sono grandi meno sono reali.  Anzi, come dicono i gourmet, sono divine.

 

La preparazione delle carni non ha essenzialmente il senso

di una ricerca gastronomica.

George Bataille

Nella prospettiva della clinica le salse diventarono i capitoli di una strategia sociale proprio in un secolo, il diciassettesimo, dove più serrato si fece sull’anatomia del corpo umano lo scontro tra medicina e religione.  Su questo scontro le ideologie dovettero intervenire con il loro carico d’ipocrisia allo scopo di considerare un crimine il corpo umano ridotto a cosa di fronte alla riduzione a cosa del corpo animale(°).  Due secoli dopo la forma capitalistica di lavoro restituì al corpo umano l’anima per poter procedere a eliminare l’uno e l’altra nei processi di reificazione.  Il veleno che si usò si chiama merce.

 

(°) – Va da sé.  Il cadavere dell’uomo è protetto con il mquillage o piò drasticamente con il fuoco che lo consuma dal diventare una cosa per evitare il sorgere di pulsioni antropofaghe.  Come?  Suggerisce Heidegger, occultando la realità della res.

 

Scrive Bataille, “il coltivatore non è un uomo: è l’aratro di colui che mangia il pane”, analogamente il salsiere nel Seicento è colui che con le dita inaugura la stagione degli ideologues, la meno peggio tra le illusioni riformiste e, forse, la più efficace se consideriamo “un elemento miracoloso di sapore che è appunto il fondo della sovranità”.

Con la salsa, come con le ideologie, si trasforma l’oggetto della necessità in cosa.  Una tappa obbligata se pensiamo all’intimità che la fame ci costringe a condividere con il mondo e, per suo mezzo, con la rappresentazione della natura.  Un’intimità corporale che ricorda quella della sessualità con il suo così è.

 

Nella natura di babysh degli atti alimentari fiorisce uno dei tratti infantili della gourmandise o, meglio del suo egoismo che imbroda il mondo delle cose e rende orribile la fame soprattutto se consideriamo le politiche dei localismi ossessionati dalla specificità.  Ma perché si tollera l’esaltazione delle qualità senza qualità – che è un carattere della forma di merce – se non fosse perché questi localismi alimentari devono concorrere ad allontanare la morbosa ansia con cui deve convivere l’onnivoro condannato al trogolo?

 

La salsa, come il fumo degli arrosti o dell’incenso offerti agli dei, rallenta la consumazione precipitosa di chi è ancora condannato a vivere all’interno del triangolo culinario di Lévi-Strauss.

Dentro questo triangolo l’anoressia e il voming sono vie di fuga precipitose e psicotiche, impeti di coscienza alienata, rivoluzioni corporali.  Barricate sugli orifizi.  Di contro le salse appaiono socialmente importanti per la definizione dell’individualità di colui che mangia, esattamente come il lavoro per la religione e i signori. 

En passant, non è curioso che la durata della vita, cioè l’età animale, sia così importante nel giudizio sulle sue qualità merceologiche?  Che nitore e sapore s’appannino nel divenire?

In ogni modo se la violenza contro il vivente ha le sue radici nel sacro, la salsa è la negazione di ogni sacralità, ma non di ogni autorità.  Consola e rallegra quelli condannati ai “bocconi amari” sugli sgabelli più spogli del banchetto(°).

 

(°) – Nei banchetti medioevali a ferro di cavallo il sovrano sedeva al centro, a destra e a sinistra si distribuivano puttane, scherani e cavalieri, all’estremità del tavolo quelli che contavano poco o nulla.  Erano gli ultimi a servirsi, destinandosi a rosicchiare ossa, cartilagini e parti di carne meno nobili, spesso rese amare dall’incuria di chi doveva togliere loro il fiele.

***

Leggi le altre parti
Una storia sociale delle salse – Parte I
Una storia sociale delle salse – Parte II
Una storia sociale delle salse – Parte III
Una storia sociale delle salse – Parte IV
Una storia sociale delle salse – Parte V
Una storia sociale delle salse – Parte VI
Una storia sociale delle salse – Parte VII
Una storia sociale delle salse – Parte VIII
Una storia sociale delle salse – Parte IX