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Fondamenti di Sociologia e di Sociologia della comunicazione visuale – Cap.2 – Parte II

Fondamenti di Sociologia e di Sociologia della Comunicazione Visuale. 

Anno accademico 2015-2016

(Appunti a circolazione interna non redazionati.) 

Capitolo secondo – parte seconda.

Premessa:  Da almeno un decennio a questa parte la definizione più comune di informazione è quella di “dati” più “significati”.

Dati dotati di significato, che devono rispettare i significati del sistema scelto, il codice e/o il linguaggio in questione.

Va sottolineato che i dati che costituiscono un’informazione possono essere dotati di significato indipendentemente dal destinatario dell’informazione.

 

Ciò detto, va anche aggiunto come lo sviluppo dei sistemi di comunicazione e di informazione  ha conosciuto, soprattutto a partire dagli ultimi due decenni del Novecento, una grande accelerazione, destinata ad avere, in questo secolo, importanti ripercussioni sulla vita economica e politica, oltre che sul costume, la cultura, gli stili di vita.


Una parentesi.

Abbiamo spesso usato l’espressione, “stili di vita” (lifestyles), proviamo a definirli nell’ambito del discorso sociologico.

I lifestyles sono delle forme sociali, ovvero dei modelli di azione attraverso i quali gli individui dicono, a sé stessi e agli altri, chi sono, a chi si sentono simili, da chi si vogliono distinguere, trovando in queste forme un senso compiuto e appagante per il proprio agire.

I lifestyles sono caratteristici della modernità, in cui non sono più i valori, le ideologie e neppure la posizione sociale (soprattutto quando è “ereditata”) a spiegare il comportamento degli individui, ma sono i gusti, le sensibilità, gli interessi personali, gli effetti dell’educazione ricevuta.

 

Va da sé, un’altra cosa sono i lifestyles considerati dal punto di vista del benessere psico-fisico o della salute.

 

Da tempo –come è facile arguire – i lifestyles sono connessi al tema del consumismo, un fenomeno economico-sociale, tipico delle società capitalistiche avanzate (ma presente anche nei Paesi in via di sviluppo) consistente nell’aumento dei consumi privati, individuali o familiari, al fine di soddisfare bisogni non primari.

Il concetto di consumo vistoso (o, ostentativo) è stato elaborato da T.B. Veblen per descrivere la propensione ad acquistare beni apprezzati non tanto per il loro valore intrinseco, quanto per l’attribuzione di status sociale di classe agiata, che può derivare dal loro possesso.

Su questo tema Fred Hirsch (1931-78) un economista inglese nato in Austria, ha definito ‘beni posizionali’ quei beni di cui usufruiscono coloro che occupano una posizione sociale di prestigio.

In pratica sono desiderati e acquistati perché segnalano distinzione e status sociale, ma la loro offerta non può essere aumentata più di tanto, sia perché scarseggiano, sia perché il loro godimento si deteriora quante più persone vi accedono.

Il consumismo  è di fatto un effetto della persuasione pubblicitaria che agisce sulle scelte dei consumatori attraverso la comunicazione di massa di modelli di consumo associati all’appartenenza, al prestigio e al successo.

Thorstein Bunde Veblen (1857-1929) è stato un economista e sociologo americano, uno dei principali esponenti dell’istituzionalismo economico, una teoria economica che vede le istituzioni produrre e essere prodotte dalle forme economiche.

La sua opera principale è La teoria della classe agiata (1899), in cui sostiene che la proprietà privata non risponde solo alla necessità di sopravvivere, ma va anche interpretata come un segno di distinzione e di prestigio sociale.

Questa è la ragione per la quale la ricchezza non viene solo accumulata, ma mostrata in società attraverso l’ostentazione di beni costosi e rari.

Ciò porta a legare il valore estetico di un oggetto al suo costo economico.

Questa deriva consumistica è tipica in particolare della classi che vivono di speculazione, a esse Veblen contrappone gli industriali, i tecnici, gli artigiani e tutti coloro che producono beni effettivi che fanno evolvere la società.

Alla contrapposizione tra classe agiata e classe industriale si lega in Veblen la contrapposizione tra cultura umanistica e cultura tecnologica.  La prima è un prodotto dell’ozio della classe agiata e diffonde una visione del mondo immaginaria.  La vera cultura è quella tecnologica, finalizzata all’efficienza del sistema produttivo


Ritorniamo sul tema dello sviluppo dei mezzi di comunicazione.

Molti ritengono che questo sviluppo stia trasformando in profondità le stesse basi biosociali della conoscenza e del pensiero umano.

A questo proposito va ricordato che tra le caratteristiche specifiche dei newmedia c’è quella di essere fortemente auto-promozionali e autoreferenziali, vale a dire, capaci di promuovere se stessi, generando miti che alimentano l’immaginario collettivo, suscitando attese spesso impossibili da realizzare.


Le tecnologie dell’informazione e della comunicazione, in inglese Information and Communication Technology (ICT), sono l’insieme dei metodi e delle tecnologie che realizzano i sistemi di trasmissione, ricezione ed elaborazione di informazione.

 

A partire dagli anni ’50 del secolo scorso l’uso della tecnologia nella gestione e nel trattamento delle informazioni ha progressivamente assunto un’importanza strategica crescente sia per le istituzioni che per i singoli.

Oggi possiamo dire che l’informatica –  cioè i congegni digitali e i programmi di software – e le telecomunicazioni – costituite dalle reti telematiche – sono i due pilastri su cui si regge la società dell’informazione.

 

È difficile dare una definizione univoca delle ICT, perché di esse non esiste una definizione generale e condivisa.

In linea generale possono essere considerate come una risorsa essenziale delle organizzazioni, all’interno delle quali è sempre più importante riuscire a gestire in maniera rapida, efficace ed efficiente il volume crescente di informazioni.

In questo senso vanno considerate come uno strumento strategico in grado di mettere a disposizione dati e informazioni qualitativamente evoluti.

 

Il fine ultimo delle tecnologie dell’informazione è comunque la MANIPOLAZIONE dei dati tramite la conversione, la conservazione, la protezione, la trasmissione, il recupero, con l’aiuto del computer e delle tecnologie a esso connesse. 

 

Con l’espressione tecnologia dell’informazione si indica l’uso della tecnologia nella gestione e nel trattamento dell’informazione, in particolare per quanto riguarda l’uso delle tecnologie digitali che consentono di creare, memorizzare, scambiare e utilizzare informazioni (o “dati”) nei più diversi formati: numerico, testuale, audio, video, immagini e altro.

 

La trasmissione di informazioni tra calcolatori connessi fra loro, realizzata a partire dagli anni ’60, costituisce poi un fenomeno di grande portata pratica e concettuale, vale a dire, la progressiva convergenza e integrazione di informatica e telecomunicazioni. 

 

Questi due settori, che per molto tempo si erano sviluppati indipendentemente l’uno dall’altro, perché le telecomunicazioni utilizzavano soprattutto tecnologie analogiche, a partire dagli anni ’70  le tecnologie dell’informatica hanno cominciato a essere mutuate dalle telecomunicazioni e a partire dalla metà degli anni ’80, anche grazie alla diffusione dei personal computer, e iniziata la rivoluzione digitale applicata al campo audio-visivo.

La successiva diffusione della telefonia cellulare, contemporanea alla digitalizzazione delle reti telefoniche e di tutti i media di comunicazione (voce, video, immagini, documenti) ha portato all’ integrazione e alla globalizzazione di tutte le reti.

La tecnologia dell’informazione comprende oggi le reti di comunicazione, i sistemi di elaborazione (qualunque sia la loro architettura) e la multimedialità.

 

“Le ICT non sono applicazioni che migliorano o aumentano le opportunità (…). Sono dispositivi che comportano trasformazioni radicali, dal momento che costruiscono degli ambienti in cui l’utente è in grado di entrare tramite porte di accesso (possibilmente amichevoli), sperimentando una sorta di iniziazione. Non vi è termine per indicare questa nuova forma radicale di costruzione, cosicché possiamo usare il neologismo riontologizzare per fare riferimento al fatto che tale forma non si limita solamente a configurare, costruire o strutturare un sistema (come una società, un’auto o un artefatto) in modo nuovo, ma fondamentalmente comporta la trasformazione della sua natura intrinseca, vale a dire la sua ontologia. In tal senso, le ICT non stanno soltanto ricostruendo il nostro mondo: lo stanno riontologizzando”.

(Luciano Floridi, La rivoluzione dell’informazione).

 

In breve possiamo dire che le ICT stanno costruendo un nuovo ambiente informazionale nel quale i nativi digitali trascorreranno la maggior parte del loro tempo e questo è quello che più interessa le scienze sociali.


Ritorniamo sulla relazione dei newmedia con gli individui.

É molto diffusa l’opinione che le conseguenze dello sviluppo dei sistemi di comunicazione siano sostanzialmente ambivalenti.

 

Alcuni ritengono che l’aumento delle informazioni e l’accresciuta velocità nella circolazione dei messaggi, tanto a livello micro o su scala locale, quanto a livello macro, vale a dire su scala planetaria, non significano in modo automatico un miglioramento o un peggioramento nella qualità della vita individuale o della società.

 

Al contrario, altri ritengono che i sistemi di comunicazione e di informazione abbiano portato a un inquinamento culturale e mentale che sta provocando un degrado dell’ambiente simbolico umano, degrado che corre parallelo a quello dell’ambiente fisico e materiale, che altera il modo di produrre e l’organizzazione economica della società.

 

In breve, lo sviluppo dei newmedia può generare, soprattutto nell’opinione pubblica meno scolarizzata o anagraficamente anziana, grandi paure e nuove illusioni.

In questo contesto i new-media appaiono degli apparati sociali nei quali sono incorporate tecnologie per la comunicazione a distanza. 

La loro funzione principale è quella di connettere e/o di comunicare con il maggior numero possibile di individui e di istituzioni, riducendo al minimo i tempi di diffusione dei messaggi.

 

Nel corso di questo ultimo mezzo secolo essi hanno di fatto consentito il moltiplicarsi di contatti fra culture lontane, accrescendo gli scambi a livello planetario, e quindi sono stati un indubbio fattore di sviluppo, anche se ciò non esclude che ci siano fattori ambientali che possono ostacolare o distorcere la loro funzione o inquinare l’identità delle culture più deboli dal punto di vista dei new-media.

Il primo fattore ambientale di una certa rilevanza è costituito dal capitolo delle diseguaglianze sociali.

La mancanza di istruzione e le condizioni di vita precarie (o al limite della sopravvivenza) in molti paesi – spesso definiti del terzo o del quarto mondo – escludono ampi settori della popolazione dalla fruizione dei new-media.

 

Per di più, molti mass-mediologi sostengono che lo sviluppo dei sistemi mediali e l’affermarsi di quella che viene chiamata la società dell’informazione non contribuisce a ridurre il gap esistente tra paesi ricchi e paesi poveri, ma porta a un suo aggravamento, generando nuove e più insidiose forme di diseguaglianza sociale e di ritardo culturale. 

 

Un altro possibile ostacolo alla funzionalità dei new-media è costituito dal fatto che generalmente in tutti i paesi, compresi quelli definiti democratici, essi subiscono, in una forma o in un’altra, condizionamenti da parte degli ambienti economici e finanziari, e spesso sono sottoposti a forme di controllo politico più o meno esplicite.

 

Va aggiunto che i new-media, che abbiamo definito come apparati sociali, sono organizzati in base a routine formalizzate e dunque sono soggetti a quel fenomeno che in sociologia viene chiamato goal displacement, cioè, a una distorsione degli scopi primari per il quali sono stati costituiti.

Le ragioni classiche di questa distorsione possono essere le più diverse, economiche, strategiche, tattiche, politiche.

 

Tra queste una delle forme più subdole di goal displacement, perché inavvertita anche da chi ne è un attore, è la cosiddetta auto-referenzialità

In cosa consiste?

Sempre più spesso coloro che hanno a che fare coi newmedia – giornalisti, dirigenti, professionisti dei vari campi della comunicazione – invece di rivolgersi al pubblico finiscono per dialogare tra di loro o con quei pochi che hanno un accesso privilegiato alle fonti della carta stampata e delle televisioni, come i leader politici, i grandi manager, gli intellettuali, insieme ad altre categorie di personalità ritenute, non importa se a torto o a ragione, influenti, dai campioni sportivi ai divi dello spettacolo.

 

Questa autoreferenzialità dei new-media è più evidente se si considera l’importanza attribuita agli eventi e al modo di formarsi delle priorità in fatto di temi etici, economici e sociali e nella costruzione delle agende politiche (di chi governa e di chi sta all’opposizione) portando a uno scollamento tra le élite del potere e l’opinione pubblica.

 

Tra gli effetti funzionali, prodotti dall’espansione dei sistemi di comunicazione, vi è poi anche quello per cui quanto più cresce la quantità di informazioni diffuse dai newmedia, tanto più diminuisce l’attenzione del pubblico.

 

In altre parole, paradossalmente, più i new-media allargano l’area della comunicazione, meno riescono a farsi sentire e più perdono di autorevolezza. 

Si tratta di un fenomeno di saturazione che può essere spiegato in base al principio dell’utilità marginale che è alla base di molte analisi economiche classiche.

 

Nella fase storica di sviluppo dei media, caratterizzata da pochi canali di comunicazione, l’offerta informativa rimaneva relativamente bassa mentre l’attenzione del pubblico e la domanda di comunicazione tendevano costantemente a crescere.

 

Oggi, invece, il continuo flusso di notizie e d’informazioni di cui è fatto oggetto fa sì che il pubblico fruisca o approfitti sempre più distrattamente dei messaggi che gli vengono rivolti.

 

Così, oggi il valore aggiunto dei newmedia, come è illustrato dal funzionamento dei mercati pubblicitari, è relativo alla loro capacità di attirare l’attenzione.

 

Da un paio di decenni a questa parte, come rilevano le indagini di mercato, il pubblico è in fuga dall’ascolto dei programmi televisivi e dalla lettura dei quotidiani.

Anche se il calo non è strutturale è tuttavia progressivo e si manifesta in tutti i sistemi mediali giunti a una certa soglia di sviluppo.

Di più, sembra irreversibile fuori dagli stati d’eccezione.

 

Se non si accetta l’interpretazione secondo la quale il fenomeno sarebbe dovuto a una regressione culturale che prima o poi farà il suo tempo, associata a un disinteresse di massa verso l’informazione generalista, questa contrazione del pubblico va intesa come l’indizio di un mutamento sistemico.

Quale? 

Il declino inarrestabile delle comunicazioni di massa tradizionali e l’avvento di modalità nuove di comunicazione mediale.

***

Partiamo da una constatazione.

A partire dalla prima metà degli anni ‘80 il sistema dei media è andato incontro a un cambiamento epocale.

 

Per verificarlo è sufficiente ricordare che sino ad allora, in quasi tutti i paesi del mondo occidentale, vi erano soltanto pochi canali televisivi, spesso monopolio di Stato e in bianco e nero.

L’introduzione della televisione a colori, avvenuta in quel periodo, apparve da principio solo come un miglioramento tecnologico, in analogia a quello che successe nella cinematografia con l’introduzione della pellicola a colori.

 

Più o meno nello stesso periodo in cui fu introdotto il colore, fu inaugurata la diffusione di massa della videoregistrazione e l’arrivo sul mercato dei primi compact disc.

 

Ciò portò alla nascita di un nuovo settore di consumo mediale, quello del home video.

 

A rendere ancora più complessa la trasformazione dei mezzi audiovisivi, comparvero a partire dagli Stati Uniti, nuove tecnologie di distribuzione delle immagini e dei suoni, come la televisione via cavo e via satellite e apparvero, anche in Europa, i primi servizi interattivi, come il minitel, in Francia, e il teletext


Il teletext è un servizio interattivo offerto dalla televisione. 

Consiste in pagine di testo, accompagnato eventualmente da una grafica semplice, visualizzabili sullo schermo del televisore a richiesta dell’utente e è utilizzato per fornire agli utenti ogni genere di informazioni: notizie, guide ai programmi televisivi, annunci economici, orari dei treni, informazioni di utilità sociale, eccetera.


L’effetto a livello di sistema di tutte queste innovazioni fu quello di portare a una convergenza e a un uso combinato delle diverse tipologie di produzione audiovisiva, diminuendo fortemente i tempi di circolazione dei prodotti comunicativi e riducendo di molto l’intervallo che separa la produzione dal consumo. 

 

Tra le innovazioni tecnologiche va ricordata anche quella del telecomando, che permettendo le pratiche dello zapping.


Lo zapping nel linguaggio comune è un modo di guardare la televisione che consiste nel cambiare continuamente canale.

Questa pratica si è molto diffusa grazie all’apparizione del telecomando e all’aumento di canali disponibili.

Lo zapping è spesso considerato sinonimo di pigrizia, di disattenzione o di iperattività.

Può essere considerato un fenomeno di nevrosi indotta o un sintomo dell’evoluzione verso un utilizzo “usa e getta” della televisione.

Diventa inquietante se consideriamo il significato gergale di “to zap” tra le bande giovanili metropolitane, di stendere, far fuori, eliminare.


In sostanza, questo zigzagare da canale a canale, contribuì a rendere l’audience sempre più mobile, sfuggente e imprevedibile.

Tutte queste innovazioni spinsero inevitabilmente verso una trasformazione degli assetti formali dei media.

Per esempio, negli Stati Uniti nacque la CNN, un canale televisivo che trasmetteva soltanto informazioni, ventiquattro ore su ventiquattro.

Oltre a rompere il preesistente sistema oligopolistico dominato da alcune grandi compagnie televisive, la CNN introdusse un modello nuovo di gestione delle informazioni, quello della televisione tematica a flusso continuo che diffonde i programmi via satellite o via cavo e si finanzia tramite abbonamento.

 

In Europa, contemporaneamente, ebbe fine il monopolio statale dell’audiovisivo e l’affermarsi di un modello misto di coesistenza tra radiotelevisione pubblica e radiotelevisione commerciale.

 

La pubblicità, che sino ad allora aveva avuto un’incidenza relativamente ristretta, s’impose come una componente centrale del palinsesto televisivo, investendo il vissuto quotidiano degli spettatori con i suoi stilemi e le sue metafore che contribuirono a alimentare un nuovo e complesso immaginario collettivo e al conseguente imporsi di nuovi modelli culturali.

 

Considerata, soprattutto dal mondo della cultura, negli anni cinquanta e sessanta come una forma di manipolazione e di persuasione occulta, la pubblicità divenne agli occhi di alcuni interpreti, come una tra le forme più originali di espressione della sensibilità e della cultura postmoderna. 

 

In sostanza, il cambiamento sistemico sviluppatosi in quel periodo portò a un modo diverso di considerare il mezzo televisivo e a mettere in questione il concetto stesso di comunicazione di massa, così com’era stato tradizionalmente inteso in precedenza.

 

L’espressione comunicazione di massa viene usata di solito per indicare in modo generico la comunicazione a un pubblico di grandi dimensioni.

 

Non va però dimenticato che, in senso proprio, la comunicazione di massa è quella forma culturale che ha caratterizzato la società industriale di fine Ottocento e dei primi decenni del Novecento, quando i media di fatto non esistevano o erano fruibili solo da una élite, e la circolazione sociale dei messaggi a larga diffusione era assicurata, più che dai media, dalle numerose occasioni in cui una moltitudine di persone si trovava fisicamente in contatto nei luoghi di lavoro, nelle caserme o nelle manifestazioni di piazza, culturali o politiche, spontanee o organizzate.

 

In breve, mentre la folla è un aggregato omogeneo e compatto in cui le differenze individuali si annullano, l’audience è un insieme internamente differenziato di persone disseminate sul territorio.

Spetta a Marshall McLuhan (1911-1980) il merito di aver intuito per primo le nuove implicazioni sociali della comunicazione elettronica (di massa).


La notorietà di McLuhan è legata alla sua inedita interpretazione degli effetti prodotti dalla comunicazione sulla società e gli individui. 

Per questa parte del corso è sufficiente ricordare la sua tesi secondo cui è il mezzo tecnologico che determina i caratteri strutturali della comunicazione, producendo effetti pervasivi sull’immaginario collettivo e indipendentemente dai contenuti dell’informazione che si sta veicolando.


Al suo nascere la televisione era stata considerata nient’altro che un perfezionamento della radiofonia, una scatola dei suoni a cui veniva ad aggiungersi l’immagine.

McLuhan dimostrò che in realtà la televisione è un mezzo del tutto diverso.

Non solo incorpora una tecnologia nuova, ma comunica in base a una logica mediale sua propria

 

Il modo che aveva di esprimersi, aforistico e spregiudicato, costellato da enunciazioni paradossali, hanno fatto sì che questo autore venisse amato e sostenuto da una schiera di seguaci entusiasti, quanto avversato aspramente e considerato alla stregua di un affabulatore da molti rappresentanti del mondo accademico.

 

Ciò portò a non poche incomprensioni delle sue teorie.

 

Gli studiosi di comunicazione ricordano, a questo proposito, la spregiudicatezza con cui egli attaccò Wilbur Schramm (1907-1987), considerato allora come il maggior esponente della communication research.

Un filone di ricerche empiriche, sviluppatosi sin dagli anni quaranta del secolo scorso negli Stati Uniti, che aveva elaborato importanti conoscenze sui meccanismi della comunicazione di massa.

 

McLuhan sosteneva che la televisione, essendo un mezzo freddo, vale a dire povero di informazioni, in quanto comunica essenzialmente attraverso immagini, richiede per funzionare la collaborazione dello spettatore, che deve poter attribuire un significato a ciò che vede sullo schermo. 

Da questa osservazione McLuhan, in contrasto con la tradizione di studi sulla comunicazione di massa, ne deduceva che la televisione, malgrado l’apparenza, è fondamentalmente un mezzo di comunicazione interattivo.

Dal canto suo, Schramm sosteneva che il pubblico non è passivo, come afferma la cosiddetta bullet theory, o teoria ipodermica, di ispirazione behaviorista, ma sa essere attivo e capace di reagire in molti e diversi modi, a volte inaspettati, a uno stesso messaggio.

 

Questa ipotesi è stata in seguito ripresa da un nuovo filone di ricerca, quello sulla cosiddetta neo-televisione. 

In sintesi, essa pone come centrale il problema della produzione di senso, affermando che il senso si genera solo grazie a un patto più o meno tacito tra media e audience.

 

L’introduzione del telecomando e la moltiplicazione dei canali avrebbe poi potenziato le capacità reattive degli spettatori, dotandole di una vera e propria protesi-arma.

 

Uno strumento che ha prodotto una sorta di mutazione antropologica degli spettatori, che ha finito d’imporre alle emittenti di blandire con ogni mezzo, compresi quelli eticamente scorretti, una audience sempre più sfuggente, allo scopo di trattenerla sul suo palinsesto.

 

Negli anni novanta del secolo scorso questo mutamento di prospettiva trovò poi uno sviluppo operativo con il moltiplicarsi degli audience studies, che adottarono sempre più spesso metodi di indagine micro-sociologica ed etnografica.


Il behaviourismo (detto anche comportamentismo o psicologia comportamentale) è un approccio alla psicologia, sviluppato da John Watson (1878-1958) agli inizi del XX secolo (1913), basato sulla considerazione che il comportamento è l’unica unità di analisi possibile della psicologia umana.  Watson era uno psicologo americano studioso di psicologia animale.

 

Le ipotesi teoriche utilizzate fino a quel momento dagli strutturalisti e dai funzionalisti sembravano a Watson troppo esposte al rischio di essere delle interpretazioni soggettive.

Di fatto il comportamentismo è stato il principale avversario delle teorie sull’introspezione, come la psico-analisi.

 

Secondo Watson l’unico studio realmente scientifico del comportamento umano consisteva nell’escludere il paradigma costituito dalla mente, per focalizzare la ricerca solo sui comportamenti manifesti, osservabili.

 

La mente per il behaviouristi è considerata una sorta di black box, una scatola nera il cui funzionamento è inconoscibile e, per certi aspetti, irrilevante.

Quello che importa veramente è giungere ad un’approfondita comprensione empirica e sperimentale della relazione tra certi tipi di stimoli e certi tipi di risposte comportamentali.

 

All’interno di questo approccio uno degli assunti principali è il meccanismo del condizionamento, in base al quale l’associazione ripetuta di uno stimolo (detto stimolo neutro) con una risposta che non è ad esso direttamente correlata, farà sì che, dopo un periodo di tempo, a tale stimolo segua la risposta condizionata.

 

Facciamo un esempio tratto dagli studi sulla reflessologia sovietica di Ivan Pavlov (1849-1936) fisiologo, medico e etologo russo, il primo autore che ha identificato il meccanismo di condizionamento.

Il riflesso condizionato o riflesso pavloviano, dal nome di Pavlov, che elaborò il concetto agli inizi del 1900 nell’ambito degli studi sul comportamento, è la risposta che il soggetto dà alla presentazione di uno stimolo condizionante.  Il riflesso condizionato, in sostanza, è una reazione prodotta nell’animale in cattività da un elemento esterno, che l’animale si abitua ad associare ad un preciso stimolo (presentato subito dopo durante la fase di condizionamento; subito prima una volta effettuato il condizionamento).

Il primo agente diventa perciò lo stimolo chiave, ciò che attiva il riflesso condizionato.

Si cominciava con il far precedere alla somministrazione del cibo a dei cani un suono.

Con il tempo il cane apprende che, dopo il suono, gli verrà fornito il cibo.  A seguito del condizionamento, il suono generava la salivazione del cane.

Lo stimolo neutro, non in grado di determinare la risposta condizionata – la salivazione – dopo tale ripetuta associazione, determina la risposta condizionata.

 

I comportamentisti sostengono che l’osservazione del comportamento è il modo migliore, o il più conveniente, per investigare i processi psicologici e mentali.

Tra di essi alcuni ritengono che sia l’unico modo per indagare tali processi, mentre altri sostengono che il comportamento stesso sia l’unico paradigma appropriato della psicologia.

I sostenitori di questo punto di vista spesso fanno riferimento al loro campo di studio chiamandolo semplicemente analisi comportamentale, psiconomia o scienza comportamentale, piuttosto che psicologia.

Tale interesse per ciò che non è astratto e soggettivo in psicologia fu sviluppato per la prima volta da John Watson, il quale intendeva per “comportamento” il movimento di specifici muscoli.

Il suo programma di ricerca ebbe un forte impulso dal lavoro di ricerca sperimentale dello psicologo statunitense Burrhus Frederic Skinner (1904-1990), che ne fu probabilmente il più grande esponente e sicuramente il più discusso.

 

Successivamente ci furono altri studiosi detti “neocomportamentisti” (tra cui ricordiamo Edward Tolman 1886-1959 famoso per i suoi studi sui topi e del rapporto apprendimento e prestazione) che proposero dei correttivi (le cosiddette “variabili intervenienti del processo S-R“) all’eccessiva semplicità e rigidità del paradigma comportamentista, che – va sottolineato – aprirono la strada ai successivi sviluppi della psicologia cognitiva o cognitivismo.

 

***
La teoria ipodermica (Bullet Theory), o anche teoria dell’ago ipodermico (dall’inglese Hypodermic Needle Theory) è una teoria che considera i mass-media come dei potenti strumenti persuasivi che agiscono direttamente sulla massa dei loro fruitori, in genere soggetti passivi e inerti.

Questa teoria rappresenta uno dei primi tentativi di comprendere il funzionamento della comunicazione interpersonale in maniera sistematica.

Fu molto popolare soprattutto negli anni Quaranta del secolo scorso sulla base delle ricerche della psicologia comportamentale (behaviorismo).

Dal punto di vista di queste ricerche la comunicazione (dei mass media) è assimilabile a un processo diretto di stimolo e risposta.

Come si vede traducendo alla lettera, il termine bullet  significa”proiettile”, ovvero il messaggio mediale è considerato come un proiettile che colpisce in modo diretto un soggetto che ha poche possibilità di opporsi.

In altri termini, il messaggio “sparato” dal medium viene “iniettato” direttamente nella pelle del ricevente, il quale ha poche possibilità di difendersi.

La Bullet Theory, che fin dall’inizio appariva molto schematica, ha oggi solo un valore più che altro documentario.   Per esempio, il concetto di target (alla lettera, bersaglio), usato soprattutto in pubblicità per indicare i destinatari di un annuncio, deriva da questa teoria.

 

Questa teoria ebbe modo di svilupparsi negli Stati Uniti tra le due guerre mondiali (1920-1930), tra i suoi divulgatori ricordiamo in particolare Harold Lasswell, il teorico della communication research (corrente di studio della mass communication), e rappresenta, più che una teoria seriamente argomentata, un’ideologia che si respirava in quegli anni circa gli effetti dei media.

 

Occorre tener presente che in quel momento l’Europa era vittima dei grandi assolutismi politici e le masse erano assolutamente inconsapevoli del reale potere dei mezzi di comunicazione di massa. 


Harold Dwight Lasswell (1902-1978) è stato un politologo statunitense e un docente della Yale University.  È considerato uno dei fondatori del comportamentismo (behaviorismo). 

 

Di Lasswell ricordiamo il suo tentativo di fondere le analisi di Freud e di Marx nella spiegazione del comportamento politico e nell’indagine della politica internazionale.  

Ha fatto numerose ricerche sia sul potere come espressione della forza che sulla sua definizione, la sua distribuzione e i modi della sua utilizzazione in ordine al processo decisionale della comunicazione politica. 

 

Durante la Seconda guerra mondiale fu il direttore della Divisione sperimentale per gli studi sulla comunicazione in tempo di guerra presso la Biblioteca del Congresso. 

Il lavoro svolto presso questo dipartimento gli servì poi da base per lo sviluppo del comportamentismo.

Lasswell fu membro della scuola di sociologia di Chicago. 

Insieme ad altri pensatori liberali del periodo era convinto che la propaganda fosse necessaria per stimolare lo sviluppo della democrazia e aiutare i cittadini a comprendere le decisioni della classe politica al potere. 

Tra le sue opere:Psycopathology and politics (1930).  World politics and personal insecurity (1935).  Power and society (1969).  World revolutionary elite:studies in coercive ideological movement (1965).   Preview of policy sciences(1971).  A signature of power: buildings, communication and policy(1979).


Prendendo il nome dall’immagine dell’ago ipodermico (utilizzato per le iniezioni), questa teoria afferma che i messaggi colpendo gli individui, in modo diretto e immediato, sono in grado di modificare, gestire e controllare opinioni e comportamenti.

 

Come si può intuire la teoria dell’ago ipodermico (o, teoria del proiettile) postula un forte effetto/potere dei mass-media su un’audience passiva e indifesa, manipolata dalla propaganda e dagli interessi (politici e economici) più o meno occulti.

 

In breve, se una persona è raggiunta da un messaggio di propaganda, questa persona può essere facilmente manipolata e indotta ad agire secondo il messaggio ricevuto e senza averne una piena consapevolezza.. 

La teoria ipodermica ha avuto a suo fondamento e giustificazione l’imporsi della società di massa che deriva dalla trasformazione della società preindustriale in società industrializzata.

 

Come abbiamo accennato le tesi della teoria ipodermica sono state rafforzate (negli anni Cinquanta del secolo scorso) dalla teoria dell’azione, elaborata della psicologia behaviorista, che studia il comportamento umano attraverso l’esperimento e l’osservazione.

 

Secondo la teoria dell’azione la società di massa tende a rispondere in modo uniforme e automatico allo stimolo ricevuto dai media e questo meccanismo di risposta è descrivibile con un modello comportamentale del tipo: Stimolo del messaggio  Risposta dell’audience.

 

Di opinione diversa (rispetto alle tesi della teoria ipodermica) erano i teorici della Scuola di Chicago, che si rifiutavano di pensare gli individui (che compongono e animano la realtà sociale) come una massa indifferenziata.

 

Questa scuola, di fatto, riconosceva ai mass-media (della prima metà del Novecento) una grande capacità di contribuzione allo sviluppo della democrazia (ad esempio per dare voce alle minoranze discriminate come sono quelle degli immigrati, della gente di colore, delle donne), sia pure nell’ambito di un’audience tendenzialmente più o meno passiva.

 

Dalle sue ricerche sul campo la scuola di Chicago ne dedusse che se anche la risposta allo stimolo è passiva, immediata e meccanicistica, essa è sempre mediata da una certa resistenza dei destinatari del messaggio e si configura quindi in questo modo: Stimolo  resistenza  risposta.


Ritorniamo in argomento.

A mezzo secolo dalla pubblicazione, avvenuta nel 1964, dell’opera più famosa e completa di McLuhan, Understanding media, molte delle tesi sostenute da questo autore appaiono sorprendentemente attuali, soprattutto se riferite alle reti dei computer e alle nuove prospettive della comunicazione interattiva.

 

L’idea più sorprendente e funzionale di McLuhan è stata quella dei media come protesi, ossia come un’estensione del sensorio umano nell’ambiente e, insieme, mezzo di interazione con esso. 

 

È un concetto che ha le sue radici nella tradizione del pensiero americano rappresentato dal pragmatismo, che questo pensatore rielaborò in maniera originale.

 

In sintesi Mc Luhan sosteneva che la comunicazione elettronica rende “immateriale” il nostro corpo, dilatandolo nell’etere e che questo fenomeno è in grado di generare (come effetto collaterale) una “guerra dei media“, come di fatto si verificava già (siamo alla fine degli anni settanta) con le nuove forme di terrorismo che si servivano della televisione per diffondere i loro messaggi. 

 

Un’altra geniale idea di McLuhan, largamente ripresa in seguito, è quella secondo cui la comunicazione elettronica, considerata la sua velocità e la possibilità di far circolare le informazioni quasi in tempo reale, rende il mondo un “villaggio globale“, vale a dire lo rimpicciolisce.

Tra gli interpreti più originali di McLuhan ricordiamo Derrick de Kerckhove (che di McLuhan è stato assistente e collaboratore).

 

De Kerckhove considera i media elettronici come psicotecnologie che stanno modificando il nostro modo di percepire l’ambiente e di pensare le relazioni fra interno ed esterno.

 

In termini metaforici si potrebbe dire che l’antico uomo del Rinascimento è stato oggi sostituito da un uomo elettrico, che non pensa più come un singolo soggetto, una singola mente, ma è diventato lo snodo di un sensorio elettronico che lo trascende come individuo.

Questo nuovo tipo umano possiamo definirlo un uomo trans-interattivo.  

 

Sviluppando il tema del villaggio globale in senso idealistico, de Kerckhove ha anche preannunciato l’avvento di una intelligenza connettiva basata su un nuovo brain-frame (o, schema-mente), che renderà nella sostanza obsoleti i limiti sia dell’individualismo che del collettivismo così come sono pensati dalle scienze sociali e dalla filosofia ottocentesca.

 

Questo tema di un’intelligenza collettiva/connettiva superindividuale generata dalle reti mediali interattive è stato affrontato anche dal francese Pierre Lévy, che ha cercato di razionalizzarlo e di presentarlo come il progetto ideale di un nuovo legame sociale senza ostacoli.


Pierre Lévy (1956) è un filosofo francese che studia l’impatto delle reti sulla società.

 

È stato allievo di Michel Serres e Cornelius Castoriadis e si è specializzato a Montreal. 

 

Può essere definito uno studioso delle implicazioni culturali dell’informatizzazione, del mondo degli ipertesti e degli effetti della globalizzazione. 

 

È titolare di una cattedra sull’intelligenza collettiva all’università di Ottawa.

 

Pierre Lévy si interessa anche di ordinatori e reti come strumenti per aumentare le capacità di cooperazione non solo degli individui tra di loro, ma anche quelle della collettività, come sono le associazioni,le imprese, i gruppi locali, eccetera.   

Egli sostiene che il fine etico di Internet è lo sviluppo dell’intelligenza collettiva, un concetto già introdotto da altri filosofi del passato e così definito in un’intervista. 

Dice Lévy, “in primo luogo occorre rendersi conto che l’intelligenza è distribuita dovunque c’è umanità, e che questa intelligenza può essere valorizzata al massimo mediante le nuove tecniche digitali, soprattutto mettendola in connessione.  Oggi, se due persone distanti fisicamente tra loro sanno due cose complementari, per il tramite delle nuove tecnologie, possono davvero entrare in comunicazione l’una con l’altra, scambiare il loro sapere, cooperare.  In breve e per grandi linee questa in fondo è il nocciolo dell’intelligenza collettiva”.


Quanto alla tesi che il computer sia una protesi della nostra mente e che sia possibile, in un futuro più o meno prossimo, collegarlo a essa in modo da potenziare le nostre facoltà sensoriali e intellettive, è suggestiva e è stata spesso sfruttata e resa popolare dalla letteratura di fantascienza.

 

Tale filone letterario è stato inaugurato da uno scrittore considerato un caso letterario, Philip K. Dick, che ha affrontato il tema dei simulacri, dei cloni e dei cyborg, e ha inaugurato la fantascienza cyberpunk.

 

Nell’immaginario letterario il protagonista delle narrazioni cyberpunk è in genere un hacker, cioè un nuovo tipo di eroe negativo e, al contempo, una reincarnazione dello spirito underground, il quale si ribella a un mondo inquadrato e computerizzato.

Non solo costui è capace di penetrare nelle banche dati più custodite, ma fa anche saltare le matrici di realtà imposte dalle grandi corporation, liberando gli uomini dalla schiavitù elettronica.
Per restare in tema, accenti ottimistici sono contenuti anche nel pensiero dell’americano Nicholas Negroponte, direttore del Media Lab presso il Massachusetts Institute of Technology, una tra le più note figure di guru dei new-media che da tempo predice l’avvento della società digitale.

 

Negroponte, nel web, è descritto più come una star del cinema che come stereotipo dell’informatico d’avanguardia e studioso delle interfacce tra l’uomo e il computer.  Non per caso ama circondarsi di mistero e parlare in modo oracolare.

 

Attorno alle ricerche e agli esperimenti da lui condotti sono nate molte leggende, sapientemente alimentate.  Vediamone alcune.

Giornali elettronici fatti su misura e personalizzati, computer che avranno la dimensione di un bottone, pur essendo infinitamente più potenti di quelli attuali, addirittura abiti la cui fibra sarà intessuta di micro-chip, che non avranno più bisogno di essere lavati e permetteranno di connettersi in continuazione con persone e centri sparsi in tutto il mondo, telefoni che rispondono da soli e utensili intelligenti d’ogni tipo.

Tutti prodotti cognitivi che hanno la caratteristica di essere pensabili anche se da un punto di vista mercantile non ancora convenienti. 

 

Un caso emblematico di proiezioni future che hanno suscitato brillanti discussioni, ma che oggi sono ripensate criticamente è quello di Joshua Meyrowitz, un sociologo americano esperto di comunicazioni, secondo cui i new-media, siccome consentono di avere scambi e stringere relazioni personali senza necessità di essere fisicamente presenti, porteranno alla perdita del senso del luogo (la coscienza dell’esserci).

 

In altri termini indurranno a uno spaesamento psicologico con imprevedibili ricadute sulla socialità.    

Per i suoi critici questo punto di vista enfatizza una tendenza, ma non valuta con attenzione la circostanza che l’era digitale fa nascere anche nuove forme di selezione e di esclusività basate su nuovi bisogni di prossimità sociale.


Joshua Meyrowitz, sociologo statunitense. Docente di comunicazione presso l’Università del New Hampshire, ha acquisito una grande popolarità con il libro No Sense of Place. The Impact of Electronic Media on Social Behavior (1985)  (Traduzione it., Oltre il senso del luogo. L’impatto dei media elettronici sul comportamento sociale), che ha fatto paragonare Meyrowitz a McLuhan per l’importanza delle sue ricerche sul fenomeno dei mass media

L’opera sostanzialmente esamina come si è modificata la percezione dello spazio umano con l’apparizione dei media elettronici, che sembrano banalizzare le distanze nelle relazioni interpersonali.


Oltre a rimpicciolire emotivamente il mondo reale, si ritiene che i new-media digitali cambiando la nostra concezione dello spazio offrono la possibilità di creare nuovi luoghi, come le comunità virtuali, che pur non avendo come base una contiguità territoriale generano ugualmente delle relazioni di prossimità.

Vale a dire spostano il fuoco del problema dal medium all’uomo e alla sua volontà.


Luciano Floridi (uno dei maggiori esperti della filosofia dell’informazione) ha definito l’infosfera come “lo spazio semantico costituito dalla totalità dei documenti, degli agenti e delle loro operazioni”, dove per “documenti” si intende qualsiasi tipo di dato, informazione e conoscenza, codificata e attuata in qualsiasi formato semiotico, gli “agenti” sono qualsiasi sistema in grado di interagire con un documento indipendente (ad esempio una persona, un’organizzazione o un robot software sul web) e il termine “operazioni” include qualsiasi tipo di azione, interazione e trasformazione che può essere eseguita da un agente e che può essere presentata in un documento.


Va però anche costatato che a venti anni di distanza dall’ormai classico lavoro di Howard Rheingold (sulla Realtà Virtuale, 1993) – un sociologo e saggista americano esperto sul tema dell’impatto e l’implicazione dei new-media nella vita corrente – le comunità virtuali assimilabili al tipo sociologico del buon vicinato, o al modello della fattoria e del ruralismo (homesteading) sono rimaste una minoranza e rappresentano più un fenomeno da iscriversi nel filone del neocomunitarismo californiano e delle élite contro-culturali che a un ampio movimento destinato a rivoluzionare la forma delle relazioni sociali.


Possiamo tradurre homestead con fattoria e l’homesteading come uno stile di vita rurale auto-sufficiente caratterizzato da un’agricoltura di sussistenza spesso accompagnata da una piccola produzione di prodotti di artigianato o di uso domestico. 

Il moderno homesteading (di cui parla Rheingold) si caratterizza soprattutto per la ricerca dell’auto-sufficienza energetica, forse un’altra utopia della modernità, ma sicuramente un’ipotesi affascinante nell’ambito degli stili di vita delle élite culturali del mondo occidentale. 


Come ha osservato Manuel Castells (2001) un sociologo spagnolo, il contributo delle comunità in rete è stato quello di espandere in maniera straordinaria l’attività di connessione, contribuendo a far conoscere ad ampi strati di operatori economici e sociali, al di fuori delle élite tecnocratiche o controculturali, le potenzialità implicite nella comunicazione interattiva a distanza. Potenzialità di cui non conosciamo ancora bene né gli sviluppi, né gli eventuali vantaggi o pericoli.


Manuel CastellsDopo gli studi in Spagna e alla Sorbona di Parigi, ha iniziato la sua carriera di professore di sociologia presso l’Università della California a Berkeley.  Oggi insegna Comunicazione presso L’Università di Southern, sempre in California. 

La sua opera più nota è la trilogia intitolata, L’età dell’informazione. (La nascita della società in rete.  Il potere delle identità.  Volgere di millennio).

In italiano, oltre alla trilogia, sono stati pubblicati Galassia Internet, nel 2002 e La città delle reti, nel 2004.  Nel 2013 gli è stato attribuito il Premio Balzan per la sociologia.


I limiti delle previsioni sull’evoluzione dei sistemi mediali sono di non saper valutare la complessità e le interazioni tra le tecnologie di comunicazione, il funzionamento dei mercati, la forma organizzativa degli apparati e gli stili di fruizione e consumo da parte del pubblico/utente.

Queste difficoltà derivano dal fatto che è difficile riuscire ad avere dei punti di riferimento sicuri in un settore in continua evoluzione e espansione come questo dei new-media.

 

Pertanto, se negli anni novanta la letteratura sulla comunicazione è stata dominata dalle profezie e dalle mitologie nate e diffuse su internet, la tendenza che sembra affermarsi nel primo decennio del Ventunesimo secolo è quella di un ripensamento critico per un bilancio più realistico dei possibili sviluppi in corso.
Per esempio, non si è ancora completamente realizzata la digitalizzazione completa del flusso televisivo che, grazie alla traduzione in un codice binario delle immagini e dei suoni, consente l’aumento delle frequenze e dei canali disponibili dalle poche decine attuali a più di un migliaio.

Una circostanza che, tra l’altro, rallenta l’evoluzione della televisione tematica e interattiva via cavo o via satellite.

 

Si è costatato che il passaggio dal modello di impresa televisiva finanziata dalla pubblicità, con visione gratuita dei programmi, alla televisione a pagamento nelle sue varie forme, compresa quella on demand, è più complesso di quanto non sembri.

A ciò va aggiunto che i media tradizionali non sono affatto scomparsi, come mostra l’esempio della radio, che ha trovato una propria nicchia e nuove formule di fruizione da parte di settori considerevoli di pubblico.

 

Di contro il giornale elettronico personalizzato, che Negroponte chiamava il Me Daily, non si è realizzato, anche se si stanno sviluppando varie forme di micro-giornalismo, come i cosiddetti web-logs, a metà strada tra la bacheca elettronica e il foglio di notizie locali.

Inoltre, è sempre più diffuso il ricorso alle testate giornalistiche nazionali on line per informarsi sugli eventi in corso.


Web-logs o Blog è un termine coniato nel 1997 da Jorn Barger con riferimento ad una pagina Internet in cui l’autore può liberamente pubblicare in tempo reale notizie, storie, riflessioni, idee, opinioni personali e informazioni, che vengono poi visualizzate in ordine cronologico inverso. 

Nel gergo di Internet un blog è definito come un diario in rete.  Questa definizione, tuttavia, non spiega realmente cos’è un blog

 

Un blog è assimilabile a un libro bianco: può essere un diario, un blocco note, un calendario, una collezione di storie e ogni altra cosa l’autore voglia, il contenuto può essere qualunque e non è esso che definisce un blog

Ciò che realmente lo contraddistingue è il tono discorsivo e colloquiale con cui viene scritto, abilitato dalla tecnologia e implementato e diffuso dai blogger.

Jorn Borger è stato uno dei primi blogger americani.  Esperto in intelligenza artificiale e studioso di James Joyce. 

Il suo successo, però, qualche tempo fa è entrato in crisi per alcune sue stupide affermazioni antisemitiche.   


Negli Stati Uniti, in base a dati che risalgono a qualche anno fa, la percentuale di coloro che apprendono le notizie dalla rete è ormai superiore e in modo significativo a quella di coloro che le apprendono dalla televisione.

 

Gli spettatori televisivi che guardano i notiziari sono costantemente diminuiti dal 1993 a oggi, passando da valori vicini al sessanta per cento a poco più di un venticinque per cento.

Si stima che oramai circa l’ottanta per cento dei giovani attinge le notizie dalla rete, trascurando la televisione.

Va infine segnalata la convergenza multimediale tra video e computer, anche se per ora il computer rimane – soprattutto nelle aree non-urbane – un artefatto usato di preferenza nel lavoro e nella vita attiva, mentre lo schermo televisivo continua a essere la scatola mediale che presiede al divertimento e al relax.

 

In ogni modo, anche se con ritmi più lenti del previsto, l’affermarsi di quella che molti definiscono la società dell’informazione, e che altri preferiscono invece definire società digitale o società in rete, sembra gradualmente proseguire.

Lo dimostra il crescente numero di possessori di personal computer, di tablet e di smartphone, che secondo un dato stimato sarebbero oggi (2014) più di due miliardi e trecento milioni nel mondo.

 

Gli utenti attivi di Internet, cioè coloro che passano almeno un’ora alla settimana collegati alla rete, erano 327,5 milioni nel 2000, secondo alcune stime sono oggi (2014) più di due miliardi, circa il venticinque per cento della popolazione mondiale. 


Durante la revisione del testo alcune rilevazioni della Società Nielsen hanno messo in luce che il rapporto degli utenti di lingua inglese con Internet sta cambiando. 

Si valuta che le app (App è l’abbreviazione della parola inglese “application“, ossia applicazione software) rappresentano più dell’80 percento del tempo trascorso su Internet mobile. 

Gli intervistati hanno dichiarato che è più comodo scaricare le app che collegarsi a un browser (Chrome, Internet Explorer, eccetera).

Se questa tendenza si confermerà il web è destinato a diventare un insieme di comunità chiuse, molto diverso dall’idea di rete a cui ci eravamo abituati. 

Questa tendenza era stata intuita dalla rivista Wired che nel 2010 annunciò con un criticato articolo di copertina:”The Web is Dead”, rilevando come si poteva stare un giorno intero su Internet senza stare un minuto in rete.  Vale a dire si poteva leggere i giornali, trovare indicazioni stradali, consultare il meteo e intervenire sui social network senza aprire un browser.

 

Per quanto riguarda l’Italia nelle aree metropolitane si trascorre più tempo navigando sullo smartphone (circa 90 minuti al giorno) che connessi a Internet (circa 70 minuti).  Ancora, il 60 per cento di chi ha meno di venticinque anni naviga solo da mobile.

Da un altro punto di vista.  Gli americani trascorrono – in età adulta – l’equivalente di circa sei mesi all’anno nell’infosfera.

Che implicazioni avrà tutto questo? 

La risposta a questa domanda è ancora confusa e la confusione è alimentata anche dalla velocità dellee innovazioni tecnologiche e dal loro carattere autoreferenziale.   


Stiamo dunque passando da una fase, in cui l’attività di connessione e di accesso alle reti che erano appannaggio solo di ristrette élite tecnocratiche o contro-culturali, a una fase in cui entrano in scena fasce sempre più ampie di pubblico, che negli Stati Uniti arrivano a comprendere più del settantacinque per cento delle famiglie.

 

La rapidità di questa evoluzione, anche se ancora fortemente squilibrata, può essere meglio compresa se si considera che alla radio occorsero circa quarant’anni per raggiungere un pubblico di cinquanta milioni di ascoltatori, alla televisione tredici anni, mentre a internet sono bastati solo quattro anni.

Insieme alla questione del divario digitale, un altro aspetto di una certa rilevanza è quello dell’influenza e dell’impatto dei newmedia sulle forme dei regimi politici e in particolare sulla qualità della democrazia

Il dibattito tra apocalittici e integrati, vale a dire tra chi attribuisce ai media un grande potere e drammatizza le conseguenze della loro influenza sociale e politica, e chi tende a ridimensionarne gli effetti, ha accompagnato fin dalle origini gli studi sulla comunicazione e è destinato per sua natura a riproporsi anche in futuro.

 

In ogni modole difficoltà nell’accertare quale sia l’influenza dei media sul pubblico ha portato i sociologi della comunicazione a distinguere tra gli effetti cognitivi della comunicazione e quelli persuasivi.

 

Questa nuova prospettiva di ricerca è stata aperta innanzitutto dagli studi sul cosiddetto effetto di agenda.

Il termine agenda indica l’insieme dei temi (in inglese issue e in francese enjeux) a cui si attribuisce priorità nei processi di policy making

 

Secondo questa teoria, il più importante effetto dei media non è tanto quello di influenzare l’atteggiamento del pubblico pro o contro le alternative che un problema può avere, quanto piuttosto di rendere questo problema più visibile e quindi metterlo all’ordine del giorno e farlo considerare rilevante sia dall’opinione pubblica che dai politici. 

 

Ciò viene chiamato agenda setting, o predeterminazione dell’agenda politica

 

Uno tra i contributi più originali sugli effetti della comunicazione è costituito dalla teoria della spirale del silenzio.

 

Questa teoria fu elaborata negli anni Settanta del secolo scorso da Elisabeth Noelle-Neumann,  docente di scienza della comunicazione, fondatrice, nel 1947, dell’Istituto di demoscopia Allensbach (Institut für Demoskopie Allensbach) di Magonza in Germania.

 

Questa teoria si occupa in modo particolare dell’analisi del potere persuasivo dei massmedia

 

La tesi di fondo è che i mezzi di comunicazione di massa (in particolare la televisione), grazie al notevole potere di persuasione che ha sui telespettatore e quindi, più in generale, sull’opinione pubblica, sono in grado enfatizzare opinioni e sentimenti prevalenti o convenienti, mediante la riduzione al silenzio delle opzioni minoritarie e/o dissenzienti. 

 

Nello specifico la teoria afferma che una persona singola è disincentivata dall’esprimere apertamente un’opinione – che percepisce essere contraria all’opinione della maggioranza – per paura di riprovazione e di isolamento da parte di questa maggioranza. 

 

Ciò fa sì che le persone che si trovano in questa situazione sono spinte a chiudersi in un silenzio che, a sua volta, fa aumentare la percezione collettiva (non necessariamente corretta) di una diversa opinione della maggioranza, rinforzando di conseguenza, in un processo dinamico, il silenzio di chi si crede minoranza. 

 

Questa teoria ha avuto un notevole impatto sulla scienza della comunicazione, in modo particolare sullo sviluppo del dibattito sui poteri di persuasione dei media, in contrasto con le scuole liberali che sostenevano che l’effetto di essi sul pubblico non fosse rilevavate e che comunque fosse gestibile.

 

In estrema sintesi la tesi centrale della spirale del silenzio può essere riassunta così:

Il costante, ridondante e caotico afflusso di notizie da parte dei media col trascorrere del tempo può sviluppare un’incapacità nell’opinione pubblica a selezionare e a  comprendere i processi di percezione e di influenza dei media stessi.  Da qui lo svilupparsi della cosiddetta spirale del silenzio.

 

All’interno di questa situazione, infatti, l’individuo singolo matura il timore di essere una minoranza rispetto all’opinione pubblica generale, così che per non rimanere o sentirsi isolato, anche se ha un’idea diversa rispetto alla massa, non esterna questa idea e cerca di conformarsi con il resto dell’opinione generale.

 

Nel corso delle sue ricerche, Noelle-Neumann ha anche dimostrato che le persone posseggono una specie di senso statistico innato, grazie al quale riescono a capire quale è l’opinione prevalente e, in questo modo, a conformarsi a essa senza tradire la propria.

 

Oggi le indagini sul campo hanno provato che i mezzi di comunicazione di massa non fanno emergere da soli la spirale del silenzio (in quanto fenomeni simili sono stati riscontrati anche in società dove i mass-media non sono diffusi), ma sono in grado di accentuare in modo significativo la paura dell’isolamento e quindi il processo di adattamento all’opinione generale.

 

C’è poi da sottolineare uno degli effetti collaterali che conseguono alla spirale del silenzio.

 

È l’esercizio, da parte dei massmedia, di una pervasiva funzione conformativa di omologazione e di conservazione dell’esistente, che di fatto li spinge a svolgere un ruolo ostile al rinnovamento delle sensibilità, dei gusti e delle opinioni.. 

(Cfr.,La spirale del silenzio – Per una teoria dell’opinione pubblica. Roma, 2002).

 

Per riassumere, secondo Noelle-Neumann, gli individui di fatto si trovano da almeno mezzo secolo a questa parte immersi in uno stato di isolamento –da lei definito pluralistic ignoranceper il quale sono indotti a cercare di comprendere se il loro punto di vista sia condiviso da altri, prima di esprimersi pubblicamente.

 

Se questi individui trovano delle conferme alla loro opinione, la sostengono apertamente, mentre tendono a tacere in caso contrario.

 

Si innesca così, anche non volendo, un processo a spirale in cui, di volta in volta, gli uni si zittiscono e gli altri parlano più forte finché non si raggiunge un punto di equilibrio. 

 

Da questo punto di equilibrio scaturisce poi un clima costituito soprattutto dall’opinione dominante. 

 

new-media in questo processo svolgono un ruolo essenziale perché sono essi che forniscono rappresentazioni e narrazioni delle tendenze che si vanno affermando.

Ma è chiaro che tutto ciò è in relazione con il grado, maggiore o minore, di pluralismo dei mezzi di comunicazione.


In una democrazia pluralistica l’agenda politica si dovrebbe formare entro delle palestre di discussione aperte e pluraliste, palestre di cui oggi possiamo osservare una loro parodia nei talkshow, spettacoli a basso costo nei quali gli opinion leader e i rappresentanti degli apparati politici competono fra loro e interagiscono con i media, cercando di stabilire a quali temi vada attribuita la priorità e di affermare una rappresentazione a loro favorevole del clima d’opinione.

 

La qualità di una democrazia, come è noto, oltre che dal pluralismo dei mezzi di comunicazione, dipende anche dal mantenimento della distinzione dei ruoli tra coloro che informano e i politici.

 

Quando questa distinzione tende a scomparire, la capacità di tematizzazione del giornalismo viene meno, il grado di autoreferenzialità del sistema di governo aumenta favorendo un distacco fra élite politica e cittadini.

 

In questo senso, l’influenza che i media hanno sulla politica varia anche a secondo del contesto sociale e politico dell’ambiente in cui operano.

 

Nei paesi dove sono al potere i regimi autoritari, o dove si sta sviluppando una transizione alla democrazia, il giornalismo e i media hanno quasi sempre svolto o svolgono una importante funzione democratica e contribuito positivamente al ristabilirsi delle libertà civili. 

 

Viceversa, nelle democrazie consolidate l’interazione fra media e politica tende a produrre effetti involutivi.  

 

C’è anche da rilevare che nelle democrazie consociative, che si basano su dei sistemi elettorali proporzionali, tende a generarsi il fenomeno della autoreferenzialità.

 

Nelle democrazie maggioritarie, e in particolare nei regimi presidenzialisti, invece, la politica-spettacolo genera forme di campagne negative basate sullo scandalismo e sull’attacco personale degli avversari che, a loro volta, diffondono cinismo e portano al rifiuto della politica da parte di larghi settori dell’opinione pubblica.

 

Tra gli elementi strutturali che caratterizzano l’evoluzione attuale delle democrazie mediatizzate, due in particolare vanno segnalati.

 

Il primo è costituito dall’uso sempre più frequente dei sondaggi d’opinione, non soltanto nell’imminenza delle campagne elettorali, ma in occasione di ogni evento o congiuntura di un qualche rilievo.

Questo crescente ricorso ai sondaggi assume la forma di una continua interrogazione del corpo elettorale e di una ininterrotta messa in discussione del consenso e degli equilibri di potere, che dà luogo al fenomeno delle campagne permanenti. 

 

Il secondo elemento, intrecciato a questo primo aspetto, è quello della formazione di apparati sempre più massicci di consulenti ed esperti di comunicazione e di campaigning, che devono essere considerati come un tipo nuovo di attore politico, differenziato sia dagli apparati dei media che da quelli dei partiti o dei leader.

 

Tutto ciò ha reso popolare la figura dello spin doctor (termine intraducibile in italiano) il cui compito è quello di fornire ai media e all’opinione pubblica la versione autentica o meglio, autenticata dei fatti, vale a dire l’interpretazione più favorevole degli eventi e dei temi più scottanti, anche a dispetto dei fatti stessi.


I compiti dello spin doctor sono molto vari, ma tutti riconducibili a una comune radice: massaggiare il messaggio, cioè estrarre il meglio da qualsiasi situazione in cui sia implicato il suo committente, fornendo ai media una versione aggiustata di un evento-notizia in veste volta per volta di consigliere per la comunicazione, capo ufficio stampa, portavoce o campaign manager.

 

Lo spin doctor gestisce una crisi con messaggi o tattiche comunicative ad hoc, specialmente nel campo della politica, nei confronti ad esempio di una decisione impopolare, correggendo e smussando eventuali incaute prese di parola del politico che assiste, fornendo all’opinione pubblica l’interpretazione sexed up delle esternazioni del soggetto per cui lavora, al fine di evitargli critiche o comunque commenti malevoli. 

Un’altra attività dello spin doctor è fornire notizie “informali” ai giornalisti, facendole passare per confidenze o facendole filtrare come notizie anonime. 

Altro compito dello spin doctor è promuovere l’immagine di un soggetto come se fosse un prodotto commerciale. 

Le attività dello spin doctor, quindi, in un certo senso riassumono e per altro verso travalicano gli incarichi del tradizionale addetto stampa e del consulente d’immagine..


Su questi temi una linea di interpretazione critica che si potrebbe definire neo-tocquevilliana (da Tocqueville) è stata sviluppata in Francia da Pierre Bourdieu, il quale, già in un saggio del 1973, aveva affermato provocatoriamente che l’opinione pubblica non esiste e che le indagini d’opinione, lungi dall’essere obiettive, sono un simulacro della volontà popolare, costruito con la scusa di dare la parola alla gente e utilizzato poi (questo simulacro) come instrumentum regni. 


Alexis Henri Charles de Clérel de Tocqueville (1083-1859) è stato un filosofo, un politico, uno storico e un magistrato francese.  Di lui Raymond Aron ha messo in evidenza il suo contributo alla sociologia annoverandolo tra i fondatori della disciplina.  È considerato uno degli storici e studiosi più importanti del pensiero liberale. 

(Cfr., R. Aron, Les étapes de la pensée sociologique (1967) (“Le tappe del pensiero sociologico”).


Un punto di vista non dissimile è stato sostenuto negli Stati Uniti da Benjamin Ginsberg, un filosofo della politica docente alla John Hopkins University nel Maryland, secondo cui quella attuale è un’età in cui dominano le opinioni delle masse manipolate.

 

Per Ginsberg, tra le masse e i leader viene a formarsi una specie di circolo vizioso: i politici, interessati a assecondare il pubblico, con i sondaggi ne catturano l’immagine per poi usarla come una loro risorsa di potere.

 

Su questo tema, in particolare, Bourdieu ha insistito nei suoi ultimi scritti, accusando la televisione di cedere alla logica commerciale della misurazione dell’audience e di piegarsi alle esigenze demagogiche di quello che chiama il plebiscito commerciale.

 

C’è poi da osservare che con la diffusione del personal computer e lo sviluppo delle attività connettive e della navigazione in rete si sono creati nuovi e inediti scenari nell’interazione tra media, politica e opinione pubblica.

 

A questo proposito emergono due preoccupazioni in un certo senso opposte.

 

La prima è quella di un rafforzamento del controllo sociale.

Attraverso internet centri appositi possono invadere la nostra intimità e giungere a controllare ogni aspetto della nostra vita quotidiana, manipolandola.

Grandi satelliti spia già sorvegliano ogni nostro comportamento e denunciano ogni nostra trasgressione alle regole.

L’uso di carte elettroniche, poi, rivela in continuazione i nostri movimenti alle grandi compagnie che se ne potrebbero servire per nuove tecniche di marketing.

 

Inserite nelle banche dati delle centrali di intelligence queste informazioni personali consentono una gigantesca schedatura di quello che McLuhan chiamò il Villaggio Globale.   

 

Internet, secondo questo punto di vista, rappresenterebbe l’avvento del Grande Fratello.

 

I secondi, invece, temono che la rete porti a un indebolimento del controllo e possa avere conseguenze disgregative e anarchiche rispetto al tessuto dei rapporti sociali, diffondendo disordine e alterando la vita sociale delle comunità.

 

Temono che nei meandri del web possano annidarsi terroristi, sette eversive, criminali pronti ad agire, gruppi che mettono a disposizione di chiunque tecnologie distruttive.

 

Entrambe queste tesi estreme contengono qualche verità e sono discutibili.

In sostanza colgono aspetti problematici di una realtà in rapida trasformazione.

 

Come è stato osservato, se la società industriale ha dovuto affrontare il problema della costruzione di una sfera pubblica condivisa, la società dell’informazione deve risolvere quello della costruzione di una sfera privata protetta, vale a dire della tutela dell’individuo di fronte all’invadenza dei media e soprattutto dei new-media.

 

Un altro aspetto, non meno importante, del rapporto tra newmedia e democrazia riguarda il modo in cui vengono prese le decisioni politiche.

 

Se in passato solo un ristretto numero di specialisti e di attori politici poteva concorrere a definire i provvedimenti da assumere, oggi i newmedia e le reti connettive rendono possibili forme di consultazione molto più vaste e decisioni assai più ponderate.

 

In questo caso i pro e i contro di una scelta politica possono essere resi più trasparenti e messi alla portata di tutti tramite le reti.

 

In pratica un’adeguata combinazione di sondaggi mirati può rendere il processo decisionale

autoriflessivo, cioè capace di correggersi e di imparare dall’ambiente.

 

Ma come difendersi da coloro che agiscono nell’ombra degli apparati?

Un’altra domanda in sospeso!


Ritorniamo al tema specifico della comunicazione.

 

Le straordinarie potenzialità offerte dalle tecnologie della comunicazione, per essere sfruttate appieno, devono essere considerate sia in relazione ai rischi connessi che a un loro inappropriato utilizzo.

 

Nella modernità il discorso sulla tecnica è così spesso polarizzato: o mette in luce, in maniera acritica, il suo potere taumaturgico, oppure rievoca angosce e paure.

Il timore che la tecnologia possa sfuggirci di mano è sempre in agguato e ha radici profonde: basti pensare al mito di Prometeo o a delle figure come il Golem o Frankenstein.

 

Diciamo che da qualche tempo a questa parte non sono solo il nucleare, la chimica e la manipolazione genetica a rivelarsi pericolosi,  ma possono diventarlo anche le tecnologie digitali e alcuni fenomeni culturali spesso sottovalutati, come l’esplosione informativa.

 

Per comprendere queste paure dobbiamo considerare anche le loro proporzioni.

 

Mentre la Biblioteca di Alessandria, con i suoi circa settecentomila rotoli di papiro e pergamena, conteneva tutto il sapere del mondo occidentale antico, il patrimonio librario della Bibliothèque Nationale de France che occupa oggi oltre 400 chilometri di scaffali, è solo un frammento delle nostre conoscenze.

 

Questa moltiplicazione delle informazioni, divenuta esponenziale con Internet e la telefonia cellulare, sta generando due fenomeni ancora incontrollati: l’anoressia informativa e il suo contrario, l’obesità informativa.

 

In entrambi i casi il crescente proliferare dell’informazione riduce la capacità dell’uomo di assimilare in maniera razionale la conoscenza, spingendo, soprattutto i giovani, a assorbire in maniera ossessiva, e spesso acritica, informazioni non nutrienti.

 

A ciò si aggiunge il cosiddetto sporco digitale, cioè le tracce che lasciamo sulla rete tendono progressivamente a diventare indelebili.

Come è noto i motori di ricerca registrano tutto, ma non esiste un processo condiviso che elimina dalle liste dei motori le informazioni non più attendibili o invecchiate.


Nella vita reale una buona codificazione è sempre un po’ ridondante

La ridondanza si riferisce alla differenza tra la rappresentazione fisica di un messaggio e la rappresentazione matematica di esso, che non usa più bit di quanti sono necessari. 

 

Le procedure di compressione, come sono quelle che riducono il peso delle fotografie digitali, operano riducendo la ridondanza dei dati.    

 

In ogni modo la ridondanza non è sempre qualcosa di negativo perché può ridurre i rischi di un fraintendimento (dati inviati e mai ricevuti) o del rumore (dati ricevuti ma mai inviati).

In ogni modo, il fine di un processo comunicativo è la fedeltà, cioè, la trasmissione del messaggio originario dall’emittente al ricevente senza alterazione dei dati. 


Anche strumenti rivoluzionari e apparentemente democratici come l’enciclopedia online Wikipedia vanno usati con grande cautela perché è la massa dei lettori che decide circa la veridicità dell’informazione, ma questa massa, come è oramai assodato, tende il più delle volte a riportare solo fatti banali e dati ritenuti oggettivi, eliminando giudizi e opinioni.

 

Questo processo di gestione del consenso finisce per creare un’unica base condivisa e massificata di conoscenza, eliminando le differenze, le ambiguità, le incertezze, la criticità.

 

Ecco perché da occasione democratica Wikipedia si sta mutando, per chi non sa già o non ha dimestichezza con le informazioni, in un pericoloso strumento di omogeneizzazione culturale.

 

Per gli studi sociologici ogni analisi delle nuove tecnologie della comunicazione non dovrebbe assolutamente prescindere da come l’uomo ha reagito e si è adattato a esse.  Questo perché le tecnologie sono da tempo indissociabili dal cammino dell’uomo verso la conoscenza e l’affrancamento dalle forze della natura.

 

Un tale potenziamento delle capacità umane, infatti, si trascina dietro aspetti fortemente problematici.

 

Oltre ai benefici immediati e osservabili – maggiore velocità e capacità di calcolo, possibilità di accedere a enormi quantità di informazioni – possono subentrare effetti collaterali che, alla lunga, rischiano di vanificare i benefici conseguiti.  

Non è raro che l’espansione di una funzionalità possa tradursi in una atrofizzazione di un’altra, soprattutto a livello dell’esperienza sensoriale.   

 

In passato, se l’uomo non era in grado di usare una specifica tecnologia, si limitava a non utilizzarla, o la faceva usare da chi n’era capace.

 

Con le tecnologie digitali, questo non è più possibile, non soltanto per la pervasività di tali tecnologie, vale a dire che tendono costantemente a diffondersi in ogni aspetto della vita corrente, ma anche e soprattutto, per la loro percepita necessarietà.

 

Oggi Internet è considerato un diritto e il cosiddetto – divario digitale – la separazione fra chi può accedere alla rete e chi no – viene ritenuta una nuova forma di esclusione che deve, almeno a parole, essere contrastata a ogni costo, con attenzioni e investimenti importanti.

 

Gli individui, dunque, non possono chiamarsi fuori dalle tecnologie digitali e dal loro impatto sulla loro vita corrente, ma non è tutto perché nel frattempo queste tecnologie continuano a progredire parallelamente a un altro fenomeno, quello degli individui che leggono e studiano sempre di meno.

 

Un tale divario tra l’uomo e la tecnica sta facendo nascere una vera e propria patologia della personalità, intesa come una mancata armonizzazione e sincronizzazione tra il mondo umano e quello rappresentato dalla tecnica e dalle tecnologie. 

 

Le tecnologie, in particolare, stanno assorbendo tutta la capacità intellettuale dell’uomo, ma a danno delle sue potenzialità sentimentali, pulsionali ed emotive.  È come se esse nutrissero la cultura delle cose, invece che la cultura degli individui.

 

Vediamo adesso il problema da un altro punto di vista.    

 

Nel mondo occidentale dimenticare ha un’accezione prevalentemente negativa.

 

Colui che dimentica è, per definizione, distratto, poco attento alle cose, svogliato, forse addirittura malato.

Ma per le neuroscienze non è necessariamente così.

Se non si dimenticano i concetti obsoleti, non c’è spazio per le nuove idee.

 

L’economista austriaco Joseph A. Schumpeter (1883-1950) introdusse in economia il concetto di distruzione creatrice per indicare la necessità di cancellare attività non più remunerative e per liberare risorse da destinare a progetti innovativi.

 

In linea generale, se non scordassimo positivamente o attivamente alcune esperienze, o perlomeno se non fossimo in grado di contrastare i ricordi, non sempre potremmo apprendere qualcosa di nuovo, correggere i nostri errori, innovare vecchi schemi.

 

Per fare buon uso della memoria è necessario quindi sia saper ricordare sia saper dimenticare. 

 

Dimenticare, in buona sostanza, è importante tanto quanto saper accumulare informazioni, tanto quanto saper alleggerire la mente dai suoi fardelli, ogni qualvolta questi tendessero a diventare eccessivi.

Possiamo quindi parlare di una vera e propria auspicabilità dell’oblio, soprattutto nella società attuale, dove il bombardamento informativo supera spesso i livelli di guardia.

 

Il medium digitale poi è doppiamente pervasivo.

 

È presente in modo sempre più diffuso negli spazi dove viviamo, ma soprattutto tende a interagire con tutti gli aspetti della nostra vita corrente: lavoro, studio, divertimento, sessualità, religione.

 

Ciò ha fatto emergere di riflesso un’identità digitale che ci renda riconoscibili e unici anche all’interno di questa sfera e ci consente di costruire relazioni virtuali con altre identità digitali.

Questo processo che permette a ciascun soggetto di costruirsi una vera e propria identità di rete sta avendo negli ultimi anni una vera e propria accelerazione.

 

Uno dei fenomeni più interessanti, dal punto di vista delle scienze sociali, è stata la nascita dei cosiddetti siti personali.

 

Legato alla creazione dei siti personali, vi è un altro aspetto che sta assumendo – con la progressiva diffusione di Internet – grande importanza: la necessità di gestire la propria immagine in rete o, più semplicemente, di sapersi vendere nel mondo immaginario.

 

Una delle tecniche emergenti di rappresentazione del sé sulla rete sono gli avatar, che possono essere pensati come una vera e propria maschera digitale che si indossa per identificarsi e collocarsi nei nuovi ambienti virtuali 3D. 

 

Gli avatar costituiscono un vero e proprio simbolo dell’identità contemporanea; un’identità che sfuoca nell’immaginario, poco definita, transitoria, destinata a non raggiungere mai la sua forma compiuta.

 

Questo uso delle tecnologie digitali, di fatto, non consente solo un’estensione e un potenziamento delle nostre capacità mentali, ma in prospettiva consente un vero e proprio sdoppiamento della nostra personalità.

 

I siti personali possono avere vita propria, possono venire consultati da terzi senza che i proprietari siano in quel momento collegati online, possono raccogliere automaticamente le informazioni, segnalare eventi, rispondere a richieste esterne.

 

L’esempio più popolare è quello delle nuove tecnologie vocali che permettono ai computer o alle segreterie telefoniche non solo di parlare e leggere i messaggi, ma anche di capire quello che gli chiediamo.

 

Oppure alle tecnologie di personalizzazione che consentono di lasciare tracce in ambienti digitali pubblici, consentendo all’utilizzatore di essere riconosciuto, di riprendere il lavoro fatto fino all’ultimo collegamento, di ricordare le preferenze manifestate.

 

Tutti questi contenuti richiedono un luogo personale di archiviazione che potremmo chiamare personal digital space i cui aspetti innovativi non sono legati tanto alla dimensione tecnica, quanto alle potenzialità del sistema rese disponibili nella forma di uno strumento conoscitivo.

Potenzialità che consentono di realizzare una vera e propria memoria estesa, a complemento e integrazione di quella fisiologica. 

 

In  breve, ogni riflessione sulla comunicazione digitale non può prescindere da questa trasformazione dei recettori dei messaggi comunicativi.

 

Tra i numerosi caratteri di questi spazi digitali personali, uno è la sua proprietà di forzare la sintesi, la strutturazione e l’organizzazione dell’informazione consentendo un’archiviazione orientata al riutilizzo.

Il riassunto (o la selezione) di un saggio in forma cartacea non è riutilizzabile: si può solo rileggere, invece il riassunto in forma elettronica si può riutilizzare e anche integrare con altri contenuti.

 

La stessa letteratura moderna, che in qualche modo si può definire un’arte combinatoria, con i suoi gettoni lessicali, grammaticali e semantici ereditati può essere continuamente combinata e ricombinata in sequenze di espressioni.

 

Come è facile costatare una parte importante della letteratura, delle arti e della musica contemporanea è infatti costruita su citazioni e reiterazioni più o meno metaforiche.

 

Il poter disporre quindi in forma digitale di citazioni, frasi, tabelle numeriche, concetti provenienti da saggi e soprattutto di strumenti che ne facilitano il riuso combinatorio diventa uno straordinario strumento per potenziare il processo creativo.

Inoltre l’esplicitazione dei collegamenti associativi contenuti rende evidente sul sito ciò che accade anche nella nostra memoria.

Per questo il web può trasformarsi anche in una vera e propria memoria estesa.

 

Ogni volta che viene inserita nel sito personale un’informazione, vengono agite due operazioni cognitive:

– la definizione dell’area tematica prevalente relativa all’informazione,

– la messa in coerenza (talvolta un vero e proprio riallineamento) di tale informazione con gli altri elementi informativi presenti nell’area.

 

Poiché più si riutilizzano i contenuti più la conoscenza viene assorbita e diventa fondamentale – per una reale padronanza di un argomento – poter rivisitare lo stesso materiale in tempi differenti e in contesti modificati.

 

Tutto ciò facilita il ripasso ‘narrato’ della conoscenza, combattendone l’oblio causato dalla labilità della memoria.

 

Il personal digital space, come abbiamo già notato, consente anche il cosiddetto dimenticare consapevole, risparmiando alla memoria lo sforzo di memorizzare informazioni in quel momento non rilevanti.

 

Il fenomeno dei siti personali è ancora relativamente poco diffuso, anche se la sua componente più narcisistica, il blog, sta esplodendo.

 

I blog oggi si occupano più di rendere disponibili i punti di vista di chi vi scrive che non di organizzare la propria conoscenza per un facile riutilizzo.

 

Infatti i contenuti dei blog sono pubblici, mentre le memorie estese tendono a essere protette da password. 

 

Sotto l’aspetto tecnologico le mutazioni originate dalla crescente disponibilità di banda stanno rendendo possibili nuovi servizi e nuove tipologie di contenuti audiovisivi, cosi come il passare dal testo ai linguaggi visivi aumenta il potenziale espressivo e consente letture più ricche

 

Un testo ha un inizio, una fine e un percorso obbligato di lettura, mentre un’immagine no. Inoltre, al contrario delle parole, le immagini posseggono una capacità di estensione verbale quasi infinita, in quanto l’osservatore deve, per poterle gestire, trasformarsi a sua volta in narratore.

 

Le nuove forme comunicative una volta che hanno superato la struttura testuale che ha caratterizzato le origini di Internet, stanno dando vita a forme espressive contaminate e complesse.

 

Le complessità e la potenzialità legate ai nuovi linguaggi digitali abilitati dalla banda larga richiedono pertanto uno studio che dovrà fare leva su diversi saperi.

 

Il punto di partenza sono certamente i linguaggi cinematografici e quelli della rete, ma devono essere considerate anche le numerose altre forme espressive non testuali che si stanno gradualmente digitalizzando: fotografia, videogiochi, linguaggi promo-pubblicitari, arte digitale, contenuti per terminali mobili, fumetti e animazioni, rappresentazione dati complessi, nuovi alfabeti grafico/testuali (come per esempio gli “emoticon”) ma anche mappe satellitari, motori visuali e realtà immersive come Second life.

In sintesi i componenti di questo nuovo corpus espressivo stanno creando, in maniera indipendente, le proprie grammatiche e retoriche.

 

Tutto sta facendo emergere un esperanto digitale sempre più complesso, che si diffonderà su i differenti media e che adatterà i singoli contenuti alle più diversificate esigenze di comunicazione.


Globish:  Termine inglese composto da global ed english che designa l’inglese semplificato parlato dai non anglofoni

Il globish è una versione semplificata dell’inglese che si ripropone di usare solo i termini e le frasi più comuni e semplici della lingua.

Esiste un dizionario globish ideato dal francese Jean-Paul Nerriere, che ne ha tratto un marchio e ne detiene i diritti.

L’ideatore è un ex funzionario della IBM, che ha concepito questa sorta di inglese “leggero” che la gente di tutto il mondo dovrebbe capire più facilmente di quello esteso.

Nerriere ha avuto questa idea quando si trovava a un congresso assieme a altri colleghi di tutto il mondo che tra loro comunicavano col globish: quando si sono presentati i due americani che dovevano tenere la conferenza gli altri hanno capito semplicemente i loro nomi e per tutto il resto non sono riusciti ad intendersi.

Nerriere ha quindi deciso di scrivere un dizionario di sole 1500 parole per far imparare un inglese basilare e per far riuscire a farsi capire anche ai parlanti inglesi di madrelingua.


Ritorniamo in argomento.

Come è noto, nel mondo occidentale il settore dei servizi è in continua crescita e il fenomeno è costante e visibile da oltre un secolo.

 

In quest’ottica le tecnologie digitali stanno danno un ulteriore contributo a questa tendenza realizzando una condizione nella quale il reale si integra con il virtuale, creando un melting pot di esperienze completamente nuovo.

 

Va osservato che virtuale non vuol dire necessariamente privato della materia e della corporeità. 

 

Nel caso delle emozioni fisiche, per esempio, la loro virtualizzazione spesso implica una compressione del segnale che le rappresenta con l’unico fine di consentirne una trasmissione telematica, senza nulla togliere alla fisicità delle emozioni codificate.

 

Inoltre, la cosiddetta anima digitale – sempre più diffusa nei prodotti usati nella vita quotidiana – non è semplicemente un modo per utilizzare in maniera più efficace tali oggetti, ma diviene, di fatto, una vera e propria forma di comunicazione.

 

Ciò implica che la progettazione di un prodotto e delle sue prestazioni sia sempre meno separabile dai processi di comunicazione di tale prodotto. 

 

La comunicazione pubblicitaria viene sempre più integrata – talvolta addirittura sostituita – dalla comunicazione su web o da quella che il prodotto stesso genera durante il suo utilizzo.

 

L’attenzione crescente dei designer verso le interfacce nasce da queste considerazioni: l’interfaccia non è più solo il luogo dove si attivano le funzionalità del prodotto, ma tende a diventare il luogo dove si scambiano informazioni e comunicazioni fra il prodotto e il suo utilizzatore. 

 

Pierre Lévy, un media philosopher che abbiamo già incontrato, sostiene che l’uso sociale di una tecnologia deriva dalla sua interfaccia.

 

In pratica non è il principio costitutivo di una macchina a determinarne l’uso, ma le modalità attraverso cui questo principio viene articolato nel rapporto tra uomo e macchina e cioè nell’interfaccia.

 

Dobbiamo anche rilevare, giunti a questo punto, un altro fatto significativo:

in una società che sembra trasformare tutto in virtuale, la dimensione corporea è ritornata a essere centrale, quasi per una sorta di bilanciamento fra aspetti immateriali e aspetti materiali. 

 

Anche la crescente importanza – soprattutto in sede di management  – della comunicazione extralinguistica e in particolare del cosiddetto linguaggio del corpo (per fare un esempio) va in questa direzione.

 

Ma forse il luogo più interessante ed esplicito dove questo recupero del corpo sta avvenendo è nel mondo dell’arte.

 

I casi sono molti, da Man Ray ai casi estremi rappresentati dalle chirurgie plastiche pubbliche di Orlan pseudonimo di Mireille Suzanne Francette Porte, o dalle performance di Stelarc, pseudonimo di Stelios Arkadiou, un artista australiano naturalizzato cipriota e considerato l’esponente teorico dell’estetica “postumana”.

 

Le stesse abitudini giovanili di comunicare tramite il corpo, non tanto vestendosi in un certo modo, ma utilizzando in maniera diffusa tatuaggi e piercing, sottolineano questa dimensione.

 

L’utopia cyborg di fondere la tecnologia con il corpo – che ha visto nel Futurismo una lucida e anticipatoria concettualizzazione – sta uscendo dalle avanguardie artistiche e dall’impegno politico per diventare linguaggio quotidiano.

 

Un altro aspetto di questa nuova centralità del corpo, visto sia come un medium sia come un contenuto, lo ritroviamo nella medicina.

 

Le nuove tecniche diagnostiche trasformano l’indagine, come nel caso dell’ecografia pre-parto, in una vera è propria comunicazione collettiva.

 

Paradossalmente anche la più antica – forse archetipica – forma di comunicazione, quella della vita che sta alla base della nostra riproduzione, sta vivendo una vera e propria rivoluzione comunicativa.

Il matrimonio tra le scienze chimiche e biologiche e quelle informatiche ha fatto nascere una nuova disciplina, la genomica, che sta mettendo in luce le modalità di quella che possiamo considerare la base generativa di tutte le forme di comunicazione contemporanee: il codice della vita.

***

 

Appendice.

In questa sezione del corso abbiamo introdotto il paradigma esplicativo dell’evoluzione della comunicazione dal punto di vista delle scienze sociali.
In altri termini, il modello di riferimento o, meglio, la matrice disciplinare con cui la sociologia affronta le interconnessioni (interazioni) che strutturano la vita corrente e le forme della comunicazione oltre il face-to-face.

 

C’è un punto critico dal punto di vista delle scienze sociali che deve essere sottolineato e che abbiamo fissato all’inizio del Novecento.

La straordinaria mutazione seguita al diffondersi dell’elettricità, delle reti materiali e immateriali e dei congegni ad essi correlati può essere definita antropomorfa, perché ha coinvolto il rapporto tra corpo, mente ed esperienza della realtà, con esiti che ancora ignoriamo e con metamorfosi che continuano a rendersi palesi e a sorprenderci. 

 

A questo proposito Marshall McLuhan (1911-1980) diceva che la storia della comunicazione umana a partire dal congegno voce si può definire composta da tre fasi.
Una fase predominata dalla forma orale (dall’oralità).
Una fase dominata dalla scrittura.
Una fase dominata dall’elettricità o meglio dai suoi artefatti.

La prima è durata circa 250mila anni.  La seconda circa 2500 anni.  La terza, appena iniziata ha poco più di un secolo di vita.  Tendenzialmente sarà molto più breve della seconda.    

 

A proposito della fase dominata dall’elettricità McLuhan commenta:
Nell’era della meccanica avevamo operato una estensione del nostro corpo in senso spaziale.  Oggi, dopo un secolo e passa di impiego tecnologico dell’elettricità, abbiamo esteso il nostro sistema nervoso centrale in un abbraccio globale che abolisce tanto il tempo che lo spazio.” 

(In pratica è come se vivessimo in un villaggio globale).

 

È come se tutte le forme di esistenza della modernità fossero state unificate da un vettore spaziale-iconologico – cioè, strutturato sulle immagini – che ha finito per rappresentare il senso stesso del mondo.

Questo vettore si è manifestato soprattutto come un potente strumento di sincronia di massa.

 

Come sappiamo la sincronia è un concetto elaborato da Ferdinand de Saussure (1857-1913), il fondatore della linguistica, per indicare la capacità di un linguaggio di costruire un senso.

Occorre non dimenticare che i linguaggi non-umani, animali o artificiali, servono a comunicare, non a costruire paradigmi cognitivi sensati (fondati sui processi di simbolizzazione).   

 

Poi, parlando dei modi di connessione abbiamo osservato che il modello di connessione che di fatto ha inaugurato il Novecento è stato un congegno straordinario, la radio, che ha dato vita ai primi importanti fenomeni di sincronia di massa.

 

Nelle telecomunicazioni la radiofonia è la trasmissione e ricezione a distanza di contenuti sonori per mezzo delle onde radio. 

I contenuti sonori possono essere preregistrati oppure ripresi e contemporaneamente trasmessi, possono essere presi dalla realtà oppure essere una creazione artificiale, o anche una combinazione delle due.

 

Il carattere innovativo di questo modello sta nel fatto che il cuore della comunicazione non ha più al centro lo scambio comunicativo tra due o un piccolo gruppo di soggetti, ma il diffondersi rapido dell’informazione come una merce/prodotto da uno o più centri organizzati verso una moltitudine di consumatori. 

Per mostrare l’efficacia di questo fenomeno di sincronia va ricordato l’impatto sui radioascoltatori di una trasmissione radiofonica, La guerra dei mondi di Orson Welles (1915-1985), realizzata negli Stati Uniti da questo giovane regista ventitreenne nel 1938, la vigilia di Halloween, la festa che noi chiamiamo di Ognissanti.


Una curiosità. C’è nel Van Nest Park, a Grover’s Mill, nel New Jersey, un monumento commemorativo eretto nell’ottobre 1998 nel luogo di atterraggio dei marziani secondo la trasmissione radiofonica,


In altre parole quello che fino ai primi del Novecento era affidato all’affabulazione di poeti, cantori, scrittori, eruditi, divulgatori comincia a essere distribuito su larga scala prima dalla radio e poi dalla
comunicazione filmica, televisiva, e infine televisivo-informatico-personalizzata.


Apriamo una piccola parentesi su come la sociologia definisce la multimedialità. 

 

Diciamo che è la compresenza di più strutture comunicative sullo stesso supporto informatico che moltiplica i piani di lettura e, per conseguenza, i processi interpretativi. 

 

Per estensione si parla di contenuti multimediali quando un’informazione si avvale di molti media, immagini in movimento (video), immagini statiche (fotografie), musica, grafi e testo.
Wikipedia è l’esempio più popolare di questa multimedialità. 

 

La multimedialità non va però assolutamente confusa con l’interattività.

L’equivoco, in genere, nasce dal fatto che la multimedialità è in genere interattiva, cioè, consente all’utente di interagire con essa. Che cosa vuol dire? 

 

Che si può comunicare con il mouse o la tastiera e ricevere delle risposte.
Perché è importante la
interattività?
Perché essa indica che un sistema non è fisso, ma varia al variare dell’
input dell’utente o, meglio, varia in base al “potere cognitivo” di costui. 

In questo modo si riproducono le differenze culturali tra gli utenti dei sistemi informatici e spesso si accentuano. 

La maggior parte dei sistemi e dei congegni della modernità sono interattivi.
In linea di principio, anche una lavatrice lo è, perché di fatto modifica il suo programma in base alle nostre richieste. 

 

Il sistema interattivo per definizione è il computer.
Mentre non è
interattiva la televisione analogica, per questo il suo consumo è definito una fruizione passiva.
La televisione digitale, invece, può essere interattiva e il suo sviluppo futuro dipende proprio da questo, di essere suscettibile di
feedback, cioè, di riscontro. 


Nota bene.  Mentre l’interfaccia della lavatrice è un pannello di comandi attraverso il quale i suoi programmi entrano nel mondo di chi la utilizza. L’interfaccia digitale è una porta attraverso la quale l’utente è messo in contatto con il cyberspazio.

In altri termini siamo in presenza di una nuova e assolutamente inedita dimensione del fenomeno migratorio: dall’habitat fisico all’infosfera.

 

Afferma Luciano Floridi: Quando gli immigranti digitali saranno sostituiti dai nativi digitali il corso dell’e-migrazione sarà completato e le future generazioni si sentiranno sempre più deprivate, escluse, svantaggiate e povere, ogni qual volta si troveranno disconnesse dall’infosfera.


L’interattività offerta dalle applicazioni web consente una tipologia di comunicazione fino a pochi anni fa impossibile che va oltre l’one-to-one e l’one-to-many, ma è many-to-many.

 

Si può dire che la comunicazione digitale permette oramai una simultaneità intercognitiva delle esperienze che ha dato vita alla rimediazione (remediation) della realtà perché – in un certo senso – i new-media sono reali e perché l’esperienza che attraverso essi si acquisisce è il soggetto stesso della rimediazione

 

Gli input sono i dati che il programma riceve in ingresso mentre gli output sono i dati che il programma trasmette verso un soggetto terzo. 

I dati salvati sul disco rigido sono output dato che vengono inviati al gestore delle periferiche che provvede a memorizzarli nella memoria. 

Anche l’utente utilizza dispositivi di I/O infatti, per esempio il mouse, la tastiera, il gamepad (la console di gioco), e il microfono sono dispositivi di Input mentre il monitor, la stampante e le casse sono dispositivi di Output.

Oltre a dispositivi di carattere fisico i programmi e il sistema operativo hanno dei dispositivi di  I/O che sono a loro volta dei componenti software

Questi consentono la comunicazione tra processi e quindi consentono agli applicativi di scambiarsi dati e di sincronizzarsi se necessario.


Ritorniamo al nostro tema, quello della connessione.
Che cosa va rilevato dal punto di vista fenomenologico?
Che dipende dai metodi, dalle forme, dalle tecniche con cui questa connessione si effettua che la comunicazione stessa evolve anche a dispetto delle attese degli utenti.   

Evolve anche e soprattutto “con” e “per mezzo” dei meccanismi socio-economici che con essa interagiscono. 

In linea generale va notato però che nell’ambito del paradigma digitale le disparità economiche hanno un impatto minore delle disuguaglianze cognitive.    

 

Se osserviamo la storia di questo ultimo secolo vediamo emergere con chiarezza gli effetti di massa che tutto ciò ha generato tra i consumatori-utenti:
* Imitazione massiccia degli stili di vita delle élite dello spettacolo e del potere economico.
* Imitazione degli atteggiamenti divistici dello starsystem.
* Uniformazione del modo di pensare il proprio corpo e il proprio modo di abbigliarsi sviluppando       una sorta di conformismo creativo.
* Assimilazione, il più delle volte inconscia, dei messaggi che orientano i consumi e le opinioni politiche ed etiche.

 

Queste nuove forme di comunicazione hanno anche trasformato il modo di pensare il tempo.
Per esempio, il presente che viviamo si è dilatato e in esso non si coglie più il fluire della “temporalità”, cioè, del divenire.

 

Per di più, viviamo un tempo visuale che fatica a diventare tempo storico.

Con quali conseguenze?
Che le strutture narrative, che un tempo contribuivano alla costruzione del senso, si sono affievolite, mentre il progredire delle frontiere tecnologiche – soprattutto nel digitale – va di pari passo con le trasformazioni dei meccanismi cognitivi e degli artefatti legati alla visione.

In breve, il nuovo dominio del tempo e dello spazio amplia i poteri della mente, nello stesso movimento con il quale altera il fluire della coscienza dandogli una dimensione visuale.

 

Tutto ciò genera, all’interno delle società avanzate, nuove forme di conflitto e di anomia sociale che non sappiamo ancora affrontare.

 

Sotto un altro aspetto è come se la contingenza legata alla visualità avesse preso il posto della narrazione (story-telling).  Del fluire del narrato.

Più concretamente, l’avvento del world wide web ha segnato l’inizio di un’era di cui non sappiamo ancora tracciare in modo attendibile il divenire.
Per esempio, nonostante che una grande quantità d’informazioni si sia resa disponibile è sempre più complicato determinarne la veridicità e l’affidabilità soprattutto quando sono in forma visuale.

 

I media – a ragione della loro struttura comunicativa – modificano profondamente la nostra percezione della realtà e della cultura senza per altro che gli uomini lo percepiscano nel momento in cui queste modificazioni avvengono.

 

Lo intuì Marshall McLuhan (1911-1980), che lo sintetizzò in una formula efficace: Il medium è il messaggio o, meglio, sul piano metaforico, il massaggio.

Il titolo del libro a cui questa formula fa capo è: The medium is the massage, McLuhan lo scrisse con Quentin Fiore nel 1967. 


Alcuni dicono che il mezzo è divenuto il massaggio a causa di un errore del tipografo che entusiasmò McLuhan, che lo lesse come “mass.age”. 

Più verosimilmente, considerati gli studi di McLuhan, è ricavato da un’affermazione di Thomas S. Eliot, nato in America, ma stimato come uno dei poeti inglesi più famosi del Novecento.

Eliot in un suo saggio critico scrisse che il poeta si serve del significato come un ladro di serve del pezzo di carne che lancia al cane di guardia per distrarlo e entrare in casa. 

Per analogia possiamo dire che credere che un sito Internet trasmetta contenuti piuttosto che “forme di mutamento” è come pensare che lo scopo del ladro sia sfamare il cane di guardia. 

In realtà noi siamo massaggiati (circuiti) dal mezzo e in qualche modo plasmati da esso. 

In altri termini, i newmedia ci condizionano e contribuiscono a modellare il nostro modo di pensare.    

Non dobbiamo dimenticare che per McLuhan, IL CONTENUTO DI UN MEDIUM E’ UN ALTRO MEDIUM.  


McLuhan è l’autore più famoso di quella che è stata definita la Scuola di Toronto, a cui hanno dato il loro contributo Harold Innis, Walter Ong, Joshua Meyrowitz e molti altri.

 

Il fatto che la comunicazione visuale di massa sia diventata una merce preziosa rende estremamente importante lo studio delle strategie con cui vengono prodotti e diffusi i messaggi, specialmente quando lo scopo di questi è d’influenzare i comportamenti dei destinatari.

 

Per la sociologia i mass-media vanno dunque considerati dei nuovi, potenti e in parte incontrollabili agenti di socializzazione, come lo erano ieri la famiglia, gli amici, le piazze, i teatri, la stampa popolare.

Incontrollabili soprattutto dal punto di vista della loro capacità di manipolare l’opinione.   

Questa socializzazione dipende:
*da strategie intenzionali (come sono quelle contenute nelle trasmissioni radiofoniche, cinematografiche e televisive, Internet…)

* da effetti indiretti (come la massificazione dei consumi e degli stili di vita che scaturiscono dalla pubblicità mascherata da informazione o occulta, com’è quella dei telefilm, dei reality show, dei serial. 

 

Alcuni ritengono che queste nuove forme di socializzazione siano diseducative perché si concentrano sul solo vedere svalutando gli altri sensi.

Altri, fatalisti o ottimisti, poco conta, ritengono che ci aspetta un futuro all’insegna del visuale o, meglio, di una visual culture.

Nei paesi della fascia temperata del pianeta e, in particolare, in quelli ad industrializzazione avanzata, i bambini stanno davanti alla televisione, ai computer o alle tablet per più di trenta ore la settimana.  (Dato del 2014)

Cosa comporta questo?

Un’accentuarsi della difficoltà a distinguere la realtà dalla finzione. 

Una disumanizzazione dell’Altro da sé.

Il fatto che ci sia tanta violenza sul piccolo schermo induce il bambino ad una vera e propria indifferenza empatica per i problemi altrui.

Come tutti hanno avuto modo di costatare, nel mondo degli adulti ci si commuove per gli avvenimenti di una fiction e si resta indifferenti mentre sullo schermo delle news scorrono scene di fame o di violenza.  Per di più questi adulti non hanno alle spalle una storia televisiva come quella dei loro figli. 

Un’accentuata difficoltà a distinguere tra gli oggetti – in particolare quelli animati – e le persone, che induce a pensare di poter trattare le seconde come se fossero cose. 

Un accrescimento dell’aggressività (che può essere connessa ai nuovi paradigmi della velocità).  

Consideriamo adesso alcune tesi di un sociologo che ha lavorato a lungo con McLuhan, Derrick de Kerckhove, belga di nascita, naturalizzato canadese(è stato uno dei direttori del McLuhan program presso l’Università di Toronto).

Kerckhove, inoltre, è uno dei primi sociologici che ha aperto un dibattito sul tema della connettività.
La connettività va intesa non solo come un problema informatico per la soluzione della comunicazione tra sistemi diversi, ma come un approccio collettivo di singoli soggetti per il raggiungimento di un obiettivo, di un oggetto multimediale o di un artefatto cognitivo.

 

Il suo scopo è di esplorare come le nuove tecnologie influenzeranno la società a partire da un’idea di fondo, quella per la quale queste tecnologie non solo promuoveranno delle inedite espressioni artistiche e culturali, ma le integrano in nuovi sistemi formali. 
In altri termini, di come si ricompone il tema della estetizzazione della società e dei  nuovi valori che promuovono l’etica del simbolico e la formazione dell’immaginario.

 

Il punto di partenza è il superamento della civiltà della televisione – un congegno sostanzialmente passivo che ha relegato lo spettatore a semplice consumatore o adoratore di merci – per arrivare a una società nella quale il computer è il simbolo di una nuova stagione di forme e strategie interattive.

Questa nuova epoca, per Kerckhove, sarà inevitabilmente all’insegna di una nuova estetica.

In particolare, le forme dell’interazione sociale – mediate dai congegni informatici – saranno più artistiche, più visuali e legheranno l’arte ai nuovi paradigmi scientifici.
Tutto questo comporterà la trasformazione dell’estetica del sentire e dei suoi modi d’esprimersi.

 

In questa prospettiva, per quanto riguarda in particolare le arti, l’attenzione si sposterà dall’artista-produttore, inteso come un creatore, a un soggetto fruitore-consumatore, che interverrà direttamente sull’opera-progetto dialogando con essa, condividendone la “situazione”. 

Nascerà, come molti dicono, un “arte situazionale”.

 

La rete, in sostanza, è destinata a diventare uno strumento di nuove aggregazioni socio-culturali basate sia sugli interessi che sulle affinità di coloro che sapranno gestirla.

Qui c’è una considerazione da fare.

 

Se non saranno alterati eccessivamente (da un punto di vista economico) i parametri per accedere al web, in questa nuova visione sociologica delle reti i rapporti sociali riacquisteranno una parte di quel potere che hanno perduto con l’affievolirsi delle ideologie nel corso del Novecento.

 

Sotto l’aspetto delle architetture cognitive sembra che tutto tenda a far si che l’informazione diventi il “vero” ambiente (assimilabile alla forma di un neo-luogo) in cui si muovono gli uomini e le idee. 

 

Un ambiente in cui sarà determinante, per stabilirne il valore, l’importanza che acquisteranno i congegni che veicolano i messaggi informativi.

 

Un’idea già avanzata da McLuhan che affermò come i media moderni possano essere equiparati a delle forme ambientali in cui vive l’uomo che essi stessi modellato.

L’ambiente digitale, dunque, è un nuovo medium e sembra, paradossalmente, che l’uomo abbia realizzato un modo di vivere nelle sue fantasie e nei suoi sogni.     

Del resto, quando l’informazione viaggia alla velocità dell’elettricità, il mondo delle tendenze, delle immagini e delle voci diventa il mondo reale, o se si preferisce, lo specchio del mondo che conosciamo.

Ma perché questa nuova configurazione del mondo diventa il mondo reale?

Perché nel sistema delle comunicazioni via web l’intervallo temporale tra lo stimolo e la risposta, tra chi trasmette e chi riceve è collassato.

Da tutto questo deriva una nuova interdipendenza, che si realizzerà pienamente nel ventunesimo secolo, tra le tendenze sociali, economiche, culturali e politiche.

Interdipendenza che renderà tutto apparentemente incerto (liquido) e certamente complesso, facendo crescere la necessità, poco importa se reale o solo immaginaria, di nuove forme di sicurezza non solo sociale. 

 

Sotto un altro aspetto, tutto si presenta accelerato e, per questo, vissuto in modo sempre più precario e aggressivo.
C’è continuamente meno spazio tra l’azione e la reazione, tra gli stimoli e le risposte del pensiero connettivo, con la conseguenza che si sta formando una sorta di contiguità tra il pensiero che pianifica e l’azione.
Il pensiero connettivo, afferma Kerckhove, è un prodotto cognitivo che nasce dall’interazione tra gli individui.

Con la conseguenza che la moltiplicazione dei contatti su scala planetaria comporta l’unificazione delle risposte moltiplicandone gli effetti.
Gl’esiti sono già visibili nel mondo dei processi economici, finanziari, dello show-business dove interi comparti, soprattutto quelli delle attività “immateriali” o a bassa intensità di azione, possono essere rielaborati, esaltati o stravolti nel giro di poche ore.
La rete finisce così per diventare una sorta di moltiplicatore, sia positivo che negativo, di tutti i processi reattivi prodotti dal comportamento collettivo. 

Dalle attività legate al commercio, al loisir, agli affari, allo sport e, non da ultimo, al terrorismo.

 

In pratica è come se dicessimo che l’inconscio collettivo sta scivolando o, se si è ottimisti, evolvendosi verso un inconscio connettivo. 

Un inconscio dove non domina più il simbolico, ma ciò che è condiviso nel web.

Questo globalismo planetario che sta delineandosi come il nostro futuro si fonda soprattutto su due fattori, il multiculturalismo e la condivisione dei destini.

Come dicono i poeti e i visionari di questa nuova realtà: Una farfalla sbatte le ali in Cina e in Europa trema una montagna. 
Una tale condivisione dei destini è un punto importante per le scienze sociali perché ridefinisce l’individuo dal punto di vista delle sue responsabilità sociali, economiche, ecologiche e etiche.

In altri termini si sta sviluppando un nuovo paradigma intorno al tema della responsabilità civica e pubblica, perché globalità significa anche estensione delle responsabilità.

 

Non per caso nel tempo della velocità elettrica siamo tutti più vicini con il risultato che spesso il problema del mio vicino è anche il mio problema, sia che si parli di politica che di diritti umani, di economia, guerra o privilegi. 

Da questo stato di cose si genera per reazione l’atteggiamento nimby – not in my back yard, non nel mio giardino. 

In che cosa consiste? 

Nel riconoscere come necessari, o possibili, gli oggetti o le circostanze che stanno alla base del contendere, ma allo stesso tempo nel non volerli nel proprio ambiente o nel proprio territorio a causa delle eventuali controindicazioni o disagi di cui sono portatori. 

 

Per concludere la “nuova modernità” si sta dunque configurando secondo tre direttrici fondamentali:

L’interconnettività globale, vale a dire planetaria.

 

Un’accelerazione che non abbiamo mai conosciuta dell’evoluzione degli stili di vita.

 

Una serie di trasformazioni ecologiche globali dovute all’interazione dei fattori evolutivi, sociali, culturali, economici e tecnologici.

 

Tutto questo riuscirà compatibile, osservano gli organismi internazionali, se:

 

Miglioreranno le condizioni di vita.  Ancora oggi almeno il venti per cento della popolazione globale vive in condizioni di povertà estrema.

 

Se cresceranno le aspettative di vita alla nascita e se si saprà gestirle.  (L’aumento della vita media, infatti, crea dei forti problemi sociali ed economici, come dimostra in Italia la discussione sulle pensioni d’anzianità.)

 

Se saranno risolti il problema dell’alfabetizzazione e quello dell’emancipazione delle donne e dei più deboli in genere.

 

Se sarà realizzato un accesso diffuso ed economico ai mezzi di comunicazione.

 

Se crescerà sia sul piano quantitativo che qualitativo il “prodotto interno lordo” dei paesi

industrializzati e se si svilupperanno le forme della democrazia nei paesi delle zone povere.

 

Se le tensioni sociali non si trasformeranno in un rifiuto al cambiamento.

 

Infine, ma non da ultimo, se non proseguirà a questa velocità la rottura degli equilibri naturali e climatici.

(FINE PRIMA PARTE)

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Fondamenti di Sociologia e di Sociologia della comunicazione visuale – Cap.2 – Parte I

Fondamenti di Sociologia e di Sociologia della comunicazione visuale.
Anno accademico 2015-2016.

(APPUNTI A CIRCOLAZIONE INTERNA NON REDAZIONATI)

Capitolo secondo – parte prima.

 

Il concetto di cultura.

Prendiamo in considerazione adesso un concetto chiave degli studi sociologici, il concetto di cultura.

Prima di esaminarlo in dettaglio vediamo come l’UNESCO l’ha definita nella Dichiarazione di Messico City sulle politiche culturali del luglio-agosto 1982.
La cultura nel suo significato più ampio è considerata come l’insieme dei tratti distintivi, spirituali, materiali, intellettuali ed affettivi, che caratterizzano una società, un gruppo sociale o un individuo. 

Subordinata alla natura essa ingloba, oltre che l’ambiente, le arti e le lettere, i modi di vita, i diritti fondamentali dell’essere umano, i sistemi di valore, le tradizioni, le credenze e le scienze.

In sostanza, a livello politico internazionale si è voluto riconoscere che ogni società umana possiede una propria cultura, che si distingue dalle altre.

 

Questa cultura deve saper ammettere l’esistenza delle altre culture e al limite accoglierle.

In questo ambito, il multiculturalismo è l’espressione di una speranza, che le culture siano riconosciute, s’incontrino, si mescolino, si misurino e, soprattutto, si trasformino e si evolvano.

Quello che è problematico è che in questa fase della mondializzazione nessuno sa ancora dire se questa evoluzione si muove verso una maggiore diversità, verso delle nuove diversità o verso una standardizzazione più o meno importante.

 

La definizione di cultura nelle scienze sociali è sempre stata al centro di ampi dibattiti.

Il motivo è facile da comprendere, i suoi diversi significati non riflettono solo una diversa visione del concetto di cultura in sé, ma una differente valutazione della realtà.

Una delle prime definizioni di cultura che si allontana dal paradigma illuminista, cioè da una visione etnocentrica della prima antropologia, e sottolinea il carattere relativo della cultura, è quella di Edward Burnett Tylor (1832-1917) un antropologo inglese che nel 1871 definisce la cultura come il complesso che include le conoscenze, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, le abitudini e gli oggetti materiali acquisiti dall’uomo come membro di una comunità.

I successivi sviluppi dell’antropologia (con Bronislaw Malinowski (1884-1942) un antropologo polacco naturalizzato inglese, Marcel Mauss (1872-1950) un sociologo eantropologo francese, il più famoso allievo (nonché nipote) di Durkheim, e Claude Lévi-Strauss (1908-2009) il fondatore dell’antropologia strutturale francese o, meglio, della sua corrente strutturalista, rimarcheranno ancora di più la dimensione relativista, evidenziando il fatto che solo immergendosi senza preconcetti nel tessuto culturale della comunità presa in esame, se ne possono comprendere i suoi significati.

Al centro del significato antropologico di cultura ha poi progressivamente guadagnato importanza da una parte il concetto di vita corrente (vale a dire dei ruoli, delle aspettative, delle credenze, dei miti, dei riti e di tutte le pratiche che strutturano l’agire quotidiano), dall’altra, la sua natura di congegno cognitivo per dare un significato al mondo e farne emergere le identità che lo compongono, pur nelle loro diversità.

Gli sviluppi più recenti degli studi sul concetto di cultura hanno poi posto l’attenzione sui limiti delle definizioni di natura statica, perché se da una parte sono in grado di descriverne l’aspetto, dall’altra acuiscono le differenze, facendo sembrare le culture delle entità astratte nelle quali risulta svalutato lo spazio delle autonomie individuali o dei piccoli gruppi.
James Clifford, un antropologo americano della corrente definita de-costruttivista (insegna storia della conoscenza in California) ha introdotto, sulla scia di queste critiche, l’ipotesi che la cultura non è un bagaglio di modelli definiti, ma un insieme di possibilità e vincoli che strutturano la realtà in un processo dinamico, che si nutre di una continua ibridazione anche con altre culture.

In sostanza si è passati da una visione di cultura come “roots” (radici) ad una come “routes” (percorsi).

Un’altra definizione di cultura è quella elaborata dell’antropologo americano Clifford Geertz (1926-2006), il quale accomuna, per analogia, l’idea di cultura a una rete di significati che gli individui hanno creato e continuano a ricreare.

Una rete nella quale essi sono allo stesso tempo i protagonisti e i compromessi.
In sostanza si può asserire che la cultura è sempre stata al centro del discorso sociologico anche se l’interesse non è tanto verso la comparazione con le altre culture, ma piuttosto al ruolo che essa gioca all’interno del sistema sociale.

 

Èmile Durkheim, a esempio, ha sempre posto l’accento sulla dimensione morale e simbolica delle rappresentazioni collettive, considerate come un momento costituente della coesione necessaria a definire un organismo sociale.
Il materialismo dialettico, al contrario, definisce la cultura – come la conosciamo nella modernità occidentale – un elemento sovrastrutturale necessario al mantenimento dell’ordine sociale derivato dalla ripartizione e dalla proprietà dei mezzi materiali di produzione.

 

Antonio Gramsci (1891-1937) che qui prendiamo in considerazione non come un politico avversato dal fascismo, ma come uno studioso della cultura popolare,  riprendendo l’approccio critico del pensiero marxiano, introdusse il concetto di egemonia culturale per identificare quei processi di dominio da parte di una classe che impone la propria visione del mondo attraverso le pratiche culturali.
Un altro approccio critico alla cultura è quello rappresentato dalla Scuola di Francoforte (tra coloro che ne fecero parte ricordiamo perlomeno Adorno, Horkheimer e Marcuse) che ha elaborato i concetti di industria culturale e di cultura di massa.

 

La Scuola di Francoforte focalizzò la sua attenzione sul concetto di industria culturale per indicare la produzione omologante di modelli culturali attraverso i media e l’industria che favorirebbero una cultura e una società massificata, ossia uniformata, senza stimoli, priva di creatività.

Una cultura destinata a raggiungere il maggior numero di persone, e quindi funzionalmente omogeneizzante.

Un’altra importante scuola di sociologia, quella di Chicago, partendo dall’analisi dei modelli culturali degli emigrati ha studiato i processi d’ibridazione culturale arrivando a mettere in luce la loro relativa dinamicità e autonomia nell’ambito di quel fenomeno che va sotto il nome di melting pot.

 

Con l’affermarsi della tendenza fenomenologica negli studi sociali una certa importanza ha avuto la corrente definita dell’interazionismo simbolico, il cui autore principale è George Herbert Mead (1863-1931) un americano considerato il fondatore della psicologia sociale.

 

Secondo Mead, l’interazione simbolica, ossia lo scambio di segni e significati mediante le pratiche comunicative, è alla base dello sviluppo del sé e dell’interiorizzazione dell’immaginario sociale, vale a dire, dell’insieme dei modelli che formano la cultura in una data società.

Il pregio di un tale approccio sta nel riconoscere sia l’autonomia dell’individuo nell’interpretare i significati del mondo in cui vive, sia uno spazio dinamico dove la cultura viene ogni volta riformulata e condivisa attraverso le sue pratiche.

Sulla scia dell’interazionismo simbolico si è anche sviluppato l’approccio costruttivista di Peter Berger e Thomas Luckmann, autori di un saggio considerato molto importante, The social construction of reality, del 1966,  e l’etnometodologia di Harold Garfinkel.

 

Questi autori sono concordi nel sostenere la preminenza della percezione del reale nella costruzione sociale.  Diciamo che con essi la cultura si identifica con tutte quelle pratiche collettive e individuali che danno forma alla conoscenza.

In tale prospettiva non esiste una realtà oggettiva ma solo una realtà percepita che è il riflesso della cultura di appartenenza del soggetto.

 

Ricordiamo, prima di proseguire, che negli Stati Uniti la prospettiva fenomenologica e le sue varianti nell’analisi del concetto di cultura devono la maggior parte delle loro basi teoriche a Alfred Schütz (1899-1959), un grande filosofo austriaco, allievo di Husserl, che dovette emigrare in America per sfuggire alle leggi razziali naziste.


Elaborata Alfred Schütz sulla base della filosofia di Husserl, e diffusasi in ambito statunitense, la sociologia fenomenologica ha dato origine a numerosi sviluppi contemporanei: a essa si ispirano sociologi come Peter L. Berger e Thomas Luckman e, nelle rielaborazioni dell’etno-metodologia, Harold Garfinkel e Aaron Cicourel.

Secondo Schütz l’analisi sociale deve partire dall’osservazione dell’esperienza del mondo quotidiano (mondo della vita), dell’atteggiamento degli individui così come esso si manifesta nella comunicazione (all’interno di segni e simboli) e nelle istituzioni sociali.

Il mondo della vita costituisce infatti l’ambito in cui i soggetti si trovano inseriti all’interno di schemi interpretativi che strutturano lo svolgimento della vita quotidiana.

Le usanze, i significati, i valori, le conoscenze tipiche della cultura di appartenenza, ma anche lo stesso linguaggio, costituiscono un mondo organizzato all’interno del quale si muove l’agire quotidiano.

In questo contesto Schütz sottolinea l’importanza dei sistemi dei segni, primo fra tutti il linguaggio, per la costituzione del mondo sociale, individuando l’oggetto di base della sociologia nel rapporto tra azione e forme di mediazione simbolica e mostrando che la realtà sociale è il prodotto delle rappresentazioni e delle interazioni dei membri della società stessa.


Per Pierre Bourdieu (1930-2002), l’ultimo grande dei sociologi francesi, morto nel 2002,  i gusti culturali sono i segni distintivi di una condizione di classe.

 

Questa condizione esprime una visione del mondo e dei modelli culturali, per lo più inconsci, che Bourdieu chiama habitus e che modellano la distinzione sociale.

La novità di questa tesi è che l’elemento culturale non è più una sovrastruttura, ma è considerato una parte integrante della struttura sociale.

 

In linea generale possiamo dire che gli sviluppi più recenti della sociologia della cultura, in relazione soprattutto alle trasformazioni sociali, si concentrano oggi su due concetti fondamentali: globalizzazione e post-modernità.
Di fatto la cultura viene oggi concepita come una rete di significati continuamente riformulata dalle interazioni e dalle pratiche sociali.

 

È il punto di vista di Ulf Hannerz, un antropologo svedese che insegna all’università di Stoccolma, esperto nell’analisi dei modelli con i quali si strutturano le diversità sociali, definisce i social networks come uno dei momenti culturali evolutivi della contemporaneità.

 

Il punto centrale di questo approccio è il rifiuto sia della critica legata ai temi dell’imperialismo culturale (dove gli effetti della globalizzazione ricadono a cascata nei vari contesti locali omologandoli), sia della visione, spesso normativa, del particolarismo, che vede nel sorgere di specificità culturali una forma di reazione agli effetti di una cultura mondiale.

Un altro approccio recente a questi temi si concentra sull’analisi della cultura all’interno di quel fenomeno definito della post-modernità.

 

Tra gli autori più attenti a questo tema troviamo Zygmunt Bauman, un filosofo e sociologo polacco oggi molto popolare per le sue tesi sulla società liquida, con le quali arriva a criticare la cultura contemporanea definendola asservita ai consumi e all’immagine/spettacolo.

 

Com’è facile intuire ogni definizione di cultura riflette gli orientamenti e gli obiettivi di chi la propone, non è dunque un caso che siano un centinaio almeno quelle più conosciute.

 

A noi, qui, basta elencare alcuni punti salienti.

 

La cultura, essendo acquisita e non trasmessa biologicamente, non può essere ricondotta ad una base biologica o psicologica, così come non può essere riportata ad una semplice dimensione sociale e questo perché non è tanto la socialità che contraddistingue l’uomo, ma il fatto culturale in sé o, se si preferisce, la sociabilità, che possiamo definire come l’attitudine a vivere in società.   

 

Con la sociabilità, soprattutto in etologia, si studia il modo in cui gli individui della stessa specie si organizzano in società e sviluppano la socialità.

In antropologia la socializzazione è l’insieme dei processi grazie ai quali gli individui sono integrati nella società in modo tale da condividerne le norme e i valori.
In questa prospettiva l’acculturazione può anche essere definita un modo specifico dei processi di socializzazione.

 

La socializzazione, in realtà, è un fenomeno complesso che possiamo riassumere dicendo che è un processo di apprendimento che permette agli individui di acquisire i modelli culturali della società nella quale vive.
Di per sé, poi, la socializzazione definisce l’insieme dei meccanismi attraverso i quali l’individuo interiorizza le norme e i valori del suo gruppo di appartenenza e costruisce la sua identità sociale.

Si può distinguere tra una socializzazione primaria ed una secondaria.

La prima è quella che si elabora all’interno della famiglia, della scuola o con i mezzi di comunicazione.

La seconda è quella che si sviluppa a partire dalle grandi tappe della vita, matrimonio, nascite, lutti, eccetera.

La socializzazione è importante perché si interseca sia con i processi d’interazione sociale, che con il fenomeno della riproduzione sociale.
La riproduzione sociale è quel meccanismo sociologico di mantenimento della posizione sociale e dei modi di agire, di pensare e di sentire di una famiglia o di un gruppo chiuso.

Un esempio può illustrarla meglio della definizione.

I figli delle famiglie medio-basse hanno la tendenza a non intraprendere studi molto lunghi o costosi.

Questo fenomeno (di riproduzione sociale) è determinato dalla ineguale ripartizione del capitale economico, culturale e sociale tra le classi.

 

Di contro, le famiglie delle classi dominanti cercano di mantenere il loro posto nello spazio sociale e, di conseguenza, sono portate a usufruire dell’istruzione migliore o elitaria al fine di riprodurre e aumentare il loro capitale culturale.

 

L’analisi del concetto di cultura, da un punto di vista storiografico, è stato nel corso del Novecento, soprattutto tra gli anni ’30 e la fine della seconda guerra mondiale, uno dei dibattiti centrali delle scienze sociali.

Uno dei libri più interessanti di questo periodo è Patterns of Culture, edito nel 1934 e scritto da Ruth Benedict, un’antropologa americana, allieva di Franz Boas (1858-1942), un etnologo tedesco che lavorò anche negli Stati Uniti, e che, con Edward Burnett Tylor, è considerato uno dei fondatori della moderna antropologia culturale.

 

In sintesi, a quali conclusioni arrivò l’antropologia in questa stagione?
– che il comportamento culturale è determinato socialmente.   
– che la natura umana non stabilisce in modo univoco le risposte che l’uomo da ai propri bisogni. 
– che la cultura è costituita non tanto da comportamenti individuali, quanto da comportamenti di gruppo, per cui è essenziale, per le scienze sociali, analizzare la struttura e il processo di formazione di questi comportamenti. 

 

È in questo contesto che Ruth Benedict nel 1929 definì la cultura come “la totalità che include tutti gli abiti o i comportamenti acquisiti dall’uomo in quanto membro della società.”

Più semplicemente, la cultura è l’insieme degli stati mentali condivisi da un gruppo sufficientemente grande di individui. 
Oppure, da un’altra angolazione, la cultura definisce il complesso dei modi di vita ai quali viene attribuito un valore da parte di un gruppo d’individui o di una comunità.

 

Praticamente è come se affermassimo che la cultura è un insieme di modelli normativi condivisi dai membri di un gruppo allo scopo di regolarne la condotta.

Modelli più o meno rigidi che sono spesso accompagnati da sanzioni.

Affinché la cultura possa svolgere tale funzione è poi necessario che i modelli di comportamento che la costituiscono abbiano un certo grado non solo di compatibilità, ma anche di organizzazione.  Questo vuol dire che essi devono avere a proprio fondamento un sistema di valori.

Apriamo adesso una parentesi su alcune distinzioni che possiamo fare all’interno del termine cultura dal punto di vista delle sue configurazioni.
La prima è quella che distingue tra cultura dominante, subcultura, controcultura

 

Se intendiamo per cultura dominante la cultura egemone in un dato momento in una data area, la subcultura è un aggregato tendenzialmente omogeneo di conoscenze, valori, credenze, stili di vita e modelli di vita capaci di contraddistinguere un gruppo sociale.

Fattori come la classe sociale, l’età, la provenienza etnica, la religione, la lingua, il luogo di residenza e perfino l’orientamento ideologico e politico possono, infatti, combinarsi tra di loro e creare identità culturali in grado di differenziarsi significativamente dalla cultura dominante. 

 

Gli studiosi delle subculture hanno notato che i membri di una subcultura tendono spesso a differenziarsi dal resto della società con uno stile di vita e spesso con un modo di vestire simbolici e alternativi a quelli dominanti.

In questo senso lo studio delle subculture si concentra sullo studio dei simbolismi collegati a queste forme di espressione esteriore e sullo studio di come queste vengono percepite dai membri della società dominante.

 

Di fatto, tanto più una collettività è differenziata tanto più facilmente sarà possibile rintracciare al suo interno delle subculture che producono propri valori.
Tuttavia, più questi valori sviluppandosi si strutturano, più si fa problematico e complesso il fenomeno dell’integrazione sociale, in sostanza, lo sviluppo di una stabilità e di una convivenza pacifica. 

 

In Europa fino a qualche tempo fa si distinguevano principalmente due modelli d’integrazione sociale, quello francese, fondato sui principi laici dell’illuminismo, e quello inglese, basato sul rispetto formale delle differenze.

 

Negli Stati Uniti d’America, dove da tempo si sono mescolate subculture provenienti dalle più svariate parti del mondo come una conseguenza dei numerosi processi migratori che hanno interessato questa nazione, si definisce melting pot il fenomeno della convivenza che si è realizzata.  Una convivenza con caratteri suoi propri, al tempo stesso fragili e funzionali.

 

Va notato che l’uso dell’espressione subcultura non implica necessariamente una situazione conflittuale con la cultura dominante, può infatti costituirne soltanto una variante o un elemento ereditato storicamente.

 

A proposito delle subculture è interessante ricordare questa osservazione di Claude Lévi-Strauss:

Ogni cultura si nutre degli scambi con altre culture, ma occorre che essa opponga una certa resistenza, in mancanza della quale non avrebbe più nulla che le sia proprio da scambiare.

 

L’espressione di controcultura è, invece, più recente, indica una radicalizzazione delle diversità, essa va intesa come un rifiuto etico e comportamentale dell’insieme dei valori e delle norme dominanti.
Gli anglosassoni lo definiscono un rifiuto del mainstream della società o un traboccare da questo.

 

Nella seconda metà del Novecento è stata soprattutto un fenomeno legato alla contestazione giovanile, oggi invece ha caratteri più ampi e compromissioni linguistiche, religiose, politiche, economiche.

 

Un altro modo di dividere le varie componenti della cultura in sociologia è quello di distinguere tra cultura materiale e cultura non-materiale
La cultura materiale, in questo contesto, è la cultura delle cose, composta da oggetti, manufatti, prodotti diversi, merci, a cui si possono contrapporre i significati, i valori, i simboli, i linguaggi, e tutti quei prodotti umani non-materiali.

 

È una distinzione di comodo, perché sia le cose materiali che i valori immateriali hanno senso solo se è noto il significato culturale che viene loro attribuito.

 

Possiamo poi parlare di cultura sostitutiva e cultura non sostitutiva.  

 

La cultura sostitutiva è formata da tutti quegli elementi culturali che nel tempo possono diventare obsoleti o perdere di valore e di utilità.  Dunque, finire per essere socialmente dimenticati.
In genere è una conseguenza diretta dall’accumulazione dei saperi, delle tecniche e dell’esperienza.

Intrecciando questi aspetti possiamo avere:
– Degli elementi culturali materiali sostitutivi, come sono oggi, per fare un esempio, i televisori in bianco e nero, oppure le macchine per scrivere a tasti meccanici o la macchina fotografica a pellicola e sviluppo chimico.

– Degli elementi culturali materiali non-sostitutivi, vale a dire, elementi culturali che non subiscono un processo d’invecchiamento e difficilmente vanno in disuso perché sono universalmente definititi come dei valori che superano il tempo.  Per esempio, il Partenone di Atene, il Colosseo, le ville del Palladio o l’architettura industriale inglese dell’Ottocento, le unità di abitazione di Le Corbusier a Marsiglia, eccetera.

Allo stesso modo possiamo avere:
– Degli elementi culturali non-materiali sostitutivi, come sono certi modelli della fisica o certe concezioni della tecnica che non servono più, oppure, certi cerimoniali o certe convenzioni comunicative, come è il caso dell’alfabeto Morse o, più semplicemente, l’abitudine di cambiarsi d’abito prima di sedersi a tavola.

– Degli elementi culturali non-materiali non-sostitutivi, come la musica di Bach o di Erik Satie, la poesia di Omero o di Thomas Eliot, i romanzi di James Joyce o di Marcel Proust, le canzoni dei Rolling Stones o dei Pink Floyd, eccetera.


Vediamo più in dettaglio che cos’è la cultura materiale.

 

In origine era un’espressione coniata dagli studiosi marxisti dell’Europa orientale per definire l’insieme delle conoscenze e delle pratiche relative ai bisogni e ai comportamenti materiali dell’uomo.

Si identificava con un sapere fattivo che si contrapponeva alla cultura intesa in senso tradizionale.

 

Su questi distinguo nel 1953 venne fondato a Varsavia l’Istituto per la storia della cultura materiale.

 

Uno dei primi temi che affrontò questo istituto fu se la cultura materiale poteva essere intesa come una disciplina autonoma o non piuttosto come un paradigma in cui potevano convergere diverse discipline e diverse competenze.

Ciò per meglio gestire altre fonti di conoscenza che possono essere utilizzate per questo genere di indagini: fonti documentarie, fonti archeologiche e fonti iconografiche.

 

In quest’ottica una definizione di “storia della cultura materiale” fu stata data da Witold Kula:

È la storia dei mezzi e dei metodi impiegati nella produzione e nel consumo.

 

Si distingue dalla storia economica, che si occupa in prevalenza dei fattori sociali che condizionano la produzione e il consumo, e dalla storia della scienza e della tecnica, che studia il livello tecnologico raggiunto in una data società indipendentemente dalla sua produzione pratica.

 

Il dibattito sul paradigma della cultura materiale si ampliò negli anni Settanta quando il concetto di cultura materiale acquistò una sua popolarità.

Molti studiosi cominciarono a riservare una certa attenzione ai dati di natura materiale nella ricostruzione delle vicende storiche.

In particolare, nell’ambito della storia dell’arte si affermò una tendenza a considerare i fenomeni storico artistici come delle espressioni di cultura materiale, legate all’ambiente in cui questi fenomeni si erano manifestati o erano stati prodotti.

Da qui, poi, il passo verso la visual culture, da una parte, e la nascita dell’antropologia dell’arte dall’altra, fu breve.

In quest’ottica, lo storico dell’arte americano, George Kubler (1912-1996), che per primo ha sviluppato i temi di questa antropologia, considera la storia dell’arte una “storia delle cose”.

In italiano di Kubler la casa editrice Einaudi ha pubblicato i tre volumi della sua storia sulla forma del tempo e sulla storia delle cose.


Ritorniamo a considerare un compito importante che svolge la cultura dal punto di vista della sociologia e che possiamo definire una funzione di mediazione.

 

Questo perché le forme espressive che attraverso il linguaggio e la comunicazione in genere si configurano come rappresentazioni della realtà (siano esse rappresentazioni religiose, artistiche, scientifiche, filosofiche, giuridiche, o del comportamento) costituiscono altrettanti modi attraverso i quali l’individuo cosciente di sé riesce a mediare il rapporto con se stesso, gli altri, il suo mondo e le cose.


Per la sociologia la mediazione è il processo con il quale il pensiero generalizza i dati dei sensi e estrae dalla conoscenza sensoriale – che è una sorta di conoscenza immediata – una conoscenza astratta e intellettuale, che possiamo definire una conoscenza mediata. 

In questo senso la cultura ha anche una funzione implicita fondamentale, perché la mediazione  s’impone agli uomini come il fondamento della prevedibilità sociale  


Dobbiamo, a questo punto, fare attenzione a non confondere la cultura con un’altra espressione che nel linguaggio comune è impiegata in modo analogo, quella di civiltà.    

Ricordiamo che il termine di civiltà deriva dal latino civilitas, che a sua volta deriva dall’aggettivo civilis (da civis, cittadino).
La nozione di civiltà in sociologia serve soprattutto a evocare lo stato della tecnica o, in un altro contesto, il risultato di un processo in virtù del quale gli individui apprendono a vivere in società.

A questo proposito usiamo dire civiltà del bronzo, del ferro, civiltà del petrolio, civiltà atomica, civiltà dell’informazione.

 

Storicamente, l’espressione di civiltà ( Zivilisation/ civilisation), almeno fino al diciannovesimo secolo, serviva anche a definire il processo in virtù del quale gli individui divenivano capaci di vivere in società.
In questo senso, la civiltà tendeva a confondersi con l’atto di civilizzare

 

Di solito, poi, si distingue la civiltà dalla cultura in base a due considerazioni.
Un’estensione più vasta in termini di territorio. 

Una durata molto più lunga in termini temporali.

In sub-ordine, poi, va anche considerato il fatto che le civiltà inglobano spesso più culture.
La civiltà europea, in questo senso, comprende la cultura italiana, quella francese, quella tedesca e via dicendo.

 

Possiamo riassumere, dicendo che le tecniche costituiscono il corpo di una civiltà, le culture la sua anima (Nota bene, questa dicotomia è in qualche modo legittima solo usando le espressioni di tecnica e di cultura al plurale.)   

Un altro grande lemma che s’intreccia con la nozione di cultura è quello di società.
Anche questo è un concetto importante, soprattutto nell’ambito delle scienze sociali che da molti sono anche definite come una scienza della società.

Ma che cosa è la società, o meglio, come possiamo definire l’espressione di società.

 

Fino a questo momento abbiamo usato questo termine in senso intuitivo. 

 

Le difficoltà nel definire che cosa s’intende per società nascono dal fatto che non ci riferiamo ad un oggetto o ad un fenomeno fisico, ma al risultato di numerosi processi intersoggettivi di interpretazione e di comunicazione, ovvero, a qualcosa che sta essenzialmente nelle rappresentazioni mentali degli individui.

Tali rappresentazioni, per lo più composte da credenze o convinzioni storicamente sedimentate, sono poi intimamente legate all’esperienza soggettiva e all’agire degli individui.

Va anche rilevato che nella cultura occidentale la nozione di società ha spesso oscillato tra una connotazione negativa ed una positiva.

Nel primo caso, generalmente, la società si contrappone alla comunità.

Nel secondo caso è associata alla nozione di Stato.

 

Nel 1887, Ferdinand Tönnies (1855-1936), un filosofo e sociologo tedesco, pubblicò un libro intitolato Gemeinschaft und Gesellschaft (Comunità e società) dove appunto studiava le comunità intese, in senso positivo, contrapposte alle società considerate un insieme di relazioni di natura essenzialmente economiche e burocratiche.

 

Per quanto ci riguarda diciamo che là dove c’è un territorio, un insieme d’individui in relazione reciproca tra di loro, una lingua o, un modo comune d’intendersi, là c’è una “unità sociale” o, meglio, una realtà sociale.  
Ma come si costituiscono queste realtà?
Essenzialmente con la coscienza di farne parte. 

 

Va da sé, questa coscienza di esserne parte o, come dicono i filosofi, questa coscienza dell’esserci, è legata strettamente anche al linguaggio, che consente di articolare delle domande sul senso della propria esperienza e della vita.
In questo senso il linguaggio, con le sue forme di rappresentazione di sé, della realtà e dell’esperienza, contiene l’insieme delle forme di mediazione simbolica che in qualche modo costituiscono la cultura

 

Ciò ci consente di dire che la complessità del linguaggio è un segnale della specificità culturale, ma non che una cultura è superiore o inferiore a un’altra.   


La mediazione simbolica è un’interazione tra dei soggetti che mirano a raggiungere un accordo o un compromesso su un certo modo di risolvere dei conflitti o delle divisioni che hanno a che fare con il loro stare insieme. 
In parole povere è la capacità di condividere i processi di socializzazione. 


In questa prospettiva la società appare come il risultato dei processi di conoscenza e di autocoscienza che si sviluppano nella comunicazione sociale, verbale e non-verbale.

 

Affrontiamo adesso un altro paradigma storico della sociologia, il concetto di massa.

Questo concetto nella sua formulazione classica risulta per molti versi desueto, ma ha riacquistato una certa importanza nelle moderne analisi del comportamento collettivo.

Vediamolo tenendo conto di due prospettive.

Perché è necessario per poter procedere all’analisi di ciò che sono le comunicazioni di massa e perché, parlandone, possiamo continuare a esaminare alcuni importanti lemmi del discorso sociologico.

 

Nell’Ottocento i pensatori riformisti tendevano a identificare la massa con la condizione del proletariato.
Oggi, nelle società industriali con l’espressione di massa si fa riferimento, in genere, a vasti insiemi d’individui coinvolti in fenomeni di natura dinamica, quali i processi di urbanizzazione, le migrazioni, i newmedia, la scolarizzazione, le divisioni del lavoro, il tempo libero, eccetera. 

 

Dalla nozione di massa deriva poi quella di società di massa.

 

Con questa espressione s’intendono quelle società in cui le forme di associazione tradizionali come la comunità, la classe, l’etnicità e la religione tendono a svalutarsi e, nelle quali, l’organizzazione sociale è allargata e burocratizzata fino al punto che le relazioni sociali appaiono di fatto impersonali, vuote, usurate.

 

Per comprendere questo argomento occorre partire dalle riflessioni di Gustave Le Bon (1841-1931), un eclettico studioso francese del comportamento collettivo che si dedicò a questo argomento dopo essersi dedicato allo studio della fisiologia, dell’antropologia e dell’archeologia.
La sua opera più famosa s’intitola La psicologia delle folle, è del 1895.

In questo libro Le Bon esamina l’importanza che nella massa rivestono i comportamenti collettivi e

le eventuali leadership, che in esso si formano.

Per l’autore l’uniformità degli atteggiamenti individuali che si registrano nelle masse non sono tanto il frutto della vicinanza fisica tra gli individui, quanto il risultato di una modificazione del comportamento. 
Questa modificazione ha leggi proprie e induce, in genere, al prevalere nei singoli soggetti di pulsioni violente e incontrollabili rispetto al comportamento razionale individuale.

Se si verificano tali condizioni, osservò Le Bon, gli individui si trasformano in elementi della massa, assumono idee, atteggiamenti e comportamenti nei quali, presi singolarmente, non si riconoscerebbero. 

 

In breve per Le Bon ci sono delle circostanze in cui gli uomini risultano impotenti, annullati nella loro individualità, accecati da una pulsione collettiva in grado di uniformare e in molti casi plagiare i loro comportamenti, demolendo il loro senso critico.

 

Per Gustave Le Bon la massa vuole uno stile semplice, chiaro, aforistico e al contempo perentorio, assertivo, ripetitivo: è un gregge che non può fare a meno del padrone.

Per queste asserzioni fu da qualcuno definito il Machiavelli dell’era delle masse.

 

Come è facile costatare l’analisi di Le Bon rappresenta un modello negativo dei fenomeni di massa, che qualche decina di anni dopo fu condiviso anche da un altro studioso, spagnolo, José Ortega y Gasset (1883-1955).

 

Per ragioni di economia del corso non prenderemo in esame i non pochi autori, contemporanei di Le Bon, che hanno dedicato i loro studi al concetto di massa, come il criminologo italiano Scipio Sighele (1843-1913) e Gabriel Tarde (1843-1904).


Gabriel Tarde.  Francese, magistrato di professione, filosofo, sociologo e criminologo per vocazione, negli ultimi anni della sua vita fu docente al Collège de France dove è stato il predecessore di Henri Bergson (1859-1941) alla cattedra di Filosofia Moderna.

Bergson è il filosofo che per primo tentò una sintesi tra spiritualismo e positivismo, ebbe una grande influenza sull’arte e la psicologia.

La sua riflessione sociologica, dimenticata in Europa, ha avuto invece una certa fortuna negli USA dove è stata ripresa da alcuni autori americani, come Robert Park e la Scuola di Chicago che lo considerano uno dei fondatori della sociologia urbana.

La sua opera sociologica, così come viene sintetizzata nel volume Les Lois sociales(1898), consta di tre momenti principali (a ognuno dei quali Tarde ha dedicato una monografia): la Ripetizione (Les lois de l’Imitation, 1890), l’Opposizione (L’Opposition universelle, 1897) e l’Adattamento (La Logique sociale, 1895).

La sua opera, riscoperta filosoficamente da Gilles Deleuze in volumi come Differenza e ripetizione (1968) e Millepiani (1980), sta progressivamente riguadagnando interesse, ne fanno fede il succedersi delle pubblicazioni e i numeri monografici di riviste (come Multitudes) a lui dedicati.


Veniamo invece a un libro del filosofo spagnolo Ortega y Gasset, La ribellione delle masse (1930), i cui singoli capitoli uscirono, prima della stampa in volume, su alcune riviste politiche a partire dal 1927.
In quest’opera e in estrema sintesi si sostiene che le masse sono una delle conseguenze dello sviluppo produttivo e tecnico della modernità.

 

Questo sviluppo ha dato vita alla nascita di enormi agglomerati sociali, cioè, ha concentrato, in modo assolutamente artificiale rispetto alla loro storia, grandi masse di individui, facilitando il formarsi di folle e generando delle condizioni di vita passiva sempre più uniformi e banali.

Ortega y Gasset elaborò anche alcune osservazioni che erano sfuggite a Le Bon.

 

Per esempio, egli nota come i fenomeni di massificazione possono risultare gratificanti per gli individui che ne sono coinvolti.
Di più, la massificazione consente anche un elevato soddisfacimento dei bisogni culturali e sociali primitivi, rozzi o d’impulso.

In questo modo, sostiene Ortega y Gasset, gli individui non sono più stimolati a cercare una realizzazione sociale al di là degli standard di vita dominanti e finiscono inevitabilmente per coltivare un atteggiamento socialmente amorfo.

 

Da questo meccanismo di formazione delle masse, poi, si staccano sovente delle minoranze, dei gruppi sociali che per cultura, moralità, formazione politica, riferimenti ideali non accettano di uniformarsi alle condizioni di appiattimento e di livellamento generale e rivendicano per sé un individualismo aristocratico.

 

Un individualismo che, per i tempi, si colloca a cavallo tra anarchia e conservatorismo e che, in Francia, ha dato vita in politica, a un anarchisme de droit.

Queste minoranze corrispondono oggi a quelli che potremmo chiamare i gruppi di opinione o di élites

 

Costituiscono delle realtà sociali studiate con attenzione dalla pubblicità e dagli istituti di ricerca sui comportamenti del consumatore, perché questi gruppi di opinione orientano, con le loro testimonianze, le maggioranze silenziose, invogliandole ai consumi di prestigio o “griffati”, agendo sulle politiche economiche, i meccanismi dell’emulazione sociale, la morale, le forme dell’etica e, in politica, sugli orientamenti di voto.

 

Completamente diversa, invece, è sia la teoria delle masse che esce dall’analisi freudiana o, più precisamente, dalla cosiddetta psicologia del profondo, come il concetto di massa elaborata dal materialismo storico-dialettico, o meglio, dai movimenti riformatori e socialisti che si formarono lungo tutto l’800.

Questi movimenti consideravano le masse come l’elemento centrale e allo stesso tempo contraddittorio del modo di produzione capitalista, di cui erano una conseguenza.

 

In sostanza erano convinti che era possibile agire sull’esperienza emotiva collettiva e sulle condizioni del vissuto individuale in modo tale da far maturare nelle masse una coscienza della loro condizione e della loro forza.

 

Si riteneva che le masse, in quanto moltitudini sfruttate, anche se incapaci di mobilitarsi fino in fondo come soggetti politici autonomi, erano comunque le protagoniste della questione sociale e avrebbero potuto elaborare, sviluppando una coscienza di classe, le ragioni della loro emancipazione. 

 

Vediamo ora alla relazione tra cultura e massa.

Fino a qualche tempo fa per il senso comune e per molte ideologie politiche, la cultura di massa era assimilata alla nozione di cultura delle masse. 

 

Una forma di cultura ricca di significati positivi per i progressisti e negativi per i conservatori, anche se entrambe le posizioni concordavano sul loro studio perché le masse, in un modo o nell’altro, costituivano la base e lo strumento, sia pure rozzo e per molti versi incontrollabile, di tutti i cambiamenti sociali.

 

In questo senso, cultura di massa significava soprattutto cultura per il popolo.

Un’espressione (cultura per il popolo) usata anche per definire il carattere diretto, semplice e genuino delle culture popolari e contadine.

Ma qui sono nati molti equivoci perché in questa accezione le culture popolari si identificavano con il folclore e/o le tradizioni localistiche.  


Il termine folclore o folklore (da folk, “popolo”, e lore, “sapere”), si riferisce all’insieme delle  tradizioni provenienti dal popolo e tramandate oralmente.

Tradizioni che riguardano gli usi, i costumi, le leggende, i proverbi, la musica, la danza, la cucina riferiti o ad una determinata area geografica o ad una determinata popolazione.

L’invenzione del termine folklore è attribuita all’ antropologo William Thoms (1808-1900) che, con lo pseudonimo di Ambrose Merton pubblicò nel 1846 una lettera sulla rivista letteraria inglese Athenaem, allo scopo di dimostrare la necessità di un vocabolo che potesse comprendere gli studi sulle tradizioni popolari.

Il termine fu poi accettato dagli studiosi di antropologia culturale e dalla fine dell’800 sta ad indicare quelle forme, contemporanee di aggregazione sociale incentrate sulla rievocazione di antiche pratiche popolari ovvero tutte quelle espressioni culturali comunemente denominate tradizioni popolari.


Agli occhi dei suoi detrattori il difetto principale della cultura di massa sta nel fatto che, per risultare più o meno accessibile ai più, è costretta a mettere l’accento sulle emozioni e i sentimenti più facili e diffusi.  

Di conseguenza questa cultura appare come una sotto-cultura superficiale e sentimentale, piena di luoghi comuni.

Un concetto che, una volta, veniva riassunto così:
La cultura di massa esprime i pensieri più profondi degli individui più superficiali. 

 

Per coloro che invece tendono a distinguere tra cultura popolare e cultura di massa l’accento è posto sull’autonomia della cultura popolare. 

Un’autonomia sempre più minacciata dalla produzione e dalla distribuzione della cultura ridotta a merce delle élite capitalistiche.

Nell’Ottocento la cultura popolare si esprimeva soprattutto nell’abbigliamento, nel canto collettivo, nella danza, nelle abitudini alimentari, nelle piccole cose di artigianato. 

 

Era una cultura che, sia pure involontariamente, aveva esercitato un grande fascino sul Romanticismo, su quel movimento artistico e letterario che rappresentò, per almeno un paio di generazioni, lo spirito più vivo della cultura europea dell’Ottocento.

Molti protagonisti di questa corrente artistico-letteraria, che il successo fece diventare anche una moda e uno stile di vita, si prodigarono per salvare la cultura popolare, nella sua originale genuinità, attraverso la promozione, soprattutto nella mitteleuropea, delle scuole di arti e mestieri.


Vediamo due dei protagonisti del movimento dell’Arts and Crafts.

 

William Morris (1834-1896) è un artista e scrittore inglese.

Fu tra i principali fondatori del movimento delle Arts and Crafts e è considerato l’antesignano dei moderni designer.

Ebbe una notevole influenza sull’architettura e sugli architetti del suo tempo.

Da molti è anche considerato il padre del Movimento moderno, sebbene non fosse architetto.

 

Fondò uno studio di design in collaborazione con l’artista Edward Burne-Jones, e il poeta e artista Dante Gabriel Rossetti, che ha profondamente influenzato la decorazione di chiese e case nel ventesimo secolo.

 

Diede un importante contributo al rilancio delle arti tessili tradizionali e ai metodi di produzione.  Fondò la Società per la protezione di edifici antichi , tuttora un elemento statutario per la conservazione degli edifici storici in Regno Unito.

Morris ha scritto e pubblicato poesie, romanzi e traduzioni di testi antichi e medievali. I suoi lavori più noti includono La difesa di Ginevra (1858),  Il paradiso terrestre  (1868-1870), Un sogno di John Ball (1888), News from Nowhere (Notizie da nessun luogo) (1890), e il fantasy, La fonte ai confini del mondo (1896).

È stato una delle figura più importanti per la nascita del socialismo in Gran Bretagna di cui fondò la Lega Socialista nel 1884.

 

John Ruskin (1819-1900), critico d’arte e riformatore sociale.

Figlio di un ricco mercante di sherry, più che gli studi – compiuti in maniera irregolare – fondamentali furono per lui i viaggi, l’osservazione della natura, lo studio dei monumenti e delle opere d’arte, la lettura dei classici.

Prima di entrare al Christ Church College di Oxford pubblicò (1834) nel Magazine of natural history due saggi, “Enquiries on the causes of the colour of the Rhine” e “Considerations on the strata of Mont Blanc”. 

Terminati gli studi in un lavoro su Turner, apparso in Modern painters (1843), sostenne una difesa dell’arte di questo pittore che per Ruskin incarnava l’artista ideale.

 

In Italia, nel corso del 1845, continuò a lavorare ai suoi Modern painters, studiando i Bellini e la scuola veneziana, il Beato Angelico e la pittura toscana del primo Rinascimento, interessandosi anche di scultura e architettura

 

In The seven lamps of architecture(1849), sostenne che la disposizione d’animo è la condizione dell’arte bella e che l’imitazione della natura è l’unica via per creare bellezza.  A questo proposito sviluppò l’idea di un legame tra l’opera d’arte e lo stato della società, presentando il Medioevo come un ideale prototipo della riforma della società contemporanea.

Con The stones of Venice (1851-53), risultato dei suoi studi sull’architettura e la scultura italiana, si fece promotore del Gothic Revival.  Nel 1851 pubblicò anche il saggio sul Pre-Raphaelitism, che decise della fortuna di quel movimento.   Nel 1857 pubblicò Elements of drawing. Dedicò parte della sua vita a esporre le proprie teorie su problemi sociali e industriali, in queste l’arte è un mezzo per innalzare la vita spirituale.  Tra questi scritti si ricordano: Unto this last (1862),  Sesame and lilies(1865), Time and tide (1867), Fors clavigera (1871-84), Munera pulveris (1872).

Entrato, alla morte del padre, in possesso d’una larga fortuna, la impiegò sovvenzionando case operaie modello, cooperative, gruppi operai, utilizzando anche la St. George’s Guild, da lui fondata nel1871.

Le idee innovative di Ruskin rivoluzionarono non solo l’estetica inglese (alle sue lezioni a Oxford, dove insegnò come  professor dal 1869, ebbe tra i moltissimi uditori W. Pater e O. Wilde) ma anche quella europea.  Le opere di Ruskin, scrittore apprezzato tra gli altri da L. Tolstoj e da M. Proust, sono state raccolte in The works (39 volumi. 1903-12) molte tradotte anche in italiano.


Sono scuole – queste, delle arti e mestieri – che in molti casi, finirono per alimentare una vera è propria ideologia del passato, in contrapposizione alla nascente industrializzazione, snaturando le premesse che avevano portato alla loro istituzione.

 

Comunque, la cultura popolare nell’Ottocento, a differenza di quella di massa, nasceva ancora in modo spontaneo, avvalendosi soprattutto di materiali e mezzi espressivi tradizionali.

 

Al contrario, l’odierna cultura di massa tende a sfruttare il patrimonio delle culture popolari per farne dei prodotti-merce da veicolare attraverso i mass-media e da vendere attraverso la grande distribuzione commerciale.
Un patrimonio che viene prelevato dovunque, dalle tradizioni contadine come dalle periferie urbane – vedi il caso di molte forme di musica giovanile – così come dalle etnie emigrate o emergenti.

Su queste espressioni di cultura si opera, poi, quello che i professionisti del marketing chiamano restyling, per poterle far diventare merci a buon mercato da vendere soprattutto a chi abita le aree urbane delle grandi metropoli.

In questo modo il concetto di cultura di massa risulta associato in modo funzionale alla società dei consumi.

Del resto, nella modernità, una parte rilevante dei rapporti che intercorrono tra le persone sono di natura economica e i consumi sono diventati dei veri e propri fenomeni sociali primari.

In questo senso, volenti o nolenti, la cultura di massa ha finito per programmare e uniformizzare la nostra vita su scala planetaria.

Questa cultura, come abbiamo visto, è nata in Europa tra la metà e l’ultima decade dell’Ottocento, ma con il diffondersi della carta stampata e dell’alfabetizzazione primaria, prima, e con l’avvento della radio e del cinema, dopo, è mutata in un fenomeno di costume e di modelli di consumo che oltre oceano chiamano l’american way of life.

 

Se consideriamo la cultura di massa in filigrana con il tema della cultura popolare possiamo osservare che essa ha integrato l’ambiente operaio, soprattutto delle periferie urbane, con il mondo contadino e, entrambi, con gli stili di vita della borghesia.
C’è un altro tema da segnalare.
Sono i rischi che si corrono nella trasformazione delle culture popolari in prodotti di massa.

Perché queste culture quando sono manipolate, inevitabilmente si degradano a un punto tale che esse finiscono per produrre dei deficit culturali in continua e costante crescita.  
In altre parole, queste operazioni di trasformazione finiscono per danneggiare irreparabilmente ciò che c’è di genuino in tutto ciò che nasce spontaneamente dal basso.   

 

Passiamo ad esaminare il tema delle strutture sociali.
L’importanza dell’analisi delle strutture sociali deriva dalla considerazione che non è possibile isolare una dimensione pura ed autonoma della soggettività come se fosse un’identità sociale.

Questo perché gli attori sociali (individuali e collettivi) rappresentano, allo stesso tempo il motore e il prodotto che in qualche modo rappresentano queste strutture.

 

Nel loro significato sociologico il termine fu coniato da Herbert Spencer nel 1858.

 

Questo filosofo inglese di cultura positivista cercò di elaborare una teoria generale del progresso umano o meglio, era convinto chla filosofia avesse ancora un compito da realizzare, quello di unificare i risultati delle scienze per farli progredire verso obiettivi più alti e condivisi.

Egli mise in luce il fatto che in una struttura sociale, le parti che la compongono s’identificano con le relazioni fra le persone e come, di conseguenza, l’insieme organizzato delle parti può essere inteso come una rappresentazione della società nel suo complesso.

Spencer identificò poi nella durata una delle caratteristiche più importanti di una struttura sociale.
Vale a dire, tutte le strutture sociali hanno una vita più o meno lunga e, in genere, la loro durata depone a favore della loro importanza.

 

Questo studioso si pose anche una domanda: Le strutture sociali si basano sul consenso o sulla coercizione?

Da convinto funzionalista e liberista – la società era per lui un organismo vivente nel quale tutte le parti contribuiscono a mantenerlo in vita – le strutture sociali non avrebbero dovuto produrre conflitti e non avrebbero dovuto fondarsi sulla coercizione.

 

Di diverso avviso, tra i suoi contemporanei, erano i movimenti politici d’ispirazione socialista, per i quali, invece, la società è l’esito di un perenne conflitto tra le classi. 

 

Oggi questa domanda, con le sue risposte sociali e politiche, è di fatto superata, sostituita da un’altra: In che modo le strutture sociali sono in grado di favorire il mutamento sociale?

Una società che non muta, infatti, è una società che non cresce o cresce male e così facendo tende a ripiegarsi su se stessa o a implodere.

 

In questa analisi va tenuto presente anche il fatto che la società è condizionata dall’ambiente naturale e dalle forme di sociabilità che riesce a sviluppare. 

 

Così come le sue strutture sociali sono condizionate anche dalla storia sociale dei suoi attori, siano essi gli individui come i collettivi. 

Ne consegue che, le strutture organizzative e istituzionali nel loro evolversi normativo sono dei soggetti legislatori e rappresentano il prodotto diretto dell’agire storico sociale così come delle rappresentazioni e delle credenze degli attori sociali.

Va anche rilevato che le strutture sociali dipendono in modo stretto dalla qualità dell’ambiente naturale nel quale si realizza lo sviluppo della società. 

È un tema che in passato e a diverso titolo, ha interessato molti autori, tra i quali Èmile Durkheim, Max Weber e Georg Simmel.

 

Diciamo che l’ambiente naturale è il complesso delle possibilità nei confronti delle quali si sviluppa l’azione degli uomini, sia come individui che intesi come gruppi agenti o comunità.

 

Com’è risaputo non c’è nulla di pre-definito offerto dalla natura all’uomo.

 

C’è semplicemente la capacità dell’uomo all’adattamento naturale e le sue capacità di agire su di

esso.
In breve dobbiamo tener conto che le strutture pubbliche e politiche – che contribuisco a disegnare le forme urbane, i loro servizi  e a tracciare le vie di comunicazione –  influiscono in maniera rilevante nel condizionare lo spazio sociale della persona, la sua libertà di scelta e di movimento e il suo grado d’interazione sociale.

 

In questi ultimi anni e per le ragioni più diverse si è anche diffusa una nuova sensibilità per i problemi dell’equilibrio tra l’uomo e il mondo. 
Sensibilità che ha messo in luce la grande responsabilità dell’azione umana sia nella conservazione che nella distruzione dell’ambiente. 
Da qui la constatazione che l’adattamento non può essere all’insegna del mero sfruttamento della natura, ma deve tener conto del fatto che gl’interessi dell’uomo non possono infliggere all’ambiente dei danni irreparabili o superiori ai vantaggi

Questa però è un’altra storia ancora, che ha dato vita a tutta una serie di discipline specifiche che fanno capo all’ecologia.

 

Da un punto di vista storico le contraddizioni tra le strutture ambientali artificiali costruite dall’uomo e la natura sono state messe in evidenza, per la prima volta, da un famoso libro di Georg Simmel, del 1903, intitolato, La metropoli e la vita dello spirito, in Italia è stato pubblicato per la prima volta integralmente nel 1995.   

 

Vediamo adesso qualcosa a proposito di un altro importante elemento che ci lega alla natura:

il tempo.

Il tempo rappresenta una delle dimensioni della realtà che abitiamo o, se si preferisce, dello spazio sociale.
Di conseguenza, la temporalità, che definisce ciò che è iscritto nel tempo, deve essere considerata come un carattere essenziale delle relazioni sociali.

 

Il tempo, in sostanza, è un’infrastruttura strategica dell’azione e dell’interazione sociale, rappresenta e rende visibile il carattere processuale e storico di ogni attività umana, con una particolarità, drammatizzandola, perché il tempo è irreversibile.   

 

In sociologia, il primo a parlare di tempo sociale è stato Durkheim nel 1912.
Con questa espressione si sottolinea la dipendenza del tempo individuale da quello più ampio del gruppo o della comunità che funzionalmente lo comprende.

 

Ma, qual è la funzione del tempo sociale?
Attraverso la sua percezione gli uomini organizzano e ritmano la loro vita privata e collettiva, di più, questa percezione ne assicura il suo coordinamento e la sua sincronizzazione. 

 

Nella ricerca sul tempo sociale una delle tecniche più utilizzate in sociologia è quella indicata con l’espressione di time-budget (bilancio del tempo).
Storicamente, questa tecnica fu inizialmente elaborata dalla sociologia sovietica per studiare le problematiche della vita quotidiana degli operai.

Oggi, invece, è adoperata per descrivere i modi e gli stili di vita e per disegnare le cosiddette mappe dei comportamenti abituali.

 

Attraverso il tempo o, meglio, attraverso l’esperienza del tempo, noi stabiliamo una continuità narrativa tra passato, presente e futuro. 

 

Come ha notato Alfred Schütz, un grande filosofo e sociologo di lingua tedesca, il tempo è un fattore essenziale per la comprensione dell’agire umano.

Costituisce una risorsa sociale, la cui disponibilità è diversa da individuo ad individuo e tra comunità e comunità.

Che cosa significa?
Che il tempo degli operai non è quello dei signori.
Che il tempo di una comunità di monaci non è quello di un collegio universitario o di una squadra di calcio.  Eccetera.
Non è tutto.  Il tempo è percepito anche come un bene, soprattutto economico, diversamente valutabile e valutato.

In questo senso fu Karl Marx che per primo lo definì come un qualcosa che possiede un valore. 
In altri termini, il tempo è una variabile economica dei processi di produzione e di conseguenza, esso costituisce un importante fattore nei processi di razionalizzazione della modernità.

 

Prima di chiudere questa breve parentesi ricordiamo le Banche del tempo.

Queste banche sono un tipo di associazione che si basa sullo scambio gratuito di “tempo”.

Ciascun socio della banca mette a disposizione degl’altri soci una parte del suo tempo e, va da sé, della sua competenza.

 

Le ore depositate o prelevate vengono valutate e poi accreditate o addebitate nella banca, in questo modo non sempre è lo stesso socio a “rimborsarle”, ma esse girano tra i soci.

 

Le aree d’intervento delle BdT – come vengono chiamate –  sono diverse, si va dalle lezioni di cucina alle manutenzioni della casa, agli accompagnamenti dei disabili o degli anziani, all’ospitalità, al baby-sitteraggio, alla cura dei giardini e del verde, alle ripetizioni scolastiche, alle lezioni di lingue o di tecniche digitali, alla organizzazione di feste ed altro ancora.


In Italia sono nate alla fine degli anni Ottanta diffondendosi soprattutto in Emilia Romagna

Hanno avuto un boom intorno al 2000 e la loro particolare attività ha coinvolto persone assai diverse per età, condizioni sociali e culturali.

Oggi gli iscritti sono in prevalenza donne (circa il 70 percento).  L’età media si sta progressivamente abbassando in quanto l’utilizzo dell’informatica, mail e web, ha coinvolto anche le fasce giovani della società.  Le BdT collaborano spesso con altre associazioni similari – come sono i GAS i gruppi di acquisto solidali – e partecipano con propri progetti ai bandi pubblici o privati per il sostegno del volontariato previsti dalla legge 53/2000 e da varie leggi regionali.


Ci sono altri temi sensibili intorno alla relazione ambiente, individuo, natura.

Uno di questi temi, che compare sempre più spesso nel capitolo dedicato alle condizioni dell’ambiente naturale, è la nozione di corpo.

Oggi la sociologia del corpo è una disciplina indirizzata soprattutto alla costruzione di modelli esplicativi relativi al rapporto di reciproca determinazione (o restrizione) tra la società (ovvero i processi sociali) e la corporeità (o, unità psicosomatica).

 

Due autori che si sono occupati in modo specifico del corpo sono Georg Simmel e Marcel Mauss.

Lo hanno fatto in una prospettiva culturalista creando i presupposti di una vera e propria sociologia del corpo o delle culture corporee successivamente elaborata anche da una grande antropologa inglese Mary Douglas (1921-2007).

 

Successivamente il corpo, come realtà fenomenologica, ha avuto un particolare rilievo nei lavori di Erving Goffman, Gregory Bateson e David Le Breton.

L’approccio in questi autori è essenzialmente di tipo strutturalista o se si preferisce funzionalista.

 

Viceversa, l’analisi della relazione tra il vissuto, la corporeità, i processi socio-culturali che li riguardano è centrale negli studi di due sociologi di origine austriaca, Thomas Lukmann (il cui libro più famoso è La realtà come costruzione sociale del 1966) e Alfred Schütz, che vedremo in seguito per le sue ricerche sulla vita corrente è ciò che la fenomenologia chiama Lebenswelt, cioè, i mondi di vita.

Sempre sul tema del corpo e di ciò che rappresenta sia come elemento del mondo sensibile che espressione dell’individualità ricordiamo due filosofi francesi Jean-Paul Sartre e Maurice Merleau-Ponty oltre che lo psichiatra inglese Roland Laing.

Infine, da un punto di vista gnoseologico di grande importanza sono le riflessioni di altri due grandi pensatori francesi, George Bataille e Michel Foucault a cui dobbiamo la nozione di biopolitica.


In breve.  Per Foucault la biopolitica è il terreno sul quale agiscono le pratiche con le quali la rete dei poteri costituiti gestisce le discipline del corpo sia in senso individuale che collettivo.

È di fatto un’area d’incontro tra il potere e la sfera della vita.


Il corpo in molti di questi studi è inteso soprattutto come una macchina comunicativa.

Una macchina che si può costruire con l’attività fisica, si può modificare con una divisa, si può trasformare in un messaggio con un tatuaggio.

Il discorso sul corpo riguarda anche le cosiddette pratiche centrate sulla “corporeità”, perché servono a delineare, da una parte, gli stili di vita e, dall’altra, hanno un grosso risvolto economico, come sono le attività legate all’industria della cosmesi, alla chirurgia plastica, alle diete, all’abbigliamento, eccetera.

 

Cambiamo argomento. 

Passiamo ad un rapido esame delle istituzioni e delle organizzazioni formali, vale a dire di quei sistemi relativamente stabili di relazioni, retti da norme specifiche, che assolvono o dovrebbero assolvere a funzioni e interessi della vita sociale come tale.

 

In altri termini, le istituzioni e in parte le organizzazioni formali sono delle strutture sociali che amministrano e governano il comportamento degli individui.

 

In particolare le istituzioni materializzano o, meglio, danno visibilità ai principi giuridici fondamentali della forma di Stato, identificandosi con gli organismi politico-costituzionali che ne sono l’espressione.  

Costituiscono delle istituzioni formali i parlamenti, le forze armate, i ministeri, le fondazioni, i tribunali, eccetera.

Le organizzazione formali hanno, invece, una natura più privatistica, come sono un’azienda, una squadra di calcio, un club, un’associazione di volontariato, un partito politico.

 

Ciò che contraddistingue sia le istituzioni che le organizzazioni formali è il carattere della stabilità.
Esse sono stabili nella misura in cui vengono codificate dagli usi, dal costume dalle norme. 

Poi, a misura in cui sono stabili, tendono a caricarsi di valori immateriali, come per esempio il prestigio o l’affidabilità. 
Sono valori che consentono loro una certa autonomia, ponendole al di sopra delle parti e degli interessi di parte. 

La loro stabilità e la loro autonomia, infatti, hanno il potere di agire con autorevolezza sugli attori sociali condizionandoli, educandoli o indirizzandoli nella loro vita sociale.
Al limite, sanzionandoli.

 

Va anche sottolineato che le istituzioni e le organizzazioni formali sono profondamente intrecciate al meccanismo dell’interazione sociale.
Per definirla conviene partire dall’esperienza che ognuno di noi ha della società.

Non è difficile constatare che questa esperienza si materializza concretamente come l’insieme dei rapporti che intratteniamo a diverso titolo nel nostro habitat sociale.
Si tratta di un insieme di azioni e di reazioni  – da cui il termine interazione – mediante le quali gli individui entrano tra loro in contatto, comunicano, collaborano, giudicano.   

 

In breve l’interazione sociale è quella sequenza dinamica e mutevole di atti sociali fra individui o gruppi di individui che modificano le proprie azioni e reazioni in relazione alle azioni degli individui e dei gruppi con cui interagiscono. 
In questo senso l’interazione può essere intesa come il luogo primario in cui si forma, si ratifica, si trasforma il legame sociale. 

 

Da questa definizione si comprende anche come l’interazione sociale determini l’ordine sociale.
Ordine che non si manterrebbe in equilibrio senza una costante e spesso lunga e silenziosa rinegoziazione dei suoi valori, delle sue norme, dei suoi saperi o delle sue credenze.

 

Perché il tema dell’interazione è importante?

Perché rappresenta il nodo intorno al quale si sviluppano e si strutturano gli studi del comportamento collettivo e individuale.

Questi studi, che confluiscono in quelle che oggi si chiamano le microsociologie, hanno come argomento principale i cosiddetti rapporti face to face, cioè, i rapporti intersoggettivi. 

Diciamo allora che, per definizione, le microsociologie studiano soprattutto i legami sociali elementari.

Il primo a rendersi conto dell’importanza di questi legami fu Georg Simmel, che esaminò l’importanza di alcuni micro-fenomeni sociali come sono i segreti, l’amicizia, l’ubbidienza, la lealtà, la fiducia.

Oggi le microsociologie hanno come campo d’interesse i comportamenti, i ruoli, le interazioni sociali, i conflitti, le identità e il modo di formarsi dei processi decisionali individuali o dei piccoli gruppi.
Tra gli studiosi di queste microsociologie segnaliamo anche George Gurvitch (1894-1965), un sociologo russo, naturalizzato francese che studiò, in particolare, la funzione del fattore tempo nelle scienze sociali.

 

Per ragioni di economia ci soffermeremo sull’analisi di Alfred Schütz (1899-1959), uno dei primi ricercatori che si pose il problema di indagare le relazioni tra gli individui, nell’ambito della vita quotidiana.

Schütz era nato in Austria, ma dovette emigrare in America a seguito delle leggi razziali tedesche dopo l’annessione e lì, anche per motivi personali, si dedicò all’analisi del comportamento collettivo.

L’opera a cui noi faremo riferimento uscì nel 1932, s’intitola La fenomenologia del mondo sociale, è uno studio nel quale, partendo dalle ricerche di Max Weber, sviluppa le problematiche dell’agire sociale.

 

Egli definì la vita quotidiana, come l’insieme di azioni, di rapporti, di conoscenze e di credenze familiari all’interno dei quali, per così dire, scorre ciò che conta sul piano individuale e segna, con l’esperienza, l’esistenza degli individui.

Si tratta di quel insieme di relazioni che, il più delle volte consideriamo o passano per scontate, come salutare un conoscente, prendere un appuntamento, uscire in compagnia di amici per una cena, telefonare per informarsi sulla salute di un parente ammalato, avvertire casa per un improvviso contrattempo, mettersi d’accordo per andare ad un concerto, eccetera.

 

Come Alfred Schütz ebbe modo di dimostrare questi rapporti costituiscono il cemento dell’esperienza sociale di cui cogliamo l’importanza quando entrano in crisi o attraversiamo uno stato di eccezione – come furono per lui le leggi sulla razza.     

 

Vediamo, sotto questa luce, alcuni caratteri della vita quotidiana.

 

Il primo di essi è la routine.
Costituisce il carattere più evidente della vita quotidiana e, per molti versi, anche il più sorprendente quando lo andiamo a focalizzare.
Questo carattere esprime la ripetitività e la prevedibilità delle azioni, dei comportamenti e dei pensieri.

La prevedibilità, in particolare, agisce sul comportamento abbassando il livello d’interesse dell’osservatore e/o dell’attore sociale e, così agendo, favorisce soprattutto un risparmio di energie.

Ma non è così semplice.

La ripetizione e la prevedibilità dei comportamenti possono finire per stimolare risposte automatiche o stereotipate, che abbassano il nostro grado di attenzione verso ciò che ci circonda. 

Perché sono così importanti per la sociologia?
Perché quando ripetitività e prevedibilità finiscono per invadere massicciamente il tempo della vita quotidiana, siamo in presenza di vissuti che tendono inesorabilmente a deteriorarsi.

O, come dicono i filosofi sociali, siamo davanti ad una alterazione del quiora che induce ad una sorta di smarrimento sociale e, spesso, nei casi più gravi, a forme di angoscia e di disagio psichico.  

I processi interattivi generano anche un altro fenomeno, le tipizzazioni.

La tipizzazione agisce come uno strumento di previsione del comportamento.
È come dire, capovolgendo un proverbio popolare, che l’abito, a dispetto del nostro senso critico, fa il monaco.

La tipizzazione può essere involontaria, ma il più delle volte è il risultato di una scelta consapevole tra i vari modelli di comportamento che l’esperienza sociale ci fornisce.

Perché è consapevole?
Perché ciascuno di noi sa bene che ad ogni passo della nostra giornata come della nostra vita sociale siamo costantemente osservati, e in qualche modo interpretati e giudicati.
Perché ciascuno di noi sa che gli altri reagiscono nei nostri confronti secondo il loro modo di essere, che si esprime attraverso il loro modo di interpretare e vivere le situazioni sociali.

 

Un altro aspetto importante dell’interazione sociale e ciò che la lega ai processi della rappresentazione. 
Gli individui, infatti, non solo sono coscienti delle azioni e delle reazioni che questi processi comportano, ma, in genere, sono consapevoli anche dei loro effetti.  

Secondo Erving Goffman (1922-1982) a causa della consapevolezza, che gli individui hanno di influenzare con le proprie azioni l’opinione che gli altri danno della situazione alla quale essi stanno partecipando, questi stessi individui finiscono (inevitabilmente) per comportarsi come se recitassero una parte, come se fossero attori su un palcoscenico.  
Come se vivessero dentro una rappresentazione teatrale o uno spettacolo.   

 

Goffman è un sociologo di origine canadese, vissuto negli Usa, ha studiato a Chicago.

Lo ricordiamo perché a Chicago ha operato una delle scuole di sociologia urbana più prestigiose degli Stati Uniti.

 

Uno degli scritti più importanti di questo studioso, uscito nel 1956, s’intitola, La vita quotidiana come rappresentazione.
Con questa opera, Goffman, introduce nella sociologia il concetto di prospettiva drammaturgica.

Il suo campo di ricerche principali sono stati gli aspetti trascurati della vita quotidiana, quelli che appaiono banali, ma che possiedono, in sé, una forte carica recitativa. 

Costituiscono degli aspetti che, nelle società complesse, come quelle del mondo Occidentale, sono divenuti oscuri e equivoci e che, sempre di più, vengono usati per offrire agli altri un’immagine in qualche modo valorizzata di noi stessi.

 

I sociologi americani definiscono queste situazioni, come abbiamo già notato, face to face, perché di fatto riflettono le piccole situazioni della vita di tutti i giorni.

 

Per analizzarle Goffman immaginò la vita quotidiana come se fosse un gioco di rappresentazioni.

Un gioco nel quale l’identità dell’individuo – che nella lingua inglese è definita con l’espressione

di self – coincide di volta in volta con le maschere che costui indossa sul palcoscenico della vita corrente.


Prima di procedere spendiamo due parole sull’espressione di self, un’espressione con la quale nella lingua inglese si identifica l’identità dell’individuo nelle relazioni face to face.

È un concetto molto usato anche in psicologia e in psicanalisi, da cui è stato mediato.

Didier Anzieu (1923-1999,)un protagonista della psicoanalisi francese, scrisse, qualche tempo fa, un libro divenuto un classico sui confini del self, intitolato, Le moi-peau, (L’io-pelle) 1985.

Perché è importante la nozione di self?

Esso gioca un ruolo decisivo nel rapporto che noi abbiamo con il nostro corpo e il corpo degli altri.

E non solo, perché il self caratterizza anche il modo con cui noi percepiamo la sostanza corporale con la quale siamo fatti e che non si limita a un po’ d’acqua, lipidi, aminoacidi, eccetera.

 

La nostra esperienza della vita quotidiana ci dice che la percezione della nostra sostanza corporale cambia di contenuto davanti ai nostri occhi quando supera i limiti del self.

In questo modo il self si è rivelato un concetto molto importante per studiare il gusto e il disgusto e il modo di percepire la prossimità con gli altri.

Facciamo qualche esempio.

Non abbiamo disgusto della saliva che si trova nella nostra bocca, ma se la raccogliamo in un bicchiere molto difficilmente riusciremo a rimetterla in bocca e inghiottirla.  Perché quando le nostre secrezioni superano (varcano) il limite del nostro io-pelle ci diventano estranee, e simmetricamente, quelle degli altri (che ci penetrano) ci provocano disgusto più si avvicinano.

É come se le vivessimo in modo intrusivo, è come se dovessimo difenderci da esse.

 

La stessa cosa si può dire per il sangue, a noi non da fastidio succhiare il sangue che esce da un dito che ci siamo feriti affettando del pane, ma se questo sangue lo raccogliamo con una garza, difficilmente avremmo poi il coraggio di succhiarla.

 

Di contro, il self diventa tollerante con le relazioni di vicinanza derivate da un’attrazione emotiva.

Non a caso nelle relazioni intime il self diventa spesso un acceleratore dell’intimità, come avviene con la saliva del bambino che non è ripugnante agli occhi della madre, così come non lo sono le secrezioni dei nostri partner sessuali, ma che tornano ad esserlo se l’intimità viene spezzata da una separazione o da un litigio.

 

Con il self, tra l’altro, si possono spiegare anche molti dei meccanismi del feticismo, che trasformano la distanza e la familiarità degli oggetti che appartengono al soggetto amato.

In questo senso l’intimità come la tenerezza contaminano positivamente gli oggetti avvicinandoli a noi, facendoli diventare familiari, esattamente come il disgusto li allontana.

 

L’identità soggettiva s’intreccia con un altro grande tema che abbiamo accennato, quello della contaminazione, in questo caso serve a completare il paradigma della prossemica, intesa come quel capitolo della semiologia che studia il significato del comportamento umano (gesti, posizioni, distanze posture) dal punto di vista dei processi comunicativi.


In questo contesto la vita di tutti i giorni è analizzata come una scena sulla quale si recita.  Una scena con i suoi attori, il suo pubblico, le sue quinte, dove spesso gli attori contraddicono quello che hanno detto davanti ai riflettori.

Su questa scena gli attori si mettono in gioco, si presentano, si alleano, si scontrano s’ingannano, mostrano la loro capacità d’impersonare un ruolo, s’immergono o prendono le distanze dalle situazioni che li coinvolgono 

 

Occorre persi una domanda: Gli individui sono coscienti di recitare una parte sociale?

 

Per Goffman lo sono sempre, anche se non sempre ne sono totalmente consapevoli.  

In certe occasioni questa recitazione è assolutamente partecipata, in altre è come una parte recitata mille volte, che diventa quasi automatica, in altre ancora è recitata di malavoglia.

C’è poi da considerare ancora una cosa, come l’Altro da noi o gli altri giudicano chi sta recitando. 

Questo perché, in base a come chi sta osservando valuta la spontaneità, o se volete, l’abilità, o la qualità della recitazione dell’altro o degli altri suoi interlocutori, ne tira delle conclusioni che, a sua volta, influenzeranno il suo modo di comportarsi.
Come in una partita a ping-pong, ogni tiro a sua volta provoca una reazione di tiro, che a sua volta provoca una reazione…e così via….

 

Passiamo ora ad un altro argomento chiave del discorso sociologico: i gruppi.

Da qualche tempo a questa parte i gruppi sono studiati da una specifica disciplina chiamata analisi  gruppale.
Il riconoscimento dell’importanza dello studio dei gruppi lo dobbiamo, per quanto ci riguarda, soprattutto ad uno psicanalista inglese, Wilfred Ruprecht Bion (1897-1979), che a sua volta lo riprese dagli studi di Maxwell Jones (1907-1990) sulle piccole comunità terapeutiche.

 

Come abbiamo già osservato per le masse, un gruppo non si riduce alla somma delle coscienze e delle volontà individuali che lo compongono, anzi, è più facile il contrario, che il gruppo trasformi l’individuo che ne fa parte.

 

In sociologia si definisce gruppo sociale un insieme di persone che entrano in qualche modo in rapporto reciproco, sulla base di valori o interessi comuni.

Oppure, in una forma più articolata:

Un gruppo è un insieme d’individui che interagiscono fra loro influenzandosi reciprocamente e che condividono, più o meno consapevolmente, interessi, scopi, caratteristiche e norme comportamentali. 

Che cosa distingue un gruppo da una folla o da una comunità di persone?
Il fatto che nella folla, nella comunità o, più in generale, in un’aggregazione di persone, come è, per esempio, un grande ufficio, una scuola, un quartiere, non esiste un’interazione diretta tra tutti gli individui, o, più semplicemente, questi individui non costituiscono un insieme organizzato.

 

Prima di procedere con i gruppi distinguiamoli subito da un’altra figura della topografia

sociologica, le categorie sociali, rappresentano dei gruppi impropri o degli pseudogruppi.

Sono, in genere, il risultato di una costruzione teorica deliberata mediante la quale gli studi sociali raggruppano idealmente o teoricamente in una stessa unità individui con caratteristiche comuni, al fine di poterli monitorare.

 

Quanto agli aggregati, essi costituisco dei semplici gruppi casuali.

Rispetto ai gruppi veri e propri gli aggregati mancano di una struttura, sono limitati nel tempo e soprattutto mancano di quella qualità delle relazioni interpersonali che costituiscono l’essenza dei gruppi.

Vediamo le tre caratteristiche che distinguono un gruppo.

– I membri del gruppo interagiscono tra di loro in modo strutturato secondo le norme o i ruoli che il gruppo si è dato.
– I membri del gruppo hanno la coscienza di essere un gruppo o, meglio, maturano un sentimento di appartenenza al gruppo che, tra l’altro, funziona da barriera nei confronti degli estranei.
– Il gruppo è percepito come un gruppo da parte di chi non ne fa parte.  Vale a dire il gruppo ha un’identità esplicita e assolutamente percepibile dall’esterno.

 

Quanto ai gruppi in sé possiamo distinguerli in molti modi.
La classificazione più importante è quella tra gruppi primari e gruppi secondari. 
I gruppi primari sono anche detti piccoli gruppi.
Il loro carattere principale è la forte integrazione, tipica, per fare un esempio, delle famiglie o delle bande.
Per definizione i gruppi primari sono costituiti da pochi individui.
I gruppi secondari o grandi gruppi sono gruppi composti da un numero elevato di membri.
Sono gruppi nei quali le relazioni interpersonali appaiono neutre e, spesso, il rapporto tra il singolo e gli altri membri è di natura strumentale, cioè, funzionale ad uno scopo.

L’esperienza sul campo ha dimostrato che appena il numero dei membri di un gruppo supera la mezza dozzina c’è una tendenza, che si può definire spontanea, alla formazione di sottogruppi, dove le affinità sono più forti.

Quando, poi, il numero dei membri di un gruppo secondario supera la dozzina è molto probabile che all’interno del gruppo si formi un portavoce o che un membro lo coordini.
A questo proposito si è constatato che in qualsiasi gruppo, prima o poi, emerge la figura di un leader.
La velocità con cui questa figura si forma è proporzionale alla grandezza del gruppo.
Più il gruppo e grande e prima si costituisce una leadership.  

 

Nella leadership si possono distinguono tre stili:
Quello autoritario, quello democratico e quello improntato al laissezfaire

 

Nel primo caso la struttura è molto gerarchica e si caratterizza per la direzione degli ordini che influenza il comportamento del gruppo, sempre dall’alto verso il basso.
Questi ordini, in genere, non sono mai messi in discussione, cioè, si subiscono.

La struttura dei gruppi che possiamo definire democratici è caratterizzata dal consenso della maggioranza, vale a dire da un’accettazione consensuale dei programmi del gruppo.

La leadership dei gruppi improntata al laissezfaire si caratterizza dalla mancanza di una vera dirigenza.  In questi gruppi la leadership si limita, in pratica, a far emergere e a gestire le iniziative dei sottogruppi.

 

Ricordiamo anche una particolare forma di gruppo, i gruppi di riferimento.

Sono quei gruppi che s’ispirano all’opera di altri gruppi.  Possono essere gruppi di riferimento positivi o negativi.
Quelli positivi, in genere, si possono definire ed appaiono dall’esterno come una specie di gruppi ideali.
Quelli negativi, invece, sono gruppi di riferimento con i quali prima o poi emergono delle tensioni che possono anche alimentare delle situazioni di conflitto.

È più raro, ma anche i gruppi negativi possono avere dei riferimenti non reali e, tra virgolette, ideali o utopistici.

In generale i gruppi di riferimento negativi compaiono in quei gruppi che si formano per reazione contro l’ambiente in cui vivono, per i motivi più diversi, sia materiali che ideologici, come nel caso delle sette sataniche, delle bande di tifosi o nelle organizzazioni criminali.

Fa scuola il mito di Al Capone o delle famiglie mafiose americane.

 

Nelle forme di democrazia rappresentativa, come dovrebbero essere le democrazie moderne, una forma di gruppo di una certa importanza è il gruppo di pressione.

Questi gruppi sono anche detti gruppi d’interesse. 

In genere sono strutturati nella forma del collettivo che si mobilita per difendere specifici tornaconti, anche ideali, come sono per esempio i gruppi ambientalisti.

Quando i gruppi di pressione sono organizzati e la loro azione è diretta in modo specifico ad agire sui centri di potere, con lo scopo di influenzare pubblicamente determinate scelte politiche, economiche o etiche, si definiscono lobby.

Questi gruppi di pressione organizzati sono tipici dei paesi di lingua inglese, in cui la corruzione (sotterranea) è severamente sanzionata e le lobby sono, in qualche modo, istituzioni formali accettate, se non altro come un male minore che si vede e che si può contenere.

 

Il tema dei gruppi nelle scienze sociali è legato a un altro grande tema, quello delle gerarchie sociali.

Qui, non abbiamo il tempo per approfondire i motivi, oltre a quelli economici, per i quali  nelle società si formano le gerarchie, anche perché questo è più un argomento di antropologia e di teorie politiche che di sociologia generale.

Alla sociologia compete piuttosto lo studio della posizione sociale di un individuo o di un gruppo all’interno di un sistema di relazioni che formano la struttura sociale di una società.

Questa posizione si definisce status.
All’origine questa espressione apparteneva al linguaggio giuridico.

Oggi, negli studi sociologici è connessa al concetto di ruolo.

Il ruolo esprime l’aspetto dinamico (o esecutivo) dello status. 
Il termine di status s’impiega soprattutto per indicare il prestigio assegnato a ciascuna posizione nell’ambito della stratificazione sociale.

Gli status, poi, possono essere ascritti o acquisiti dalla persona.
Quelli ascritti sono quelli presenti al momento della nascita.
Quelli acquisiti sono gli status ottenuti nel corso della vita, in genere, si ritiene, per meriti specifici, dunque, sono spesso, nell’ambito delle democrazie, più importanti di quelli ascritti.

 

Per quando riguarda i modelli della stratificazione sociale diciamo che le due configurazioni più importanti sono i modelli chiusi e i modelli aperti.
In un sistema sociale chiuso i confini tra status e status sono chiari e definiti, appaiono, da un punto di vista storico, come se fossero congelati.
In quelli aperti, invece, il confine tra gli status può variare con il successo personale, la fortuna, il caso, l’iniziativa o l’intraprendenza personale.

 

Nella società occidentale va anche costatato, a partire dalla seconda metà dell’800, una costante trasformazione dei ceti in classi. 
Questa metamorfosi costituisce uno degli effetti della rivoluzione industriale e delle forme di democrazia che in essa si sono sviluppate. 

La rivoluzione industriale, di fatto, contribuì a ridurre ogni differenza sociale ai soli fattori economici e all’effettivo controllo della ricchezza.

I suoi esiti sono ben visibili all’interno delle due classi che si affermarono come le due sole classi protagoniste della storia della modernità, la borghesia e il proletariato.

 

Va però notato come, da alcuni decenni a questa parte, nei paesi dell’area temperata del pianeta, le  si stanno disfacendo nella loro forma storica per ridisegnarsi su altri valori, come sono quelli della conoscenza e dell’accesso all’informazione e all’educazione. 


Il digital divide o divario digitale è il divario esistente tra chi ha accesso effettivo alle tecnologie dell’informazione e chi ne è escluso in modo parziale o totale. I motivi dell’esclusione comprendono diverse variabili: condizioni economiche, livello d’istruzione, qualità delle infrastrutture, differenze di età o di sesso, appartenenza a gruppi etnici diversi, provenienza geografica. 

Oltre a indicare il divario nell’accesso reale alle tecnologie, la definizione include anche disparità nell’acquisizione di risorse o capacità necessarie a partecipare alla società dell’informazione.  Il termine digital divide può essere utilizzato sia per riferirsi ad un divario esistente tra diverse persone, o gruppi sociali in una stessa area, che al divario esistente tra diverse regioni di uno stesso stato, o tra stati (o regioni del mondo) a livello globale.

 

Il termine è apparso per la prima volta all’inizio degli anni Novanta negli USA in alcuni studi che indicavano come il possesso di personal computer aumentasse in modo significativamente differente tra i gruppi etnici.

Il concetto di divario digitale è poi entrato nell’uso comune quando il presidente americano Bill Clinton e il suo vice Al Gore lo hanno utilizzato durante un discorso tenuto nel 1996 a Knoxville, in Tennessee.


Tutto ciò da e darà vita ad altre forme di conflitto tra le quali, di una certa importanza, saranno

– quelle di natura generazionale che coinvolgeranno i cosiddetti nativi digitali,

– quelle tra i localismi,

– quelle legate all’equa re-distribuzione delle risorse naturali, come da tempo è il caso del petrolio e di recente dell’acqua o del controllo climatico.   

 

A questo proposito ricordiamo che i paesi della fascia temperata del pianeta terra costituiscono un terzo della popolazione mondiale e consumano i due terzi dell’energia totale prodotta.
In un rapporto del 2006 delle Nazioni Unite sulla distribuzione del benessere economico si afferma che l’uno per cento della popolazione mondiale detiene il quaranta per cento del patrimonio finanziario e immobiliare mondiale, pari a 125mila miliardi di dollari, mentre il cinquanta per cento della popolazione mondiale accede solo all’uno per cento della ricchezza planetaria.

 

È indubbio che, in questo scenario, uno degli obiettivi delle scienze sociali dovrebbe essere quello di contribuire a rielaborare degli stili di vita che consentano di riequilibrare questo stato di cose prima che sia troppo tardi.

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