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IED 2014-2015 Fondamenti di Sociologia e di Sociologia della comunicazione visuale.

IED 2014-2015

 

Fondamenti di Sociologia e di Sociologia della comunicazione visuale.

UNO

 

Sapientia prima est stultitia caruisse.
Orazio.

 

La sociologia, un tempo definita come una fisica dei fenomeni sociali, da un lato, rappresenta uno dei più efficaci paradigmi per la comprensione della complessità, che caratterizza il mondo moderno, dall’altro, costituisce uno degli strumenti più efficaci per conoscere il modo di formarsi della cultura, dei valori, degli stili di vita e dei nuovi mutamenti sociali, come sono la globalizzazione dei mercati, l’affermarsi delle società multietniche, l’incidenza dei mass-media sulle mode, i costumi e le abitudini.

 

L’obiettivo di questa disciplina è dunque quello di illustrare le dinamiche che conciliano e spiegano il vissuto, le passioni e il fare degli uomini con la cultura dei segni e delle forme che domina la modernità e le sue rappresentazioni.

Di imparare a decifrare i significati del reale che si nascondono dietro le apparenze e i simulacri ed essere capaci di governarli.

 

In breve, la sociologia appare come un punto di vista particolare sulla realtà umana,

come una ricerca sull’uomo in quanto individuo sociale che vive in collettività.

 

Sinteticamente diciamo che la sociologia si occupa della società come un prodotto umano e dell’uomo come un prodotto sociale.

 

Vale a dire essa esamina:

– il divenire della società e delle sue configurazioni.

 

– le relazioni e le correlazioni che strutturano e organizzano i fenomeni sociali.

 

– i rapporti tra le varie componenti che formano e definiscono i sistemi sociali.

 

– le interdipendenze tra i valori, i significati e i simboli che formano la cultura e che sono in continua trasformazione.

 

– i fattori e le modalità dell’azione sociale.

 

– i linguaggi condivisi che consentono la costruzione di un senso che orienta i comportamenti.

 

– la costituzione e il funzionamento – attraverso le forme della politica – dell’organizzazione sociale e delle forze che in qualche modo la determinano.

 

A grandi linee, nella stagione del positivismo, cioè all’inizio dell’800, quando nasce, la sociologia si forma per accumulo di conoscenze ritenute oggettive e razionali, tanto che la sua storia corre parallela a quella dell’idea di progresso.

 

Successivamente si formeranno le grandi scuole con le loro teorie e i loro protagonisti.

Verso la metà del Novecento, diciamo dopo la seconda guerra mondiale, nella sociologia si cominciarono a elaborare quelle che furono definite le sintesi strutturali.

In pratica le diverse correnti delle scienze sociali cercarono di elaborare un proprio paradigma sul quale fecero convergere le metodologie della ricerca sociale e le loro sintesi ideologiche.

 

Qui, paradigma sta per modello epistemologico accettato in un dato momento e in un dato contesto disciplinare. 

Modello che la ricerca scientifica può accettare o rimettere in discussione e che si trasforma nel tempo. 

Un esempio lo spiega bene.

 In astronomia il paradigma tolemaico – elaborato da Tolomeo nel primo secolo dell’era comune – fu rimpiazzato nel Rinascimento da quello copernicano che consentì all’astronomia di diventare scientifica e di continuare a svilupparsi.  

Infatti nonostante che Tolomeo fosse definito dai greci il “grandissimo” non era più possibile pensare la terra al centro del sistema solare.

 

Seguì una stagione in cui si rilessero e si rivalutarono le problematiche etiche e morali dei grandi padri fondatori di questa scienza.

Sono gli anni che vanno tra il 1960 e il 1980 circa e che hanno al loro centro la crisi o la rivoluzione del 1968, a seconda dei punti di vista.

 

Oggi siamo in una fase che potremmo definire contestualistica.

 

Vale a dire le teorie sociologiche sono trattate come se fossero degli strumenti ideologici per comprendere e adattare il comportamento degli uomini ai bisogni dell’epoca.

 

In chiave politica è come dire che le diverse sociologie, in cui si divide lo studio della società, siano diventate dei mezzi con i quali si legittima l’ordine sociale, sia esso improntato alla conservazione, sia esso indirizzato al progresso e all’innovazione.

 

Prima di cominciare vediamo un altro concetto che abbiamo usato per dire che noi viviamo in un mondo complesso.

 

Il concetto di complessità.

 

Nel linguaggio comune la complessità è il contrario della semplicità oppure è sinonimo di complicazione.

Diverso è il significato di complessità nella letteratura scientifica.

 

Per esempio esiste una teoria della complessità molto popolare è quella che si è sviluppata intorno all’informatica a partire dagli anni ’90 del secolo scorso.

 

Il termine è anche utilizzato come sinonimo di epistemologia della complessità, una corrente della filosofia della scienza inaugurata nei primi anni ’70 da Edgar Morin, Isabelle Stengers e Ilya Prigogine.

 

Si parla di complessità o teoria della complessità anche in riferimento alla teoria del caos.

 

Nel concetto moderno di complessità confluiscono oltre che i lavori del fisico-matematico Henri Poincaré, che risalgono all’inizio del Novecento anche gli studi della prestigiosa scuola russa di matematica e dei cibernetici americani come Norbert Wiener, Heinz von Foerster e Warren Weaver.

 

In sociologia la teoria della complessità serve a studiare la cosiddetta teoria del vivente, vale a dire come gli individui e i gruppi agiscono nel contesto reale in cui si trovano e come interagiscono tra di loro.

 

Attenzione a una confusione.

Un problema complicato (complicare in latino significa piegare assieme, arrotolare, avvolgere), è un problema che si fatica a risolvere perché contiene un gran numero di parti nascoste, che vanno elaborate una a una.

Un problema invece è complesso quando sono alte le interconnessioni che lo formano e lo trasformano.

In breve, nella complessità il tema è l’interconnessione, nella complicazione ciò che agisce è l’alto numero delle parti che la compongono. 
Per cominciare conviene, prima di tutto, definire il campo o il paradigma della disciplina che studieremo.

In forma sintetica possiamo dire che la sociologia è la scienza che studia con i propri metodi e strumenti d’indagine i fondamenti, i fenomeni, i processi di strutturazione e destrutturazione, le manifestazioni della vita associata e le loro trasformazioni.

Per questo essa è stata anche definita come la scienza dei fenomeni sociali.

 

Per le scienze sociali un fenomeno sociale è caratterizzato dalla proprietà di esistere al di fuori delle coscienze individuali, così gl’individui se li trovano di fronte come realtà che preesistono loro e che sono indifferenti alla loro presenza. 
In secondo luogo, i fenomeni sociali sono  anche dotati di un potere imperativo e coercitivo in forza del quale s’impongono agli individui con o senza il loro consenso.  

 

La parola sociologia fu coniata nel 1824 dal filosofo francese Auguste Comte (1798-1857) che, nel suo Corso di filosofia positiva, pubblicato nel 1839, la impiegò al posto di un’espressione allora più popolare, fisica sociale. 

 

Un’espressione divenuta d’uso corrente a partire dalla seconda metà del ‘700 per definire lo studio positivo dell’insieme delle leggi fondamentali proprie dei fenomeni sociali.

 

Questa idea di una fisica sociale, come strumento per studiare gli uomini, può sembrare curiosa ma nella seconda metà del Settecento serviva a rivoluzionare un certo modo di vedere il mondo, a capovolgere le sue certezze centenarie, a seminare il dubbio là dove gli antichi saperi costituiti avevano i loro capisaldi, costruiti sulla sabbia dei luoghi comuni.

 

Il termine positivismo fu usato per la prima volta da  Claude Henri conte di SaintSimon (1760-1825) del quale, tra l’altro, Comte fu un collaboratore, per definire un metodo esatto, dal punto di vista scientifico, con il quale fosse possibile affrontare in modo razionale i grandi temi con i quali la società e gli uomini devono in continuazione misurarsi.

 

L’idea da cui partì la ricerca di questo metodo affonda nelle tesi dell’Illuminismo, in particolare dai lavori di Jean-Baptiste d’Alambert (1717-1783) e Jacques Turgot (1727-1781).

 

L’illuminismo è una corrente di pensiero laica che si sviluppa a partire soprattutto dalla seconda metà del 1700 in Europa e in particolare in Francia. 

Il suo nome descrive bene i suoi obiettivi. 

Illuminare la mente degli uomini in modo da consentire loro di liberarsi dall’ignoranza, dai luoghi comuni e dalla superstizione servendosi della ragione e degli strumenti della scienza.  
Oggi possiamo dire che il positivismo contribuì ad affermare i principi o la necessità di una organizzazione scientifica della società (soprattutto di quelle industriali) dando così un senso ad un grandissimo fenomeno, sociale, politico ed economico:
– il fenomeno della tecnica, intesa come una scienza dei mezzi, che si materializza nella tecnologia e da vita alla civiltà industriale.

 

A grandi linee nel suo corso di filosofia positiva Comte sosteneva che lo spirito umano si è evoluto attraverso tre stadi: quello teologico, quello metafisico e quello positivo.
– Nello stadio teologico gli uomini spiegavano i fenomeni che non comprendevano attraverso il ricorso a entità soprannaturali.
– Nello stadio metafisico o astratto attraverso il ricorso a delle considerazioni di ordine filosofico.
Una piccola parentesi.  La fisica è la teoria dei fenomeni, la metafisica è la teoria di ciò che si suppone sussiste dietro i fenomeni.  Che da loro un senso, purtroppo il più delle volte campato in aria..  

 

– Nello stadio scientifico o positivo la ricerca delle cause ultime – vale a dire di ciò che sussiste dietro i fenomeni – è abbandonata in favore dell’indagine sulle leggi che li governano. 

Sulle relazioni di successione e di rassomiglianza che connettono i fenomeni tra di loro e ci consentono di valutarne l’invariabilità

In breve le tesi fondative del positivismo si possono sintetizzare così:
La scienza è l’unico strumento di conoscenza reale (dunque, possibile) del mondo.

In altri termini, solo i principi scientifici e le cause analizzabili con il metodo delle scienze possono dare origine alla conoscenza.

 

Come mostra la storia di questa corrente di pensiero oltre che nel discorso delle scienze dell’uomo, il paradigma del positivismo, nel corso dell’Ottocento, penetrò nella medicina, nella politica, nella giurisprudenza, nell’insegnamento, nell’economia, nella filosofia e in molte altre discipline ancora.

Dunque, la parola sociologia rimanda ad un discorso sull’individuo come membro della società, cioè, ad una disciplina che studia il fondamento dei rapporti intersoggettivi (tra soggetti) come se fossero una scienza, cercandone un senso.

 

Passiamo ora all’etimo della parola sociologia.

Esso è composta da due termini, uno latino, socius (alleato) che sta ad indicare l’individuo in quanto membro della società, l’altro di origine greca, logos, che qui sta a significare “un discorso su…(qualcosa)”
Sulla scia delle teorie formulate da Auguste Comte c’è Herbert Spencer (1820-1903), un filosofo inglese, di orientamento positivista, con grandi interessi per la psicologia, considerato il padre del

la filosofia evoluzionistica.

Spencer è l’autore di un trattato di sociologia in cui, per la prima volta, le teorie di Charles Darwin sull’evoluzione sono applicato alle scienze sociali.

 

L’evoluzionismo – come visione del mondo – ha avuto, nell’ambito del discorso sociologico, il merito di focalizzare l’attenzione sul legame tra passato, presente e futuro.

 

Diciamo che ha sottratto il passato al suo destino di storia morta facendolo apparire come un materiale vivente, o con un’immagine positivista, come il materiale geologico con cui l’uomo costruisce il suo presente, cerca d’immaginare il suo avvenire e gli dà un senso. 

 

Insieme a Spencer ricordiamo John Stuart Mills (1806-1873), filosofo ed economista inglese, studioso di un particolare capitolo delle forme economiche, quelle espresse dall’utilitarismo. 


L’utilitarismo, in sintesi, è una dottrina che elabora
i modelli di comportamento che guidano le scelte individuali.

Di per sé le tesi sull’utilitarismo sono molto antiche, possiamo farle risalire addirittura ad Epicuro, vale a dire, al 300 circa prima dell’era comune.
L’utilitarismo elaborato da Mills, però, è particolare, tende a legare il bene con l’utile e a trasformare l’etica e le forme della morale, in una scienza della condotta umana.

 

Mills in Inghilterra è ricordato con simpatia soprattutto dalle femministe perché fu uno strenuo partigiano del diritto delle donne al voto.

 

Sempre per restare nell’ambito dell’utilitarismo inglese ricordiamo un altro suo padre nobile:  Jeremy Bentham (1748-1832).
Bentham è un filosofo riformatore fautore, in sede politica e legislativa, di un piano organico di riforme sociali fondate sull’equità per tutti.
Questo filosofo è conosciuto nei paesi di lingua inglese come il filosofo della felicità, per aver posto questo sentimento a guida e a motore dell’azione degli uomini.

Va ricordato che la parola felicità compare come un diritto inalienabile dei cittadini insieme alla vita e alla libertà nella dichiarazione d’indipendenza americana del 4 luglio 1776. 

È una prova indiretta della popolarità delle tesi di Bentham nell’area dei paesi di lingua inglese. 

 

Le sue tesi possono essere riassunte con questo principio:
Il dovere dei legislatori, vale a dire dei parlamenti e dei governi, è quello di assicurare il massimo della felicità possibile al maggior numero possibile di individui. 

 

Una curiosità.   

Bentham, alla sua morte, lasciò il suo corpo alla facoltà di medicina con la clausola che, dopo averlo usato per i corsi di anatomia, fosse imbalsamato e conservato nell’università di Londra, che fu in pratica la sua seconda casa.  Oggi, per motivi d’igiene è stato spostato, ma fino a un paio d’anni fa se ne stava seduto su una sedia, chiuso in un armadio del dipartimento di filosofia. 
Ogni anno i suoi numerosi ammiratori e discepoli aprivano l’armadio, lo spolveravano e brindavano al suo ricordo.    

 

Tornando a Mills.
Per questo filosofo la sola conoscenza possibile è quella empirica ed è il metodo della logica che deve guidarla.

Cioè, un metodo per creare inferenze (l’inferenza in logica è un processo per trarre conclusioni dai fatti presi in esame) fondato sull’induzione e la deduzione e, in sub-ordine, sull’abduzione (che è una sorte di sillogismo debole) in pratica, improntato ad un certo realismo metodologico.

Mills, a questo proposito, è l’autore di un libro famoso, intitolato Sistema della logica deduttiva e induttiva, uscito a Londra nel 1843.

 

Induzione.  In filosofia si definisce induzione l’argomentare dal particolare al generale, più in generale, il risalire dalla conoscenza dei fatti alla conoscenza delle leggi che li regolano. 
Questo processo, nel linguaggio comune, si chiama “congettura”.  Possiamo aggiungere che, quando la congettura diventa particolarmente barocca e tende al delirio o si nutre di elementi soltanto immaginati, prende in psichiatria un altro nome, quello di paranoia.  (La gelosia, per esempio, come la paura sono due grandi stimoli alla costruzione dei processi paranoici.)      

 

Deduzione.  La deduzione, invece, è il contrario dell’induzione.  Vale a dire, è il processo logico con il quale si procede dal generale al particolare.

Induzione, deduzione ed abduzione costituiscono nella pratica scientifica tre degli strumenti più importanti del ragionamento scientifico e, in qualche misura, dialettico

Quanto all’abduzione è una sorta di deduzione probabilistica. 

Il suo concetto è stato elaborato dal filosofo americano Charles Sanders Peirce (1839-1914).     

 

Spostiamo ora il nostro punto di vista. 

Nelle cosiddette società primitive o tribali non esisteva il problema di dover conoscere e riflettere sui fondamenti dell’ordine sociale.

I rapporti interpersonali all’interno di queste società erano basati principalmente sui vincoli di sangue, di latte, di parentela e, non da ultimo, su legami di natura magica o sacra.
Erano società semplici, con strutture organizzative elementari, poco dinamiche, con scambi e contatti ridotti con le altre realtà sociali esterne ad esse, spesso conflittuali.

 

Ad un certo punto, però:

– uno. Con la crescita demografica – che si ebbe grazie alla diffusione delle culture cerealicole a cominciare da quella regione che oggi viene definita della “mezzaluna fertile” e che corrisponde grossomodo al Medio-Oriente – e, di riflesso, della complessità sociale,

– due. Con il diffondersi dei commerci, dei viaggi e dei trasporti,

le strutture di tipo ancestrale cominciano ad entrare in crisi e a collassare.

 

Nella storia dell’uomo la cosiddetta svolta cerealicola anticipa la nascita delle città, fa aumentare i tassi di natalità e stabilizza i nuclei familiari che possono contare sulla certezza di potersi nutrirsi. 

Su questo tema incontriamo un urbanista e sociologo americano, Lewis Mumford (1895-1990) che concepì l’urbanistica come una sintesi delle scienze sociali a cui affidare l’organizzazione della società. 

Di Mumford ricordiamo, tra le decine di libri e saggi che ha scritto, perlomeno il titolo del suo libro più famoso La città nella storia, del 1961, in tre volumi.

En passant, ricordiamo che le sue considerazioni sono molto apprezzate dagli architetti del paesaggio, a cominciare dall’americano John Nolen (1869-1937) che ha fatto suo il principio che le città devono assomigliare,come un tutto organico, all’immagine del mondo naturale. 

Un’idea da cui è derivata la recente moda dei giardini verticali.

 

Questo collasso gli storici lo fanno risalire, per quanto riguarda l’area del Mediterraneo, al settimo/sesto secolo prima dell’era comune, a partire dalla Grecia, che allora esprimeva il modello di società più evoluta.
Sono gli anni che vedono nascere la forma della città-stato, delle polis.

Città che, sia pure in modo embrionale, hanno inventato e sviluppato al loro interno delle configurazioni sociali diverse, in continuo movimento e spesso concorrenti tra di loro.

 

Da un punto di vista funzionale, in queste città-stato l’organizzazione comunitaria cominciò a formarsi principalmente intorno a due temi chiave contrapposti della solidarietà sociale e dell’interesse economico.
La considerazione più importante è che queste micro-società diventarono dinamiche, tesero, cioè, ad un costante mutamento. 

 

Le società primitive erano invece società statiche, lente, fondate su valori considerati sacri, che si ritenevano divini, eterni e indiscutibili.
La città-stato greca, invece, è estremamente articolata, fluida e in qualche misura laica.
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Il numero di Dunbar.

Robin Ian McDonald Dunbar è un antropologo inglese e uno specialista del comportamento dei primati.  Insegna ad Oxford.  A lui si deve la formulazione di questa legge empirica che va sotto il nome di Numero di Dunbar.

Che cosa rappresenta questo numero?

Il limite teorico di persone con le quali un qualsiasi soggetto può mantenere e coltivare stabili rapporti sociali.  

Oltre questo limite per mantenere stabile una comunità di rapporti occorre che i soggetti siano coinvolti, per esempio, in disposizioni normative di natura restrittiva, come avviene in un esercito.

L’oscillazione di questo numero può sembrare grande perché va da cento a duecentotrenta persone, ma intorno a centocinquanta si ha la frequenza maggiore dei casi.

Dunbar, successivamente, ha ipotizzato che questo numero è direttamente legato alle dimensioni della neocorteccia o, meglio, alla capacità di elaborazione neocorticale dei soggetti.

Se immaginiamo questo numero come un’area vedremmo che al centro ci sono le relazioni che abbiamo in questo momento e alla periferia persone che abbiamo perso di vista crescendo o cambiando il nostro modo di vivere.

Come ha fatto Dunbar ad elaborare questa legge empirica?

Osservando il comportamento degli scimpanzé e la loro attività sociale principale, il grooming.

Questo termine inglese indica l’attività per mantenersi puliti, cioè lo spulciarsi reciproco degli scimpanzé.

Costituisce una pratica collettiva che si esegue seguendo precise norme di comportamento condiviso, perché oltre a mantenere il corpo libero dai parassiti rafforza le strutture sociali, facilita la sessualità e concorre alla soluzione delle dispute.

Studiando una colonia di scimpanzé Dunbar s’avvide che all’interno di essa c’erano diversi gruppi che praticavano tra di loro il grooming, ma un fatto lo incuriosì, i membri di ogni gruppo potevano anche cambiare, ma non il loro numero che si manteneva stabile.

Decise di verificare se anche per gli uomini si verificasse qualcosa di simile.  Per farlo studio lo sviluppo della società umana dal neolitico ai nostri giorni e il modo di formarsi delle comunità sociali, soprattutto dal punto di vista della loro grandezza.   Ne dedusse che a prescindere dalla circostanze c’era una tendenza in esse ad oscillare intorno ai centocinquanta individui e abbozzò anche una similitudine tra il grooming degli scimpanzé e il linguaggio del gruppo inteso come uno strumento di pulizia sociale.  Cioè, come un mezzo per mantenere coesa la comunità riducendo al minimo la necessità di un’intimità fisica e sociale.  Un fatto che tra l’altro favorisce lo sviluppo dell’individualità non conflittuale.

In altre parole, il limite di centocinquanta rappresenta la soglia numerica entro la quale è possibile dare spazio e porre in essere rapporti interpersonali e conoscitivi che consentono di conoscere chi è ogni persona e come interagisce socialmente verso ogni altra persona della comunità.

Come ogni legge empirica la si può verificare.  Partite da un individuo e dalla sua famiglia, sommate il cerchio dei parenti diretti e indiretti, degli amici, dei conoscenti.  Aggiungeteci le persone che incontra con una certa frequenza, il portinaio, il panettiere, il giornalaio, il medico, poi la sfera delle conoscenze passate che sono rimaste vive nella sua memoria ed avrete il suo numero di Dunbar.  L’eventuale scarto per arrivare a centocinquanta esprime il numero delle conoscenze con le quali il soggetto svilupperebbe nuovi rapporti di interazione o collaborazione se ne avesse l’occasione.  Se il numero è superiore a centocinquanta il soggetto in questione, stante così le cose, difficilmente allargherà le sue conoscenze.

Questo numero sarebbe rimasto confinato nei libri universitari se non fosse che attirò l’attenzione dei programmatori di software sociali che incominciarono a tenerlo presente per valutare la dimensione delle reti sociali.  Con quale scopo è facile intuirlo, mantenere e migliorare l’unità del gruppo, la sua coesione e il suo morale.  Oggi, per esempio, è tenuto da conto in campo militare, nelle aziende, negli organismi pubblici e nelle università.  Viene regolarmente usato nello studio della comunità di Internet, di Facebook e di MySpace.

***

Appendice: La prossemica.  La prossemica è una disciplina che studia lo spazio e le distanze all’interno di una comunicazione sia verbale che non verbale.  Li studia al fine di gestirli.

Questo spazio può essere reale o immaginario, soggettivo o oggettivo, mentre le distanze possono essere fisiche, psicologiche, sociali, funzionali, culturali.  L’espressione di prossemica (in inglese, prossemics) per molti è formata da due parole greche, pros presso e sema segno, che rinvia al controllo dello spazio.  In questo senso è anche definita una semiologia degli spazi.  Definizione che più si adatta ad un’altra versione sull’etimologia del termine, che la fa derivare da prox(imity), prossimità.

In ogni modo il termine fu coniato nel 1963 dall’antropologo americano Edward T. Hall ( 1914-2009) che lo usò nel suo libro La dimensione nascosta.  La traduzione italiana è del 1968.  Hall è stato per molti versi uno dei protagonisti degli studi culturali.

In breve Edward Hall notò che la distanza tra le persone è sempre correlata alla distanza fisica.

Partendo da questa osservazione definì quattro zone interpersonali.

– La distanza intima che resta confinata entro i cinquanta centimetri.

– La distanza personale compresa tra i cinquanta centimetri e il metro e trenta.  È la distanza che sviluppa l’interazione tra gli amici.

– La distanza sociale per la comunicazione tra conoscenti che va da un metro e mezzo ai tre metri e mezzo.

– La distanza pubblica che si estende oltre i tre quattro metri e è quella delle pubbliche relazioni.

Naturalmente non sono misure tassative, ma dipendono da molti fattori culturali, sociali ambientali.

È ovvio che la distanza alla quale ci sentiamo a nostro agio cambia a seconda se siamo italiani, svedesi o giapponesi.

 

Qualche curiosità.  Gl’arabi tendono a stare molto vicini, quasi gomito a gomito.  Gli orientali si sentono più a loro agio se sono oltre l’estensione del braccio.  In India il sistema delle caste ha un complicato codice delle distanze che va fino all’intoccabilità.  In ogni modo i paria devono stare ad almeno trentanove metri dai bramini.  Anche il sesso determina la posizione.  Gli uomini tendono a stare uno di fianco all’altro, le donne una di fronte all’altra.

Quando gli europei salgono in un ascensore collettivo si dispongono appoggiandosi alle pareti, gli americani, invece, si mettono uno accanto all’altro con il viso rivolto alla porta.

***

La teoria dei sei gradi di separazione.  Ovvero, volete conoscere Georges Clooney e Amal Alamuddin?  

Da alcuni anni a questa parte è la legge empirica che ha sollevato in rete le polemiche più aspre e i dibattiti più strampalati.  C’è chi la considera assolutamente attendibile e chi le nega ogni attendibilità, soprattutto ha colpito l’immaginario di matematici, psicologi, scrittori e cineasti a cominciare dal film Six degrees of separation, del 1993, con la regia di Fred Schepisi e la partecipazione di Donald Sutherland.  Tratto da una commedia teatrale di John Guare.

Andiamo con ordine.

È stato lo psicologo americano Stanley Milgram (1933-1984) ad elaborare nel 1967 questa teoria detta dei sei gradi di separazione, secondo la quale sulla terra ogni essere umano è separato da un altro essere umano da un massimo di sei passaggi di conoscenza diretta.

In teoria, dunque, conoscere Angelina Jolie, Brad Pitt o Barack Obama è più facile di quanto uno non immagini.  Secondo questa teoria se tu conosci qualcuno, che conosce qualcuno, che conosce qualcuno…entro sei contatti arrivi a conoscere chi vuoi.  Naturalmente Milgram non si è limitato ad enunciarla, l’ha dimostrata più volte sperimentalmente, anche se molti in passato hanno messo in dubbio i suoi risultati.  Le ragioni non sono sempre scientifiche considerato che questo psicologo ebreo in tutta la sua carriera accademica ha sempre cercato di dimostrare le radici oscure e gli intrecci tra ogni forma di potere e di ubbidienza.

In ogni modo, il primo esperimento dimostrò come un gruppo di studenti del Nebraska fosse in grado di venire in contatto con degli sconosciuti, nello stato del Massachusetts, scelti a caso.

Tutto parte da due fatti.

Una tesi elaborata a livello letterario nel 1929 dallo scrittore ungherese Frigyes Karinthy e contenuta nel suo racconto “Catene”.  Una ricerca di alcuni ricercatori del MIT degli anni ’50 del secolo scorso tesa ad elaborare una risposta a questa domanda a cavallo tra le scienze sociali e le ricerche di mercato.  Dato un insieme di persone qual è la probabilità che ognuna di queste persone sia connessa ad un’altra attraverso un certo numero di collegamenti?

In quegl’anni furono formulate molte ipotesi, ma nessuna soddisfacente.

Nel 1967 Stanley Milgram, che si era interessato a molte ricerche intorno all’interazione sociale, trovò un sistema per verificare una sua teoria che definì “teoria del mondo piccolo”.

Milgram selezionò a caso un gruppo di abitanti del Midwest e chiese a ciascuno di loro di mandare un pacchetto ad un estraneo che abitava nel Massachusetts, a diverse migliaia di chilometri di distanza.  Ognuno di costoro conosceva il nome del destinatario, la sua occupazione, e la zona in cui risiedeva, ma non l’indirizzo preciso.  In pratica fu spiegato a ciascuno dei partecipanti all’esperimento di spedire il proprio pacchetto a una persona da loro conosciuta, che a loro giudizio avesse il maggior numero di possibilità di conoscere il destinatario finale.  Quella persona avrebbe poi fatto lo stesso con un’altra persona di sua conoscenza e così via fino a che il pacchetto non venisse personalmente consegnato al destinatario finale.

Tutti si aspettavano che la catena includesse decine di intermediari, invece ci vollero in media solo tra i cinque e i sette passaggi per far arrivare il pacchetto al destinatario finale.

Questo esperimento di Milgram fu poi pubblicato in Psycology today e da qui nacque l’espressione sei gradi di separazione.

In termini matematici questa teoria non è difficile da spiegare.  Se supponete di conoscere diciamo un centinaio di persone che a loro volta ne conoscono un centinaio, e questi un altro centinaio, eccetera, voi vedete che cento alla sesta è un numero molto vicino al numero degli abitanti della terra.  Con il diffondersi dell’informatica è divenuta sempre più famosa ed ha trovato numerose applicazioni.

Ma perché questa teoria è importante a parte il riuscire a conoscere Angelina Jolie?

Perché, tralasciando il numero dei passaggi che è puramente convenzionale, questa teoria ci consente di studiare le relazioni tra le persone come se fossero una rete e, dunque, di costruire degli importanti modelli, per esempio nell’ambito delle ricerche epidemiologiche, in particolare nella diffusione delle malattie infettive, così come in campi più frivoli com’è lo studio sulla diffusione dei messaggi pubblicitari.

Una curiosità.

Negli anni scorsi la teoria dei sei gradi di separazione l’abbiamo applicata anche qui allo IED per delle esercitazioni sul giro del mondo in sei contatti ed altre ricerche e i risultati sono stati più che buoni – vedi su questo sito le esercitazioni.

Nel 2003 la Columbia University realizzò il più grande esperimento in rete con la teoria dei sei gradi di separazione.  Questo esperimento, condotto dal sociologo Duncan Watts, coinvolse più di sessantamila persone in 166 paesi del mondo.  L’obiettivo era rintracciare diciotto persone sconosciute di tredici paesi diversi sorteggiati dagli elenchi telefonici.  (Che tipo di persone? Un archivista in Estonia, un veterinario in Norvegia, un consulente informatico in India, un poliziotto in Australia…ecc.).  La ricerca dimostrò che sono sufficienti da cinque a sette passaggi in rete per giungere a destinazione con il solo aiuto di amici e conoscenti.

Per chi fosse interessato questa ricerca è stata pubblicata sulla popolare e prestigiosa rivista scientifica “Science” da Peter Sheridan della Columbia University.

Per chi è interessato a questi temi suggerisco la lettura di:    

Albert-László Parabasi, Link. La scienza delle reti, Einaudi, 2004.

Mark Buchanan, Nexus, Mondatori, 2003.

 

Un ultima osservazione.   Tutti conoscete i “social network” e probabilmente molti di voi li frequentano, ma pochi sanno che il primo network, o meglio il primo servizio online a includere la possibilità di creare uno spazio virtuale in cui realizzare il proprio profilo e di poter avere una rete con la quale comunicare, è stato Sixdegrees.com.   Six.degrees venne creato nel 1997 e fu chiuso nel 2001.  Quando fu chiuso aveva un milione di utenti, un successo, ma non produceva reddito.  L’obiettivo di questo sito era di realizzare un luogo d’incontri facile da usare e non manipolabile, ma aveva un inconveniente, nonostante s’ispirasse alla teoria del piccolo mondo antico di Milgram non consentiva che due soli gradi di separazione,  gli amici e gli amici degli amici.

Appendice novembre 2011. 

Oggi si dovrebbe dire quattro gradi e cinquanta circa di separazione, se sono corrette le argomentazioni di due professori dell’Università Statale di Milano che lavorano nel laboratorio di Web Algorithmics del Dipartimento di scienze dell’informazione e che hanno collaborato ad una ricerca sul teorema di Milgram con l’università di Palo Alto, in California e con Mark Zuckerberg, che voi conoscete come l’ideatore di Facebook.

Il tema centrale di questa nuova ricerca, che ha interessato sia il web che i mass-media cartacei, è stato quello di verificare come le relazioni interpersonali cambiano con la digitalizzazione.

Come si nota da più parti e da tempo Facebook ha reso il mondo più piccolo ed ha cambiato molti aspetti delle relazioni sociali.  I due ricercatori milanesi hanno applicato la teoria del mondo piccolo di Milgram ai settecento milioni e passa di utenti attivi sul social network di Mark Zucherberg  per un totale di circa settanta miliardi di relazioni.

Il risultato è stato che la distanza media tra due persone è pari a 4,74. 

In altre parole il mondo si è ulteriormente rimpicciolito rispetto alle prime ricerche di Milgram.

Se poi si restringe l’ambito della ricerca ad una sola nazione – che rappresenta mediamente l’84 per cento delle amicizie – si può scendere fino a tre gradi di separazione, cioè a quattro passaggi.

Per concludere, legando questi risultati al numero di Dunbar, si osserva che la maggior parte dei contatti in Facebook e con persone della nostra età anche se mediamente il numero di amici è intorno a 190 per il 50 per cento degli utenti si ferma intorno a 100.

È un classico paradosso della rete che tecnicamente s’iscrive nell’ambito dei contanti da rimbalzo, ma che è sintetizzato dalla formula: gli amici degli amici sono più dei nostri amici.

Un dato.  La ricerca della Statale ha riguardato 721 milioni di utenti attivi su DFacebook, cioè più del dieci per cento della popolazione mondiale stimata.

 

Quando abbiamo cominciato a parlare dei sei gradi di separazione in questa scuola la domanda provocatoria che facevamo agli studenti era (La teoria dei sei gradi di separazione. Ovvero, volete conoscere Angelina Jolie o Brad Pitt? 

Oggi in questo nuovo contesto è tutto cambiato.

Se siete seduti in bar di un aeroporto oppure, se siete sul marciapiede di una stazione in attesa di un treno, molto probabilmente una delle persone che vi stanno accanto conosce un vostro amico o un amico di un amico dei vostri amici.

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Dalla polis è poi derivata la politikà, la scienza degli affari pubblici, la politica, che qui possiamo definire come l’insieme dei problemi che riguardano la polis dal punto di vista dell’esercizio del potere nel quadro della forma di Stato. 

Problemi che, nella sostanza, erano la conseguenza e il riflesso di due preoccupazioni principali.

Ricercare nuove forme di legittimazione e di delega per coloro che dovevano guidare la polis, in pratica, esercitarne il governo.  È il cosiddetto tema della rappresentanza.

Trovare e definire quelle regole che, se osservate da tutti, garantiscono la pace sociale e fanno prosperare il cosiddetto bene comune.   

Per andare avanti velocemente diciamo che è dallo sviluppo di queste considerazioni che ha origine la teoria contrattualistica della società.

Ne fu uno degli artefici principali un filosofo inglese, Thomas Hobbes (1588-1679).

Il punto di partenza di questa teoria è che il mondo dell’agire umano è retto da leggi analoghe a quelle dell’ordine naturale.

In questo modo, pensava Hobbes, si può arrivare a sviluppare una scienza della società umana che ha la stessa oggettività delle scienze esatte come la geometria o la fisica, considerazione da cui deriva il convincimento che la società e il potere politico non sono affatto naturali per l’uomo, ma costituiscono una convenzione (un compromesso) per mettere fine allo stato d’insicurezza permanente che caratterizza lo stato di natura.

 

Per Hobbes, in breve, le origini della società erano fondate su un patto, su di una specie di contratto liberamente espresso e, attraverso la rappresentanza politica, sottoscritto dai cittadini i quali, per sottrarsi al disordine dello stato di natura come stato a-sociale, caratterizzato dalla lotta di tutti contro tutti (homo hominis lupus), avrebbero convenuto (come male minore) di sottoporsi al governo di un sovrano assoluto.

 

È una teoria forse eccessivamente semplicistica che non va sottovalutata, soprattutto alla luce delle implicazioni che ha avuto nel suo tempo.
Vediamo le due principali.
Pensata in questo modo la società diventa una costruzione storica, un prodotto convenzionale privo di una sua necessità ontologica o di un destino, cioè, di “un dover essere così”…per esempio, per volere di Dio o di un ente superiore.

 

Poi, come sosterranno le correnti illuministiche settecentesche, se la società scaturisce da un patto tra gli uomini, questo patto si può anche rivedere e, magari, riformulare più o meno radicalmente.

Nulla esclude, poi, che la revisione di questo patto possa avvenire anche con una rivoluzione, come sogneranno molti uomini dell’Ottocento europeo e tutti i movimenti riformatori d’ispirazione socialista.

 

Il Settecento, come abbiamo già osservato, fu il secolo dell’Illuminismo e degli enciclopedisti francesi che raccolsero e svilupparono l’eredità dell’empirismo inglese.

 

L’Illuminismo è un movimento di idee caratterizzato dalla convinzione di poter risolvere i problemi della società con i soli lumi della ragione e a dispetto di ogni rivelazione religiosa o di ogni tradizione.

È il secolo di Diderot, D’Alambert, Rousseau, Helvétius, Voltaire e dei primi filosofi materialisti come Paul-Henry barone d’Holbach.

 

Per semplificare, diciamo che gli illuministi rimproveravano ai filosofi che li avevano preceduti di non aver considerato con la dovuta importanza i fenomeni “fattuali”, ma di essersi inutilmente infatuati delle teorie astratte.

 

Ciò implica che, per gli illuministi, e questo rappresenta una grossa novità metodologica, la spiegazione razionale non viene mai prima dell’osservazione, come se fosse una dote innata dell’individuo, ma è indissolubilmente legata al mondo dei fenomeni dei quali costituisce il nesso.

 

Proviamo adesso, ad intrecciare la domanda relativa a quando è nata la sociologia con quella che s’interroga sulle ragioni della sua comparsa.

Questo perché è essenziale capire, prima di procedere oltre, il motivo per il quale la sociologia e, in generale, tutte le scienze sociali e/o empiriche (o prasseologiche) hanno avuto la loro culla nel corso dell’Ottocento. 

 

Sono scienze che nel loro specifico campo di studi, ereditano, sia pure in misura diversa, il patrimonio della filosofia classica e in un certo modo, i suoi progetti.

 

Nel complesso rappresentano il tentativo di reagire ad una crisi di portata epocale, la crisi della metafisica, cioè, di quel discorso ideale sulle cose del mondo che si pongono oltre la fisica e oltre gli aspetti materiali della mondanità.

La parola metafisica indica, alla lettera, l’azione di pensiero che oltrepassa gli aspetti fisici del mondo: meta ta physikà, al di là delle cose della fisica. 

 

Nello specifico è un’espressione che si fa risalire ad un grande filosofo greco, o meglio macedone, Aristotele (384-322 a.c.).

Con essa si indicano i suoi studi per la ricerca delle cause prime e dei principi che governano tutte le cose.  

In breve la metafisica raccoglie quegli studi che non si possono classificare né come logica, né come fisica, né come etica, i tre rami canonici che componevano la sapienza greca.

 

Poiché questo non è un corso di storia della filosofia, limitiamoci ad osservare che la crisi della metafisica corrisponde nella modernità ad un’altra grande crisi, la crisi della conoscenza e in sub ordine dell’idealismo. 

 

Questa crisi della conoscenza corre parallela alla nascita dell’idea di modernità che, per convenzione, la maggior parte degli storici fa risalire alla Rivoluzione francese, vale a dire al 1789.

 

Il termine di modernità appare per la prima volta in un testo di Honoré de Balzac (1799-1850) per indicare la presa di coscienza della singolarità dell’epoca, in materia letteraria ed artistica, in rapporto al passato.
Per estensione è diventata il carattere proprio di un mondo, una società, un’epoca che sa che il passato non rinvia più a nulla.  
Certi storici fanno risalire la modernità, come coscienza di un cambiamento irreversibile delle cose, al Rinascimento, altri al XVII secolo, cioè all’Illuminismo, altri ancora alla rivoluzione industriale del XIX secolo. 
La data del 1789, quella della Rivoluzione Francese, è quella più accettata e, in qualche modo, la più suggestiva. 

 

Naturalmente il concetto di modernità cambia in continuazione secondo l’ottica con il quale lo si affronta.

 

C’è però un idea di modernità molto popolare, nasce in Francia con il Secondo Impero (1852-1870), oppone all’arte accademica – detta stile pompier –  un arte indipendente che si definisce realista e che conosciamo meglio nella sua evoluzione impressionista.   

 

In nome della modernità, come sappiamo, il realismo opera una serie di rotture. 

 

In politica con il radicalismo, perché i pittori realisti o naturalisti sono repubblicani e si oppongono alle mire imperiali di Napoleone III. 

 

Nell’estetica, perché questi artisti detestano le grandi scenografie mitologiche dei pittori accademici e rivendicano la bellezza semplice della natura. 

 

Nell’ambito della questione sociale, perché essi provengono dall’ambiente popolare, difendono la democrazia e detestano l’aristocrazia al potere. 

 

Nel modo di pensare l’ambiente, rivalutando la campagna contro il moltiplicarsi degli appetiti del mondo dell’industria che sta cambiando la geografia del territorio. 

 

En passant.  Di recente un sociologo di origini polacche, Zygmunt Bauman ha introdotto il concetto di  modernità liquida  (il saggio omonimo Liquid Modernity è del 2000, la traduzione italiana del 2006) nel tentativo di spiegare la post-modernità. 

 

Questa modernità liquida è una metafora di quel potere che è capace di dissolvere tradizioni, istituzioni e perfino la stessa morale, tipico del capitalismo moderno. 

 

Si caratterizza per l’impossibilità di individuare dei punti di riferimento stabili, necessari alla costruzione di una propria identità sociale, e dall’ansia che ne consegue e che s’invera nel concetto di precarietà. 

 

Di fatto, la crisi della conoscenza classica si colloca tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento.

Sono gli anni in cui si conclude anche la parabola dell’Illuminismo, che aveva mostrato come il mondo che abitiamo fosse più complesso di quello che sembrava e ancora per buona parte inspiegabile.
Una inspiegabilità che metteva in luce, di riflesso, come, con il proseguire della conoscenza sperimentale, tutte le idee semplici ed astratte e tutte le invocazioni della fede religiosa non servissero più a nulla.
Questa crisi, che parte dal dissolversi del pensiero della metafisica, può anche essere interpretata come una crisi dell’umanesimo e delle sue speranze e un grande impulso a ritornare ai fatti e alle loro logiche.

In altre parole, con la Rivoluzione francese l’antico affresco del mondo, che era stato dipinto a cominciare dalla filosofia greca, va in pezzi dando vita a tutta una serie di tentativi per uscirne fuori.

Generalmente si chiamano conservatori o reazionari gli sforzi impiegati a ricomporlo e progressisti o rivoluzionari quelli impiegati per trovare dei nuovi e più avanzati equilibri.

 

Come abbiamo sommariamente visto, il positivismo e con esso l’empirismo logico o scientifico, lo storicismo, e il materialismo dialettico sono alcune delle correnti di pensiero che si formarono in questo periodo.

Pur con accenti diversi, in queste teorie la crisi della filosofia classica, e della metafisica in particolare, associata al progredire del pensiero scientifico, indusse molto presto all’affermarsi generale di una conoscenza fondata sui principi della razionalità invece che sui meccanismi della speculazione astratta.

 

Ma, c’è anche un fatto nuovo, decisivo per il mondo Occidentale, l’avanzare prepotente in tutti i campi della vita corrente, dagli affari alla politica, dalla morale al governo delle nazioni, di una nuova classe sociale, quella che aveva vinto la Rivoluzione francese e che adesso esigeva che le venissero riconosciuti quei diritti per i quali aveva preso le armi: la borghesia.   

 

Bourgeois o Bürger, dal latino burgensis, erano detti nell’alto medioevo coloro che abitavano nei borghi anziché nel castello o nel contado.  In genere svolgevano mestieri liberi anziché funzioni politiche, militari o religiose, oppure mansioni servili al servizio del castello. 

In questo modo per attività, luogo di abitazione e status, si differenziavano sia dai nobili che dal clero, per un lato, dai contadini e dai servi per l’altro. 

 

Il 14 luglio 1789 il popolo di Parigi assalta la Bastiglia, ma nel suo diario Luigi XVI, quello stesso giorno scrive una sola parola: Rien. 

 

Siccome le idee non cascano dal cielo, ma si formano e si sviluppano tra gli uomini, una tale rottura epocale che da vita alla modernità e a tutte queste trasformazioni è soprattutto l’effetto di questa nuova classe in ascesa.

 

La sociologia, dunque, come scienza della società, non poteva nascere in un altro momento
Questa scienza era funzionale ad un nuovo modo di vedere il mondo, rispondeva alle aspettative di una classe sociale alla ricerca della sua identità, tanto che questa nuova disciplina non solo ne esprimeva i suoi punti di vista, ma la rafforzava nella sua consapevolezza e nelle sue determinazioni

 

Naturalmente, l’aver posto la data del 1789 come quella d’inizio della modernità non significa che la modernità è nata il 14 luglio di quel anno, giorno della presa della Bastiglia, ma che è maturata in un certo intervallo di tempo di cui quel anno è lo spartiacque. 
Questa data è funzionale al paradigma delle scienze sociali e della sociologia in particolare.  Per altri versi e nell’ambito di una storia più generale delle idee la modernità nasce con la scoperta dell’America, in pratica con il XVI secolo.  

 

La sociologia, soprattutto all’inizio, ha poi contribuito a diffondere, perlomeno tra le classi dominanti, due grandi miti dell’Ottocento: il mito della tecnica, più specificatamente, della macchina, e il mito del progresso, come speranza di un futuro radioso per un numero d’individui sempre più numeroso.  Questo secondo mito rappresenta una piena fiducia nell’avanzamento continuo e instancabile della scienza e con essa delle condizioni materiali e spirituali dell’umanità.

Abbiamo velocemente visto come il positivismo abbia in qualche modo orientato, nel corso dell’Ottocento, le principali ricerche intorno al tema della società e delle sue leggi.

Lo ha fatto mentre alle sue spalle si scolorivano e si dissolvevano le strutture e i valori tradizionali dell’Ancien Régime. 

È in questo contesto che sono maturate molte ricerche e si aprirono in continuazione dibattiti su concetti, teorie o riflessioni che oggi sono popolari, ma che allora, agli occhi dell’opinione pubblica, sembravano irriverenti, improponibili, blasfemi o addirittura intoccabili.

 

Per esempio, si cominciarono ad affrontare i temi del rispetto culturale dell’altro, come individuo, e dei popoli come identità di un sentire condiviso.

 

Della cooperazione internazionale come strumento per un sentire comune delle differenze culturali, sociali e politiche.

 

Si cominciò a sviluppare l’idea di nazione e di solidarietà sociale.

 

Si diffuse il principio dell’assistenza agli indigenti e ai malati, l’idea di consenso come base di ogni democrazia, la pratica del suffragio elettorale per eleggere i parlamenti.

 

Si cominciò a riconoscere il diritto al voto delle donne.

 

Molti paesi introdussero il divorzio che, implicitamente, trasformava il matrimonio da sacramento divino a semplice contratto tra un uomo e una donna.

 

Si cominciò a riflettere sul controllo delle nascite.

 

In buona sostanza di temi che oggi costituiscono (o, dovrebbero costituire) la spina dorsale delle democrazie moderne.

 

Compare, in questi anni, anche una nuova filosofia sulla condizione sociale dell’uomo, il materialismo storico e dialettico.

Dal punto di vista della storia della filosofia è una costola del cosiddetto “hegelismo di sinistra”.

 

Nella realtà storica di quel periodo rappresentò una speranza per le classi sfruttate dalle nuove strategie dell’economia capitalistica, speranza che si trasformò quasi subito in un’idea politica fondata sull’analisi scientifica delle leggi che governano i rapporti di produzione e le forze che li gestiscono.

Nell’ambito del discorso sociologico il materialismo storico dialettico può, dunque, essere considerato come una teoria scientifica del conflitto di classe. 

 

L’influenza del pensiero marxiano sulle scienze sociali, da cui discendono i capisaldi del materialismo, (perché è soprattutto a Karl Marx (1818-1883) che va riconosciuto il merito di aver elaborato questa dottrina) è stato determinante da molti punti di vista.

 

Ha consentito di elaborare una teoria critica delle ideologie come rappresentazioni illusorie della realtà materiale.  Come sovrastrutture al servizio delle idee dominanti destinate a giustificare gli egoismi di classe, a razionalizzare le illusioni, a legittimare il potere costituito e a giustificarne le contraddizioni.

 

Ha rafforzato il discorso critico intorno alla scientificità del pensiero scientifico, procedendo ad una analisi delle condizioni che la determinano.  Tema questo che ha poi dato vita a diverse specializzazioni della sociologia, come sono la sociologia della conoscenza, della tecnica, del pensiero scientifico.

 

Ha introdotto nell’analisi delle forme sociali il concetto di alienazione.

 

Abbiamo visto come con la modernità i temi che dominano il mondo siano cambiati radicalmente.

 

Oggi si parla di società contemporanea.

Secondo i sociologi e i politologi essa si caratterizza per almeno tre aspetti:

 

Una spinta globale all’interconnessione attraverso dei sistemi di rete sempre più estesi all’intero pianeta.

 

Una evoluzione degli stili di vita sempre più rapidi e profondi che sono, per la prima volta nella storia dell’uomo direttamente legati all’innovazione tecnologica.

 

Una trasformazione dell’ambiente e dell’habitat di un’ampiezza senza precedenti dovuta a dei fattori evolutivi di natura sociale, culturale, economica e tecnologica.

 

Quello che più conta, in sintesi, è però un’altra cosa ancora.

Si stima che questi mutamenti siano di natura irreversibile e che coinvolgano direttamente tutti, sia pure in modi differenti, a partire dal quotidiano, cioè, dal nostro modo di concepire la convivenza umana. 

 

Veniamo, adesso, ad un protagonista del pensiero positivista, Emile Durkheim (1858-1917), uno studioso francese, considerato il fondatore della moderna sociologia.

In particolare, Durkheim riuscì a conciliare la sociologia con l’antropologia culturale studiando le società primitive e le forme religiose.

Possiamo dire che il tema dominante del suo lavoro fu la società considerata come una realtà sui generis, che trascende gli individui da cui è composta.
Durkheim per spiegarlo ricorre alla metallurgia.  ”La durezza del bronzo non si trova né nel rame né nello stagno che sono serviti a formarlo, e che sono sostanze molli o flessibili.  Essa si trova nella loro mescolanza”.

In altri termini, la società detta le sue leggi dall’alto delle sue istituzioni e attraverso un processo coercitivo costante costringe i suoi membri a conformarsi alle sue regole.

La caratteristica principale della scuola sociologica francese da lui fondata fu quella di considerare i fenomeni sociali come fatti aventi una vita propria, cioè, un’esistenza indipendente dall’apporto delle singole coscienze degli individui.

 

Fatti capaci di esercitare una pressione costante sulla società.

 

Ogni società è, per Durkheim, caratterizzata da una coscienza collettiva, ossia da un insieme di norme, credenze e sentimenti comuni alla media dei membri che la costituiscono.

Da questa coscienza collettiva deriva la condotta degli individui in società e lo strutturarsi del consenso sociale.
In breve, per questo autore, l’individuo è un prodotto della società e non viceversa.

Ogni azione che si compie in società è il risultato di una coscienza che ci è superiore e dalla quale dipendiamo.

 

Vediamo in pratica queste tesi applicate ad un tema di grande interesse, il suicidio.

 

Da tempo è emerso che il suicidio è la seconda causa di morte tra gli adolescenti, dopo gl’incidenti stradali.

In Italia l’otto per cento di tutti i decessi tra i ragazzi dai dieci ai ventiquattro anni è determinata dalla scelta di togliersi la vita.  Il quaranta per cento di chi non riesce nell’intento è portato a ripetere il gesto.

 

Come abbiamo detto il tema centrale delle ricerche di questo studioso è sempre stato il rapporto, spesso problematico, tra l’individuo e la società, tema anche di uno dei suoi libri più eruditi, quello sulla divisione sociale del lavoro, tuttavia, il suo studio più famoso, anche per la natura dell’argomento, rimane quello sul suicidio che pubblicò nel 1897.

In esso, fra l’altro, si riflettono anche tutte le problematiche di una società dominata dalla confusione ideologica, dall’instabilità politica e dalle incertezze economiche.

Ciò che rende questo lavoro importante sono soprattutto due motivi.

Un motivo di natura etica, perché Durkheim esamina il suicidio sotto l’aspetto di una disfunzione drammatica nel rapporto individuo-società.

Vale a dire, come la spia di una crisi nell’organizzazione sociale, affermando implicitamente che esistono sempre delle responsabilità nell’azione degli uomini che hanno degli effetti sul comportamento di altri uomini e della società nel suo insieme.
Come dire che, in un certo senso, tutti siamo compromessi.

 

Durkheim tentò anche di elaborare una definizione “scientifica” di suicidio.  

Sono un suicidio “tutti i casi di morte che risultano direttamente o indirettamente da un atto positivo o negativo messo in essere dalla vittima stessa con la convinzione o la certezza di produrre questo risultato”. 
Durkheim, per difendere le sue tesi, non esitò a studiare i dati di una scienza nascente, la statistica.
Con essi mise in evidenza il fatto che i tassi di suicidio mantengono, a livello statistico, valori costanti nel tempo e nei luoghi.

Da qui ne dedusse che il suicidio va considerato come un fatto sociale.

Sempre con l’ausilio delle tabelle statistiche Durkheim mise in luce che il suicidio varia in modo inversamente proporzionale al grado di socialità che l’individuo riesce a sviluppare, dunque, si presenta come un fenomeno che prescinde per buona parte dalla psicologia individuale.
(Un cruccio di Durkheim a questo proposito fu il fatto che non riuscì mai a spiegare perché il tasso di suicidio è più elevato tra le professioni liberali che tra gli operai, tra gli uomini che tra le donne, tra i protestasti che tra i cattolici…)

 

L’altro motivo importante è che con questo libro Durkheim sviluppa quella che oggi potremmo chiamare una metodologia della ricerca sociale.

Metodologia che, con grande intelligenza, egli elaborò a partire dal pensiero di John Stuart Mills, di cui abbiamo già ricordato le tesi sui meccanismi dell’induzione nella ricerca scientifica.

In sostanza, Durkheim, individua per il suicidio due cause, a ciascuna delle quali sono riconducibili due tipi diversi di suicidio.

 

Cioè, delinea quattro tipi di suicidio, a seconda della causa che lo scatena e del modo con cui essi si rapportano al tema dell’integrazione e della regolazione sociale, che coordina il rapporto dell’individuo con la società.

 

In tutti e quattro i casi per Durkheim c’è una compromissione della società nella storia e nelle ragioni dell’individuo che in essa vive e che, in qualche misura, la rende co-responsabile del suo stile di vita e del suo agire.

Come è facile intuire, è proprio questa co-responsabilità che sollevò le polemiche più feroci contro questo autore, perché l’epoca non era ancora disposta, intrisa com’era di individualismi e di egoismi sociali, ad accettare delle responsabilità di questa natura, anche perché non voleva essere coinvolta nella ricerca dei rimedi.

Vediamo adesso un altro sociologo legato in qualche modo all’infanzia della sociologia e alla corrente positivista, Vilfredo Pareto, un italiano nato a Parigi nel 1848 e morto a Ginevra nel 1923.

 

Nei panni dell’economista, Pareto concepiva l’economia come una scienza che ha per oggetto le azioni logiche dell’uomo, quelle azioni che scelgono consapevolmente i mezzi obiettivamente adeguati al raggiungimento dei fini desiderati.

Per Pareto ogni uomo, anzi, l’homo oeconomicus, è guidato dai fini, cioè, dai sui gusti, dalla sua educazione, dalle sue mete ed agisce quasi sempre entro degli ambiti determinati dai mezzi e dalle disponibilità.

 

Partendo da un modello di tipo meccanicistico dell’equilibrio economico generale, la sua sociologia si proponeva di trovare le condizioni che garantirebbero l’equilibrio del sistema sociale.

 

Ma siccome, di fatto, nessun sistema sociale è costituito solo da azioni logiche, Pareto introdusse nelle sue riflessioni anche le cosiddette azioni non-logiche.

In altri termini, egli arrivò alla conclusione che l’uomo non ha sempre una grande consapevolezza di ciò che fa ed è proprio questo che inceppa il meccanismo di realizzazione dei fini.
Pareto, in sostanza, partì dall’osservazione che, in generale, le azioni logiche sono soprattutto quelle economiche.

 

C’è anche da rilevare, secondo Pareto, il fatto che l’individuo sociale, pur agendo in modo non-logico, cosa che lo fa assomigliare alla specie animale, rispetto a quest’ultima presenta la caratteristica di accompagnare i propri comportamenti con delle formulazioni verbali la cui funzione è quella di fornire un motivo tra virgolette logico del comportamento stesso.

È una tesi non del tutto vera.  La moderna etologia – cioè la scienza che studia il comportamento animale nel suo ambiente – afferma che gli animali lungi dall’essere irrazionali sono fin troppo prigionieri delle finalità che li guidano, finalità che sono assolutamente funzionali alla specie a cui appartengono e che rappresentano il loro modo di essere razionali.

 Semmai non sono logici dal punto di vista della nostra logica. 

 

Compito della sociologia, dunque, è di spiegare quali sono le costanti del comportamento sociale non-logico e quali sono le caratteristiche e la funzione del discorso sociale.

 

Ma cosa sono le azioni non-logiche?
Sono le azioni in cui i processi induttivi e deduttivi sono alterati da errori di giudizio.
Questi errori sono in genere individuali, ma possono riguardare e sono molto più gravi anche gruppi d’individui o intere classi sociali.

È facile constatare come questo problema si è complicato con l’avvento dei sistemi mediali di comunicazione nei quali è riconosciuto un grande potere ai testimoni (in genere personaggi che appartengono al mondo delle elite) di influenzare le masse o, come si dice oggi, l’opinione pubblica e di manovrare i consumi, i costumi, la morale e i consensi politici.

Che cosa c’è di più illogico di comprare una determinata automobile perché ce lo suggerisce un giocatore di calcio o un frigorifero perché ce lo propone una bella attrice in mutandine?
Soprattutto, perché, a mente fredda ridiamo di queste cose e poi, al dunque, ne restiamo influenzati? 

Dall’analisi del pensiero di Pareto si deduce che egli considerasse come uno degli obiettivi principali della sociologia quello di analizzare ed interpretare quelle azioni e quei comportamenti collettivi che appaiono come irrazionali.

In conclusione, si può dire che, con le dovute approssimazioni, sono azioni-non logiche quelle che sfuggono allo schema mezzi-fini.   

Per Pareto, dunque:
La scienza economica ci consente di conoscere il modo in cui operano gli individui in funzione dei fini che si danno. 
La sociologia ci permette di entrare nelle ragioni che impediscono loro di agire o di non raggiungere gli obiettivi che vorrebbero. 

 

Più semplicemente, la sociologia ci consente di mettere in evidenza i determinismi sociali, che limitano l’autonomia degli individui.

 

Per concludere una curiosità.

Pareto studiando la distribuzione dei redditi dimostrò che in un dato territorio solo pochi individui possiedono la maggior parte della ricchezza.  Questa osservazione lo portò a formulare la famosa legge del “80/20”.

Possiamo sintetizzarla così, la maggior parte degli effetti è dovuta ad un numero ristretto di cause.

Questa legge empirica è conosciuta anche come il principio di Pareto. 

Dunque, in molti campi delle attività umane, l’ottanta per cento dei risultati dipende dal venti per cento delle cause.  Nell’economia come nei processi industriali.

 

Facciamo un esempio, il venti per cento dei possibili tipi di errori in un processo produttivo genera l’ottanta per cento dei difetti totali.

Oppure, l’ottanta per cento dei reclami di un servizio proviene in genere dal venti per cento dei clienti insoddisfatti.

L’ottanta per cento dei ricavi di una compagnia aerea deriva dal venti per cento delle rotte non in perdita.

L’ottanta per cento delle perdite del servizio sanitario si concentrano in un venti per cento di azienda sanitarie locali, distribuite sul territorio.

 

Proviamo, adesso, a riassumere alcuni caratteri del discorso sociologico.

Come tutte le discipline empiriche anche questa disciplina ha della variabili e delle invarianze.

 

Tra le invarianze ricordiamo:
L’interconnessione dei fenomeni sociali, da cui ne deriva la necessità di studiarli come un insieme di realtà correlate.
L’importanza dei dati oggettivi, i soli che possono confluire nell’elaborazione delle teorie e, i soli che contano nei confronti.
La tendenza, sviluppatasi nella modernità, alla razionalizzazione della vita sociale, che si riflette su una semplificazione pragmatica dei comportamenti sociali.
L’affermarsi del discorso scientifico come  base per lo studio del consenso sociale e dunque, delle forme di evoluzione della socialità.

 

Per completare questa prima parte che, abbiamo visto, connette la storia della sociologia con le ragioni che l’hanno determinata e con i meccanismi cognitivi che la fanno funzionare, fermiamoci sul tema delle invarianze per vedere più da vicino alcuni autori che se ne sono interessati.

 

Queste invarianze furono l’oggetto di discussione di un grande filosofo della politica, un tedesco, un berlinese, come si definiva, ancora oggi molto apprezzato come giurista e studioso di economia politica, oltre che sociologo, Max Weber(1864-1920).

 

Per sintetizzare possiamo dire che l’obiettivo scientifico di Weber era di verificare se fosse possibile conciliare il capitalismo (come teoria economica) con la razionalizzazione delle forme sociali.

Weber, in beve, sosteneva che molte delle conclusioni che costituisco il corpo del discorso sociologico, non rappresentano delle verità, ma sono il frutto dei caratteri e dei criteri di ricerca che sono stati impiegati per studiare la società.

 

Per Weber le teorie sono le impalcature provvisorie per comprendere e catalogare i fatti.

 

Esse costituiscono una sorta di rifugio temporaneo alla conoscenza in attesa di potersi orientare nel mare dei fatti empirici.  In questo senso, si può dire che Weber ha introdotto nelle scienze sociali la discussione sulla forma di teoria.

 

Nei suoi studi, soprattutto quelli del periodo del suo insegnamento ad Heidelberg, egli si fece promotore di una sociologia fondata sulla comprensione della realtà umana più che sulla spiegazione delle sue istituzioni oggettive.

D’accordo con Georg Simmel (1858-1918), un altro sociologo tedesco di estrazione filosofica, Weber in qualche modo difende il carattere relativo della cultura e mette in luce i rischi di una sua  razionalità esacerbata.

Una razionalità che per Weber, tende inevitabilmente a diventare un carattere formale che possiede un suo naturale terreno di diffusione nelle forme della burocrazia, in tutti i loro aspetti, dallo Stato alla famiglia.

La razionalità, per Weber, in determinate condizioni o in particolari momenti storici, può diventare impersonale, statica, ripetitiva e, alla fine, sostanzialmente repressiva rispetto alle esigenze di espressione spontanea o imprevedibili da parte dell’individuo.

 

Ma da dove hanno origine queste contraddizioni?

Dal fatto, dice Weber, che nella società moderna spesso i mezzi tendono a subire una metamorfosi, a diventare dei fini.

Così, quelle che fino ad un momento prima sembravano delle strutture sociali, create per facilitare la vita degli individui, si trasformano, per così dire, in strutture autonome, astratte, autoritarie, diventino delle gabbie dalle quali è spesso difficile liberarsi o non essere oppressi.

 

Siamo di fronte ad uno dei grandi temi della sociologia, quello della libertà.

Non lo tratteremo in modo specifico, diciamo solo che per Weber spesso le competenze tendono a diventare normative e si trasformano in punti di vista vincolanti.

In questo modo gli aspetti soggettivi della vita finiscono per essere preda di quelli oggettivi e le regole generali e formali concorrono a condizionare la routine soggettiva del vivere.

 

Veniamo brevemente un ultimo autore, Talcott Parsons (1902-1979), uno dei sociologi che hanno rinnovato la sociologia americana.

 

Il libro più importante di Parsons s’intitola: The Structure of Social Action, la cui prima edizione risale al 1937.
Il punto di vista di questo autore è di tipo funzionalistico. La sua teoria, non per caso, si definisce strutturalfunzionalistica ed egli l’ha elaborata nel tentativo di riuscire a coniugare le scienze sociali con le scienze dell’agire umano, cercando una sintesi tra le idee di Durkheim, Pareto e Weber.

 

Il funzionalismo, dunque, come indica la parola, è una dottrina delle scienze sociali che fa uso del concetto di funzione, cioè, predilige la ricerca delle condizioni in cui un determinato fenomeno si manifesta invece di esaurirsi nella ricerca delle sue cause in senso stretto.  

In parole più semplici, la ricerca di Parsons privilegia l’analisi delle conseguenze piuttosto che delle cause di un insieme dato di fenomeni empirici.
Per Parsons la ricerca sistematica delle conseguenze va poi distinta anche da un’altra nozione delle scienze sociali, quella di scopo.
Lo scopo, infatti, ha a che fare con le motivazioni coscienti degli attori sociali, mentre l’analisi delle conseguenze tiene conto anche delle motivazioni non-coscienti, non volute o inconsce.

In breve, La struttura dell’azione sociale di Parsons, parte da un assunto, che il comportamento individuale è il primo gradino di ogni ricerca sociologica, assolutamente necessario per arrivare a comprendere l’ordine sociale.

 

Appendice.

Si deve osservare come, fino a quando la sociologia è stata la scienza delle spiegazioni dei fenomeni sociali e il suo oggetto è apparso astratto, le ricerche sono rimaste confinate nell’ambito della definizione delle sue metodologie.

 

Con il proseguire della ricerca empirica e l’affermarsi del fatto come il mattone del suo edificio formale, con il nascere di una certa domanda di risposte “sociali” da parte del mondo del lavoro, dell’imprenditoria o, più semplicemente, del tempo libero, la sociologia cominciò a specializzare i suoi strumenti d’indagine e il suo linguaggio dando vita a numerose “sociologie”.

 

Una delle prime sociologie fu quella dell’industrializzazione, il cui tema centrale sono i risvolti sociali della tecnica e delle relazioni umane nei luoghi di lavoro.  Come si può intuire è una sociologia che ha molti punti in comune con la politica e la cultura.

 

Accanto a questa sociologia troviamo la sociologia delle classi sociali che si è successivamente evoluta verso i problemi dei consumi, della emulazione sociale e degli stili di vita, come fattore d’imprinting tra le classi.

 

Ricordiamo anche la sociologia del lavoro, che ha avuta grande diffusione soprattutto nei paesi di lingua inglese.

 

Complementare a queste due sociologie è la sociologia della famiglia, intesa come una delle istituzioni della società.

Per questa sociologia la famiglia è la fabbrica del privato.

Essa influenza la società nel suo insieme e, di riflesso, ne è influenzata.
Controllare ideologicamente la famiglia – infatti – significa controllare politicamente la società. 

C’è poi la sociologia urbana, con i suoi studi sulla nascita delle metropoli e di molti fattori connessi, socialità, devianza, flussi migratori, eccetera.
Questa sociologia di recente è mutata in una sorta di sociologia dei sistemi, per sottolineare il passaggio da una sociologia descrittiva ad una sociologia critica, che studia le forme urbane come se fossero sistemi collegati a sottosistemi, eccetera.

 

Altre sociologie, tra di loro connesse da quella che si definisce l’astrazione argomentativa, sono la sociologia delle religioni, la sociologia del diritto, la sociologia delle forme di conoscenza.

Sono discipline che sconfinano in continuazione nella morale e nell’etica, sollevando ampi dibattiti, come quello, per esempio delle conseguenze di certi riti religiosi o legati alla tradizione tribale, che vengono a scontrarsi con le forme di morale del mondo occidentale.

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Per fare un esempio significativo prendiamo in considerazione la pratica dell’infibulazione e dell’escissione, cioè delle mutilazioni sessuali sulle donne.
Le origini delle mutilazioni femminili sono legate a tradizioni dell’anticoEgitto (da qui il nome di infibulazione faraonica).

Si calcola che in Egitto, nonostante la pratica sia vietata, ancora oggi tra l’85% e il 95% delle donne abbia subito l’infibulazione.

In Somalia, dove la pratica è diffusa al 98%, è stata definita dall’antropologo de Villeneuve le pays des femmes cousues, il paese delle donne cucite.

L’infibulazione e l’escissione della clitoride non sono menzionate dal Corano, non è dunque richiesta dall’Islam alcuna forma di manipolazione dei genitali (tra cui l’infibulazione) che rechi danno fisico alla donna.

Secondo molti studiosi non è neppure considerato accettabile nell’Islam che sia limitato il piacere sessuale della donna. L’Islam ortodosso accetta la pratica meno invasiva della sola circoncisione del clitoride seguendo l’unica presunta prescrizione lasciata da Maometto e riportata nel libro degli Hadit.

Da qui il fatto che la giurisprudenza coranica ammette, fra le cause di divorzio, difetti fisici della sposa, come ad esempio una circoncisione mal riuscita.
Al contrario, il cosiddetto “padre” del Kenya moderno, Jomo Kenyatta, difese l’infibulazione come una pratica culturale importante.

Sebbene non sia in nessuna sua parte richiesta dal Corano, l’infibulazione è però una pratica che si può riscontrare in alcuni paesi, in tutto o in parte Islamici (essenzialmente la parte meridionale dell’Egitto, Sudan, Somalia, Eritrea, Nigeria, Senegal, Guinea), dove viene consigliata come sistema ritenuto utile a mantenere intatta l’illibatezza della donna.

In Somalia, una donna non infibulata viene considerata impura, pertanto, non riesce a trovare marito e rischia l’allontanamento dalla comunità.

La scrittrice Ayaan Hirsi Ali, somala naturalizzata olandese, è una delle principali attiviste contro le mutilazioni femminili, nonché testimone di come questa pratica sia tipica della società somala: ella stessa fu infibulata all’età di cinque anni, assieme alla sorella di quattro.

Nel Cristianesimo, le mutilazioni, anche quelle auto-inflitte, sono considerate un peccato contro la santità del corpo e sono quindi proibite.

Ma – come per l’Islam – essendo l’infibulazione legata a culture antropologiche tribali precedenti la cristianizzazione, tale pratica si è conservata, soprattutto tra i copti (ortodossi e cattolici) del Corno d’Africa, in Eritrea e in Etiopia.

Secondo dati recenti di alcuni osservatori internazionali nel mondo circa 150milioni  di donne hanno subito una qualche mutilazione sessuale.
Queste mutilazioni si praticano ancora in circa 20 paesi africani e 4 asiatici (Yemen, Oman, Indonesia e Malesia).  Si calcola che ogni giorno 6000 ragazze di età compresa tra i sei e i dodici anni subiscono mutilazioni genitali e che in Egitto, per fare un solo caso, l’80 per cento delle ragazze sono infibulate, anche se di recente questa pratica è stata messa fuori legge.
Con l’infibulazione e l’escissione – cioè con la rimozione della clitoride – le donne non possono più provare piacere sessuale. 
A che scopo si fa tutto questo? 
Di fatto non esistono a questo proposito precetti di natura religiosa, l’unico scopo ammesso è di tutelare quella stupida cosa che si chiama l’onore dei padri e dei mariti togliendo alle donne un motivo legittimo per essere libere nelle loro scelte sessuali.   
La domanda appare semplice:  Dobbiamo imporre la nostra morale, così come abbiamo imposto un po’ dappertutto nel mondo i nostri stili di vita o, dobbiamo rispettare le tradizioni locali che molte culture si tramandano da decine di secoli?  E’ giusto o ingiusto mutilare delle bambinette e perché? Se i genitori di queste ragazze vivono in Italia sono liberi di mutilare le loro figlie o devono sottostare alle nostre leggi e alla nostra cultura, che di recente ha deciso di punire questa pratica? 
(L’Italia di recente ha detto “no” ed è stata varata una legge che punisce ogni forma di mutilazione sessuale.) 
In questo contesto la questione del velo femminile è analoga anche se è infinitamente meno drammatica, ma proprio per questa più subdola sul piano dell’affermazione dei principi sulla libertà della persona.  

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Ci sono poi le sociologie minori, del turismo, del tempo libero, dell’abbigliamento e della moda.  Così come ci sono sociologie nate da pochissimo, come quelle legate all’impatto ambientale delle biotecnologie o al formarsi di nuclei di realtà virtuali.

 

Possiamo fermarci qui, non senza aver ricordato la sociologia economica, quella della ricerca scientifica, la sociologia della comunicazione, alla quale dedicheremo metà di questo corso e, per finire la sociologia dei gruppi, che oggi sta diventando sempre più importante, sia per lo studio del mercato dei beni di largo consumo, sia per lo studio delle mode, delle opinioni, o delle élite, che condizionano le abitudini legate al tempo libero e al loisir.

C’è infine un ultimo punto, non certo minore, da considerare prima di lasciare questa sezione sulla nascita di questa disciplina.

Per la sociologia non tutti i problemi reali sono anche problemi veri e viceversa.
Un problema, per un sociologo, è reale se si può tradurre in termini tali da risultare verificabile sperimentalmente.  Se può essere considerato un fatto…a prescindere dalla sua veridicità.

Per esempio, la sociologia può studiare le apparizioni degli UFO tra la gente, a prescindere dalla considerazione che gli oggetti volanti non-identificati siano navi spaziali aliene, esperimenti scientifici segreti o allucinazioni collettive.
Di contro, esistono anche problemi reali che per la sociologia sono insolubili perché non sono traducibili in termini operativi.
Non lo sono perché spesso ci sono delle volontà politiche che non vogliono affrontarli a causa delle conseguenze che potrebbero comportare o, più semplicemente, perché anche la sociologia è stata ed è ancora succube di volontà politiche forti.
Negli stati del Sud degli Stati Uniti, prima della guerra di secessione, i neri o, meglio i “negri” venivano quasi sempre tenuti alla catena mentre lavoravano nelle piantagioni di cotone.  Perché?  Perché alcuni cattedratici di alcune università del Sud avevano riscontrato in questi neri una propensione alla fuga dal lavoro e dalla fatica.  In altri termini, a differenza dei bianchi, non amavamo lavorare, non avevano principi morali ed erano portati all’ozio, ai vizi, al bere e al fare l’amore. 

In ogni modo, questa propensione alla fuga era stata classificata come una vera è propria patologia del comportamento a cui era stato dato il nome di dromomania o nevrosi da vagabondaggio, che colpiva i bianchi schizofrenici e tutti i neri, come malattia propria del carattere delle persone di colore… 

 

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Prendiamo in considerazione adesso un concetto chiave degli studi sociologici, il concetto di cultura.

 

Prima di esaminarlo in dettaglio e per l’importanza che ha un istituzione internazionale come l’UNESCO, vediamo come questa istituzione l’ha definita nella Dichiarazione di Messico City sulle politiche culturali del luglio-agosto 1982.
La cultura nel suo significato più ampio è considerata come l’insieme dei tratti distintivi, spirituali, materiali, intellettuali ed affettivi, che caratterizzano una società, un gruppo sociale o un individuo. 

Subordinata alla natura essa ingloba, oltre che l’ambiente, le arti e le lettere, i modi di vita, i diritti fondamentali dell’essere umano, i sistemi di valore, le tradizioni, le credenze e le scienze.

In breve, a livello politico internazionale si è voluto riconoscere che ogni società umana possiede una propria cultura, che si distingue dalle altre.

 

Questa cultura deve saper ammettere l’esistenza delle altre culture e al limite accoglierle.

In questo ambito, il multiculturalismo è l’espressione di una speranza, che le culture siano riconosciute, s’incontrino, si mescolino, si misurino e, soprattutto, si trasformino e si evolvano.

Quello che è invece problematico è che in questa fase della mondializzazione nessuno sa ancora dire se questa evoluzione va verso una maggiore diversità, va verso delle nuove diversità o verso una standardizzazione più o meno importante.

 

 

La definizione di cultura nelle scienze sociali è sempre stata al centro di ampi dibattiti.

 

Il motivo è semplice, i suoi diversi significati non riflettono solo una diversa visione del concetto in sé, ma un differente sguardo sulla realtà.

La prima definizione antropologica di cultura che si allontana sia dal paradigma illuminista, cioè da una visione etnocentrica della prima antropologia, e sottolinea il carattere relativo della cultura è quella di Edward Burnett Tylor (1832-1917) un antropologo inglese che nel 1871 definisce la cultura come il complesso che include le conoscenze, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, le abitudini e gli oggetti materiali acquisiti dall’uomo come membro di una comunità.

I successivi sviluppi dell’antropologia, con Bronislaw Malinowski (1884-1942) un antropologo polacco naturalizzato inglese, Marcel Mauss (1872-1950) un sociologo francese, il miglior allievo di Durkheim, e Claude Lévi-Strauss (1908-2009) il più famoso antropologo francese fondatore della corrente strutturalista, rimarcheranno ancora di più la dimensione relativista, evidenziando il fatto che solo immergendosi nel tessuto culturale della comunità presa in esame che se ne possono comprendere i suoi significati.

Al centro del significato antropologico di cultura ha poi progressivamente guadagnato importanza da una parte il concetto di vita corrente (vale a dire i ruoli, le aspettative, le credenze, i miti, i riti e tutte le pratiche che strutturano l’agire quotidiano), dall’altra, la sua natura di strumento per dare significato al mondo e farne emergere le identità che lo compongono, pur nelle loro diversità.

Gli sviluppi più recenti degli studi sul concetto di cultura hanno poi posto l’attenzione sui limiti delle definizioni di natura statica perché se da una parte sono in grado di fotografarne il loro aspetto, dall’altra acuiscono le differenze facendo sembrare le culture come entità astratte nelle quali risulta svalutato lo spazio delle autonomie individuali o dei piccoli gruppi.
James Clifford un giovane antropologo americano della corrente definita de-costruttivista, insegna storia della conoscenza in California, ha introdotto sulla scia di queste critiche l’idea che la cultura non è un bagaglio di modelli definiti, ma un insieme di possibilità e vincoli che strutturano la realtà in un processo dinamico che si nutre di una continua ibridazione anche con altre culture.

 

In sostanza si è passati da una visione di cultura come “roots” (radici) ad una come “routes” (percorsi).

Un’altra definizione di cultura è quella elaborata dell’antropologo americano Clifford Geertz (1926-2006), il quale accomuna, per analogia, l’idea di cultura a una rete di significati che gli individui hanno creato e continuano a ricreare.

Una rete nella quale essi sono allo stesso tempo i protagonisti e i compromessi.
In breve diciamo che la cultura è sempre stata al centro del discorso sociologico anche se l’interesse non è tanto verso la comparazione con altre culture, ma piuttosto al ruolo che essa gioca all’interno del sistema sociale.

 

Durkheim, ad esempio, ha sempre posto l’accento sulla dimensione morale e simbolica delle rappresentazioni collettive considerate come un momento costituente della coesione necessaria a definire un organismo sociale.

Il materialismo dialettico, al contrario, definisce la cultura come un elemento sovrastrutturale necessario al mantenimento dell’ordine sociale derivato dalla ripartizione e proprietà dei mezzi materiali di produzione.

 

Antonio Gramsci (1891-1937) che qui prendiamo in considerazione non come un politico avversato dal fascismo, ma come uno studioso della cultura popolare,  riprendendo l’approccio critico marxista, introduce il concetto di egemonia culturale per identificare quei processi di dominio da parte di una classe che impone la propria visione del mondo attraverso le pratiche culturali.

Un altro approccio critico alla cultura è quello rappresentato dalla Scuola di Francoforte (tra coloro che ne fecero parte ricordiamo perlomeno Adorno, Horkheimer e Marcuse) che ha elaborato i concetti di industria culturale e di cultura di massa.

 

La Scuola di Francoforte parla di industria culturale per indicare la produzione omologante di modelli culturali attraverso i media e l’industria che favorirebbero una cultura e una società massificata, ossia uniformata, senza stimoli, priva di creatività.

Una cultura destinata a raggiungere il maggior numero di persone, e quindi necessariamente omogeneizzante.

Un’altra importante scuola di sociologia, quella di Chicago, partendo dall’analisi dei modelli culturali degli emigrati ha studiato i processi d’ibridazione culturale arrivando a mettere in luce la loro relativa dinamicità e autonomia nell’ambito di quel fenomeno che va sotto il nome di melting pot.

 

Con l’affermarsi della tendenza fenomenologica negli studi sociali una certa importanza ha avuto quella corrente definita dell’interazionismo simbolico, il cui autore principale è George Herbert Mead (1863-1931) un americano considerato il fondatore della psicologia sociale.

 

Secondo Mead, l’interazione simbolica, ossia lo scambio di segni e significati mediante le pratiche comunicative, è alla base dello sviluppo del sé e dell’interiorizzazione dell’immaginario sociale, ossia dell’insieme dei modelli che formano la cultura in una data società.

 

Il pregio di un tale approccio sta nel riconoscere sia un’autonomia dell’individuo nell’interpretare i significati del mondo in cui vive, sia uno spazio dinamico dove la cultura viene ogni volta riformulata e condivisa attraverso le pratiche.

Sulla scia dell’interazionismo simbolico si è anche sviluppato l’approccio costruttivista di Peter Berger e Thomas Luckman, autori di un saggio molto importante, The social construction of reality, del 1966,  e l’etnometodologia di Harold Garfinkel.

 

Questi autori sono concordi nel sostenere la preminenza della percezione del reale nella costruzione sociale.

Diciamo che con essi la cultura si identifica con tutte quelle pratiche che danno forma alla conoscenza.

In una tale prospettiva non esiste una realtà oggettiva ma solo una realtà percepita che è il riflesso della cultura di appartenenza.

Per Pierre Bourdieu (1930-2002), l’ultimo grande dei sociologi francesi, morto nel 2002,

i gusti culturali sono i segni distintivi di una condizione di classe.

Questa condizione esprime una visione del mondo e dei modelli culturali per lo più inconsci, che lui chiama habitus e che modellano la distinzione sociale.

 

La novità di questa tesi è che l’elemento culturale non è più una sovrastruttura, ma è una parte integrante della struttura sociale.
Gli sviluppi più recenti della sociologia in relazione soprattutto alle trasformazioni sociali si concentrano oggi su due concetti fondamentali: globalizzazione e post-modernità.

Come in antropologia, la cultura viene oggi concepita come una rete di significati continuamente riformulata dalle interazioni e dalle pratiche sociali.

 

Ulf Hannerz, un antropologo svedese che insegna all’università di Stoccolma, esperto sui modelli con i quali si formano le diversità sociali, parla di social networks come momento culturale fondamentale della contemporaneità.

 

Il punto centrale di questo approccio è il rifiuto sia della visione critica legata ai temi dell’imperialismo culturale (dove gli effetti della globalizzazione ricadono a cascata nei vari contesti locali omologandoli), sia della visione, spesso normativa, del particolarismo (che vede nel sorgere di specificità culturali una forma di reazione agli effetti di una cultura mondiale).

Un altro approccio recente a questi temi si concentra sull’analisi della cultura all’interno di quel fenomeno definito della post-modernità.

 

Tra gli autori più attenti a questo tema vi è Zygmunt Bauman, un filosofo e sociologo polacco oggi molto popolare per le sue tesi sulla società liquida, su cui ritorneremo, il quale arriva a criticare la cultura contemporanea definendola schiava dei consumi e dell’immagine/spettacolo.

 

Com’è facile intuire ogni definizione di cultura riflette gli orientamenti culturali e gli obiettivi di chi la propone, non per caso sono circa un centinaio quelle più conosciute.

 

A noi basta aver chiaro alcuni punti salienti.

La cultura, essendo acquisita e non trasmessa biologicamente, non può essere ricondotta ad una base biologica o psicologica, così come non può essere riportata ad una semplice dimensione sociale e questo perché non è tanto la socialità che contraddistingue l’uomo, ma il fatto culturale in sé o, se si preferisce, la sociabilità, che possiamo definire come l’attitudine a vivere in società.   

 

Con la sociabilità, soprattutto in etologia, si studia il modo in cui gli individui della stessa specie si organizzano in società e sviluppano la socialità.

In antropologia la socializzazione è l’insieme dei processi grazie ai quali gli individui sono integrati nella società in modo tale da condividerne le norme e i valori.
In questa prospettiva l’acculturazione può anche essere definita un modo specifico dei processi di socializzazione.

 

La socializzazione, in realtà, è un fenomeno complesso.
Qui possiamo dire che è un processo di apprendimento che permette agli individui di acquisire i modelli culturali della società nella quale vive.

Di per sé, la socializzazione definisce l’insieme dei meccanismi attraverso i quali l’individuo interiorizza le norme e i valori del suo gruppo di appartenenza e costruisce la sua identità sociale.

Si può distinguere tra una socializzazione primaria ed una secondaria.

 

La prima è quella che si elabora all’interno della famiglia, della scuola o con i mezzi di comunicazione.

La seconda è quella che si sviluppa a partire dalle grandi tappe della vita, matrimonio, nascite, lutti, eccetera.
La socializzazione è importante perchè interferisce in modo notevole con i processi d’interazione sociale e quella che si chiama la riproduzione sociale.

La riproduzione sociale è quel meccanismo sociologico di mantenimento della posizione sociale e dei modi di agire, di pensare e di sentire di una famiglia o di un gruppo chiuso.

Un esempio può illustrarla meglio della definizione.   

I figli delle famiglie medio-basse hanno la tendenza a non intraprendere studi molto lunghi. 

Questo fenomeno (di riproduzione sociale) è determinato dalla ineguale ripartizione del capitale economico, culturale e sociale tra le classi. 

Di contro, le famiglie delle classi dominanti cercano di mantenere il loro posto nello spazio sociale e, di conseguenza, utilizzano l’istruzione al fine di riprodurre e aumentare il loro capitale culturale. 

 

L’analisi del concetto di cultura, da un punto di vista storiografico, diventò nel corso del Novecento, tra gli anni ’30 e la fine della seconda guerra mondiale, uno dei dibattiti centrali delle scienze sociali.

Uno dei libri più interessanti di questo periodo è Patterns of Culture, edito nel 1934 e scritto da Ruth Benedict, un’antropologa americana, allieva di Franz Boas (1858-1942), un etnologo tedesco che lavorò molto anche negli Stati Uniti, e che, con Edward Burnett Tylor, è considerato uno dei fondatori della moderna antropologia culturale.

 

In sintesi a quali risultati arrivò l’antropologia in questa stagione?
– che il comportamento culturale è determinato socialmente.   
– che la natura umana non stabilisce in modo univoco le risposte che l’uomo da ai propri bisogni. 
– che la cultura è costituita non tanto da comportamenti individuali, quanto da comportamenti di gruppo, per cui è essenziale, per le scienze sociali, analizzare la struttura e il processo di formazione di questi comportamenti. 

 

È in questo contesto che Ruth Benedict nel 1929 definiva la cultura come “la totalità che include tutti gli abiti o i comportamenti acquisiti dall’uomo in quanto membro della società.”

 

Più semplicemente possiamo dire che la cultura è l’insieme degli stati mentali condivisi da un gruppo sufficientemente grande di individui. 
Oppure, sotto un’altra angolazione, la cultura definisce il complesso dei modi di vita ai quali viene attribuito un valore da parte di un gruppo d’individui o di una comunità.

Praticamente è come se dicessimo che la cultura è un insieme di modelli normativi condivisi dai membri di un gruppo allo scopo di regolarne la condotta.

Modelli che sono spesso accompagnati da sanzioni.

Affinché la cultura possa svolgere tale funzione è poi necessario che i modelli di comportamento che la costituiscono abbiano un certo grado non soltanto di compatibilità, ma anche di organizzazione.  Cosa vuol dire?
Che essi devono avere a proprio fondamento un sistema di valori.

Apriamo adesso una parentesi su alcune distinzioni che possiamo fare all’interno del termine cultura dal punto di vista delle sue forme.

La prima è quella che distingue tra cultura dominante, subcultura, controcultura

 

Se intendiamo per cultura dominante la cultura egemone in dato momento in una data area, la subcultura è un aggregato tendenzialmente omogeneo di conoscenze, valori, credenze, stili di vita e modelli di vita capaci di contraddistinguere un gruppo sociale.

 

Fattori come la classe sociale, l’età, la provenienza etnica, la religione, la lingua, il luogo di residenza e perfino l’orientamento ideologico e politico possono, infatti, combinarsi tra di loro e creare identità culturali capaci di differenziarsi significativamente dalla cultura dominante. 

 

Gli studiosi delle subculture fanno notare che i membri di una subcultura usano spesso differenziarsi dal resto della società con uno stile di vita o un modo di vestire simbolici e alternativi a quelli dominanti.

 

In questo senso lo studio delle subculture consiste nello studio dei simbolismi collegati a queste forme di espressione esteriore e nello studio di come queste vengono percepite dai membri della società dominante.

 

Di fatto, tanto più una collettività è differenziata tanto più facilmente sarà possibile rintracciare al suo interno delle subculture che producono propri valori.

Tuttavia, più questi valori sviluppandosi si strutturano, più si fa problematico e complesso il fenomeno dell’integrazione sociale, in sostanza, la ricerca di una stabilità e di una convivenza pacifica. 

 

In Europa fino a qualche tempo fa si distinguevano principalmente due modelli d’integrazione sociale, quello francese, fondato sui principi laici dell’illuminismo, e quello inglese, basato sul rispetto formale delle differenze.

 

Negli Stati Uniti d’America, dove da tempo si mescolano subculture provenienti dalle più svariate parti del mondo, conseguenza dei numerosi processi migratori che hanno interessato questa nazione, si definisce melting pot il fenomeno della convivenza che si è realizzata.

 

Va notato che l’uso dell’espressione subcultura non implica necessariamente una situazione conflittuale con la cultura dominante, può infatti costituirne soltanto una variante o un elemento ereditato storicamente.

 

A proposito delle subculture è interessante questa osservazione di Claude Lévi-Strauss:

 

Ogni cultura si nutre degli scambi con altre culture, ma occorre che essa opponga una certa resistenza, in mancanza della quale non avrebbe più nulla che le sia proprio da scambiare.

 

L’espressione di controcultura è, invece, più recente, indica una radicalizzazione delle diversità, essa va intesa come un rifiuto etico e comportamentale dell’insieme dei valori e delle norme dominanti.
Gli anglosassoni dicono un rifiuto del mainstream della società.

 

Un altro modo di dividere le varie componenti della cultura in sociologia è quello di distinguere tra cultura materiale e cultura non-materiale

La cultura materiale, in questo contesto, è la cultura delle cose. 
Essa è composta da oggetti, manufatti, prodotti diversi, merci, a cui si possono contrapporre i significati, i valori, i simboli, i linguaggi, e tutti quei prodotti umani non-materiali.

 

È una distinzione di comodo, perché sia le cose materiali che i valori immateriali hanno senso solo se è noto il significato culturale che viene loro attribuito.

 

Possiamo poi parlare di cultura sostitutiva e cultura non sostitutiva.  

 

La cultura sostitutiva è formata da tutti quegli elementi culturali che nel tempo possono diventare obsoleti o perdere di valore e di utilità.  Dunque, finire per essere socialmente dimenticati.
In genere è una conseguenza diretta dall’accumulazione dei saperi, delle tecniche e dell’esperienza.

 

In questo quadro possiamo avere:
– degli elementi culturali materiali sostitutivi, come sono oggi, per fare un esempio, i televisori in bianco e nero, oppure le macchine per scrivere a tasti meccanici o la macchina fotografica a pellicola e sviluppo chimico.

 

– degli elementi culturali materiali non-sostitutivi quando ci riferiamo a degli elementi culturali che non subiscono un processo d’invecchiamento e non possono essere messi in disuso, in pratica, che vengono continuamente richiamati come valori che superano il tempo.  Facciamo qualche esempio, il Partenone di Atene, il Colosseo, le ville del Palladio o l’architettura industriale inglese dell’Ottocento, le unità di abitazione di Le Corbusier a Marsiglia, eccetera.

Allo stesso modo possiamo avere:

– degli elementi culturali non-materiali sostitutivi, come sono, sempre per intenderci con un esempio, certi modelli della fisica o certe concezioni della tecnica che non servono più, oppure, certi cerimoniali o certe convenzioni comunicative, come il caso dell’alfabeto Morse o, più semplicemente, l’abitudine di cambiarsi prima di sedersi a tavola.

 

– degli elementi culturali non-materiali non-sostitutivi, come la musica di Bach o di Eric Satie, la poesia di Omero o di Thomas Eliot, i romanzi di James Joyce o di Marcel Proust, le canzoni dei Rolling Stones o dei Pink Floyd, le sinfonie di Glenn Branca.

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Vediamo meglio che cos’è la cultura materiale. 

 

In origine era un’espressione coniata dagli studiosi marxisti dell’Europa orientale per definire l’insieme delle conoscenze e delle pratiche relative ai bisogni e ai comportamenti materiali dell’uomo. 

Si identificava con un sapere che si contrapponeva alla cultura intesa in modo tradizionale. 

 

In tal senso nel 1953 venne fondato a Varsavia l’Istituto per la storia della cultura materiale. 

 

Uno dei primi temi affrontati da questo istituto era se la cultura materiale poteva essere intesa come una disciplina autonoma o non piuttosto come un paradigma in cui potevano convergere diverse discipline e diverse competenze, collegate alle diverse fonti che possono essere utilizzate per questo genere di indagini: fonti documentarie, fonti archeologiche e fonti iconografiche. 

 

In questo senso una definizione di “storia della cultura materiale” fu stata data da Witold Kula:

È la storia dei mezzi e dei metodi impiegati nella produzione e nel consumo. 

 

Kula, Witold Storico polacco (Varsavia 1916-ivi 1988). Professore di storia economica a Varsavia, ha studiato le origini della Rivoluzione industriale in Polonia (Les débuts du capitalisme en Pologne dans la perspective de l’histoire comparée, 1960), affrontando anche questioni di metodo (Problemi e metodi di storia economica, 1963). Nell’importante Teoria economica del sistema feudale. Proposta di un modello (1962) ha costruito, sulla base dell’interpretazione marxista delle formazioni economico-sociali, uno schema dell’economia feudale fondato sul caso della Polonia nel periodo 1550-1750. Di carattere più generale Le misure e gli uomini dall’antichità a oggi (1987).

 

Si distingue dalla storia economica che si occupa in prevalenza dei fattori sociali che condizionano la produzione e il consumo, e dalla storia della scienza e della tecnica che studia il livello tecnologico raggiunto in una data società indipendentemente dalla sua produzione pratica. 

 

Il dibattito si ampliò negli anni Settanta quando il concetto di cultura materiale acquistò una sua popolarità. 

 

Molti studiosi iniziarono a riservare una certa attenzione ai dati di natura materiale nella ricostruzione delle vicende storiche e, in particolare, all’interno del campo della storia dell’arte si affermò una tendenza che considerava i fenomeni storico artistici come un’espressione di cultura materiale, legata all’ambiente in cui questi fenomeni si manifestano o vengono prodotti.

 

Da qui, poi, il passo alla visual culture, da una parte e alla nascita dell’antropologia dell’arte dall’altra fu breve. 

 

Lo storico dell’arte americano, George Kubler (1912-1996), che per primo ha sviluppato i temi di questa antropologia considera la storia dell’arte una “storia delle cose”.

 

In italiano di Kubler la casa editrice Einaudi ha pubblicato i tre volumi della sua storia sulla forma del tempo e sulla storia delle cose.

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Ritorniamo, adesso ad un compito importante che svolge la cultura dal punto di vista della sociologia e che possiamo definire una funzione di mediazione.

 

Perché le forme espressive, che soprattutto attraverso il linguaggio, si configurano come rappresentazioni della realtà (siano esse rappresentazioni religiose, artistiche, scientifiche, filosofiche, giuridiche, o del comportamento) costituiscono altrettanti modi attraverso i quali l’individuo cosciente di sé riesce a mediare il rapporto con se stesso, gli altri, l’ambiente e le cose.

 

Per la sociologia la mediazione è il processo con il quale il pensiero generalizza i dati dei sensi ed estrae dalla conoscenza sensoriale – che è una sorta di conoscenza immediata – una conoscenza astratta e intellettuale, che possiamo definire una conoscenza mediata. 

In questo senso la cultura ha anche una funzione implicita fondamentale, perché la mediazione  s’impone agli uomini come il fondamento della prevedibilità sociale  

 

Dobbiamo, a questo punto, fare attenzione a non confondere la cultura con un’altra espressione, che nel linguaggio comune è impiegata in modo analogo, quella di civiltà.    

 

Il termine civiltà deriva dal latino civilitas, che a sua volta deriva dall’aggettivo civilis, da civis che significa cittadino.

La nozione di civiltà in sociologia serve ad evocare soprattutto lo stato della tecnica o, se si vuole, il risultato di un processo in virtù del quale gli individui diventano capaci di vivere in società, va da sé che, questo risultato dipende da molti fattori, di cui decisivo è quello costituito dalla tecnica.
Noi, a questo proposito, usiamo dire civiltà del bronzo, del ferro, civiltà del petrolio, civiltà atomica, civiltà dell’informazione.

 

Storicamente, l’espressione di civiltà ( Zivilisation/ civilisation), fino alla fine del ‘700, serviva a definire il processo in virtù del quale gli individui divenivano capaci di vivere in società.
In questo senso, la civiltà tendeva a confondersi con l’atto di civilizzare

 

Di solito, poi, si distingue la civiltà dalla cultura in base a due considerazioni.

Un’estensione più vasta in termini di territorio. 

Una durata molto più lunga in termini temporali.
In sub-ordine, poi, c’è il fatto che, in genere, le civiltà inglobano più culture.
La civiltà europea comprende la cultura italiana, quella francese, quella tedesca e via dicendo.

Per riassumere, diciamo che le tecniche costituiscono il corpo di una civiltà, la cultura la sua anima.

Un altro grande lemma che s’intreccia con la nozione di cultura è quello di società.

Anche questo è un concetto importante, soprattutto nell’ambito delle scienze sociali che da molti sono anche definite come una scienza della società.

 

Il primo passo, in questa direzione, è rappresentato dalla domanda, che cosa è la società, o meglio, come possiamo definire l’espressione di società.

 

Fino a questo momento abbiamo usato questo termine in senso intuitivo, anche perché essa ci rimanda al concetto di associazione.

 

Le difficoltà di definire che cos’è la società nascono dal fatto che non ci riferiamo ad un oggetto o ad un fenomeno fisico, ma al risultato di numerosi processi intersoggettivi di interpretazione e di comunicazione, ovvero, a qualcosa che sta essenzialmente nelle rappresentazioni mentali degli individui.

Tali rappresentazioni, per lo più composte da credenze o convinzioni, sono poi intimamente legate all’esperienza soggettiva e all’agire degli individui.

Non per caso nella cultura occidentale la nozione di società ha spesso oscillato tra una connotazione negativa ed una positiva.

Nel primo caso, generalmente, la società si contrappone alla comunità.

Nel secondo caso è associata alla nozione di Stato.

 

Nel 1887, Ferdinand Tönnies (1855-1936), filosofo e sociologo tedesco, pubblico un libro intitolato Gemeinschaft und Gesellschaft (Comunità e società) dove appunto contrapponeva la comunità intesa in senso positivo, alla società considerata un insieme di relazioni di natura essenzialmente economiche e burocratiche.

 

Per quanto ci riguarda diciamo che là dove c’è un territorio, un insieme d’individui in relazione reciproca tra di loro, una lingua o, un modo comune d’intendersi, là c’è una “unità sociale” o, meglio, una realtà sociale.  

Ma come si costituiscono queste realtà?
Essenzialmente con la coscienza di farne parte. 

 

Va da sé, questa coscienza di esserne parte o, come dicono i filosofi, questa coscienza dell’esserci, è legata strettamente anche al linguaggio, che consente di articolare delle domande complesse sul senso della propria esperienza e della vita.

Il linguaggio, infatti, con le sue forme di rappresentazione di sé, della realtà e dell’esperienza, contiene l’insieme delle forme di mediazione simbolica che in qualche modo costituiscono la cultura.   
In questo senso possiamo anche dire che la complessità del linguaggio è un segnale della complessità culturale. 

 

La mediazione simbolica possiamo intenderla un’interazione tra dei soggetti che mirano a raggiungere un accordo o un compromesso su un certo modo di risolvere dei conflitti o delle divisioni che hanno a che fare con il loro stare insieme. 
In parole povere è la capacità d’intendersi!

 

Insomma la società appare come il risultato dei processi di conoscenza e di autocoscienza che si sviluppano nella comunicazione sociale, verbale e non-verbale.

 

Affrontiamo adesso un altro paradigma storico della sociologia, il concetto di massa.

Questo concetto nella sua formulazione classica risulta per molti versi desueto, così come è molto importante nelle moderne analisi del comportamento collettivo.

 

Ne parleremo tenendo conto di due aspetti del problema.
Perché è necessario per poter procedere all’analisi di ciò che sono le comunicazioni di massa e perché, parlandone, possiamo continuare ad esaminare alcuni aspetti del discorso sociologico.

 

Nell’Ottocento i pensatori riformisti identificano la massa con la condizione del proletariato.

Nelle società industriali l’espressione di massa si riferisce, in genere, a vasti insiemi d’individui coinvolti in fenomeni di natura dinamica, quali, l’urbanizzazione, le migrazioni, le comunicazioni, la scolarizzazione, la divisione del lavoro, il tempo libero, eccetera. 

 

Dalla nozione di massa deriva quella di società di massa.

 

Con questa espressione nella modernità s’intendono quelle società in cui le forme di associazione tradizionali come la comunità, la classe, l’etnicità e la religione tendono a svalutarsi e, nelle quali, l’organizzazione sociale è allargata e burocratizzata fino al punto che le relazioni sociali appaiono di fatto impersonali, vuote, usurate.

 

Per procedere partiamo dalle riflessioni di Gustave Le Bon (1841-1931), un eclettico studioso del comportamento collettivo che si dedicò a questo argomento dopo essersi dedicato allo studio della fisiologia, dell’antropologia e dell’archeologia.
La sua opera più famosa s’intitola La psicologia delle folle, è del 1895.

 

In breve, Le Bon intuisce l’importanza che nella massa rivestono i comportamenti collettivi e

le eventuali leadership, che in esso si formano.

Per questo autore l’uniformità degli atteggiamenti individuali che si registrano nelle masse non sono tanto il frutto della vicinanza fisica tra gli individui, quanto il risultato di una modificazione del comportamento. 

Questa modificazione ha leggi proprie e spesso induce al prevalere nei singoli soggetti di pulsioni violente e incontrollabili rispetto al comportamento razionale individuale.

Se si verificano determinate condizioni, osservò Le Bon, gli individui si trasformano in elementi della massa, assumono idee, atteggiamenti e comportamenti nei quali, presi singolarmente, non si riconoscerebbero. 

Ci sono delle circostante, insomma, in cui gli uomini appaiono impotenti, annullati nella loro individualità, accecati da una pulsione collettiva in grado di uniformare e in molti casi plagiare i loro comportamenti, demolendo il loro senso critico.

 

Come è facile constatare questa analisi di Le Bon è una interpretazione negativa dei fenomeni di massa, che qualche decina di anni dopo fu condivisa anche da un altro studioso, spagnolo, José Ortega y Gasset (1883-1955).

 

Qui, per ragioni di economia, non esamineremo gli altri molti autori, contemporanei di Le Bon, che hanno dedicato i loro studi al concetto di massa, come il criminologo italiano Scipio Sighele (1843-1913) e lo psicologo sociale francese Gabriel Tarde (1843-1904).

Autore, quest’ultimo, riscoperto alla fine degli anni ’90 da Gilles Deleuze che in qualche modo ha rivalutato la sua “legge dell’imitazione”.

Una legge che serve a spiegare alcuni fenomeni di devianza.

 

Veniamo, invece, ad un libro di Ortega y Gasset, La ribellione delle masse, i cui singoli capitoli uscirono, prima della stampa in volume, su alcune riviste politiche a partire dal 1927.

In questo libro, in estrema sintesi, si sostiene che le masse sono una delle conseguenze dello sviluppo produttivo e tecnico della modernità.

 

Questo sviluppo ha dato vita, tra le altre cose, alla nascita di enormi agglomerati sociali, cioè, ha concentrato, in modo assolutamente artificiale rispetto alla loro storia, grandi masse di individui, facilitando il formarsi di folle e generando delle condizioni di vita passiva sempre più uniformi e banali.

 

Ortega y Gasset elabora anche alcune osservazioni che erano sfuggite a Le Bon.

Per esempio, egli nota, come i fenomeni di massificazione possono risultare gratificanti per gl’individui che ne sono coinvolti.

Di più, la massificazione consente anche un elevato soddisfacimento dei bisogni culturali e sociali primitivi, rozzi o d’impulso.

In questo modo, conclude Ortega y Gasset, gl’individui non sono più stimolati a cercare una realizzazione sociale al di là degli standard di vita dominanti e finiscono inevitabilmente per coltivare un atteggiamento socialmente amorfo.

 

Da questo meccanismo di formazione delle masse, osserva Ortega y Gasset si staccano sovente delle minoranze, dei gruppi sociali che per cultura, moralità, formazione politica, riferimenti ideali non accettano di uniformarsi alle condizioni di appiattimento e di livellamento delle masse e rivendicano per sé un individualismo aristocratico.
Individualismo che, per i tempi, si trovava spesso a cavallo tra anarchia e conservatorismo.
Sono quelli che oggi potremmo chiamare gruppi di opinione o élites

 

Costituiscono delle realtà sociali studiate con attenzione dalla pubblicità e dagli istituti di ricerca sui comportamenti del consumatore, perché questi gruppi di opinione orientano, con le loro testimonianze, le maggioranze silenziose, invogliandole ai consumi di prestigio o “griffati”, agendo sulle politiche economiche, i meccanismi dell’emulazione sociale, la morale, le forme dell’etica e, in politica, sugli orientamenti di voto.

 

Completamente diverse, invece, sono sia la teoria delle masse che esce dall’analisi freudiana o, più precisamente, dalla cosiddetta psicologia del profondo, che il concetto di massa elaborata dal materialismo storico, o meglio, dai movimenti riformatori e socialisti che si formarono lungo tutto l’800.
Questi movimenti consideravano le masse come l’elemento centrale e allo stesso tempo contraddittorio del modo di produzione capitalista di cui le masse erano una conseguenza.

 

In sostanza erano convinti che era possibile agire sull’esperienza emotiva collettiva e sulle condizioni del vissuto individuale in modo tale da far maturare nelle masse una coscienza della loro condizione e della loro forza.

 

Si riteneva, in sostanza, che le masse, in quanto moltitudini sfruttate, anche se incapaci di mobilitarsi fino in fondo come soggetti politici autonomi, erano comunque le protagoniste della questione sociale e potevano elaborare sviluppando una coscienza di classe le ragioni della loro emancipazione. 

 

Vediamo ora al relazione tra cultura e massa.

Fino a qualche tempo fa per il senso comune e per molte ideologie politiche, la cultura di massa era assimilata alla nozione di cultura delle masse. 
Una forma di cultura ricca di significati positivi per le sinistre e negativi per le destre, anche se entrambe le posizioni concordavano sul loro studio perché le masse, volenti o nolenti, costituivano la base e lo strumento, sia pure rozzo e per molti versi incontrollabile, di tutti i cambiamenti sociali.

In questo senso, cultura di massa significava soprattutto cultura per il popolo.

 

Questa espressione (cultura per il popolo) è stata spesso usata anche per definire il carattere diretto, semplice e genuino delle culture popolari e contadine.

 

Ma qui possono anche nascere degli equivoci, perché in questa accezione le culture popolari si identificavano con il folclore e/o le tradizioni localistiche.  
 

Il termine folclore o folklore (da folk, “popolo”, e lore, “sapere”), si riferisce all’insieme delle  tradizioni arcaiche provenienti dal popolo e tramandate oralmente. 

Riguardano gli usi, i costumi, le leggende, i proverbi, la musica, la danza, la cucina riferiti o ad una determinata area geografica o ad una determinata popolazione. 

L’invenzione del termine folklore è attribuita all’ antropologo William Thoms (1808-1900) che, con lo pseudonimo di Ambrose Merton pubblicò nel 1846 una lettera sulla rivista letteraria inglese Athenaem, allo scopo di dimostrare la necessità di un vocabolo che potesse comprendere gli studi sulle tradizioni popolari. 

Il termine fu poi accettato dagli studiosi di antropologia culturale e dalla fine dell’800 sta ad indicare quelle forme, contemporanee di aggregazione sociale incentrate sulla rievocazione di antiche pratiche popolari ovvero tutte quelle espressioni culturali comunemente denominate tradizioni popolari. 
Agli occhi dei suoi critici il difetto principale della cultura di massa sta nel fatto che, per risultare più o meno accessibile ai più, è costretta a mettere l’accento sulle emozioni e i sentimenti più facili e diffusi.  

Di conseguenza questa cultura appare come una cultura superficiale e sentimentale, piena di luoghi comuni.
Un concetto che, una volta, veniva riassunto così:
La cultura di massa esprime i pensieri più profondi degli individui più superficiali. 

 

Per coloro che invece tendono a distinguere tra cultura popolare e cultura di massa l’accento è posto sull’autonomia della cultura popolare. 

Un’autonomia sempre più minacciata dalla produzione e dalla distribuzione della cultura ridotta a merce delle élite capitalistiche.

 

Nell’Ottocento la cultura popolare si esprimeva soprattutto nell’abbigliamento, nel canto collettivo, nella danza, nelle abitudini alimentari, nelle piccole cose di artigianato.

 

Era una cultura che, sia pure involontariamente, aveva esercitato un grande fascino sul romanticismo, cioè su quel movimento artistico e letterario che rappresentò, per almeno un paio di generazioni, lo spirito più vivo della cultura europea dell’Ottocento.

Molti protagonisti di questa corrente letteraria, che il successo fece diventare anche una moda e uno stile di vita, si prodigarono per salvare la cultura popolare, nella sua originale genuinità, attraverso la promozione, soprattutto nella mitteleuropea delle scuole di arti e mestieri.

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Vediamo due dei protagonisti del movimento di arti e mestieri.

 

William Morris (Walthamstow24 marzo 1834 – Hammersmith3 ottobre 1896) è stato un artista e scrittore inglese.  Fu tra i principali fondatori del movimento delle Arts and Crafts e è considerato antesignano dei moderni designer.

Ebbe una notevole influenza sull’architettura e sugli architetti del suo tempo. Da molti è considerato il padre del Movimento moderno, sebbene non fosse architetto.

Fondò uno studio di design in collaborazione con l’artista Edward Burne-Jones, e il poeta e artista Dante Gabriel Rossetti che ha profondamente influenzato la decorazione di chiese e case nel ventesimo secolo.

Diede un importante contributo al rilancio delle arti tessili tradizionali e gli annessi metodi di produzione.  Fondò inoltre la Società per la protezione di edifici antichi , tuttora un elemento statutario per la conservazione degli edifici storici in Regno Unito.

Durante il corso della sua vita Morris ha scritto e pubblicato poesie, narrativa, e traduzioni di testi antichi e medievali. I suoi lavori più noti includono La difesa di Ginevra (The Defence of Guinevere) (1858), Il paradiso terrestre (The Earthly Paradise) (1868-1870), Un sogno di John Ball (A Dream of John Ball) (1888), News from Nowhere (Notizie da nessun luogo) (1890), e il fantasy La fonte ai confini del mondo (The Well at the World’s End) (1896). È stato una figura importante nella nascita del Socialismo in Gran Bretagna, fondando la Lega Socialista nel 1884.

 

John Ruskin – Critico d’arte e riformatore sociale (Londra 1819 – Brantwood, Lake District, 1900).

Figlio di un ricco mercante di sherry, più che gli studi – compiuti in maniera irregolare – fondamentali furono per Ruskin i viaggi, l’osservazione attenta della natura, dei monumenti e delle opere d’arte, l’assidua lettura dei classici.

Ancor prima di entrare al Christ church college di Oxford pubblicò (1834) nel Magazine of natural history due saggi, Enquiries on the causes of the colour of the Rhine e Considerations on the strata of Mont Blanc. 

Terminati gli studi a Oxford (1842), in un accurato studio su Turner, apparso in Modern painters (1843), svolse una difesa dell’arte del pittore che per Ruskin incarnò l’artista ideale.

In Italia nel 1845 continuò a lavorare ai suoi Modern painters (il secondo volume uscì nel 1846) studiando i Bellini e la scuola veneziana, il Beato Angelico e la pittura toscana del primo Rinascimento, e interessandosi ancora di scultura e architettura (altri volumi dei Modern painters uscirono in seguito: il 3º e 4º vol. nel 1856; il 5º e ultimo nel 1860).

In The seven lamps of architecture(1849), sostenne che la disposizione d’animo virtuosa dell’artista è condizione dell’arte bella e che l’imitazione della natura è l’unica via per creare bellezza.

A questo proposito sviluppò il concetto di una connessione tra opera d’arte e stato della società, presentando il Medioevo come ideale e modello della riforma della società contemporanea.

Con The stones of Venice (1851-53), risultato dei suoi studî sull’architettura e la scultura dell’Italia settentrionale, si fece promotore del Gothic Revival (e infatti un capitolo di quest’opera, The nature of gothic, ristampato in opuscolo, ebbe grande influenza su W. Morris); nello stesso 1851 pubblicò il saggio sul Pre-Raphaelitism, che decise della fortuna di quel movimento.

Nel 1857 pubblicò Elements of drawing. 

Dedicò gli ultimi quarant’anni della sua vita a esporre le proprie teorie su problemi sociali e industriali, in esse l’arte figura come un mezzo per innalzare il tono della vita spirituale.

Tra questi scritti si ricordano: Unto this last (1862),  Sesame and lilies(1865), Time and tide (1867), Fors clavigera (1871-84), Munera pulveris (1872).

L’apostolato sociale di Ruskin si esercitò anche nel campo pratico: entrato, alla morte del padre, in possesso d’una larga fortuna, la impiegò tutta sovvenzionando case operaie modello, cooperative, gruppi operai, anche attraverso la St. George’s Guild, da lui fondata nel1871.

Le vedute di Ruskin rivoluzionarono non solo l’estetica inglese (alle sue lezioni a Oxford, dove insegnò come  professor dal 1869, ebbe tra i moltissimi uditori W. Pater e O. Wilde) ma anche quella europea.

Le opere di Ruskin, scrittore di grande efficacia apprezzato tra gli altri da L. Tolstoj e da M. Proust, sono state raccolte in The works (39 voll., 1903-12) e molte tradotte anche in italiano.

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Sono scuole che, in molti casi, finirono per alimentare una vera è propria ideologia del passato, in contrapposizione alla nascente industrializzazione, snaturando le premesse che avevano portato alla loro istituzione.

 

In sostanza, la cultura popolare nell’Ottocento, a differenza di quella di massa, nasceva ancora in modo spontaneo, avvalendosi soprattutto di materiali e mezzi espressivi tradizionali.

 

L’odierna cultura di massa, invece, tende a sfruttare il patrimonio delle culture popolari per farne dei prodotti di massa, da veicolare attraverso i mass-media e da vendere attraverso la grande distribuzione commerciale.

Un patrimonio che viene prelevato dovunque, nelle tradizioni contadine come nelle periferie urbane – vedi il caso di molte forme di musica giovanile – così come nelle etnie emigrate o emergenti.

Su queste espressioni di cultura si opera, poi, quello che i professionisti del marketing chiamano restiling, per poter diventare merci da vendere soprattutto a chi abita le aree urbane delle grandi metropoli.

 

In questo modo, oggi, il concetto di cultura di massa è strettamente associato alla società dei consumi.

Del resto, nella modernità, una parte rilevante dei rapporti che intercorrono tra le persone sono di natura economica e i consumi sono diventati dei veri e propri fenomeni sociali primari.

In questo senso, volenti o nolenti, la cultura di massa ha finito per programmare e uniformizzare la nostra vita su scala planetaria.

La cultura di massa, come abbiamo già visto, è nata in Europa tra la metà e l’ultima decade dell’Ottocento, ma con il diffondersi della carta stampata e dell’alfabetizzazione primaria, prima, e con l’avvento della radio e del cinema, dopo, è mutata in un fenomeno di costume e di modelli di consumo che oltre oceano chiamano l’american way of life.

 

Se consideriamo la cultura di massa in filigrana con il tema della cultura popolare noi vediamo che essa ha integrato l’ambiente operaio, soprattutto delle periferie urbane, con il mondo contadino e, entrambi, con gli stili di vita della borghesia.

C’è un altro tema da segnalare.
Sono i rischi che si corrono nella trasformazione delle culture popolari in prodotti di massa.

 

Perché queste culture quando sono manipolate, inevitabilmente si degradano ad un punto tale che esse finiscono per produrre dei deficit culturali in continua e costante evoluzione. 

In altre parole, queste operazioni di trasformazione danneggiano irreparabilmente ciò che c’è di genuino in tutto ciò che nasce spontaneamente dal basso.   

 

 

Passiamo ad esaminare il tema delle strutture sociali.

L’importanza dell’analisi delle strutture sociali, in sociologia, deriva dalla considerazione che non è mai possibile isolare una dimensione pura ed autonoma della soggettività, come se fosse un’identità sociale, perché gli attori sociali (individuali e collettivi) rappresentano, allo stesso tempo il motore e il prodotto che in qualche modo determinano queste strutture.

 

Nel loro significato sociologico il termine fu coniato da Herbert Spencer nel 1858.

 

Questo filosofo inglese di matrice positivista cercò di elaborare una teoria generale del progresso umano o meglio, si rese conto che la filosofia aveva ancora un compito da realizzare, quello di unificare i risultati delle scienze per farli progredire verso obiettivi più alti.

 

Egli mise in luce il fatto che in una struttura sociale, le parti che la compongono s’identificano con le relazioni fra le persone e come, l’insieme organizzato delle parti può essere inteso una rappresentazione della società nel suo complesso.

 

Spencer identificò nella durata una delle caratteristiche più importanti di una struttura sociale.

Vale a dire, tutte le strutture sociali hanno una vita più o meno lunga e, in genere, la loro durata depone a favore della loro importanza.

 

Spencer si pose anche una domanda cruciale: Le strutture sociali si basano sul consenso o sulla coercizione?

 

Da convinto funzionalista e liberista – la società era per lui un organismo vivente nel quale tutte le parti contribuiscono a mantenerlo in vita – le strutture sociali non avrebbero dovuto produrre conflitti e non avrebbero dovuto fondarsi sulla coercizione.

 

Di avviso diverso, tra i suoi contemporanei, erano i movimenti politici d’ispirazione socialista, per i quali, invece, la società è l’esito di un perenne conflitto tra le classi. 

 

Oggi questa domanda, con le sue risposte sociali e politiche, è superata e è stata sostituita da un’altra: In che modo le strutture sociali sono in grado di favorire il mutamento sociale?

 

Una società che non muta, infatti, è una società che non cresce o cresce male e così finisce per ripiegarsi su se stessa o addirittura implodere.

 

In questa analisi dobbiamo anche considerare il fatto che la società è condizionata dall’ambiente naturale e dalle forme di sociabilità che riesce a sviluppare. 
Così come le sue strutture sociali sono condizionate anche dalla storia sociale dei suoi attori, siano essi gli individui che i collettivi. 

 

Ne consegue che, le strutture organizzative e istituzionali nel loro evolversi normativo (sono soggetti legislatori) rappresentano il prodotto diretto dell’agire storico sociale, delle rappresentazioni e delle credenze degli attori sociali.

 

Va anche osservato che le strutture sociali dipendono in modo stretto dalla qualità dell’ambiente naturale nel quale si realizza lo sviluppo della società. 

 

È un tema di cui in passato e a diverso titolo, ha interessato molti autori, tra i quali Emile Durkheim, Max Weber e Georg Simmel.

 

Diciamo che l’ambiente naturale è il complesso delle possibilità nei confronti delle quali si sviluppa l’azione degli uomini, sia come individui che intesi come gruppi agenti o comunità.

 

Come tutti sappiamo non c’è nulla di pre-definito offerto dalla natura all’uomo.

C’è semplicemente la capacità dell’uomo all’adattamento naturale e alle sue capacità di agire su di

esso.
In breve dobbiamo sempre tener conto del fatto che le strutture pubbliche e politiche – che contribuisco a disegnare le forme urbane, i loro servizi  e a tracciare le vie di comunicazione –  influiscono in maniera rilevante a condizionare lo spazio sociale della persona, la sua libertà di scelta e di movimento e il suo grado d’interazione sociale.

 

In questi ultimi anni e per le ragioni più diverse si è anche diffusa una nuova sensibilità per i problemi dell’equilibrio tra l’uomo e il mondo. 

 

Sensibilità che ha messo in luce la grande responsabilità dell’azione umana sia nella conservazione che nella distruzione dell’ambiente. 

 

Da qui la constatazione che l’adattamento non può essere all’insegna del mero sfruttamento della natura, ma deve tener conto del fatto che gl’interessi dell’uomo non possono infliggere all’ambiente dei danni irreparabili o superiori ai vantaggi
Questa però è un’altra storia ancora, che ha dato vita a tutta una serie di discipline specifiche che fanno capo all’ecologia.

 

Da un punto di vista storico le contraddizioni tra le strutture ambientali artificiali costruite dall’uomo e la natura sono state messe in evidenza, per la prima volta, da un famoso libro di Georg Simmel, del 1903, intitolato, La metropoli e la vita dello spirito, in Italia, per chi volesse leggerlo è stato pubblicato per la prima volta integralmente nel 1995.   

 

Vediamo adesso qualcosa a proposito di un altro importante elemento che ci lega alla natura:

il tempo.
Il tempo rappresenta una delle dimensioni della realtà che abitiamo o, se si preferisce, dello spazio sociale.
Di conseguenza, la temporalità, che definisce ciò che è iscritto nel tempo, dev’essere considerata come un carattere essenziale delle relazioni sociali.

 

Il tempo, in sostanza, è un’infrastruttura strategica dell’azione e dell’interazione sociale, ed esso rappresenta e rende visibile il carattere processuale e storico di ogni attività umana, con una particolarità, drammatizzandola, perché il tempo è irreversibile.   

 

In sociologia, il primo a parlare di tempo sociale è stato Durkheim nel 1912.

Con questa espressione si esprime la dipendenza del tempo individuale da quello più ampio del gruppo o della comunità che funzionalmente lo comprende.

 

Ma, qual è la funzione del tempo sociale?

Attraverso la sua percezione gli uomini organizzano e ritmano la loro vita privata e collettiva, di più, questa percezione ne assicura il suo coordinamento e la sua sincronizzazione. 

 

Nella ricerca sul tempo sociale una delle tecniche più utilizzate in sociologia è quella indicata con l’espressione di time-budget (bilancio del tempo).

Storicamente, questa tecnica fu inizialmente elaborata dalla sociologia russa per studiare le problematiche della vita quotidiana degli operai.
Oggi, invece, è adoperata per descrivere i modi e gli stili di vita e per disegnare le cosiddette mappe dei comportamenti abituali.

 

Attraverso il tempo o, meglio, attraverso l’esperienza del tempo, noi stabiliamo una continuità narrativa tra passato, presente e futuro. 

 

Come ha notato Alfred Schütz, un sociologo tedesco sul quale ritorneremo, il tempo è un fattore essenziale per la comprensione dell’agire umano.

Costituisce una risorsa sociale, la cui disponibilità è diversa da individuo ad individuo e tra comunità e comunità.
Che cosa significa?
Che il tempo degli operai non è quello dei signori.
Che il tempo di una comunità di monaci non è quello di un collegio universitario o di una squadra di calcio.  Eccetera.
Non è tutto.

Il tempo è percepito anche come una risorsa, soprattutto economica, diversamente valutabile e valutata.

 

Fu Karl Marx che per primo nei suoi scritti lo definì come un qualcosa che possiede un valore. 
In altri termini, il tempo è una variabile economica dei processi di produzione e di conseguenza, esso costituisce un importante fattore nei processi di razionalizzazione della modernità.

 

Prima di chiudere questa breve parentesi ricordiamo le Banche del tempo.

 

Queste banche sono un tipo di associazione che si basa sullo scambio gratuito di “tempo”.

 

Ciascun socio mette a disposizione della banca una parte del suo tempo e, va da sé, della sua competenza.

Le ore depositate vengono valutate e poi accreditate o addebitate nella banca, in questo modo può anche succedere che non sia lo stesso socio a “rimborsarle”, ma un’altro.

 

Le aree d’intervento delle BdT – come vengono chiamate –  sono molto diverse, si va dalle lezioni di cucina alle manutenzioni della casa, agli accompagnamenti dei disabili o degli anziani, all’ospitalità, al babysitteraggio, alla cura dei giardini e del verde, alle ripetizioni scolastiche, alle lezioni di lingue, alla organizzazione di feste ed altro ancora.

 

In Italia sono nate ala fine degli anni Ottanta diffondendosi soprattutto in Emilia Romagna

Hanno avuto un boom intorno al 2000 e la loro particolare attività ha coinvolto persone assai diverse per età, condizioni sociali e culturali.

 

Oggi gli iscritti sono in prevalenza donne (circa il 70 percento).

L’età media si sta progressivamente abbassando in quanto l’utilizzo dell’informatica, mail e web, ha coinvolto anche le fasce giovani della società.

 

Le BdT collaborano spesso con altre associazioni similari – come sono i GAS i gruppi di acquisto solidali – e partecipano con propri progetti ai bandi pubblici o privati per il sostegno del volontariato previsti dalla legge 53/2000 e da varie leggi regionali.

 

Ci sono altri temi sensibili intorno alla relazione ambiente, individuo, natura.

 

Uno di questi temi, che compare sempre più spesso nel capitolo dedicato alle condizioni dell’ambiente naturale, è la nozione di corpo.

 

Oggi la sociologia del corpo è una disciplina indirizzata soprattutto alla costruzione di modelli esplicativi relativi al rapporto di reciproca determinazione (o restrizione) tra la società (ovvero i processi sociali) e il corpo (o unità psicosomatica).

 

Due autori che si sono occupati in modo specifico del corpo sono Georg Simmel e Marcel Mauss.

 

Lo hanno fatto in una prospettica culturalista creando i presupposto di una vera e propria sociologia del corpo o delle culture corporee successivamente elaborata anche da una grande antropologa inglese Mary Douglas (1921-2007).

 

Successivamente il corpo, come realtà fenomenologia, ha avuto un particolare rilievo nei lavori di Erving Goffman, Gregory Bateson e David Le Breton.

L’approccio in questi autori è essenzialmente di tipo strutturalista o se si preferisce funzionalista.

 

Viceversa l’analisi della relazione tra il vissuto, la corporeità, i processi socio-culturali che li riguradano è  centrale negli studi di due sociologi di origine austriaca, Thomas Lukmann (il cui libro più famoso è La realtà come costruzione sociale del 1966) e Alfred Schütz, che vedremo meglio più avanti per le sue ricerche sulla vita corrente è quello che la fenomenologia chiama Lebenswelt, cioè, mondi di vita.

 

Sempre sul tema del corpo e di ciò che rappresenta sia come elemento del mondo sensibile che espressione dell’individualità ricordiamo due filosofi francesi Jean-Paul Sartre e Maurice Merleau-Ponty oltre che lo psichiatra inglese Roland Laing.

 

Infine, da un punto di vista gnoseologico di grande importanza sono le riflessioni di altri due grandi pensatori francesi, George Bataille e Michel Foucault a cui dobbiamo la nozione di biopolitica.

 

Per Foucault la biopolitica è il terreno sul quale agiscono le pratiche con le quali la rete dei poteri costituiti gestisce le discipline del corpo sia in senso individuale che collettivo.

È di fatto un’area d’incontro tra il potere e la sfera della vita.

 

Il corpo in molti di questi studi è inteso soprattutto come una macchina comunicativa.

Una macchina che si può costruire con l’attività fisica, si può modificare con una divisa, si può trasformare in un messaggio con un tatuaggio.

 

Il discorso sul corpo riguarda anche alle cosiddette pratiche centrate sul corpo, perché servono a delineare, da una parte, gli stili di vita e, dall’altra, hanno un grosso risvolto economico, come sono le attività legate alla cosmesi, alla chirurgia plastica, alle diete, all’abbigliamento,  eccetera.

 

Cambiamo argomento. 

Passiamo ad un rapido esame delle istituzioni e delle organizzazioni formali

 

Cioè a quei sistemi relativamente stabili di relazioni, retti da norme specifiche, che assolvono o dovrebbero assolvere a funzioni e interessi della vita sociale come tale.

 

In altre parole le istituzioni e in parte le organizzazioni formali sono delle strutture sociali che amministrano e governano il comportamento degli individui.

In particolare le istituzioni materializzano o meglio danno visibilità ai principi giuridici fondamentali della forma di Stato, identificandosi con gli organismi politico-costituzionali che ne sono l’espressione.  

 

Costituiscono delle istituzioni formali i parlamenti, le forze armate, i ministeri, le fondazioni, i tribunali, eccetera.

 

Le organizzazione formali hanno, invece, una natura più privatistica, come sono un’azienda, una squadra di calcio, un club, un’associazione di volontariato, un partito politico…

 

Ciò che contraddistingue le istituzioni e le organizzazioni formali è il carattere della stabilità.

Esse sono stabili nella misura in cui vengono codificate dagli usi, dal costume dalle norme. 

 

Poi, a misura in cui sono stabili, tendono a caricarsi di valori immateriali, come per esempio il prestigio o l’affidabilità. 

Sono valori che consentono loro una certa autonomia, ponendole al di sopra delle parti e degli interessi di parte. 

 

La loro stabilità e la loro autonomia, infatti, hanno il potere di agire con autorevolezza sugli attori sociali condizionandoli, educandoli o indirizzandoli nella loro vita sociale.
Al limite, sanzionandoli.

 

Va anche sottolineato che le istituzioni e le organizzazioni formali sono profondamente intrecciate al meccanismo dell’interazione sociale.

Per definirla conviene partire dall’esperienza che ognuno di noi ha della società.

 

Non è difficile constatare che questa esperienza si materializza concretamente come l’insieme dei rapporti che intratteniamo a diverso titolo nel nostro habitat sociale.

Si tratta di un insieme di azioni e di reazioni  – da cui il termine interazione – mediante le quali gli individui entrano tra loro in contatto, comunicano, collaborano, giudicano…  

 

In breve l’interazione sociale è quella sequenza dinamica e mutevole di atti sociali fra individui o gruppi di individui che modificano le proprie azioni e reazioni a seconda delle azioni degli individui e dei gruppi con cui interagiscono. 

L’interazione, in sintesi, può essere intesa come il luogo primario in cui si forma, si ratifica, si trasforma il legame sociale. 

 

Da questa definizione si comprende anche come l’interazione sociale determini l’ordine sociale.
Ordine sociale che non si manterrebbe in equilibrio senza una costante e spesso lunga e silenziosa rinegoziazione dei suoi valori, delle sue norme, dei suoi saperi o delle sue credenze.

 

Perché l’interazione sociale è così importante?
Perché essa rappresenta il nodo intorno al quale si sviluppano gli studi del comportamento sia collettivo che individuale.

Questi studi, che confluiscono in quelle che oggi si chiamano le microsociologie, hanno come tema principale i cosiddetti rapporti face to face, cioè, i rapporti intersoggettivi. 

 

Diciamo che per definizione la microsociologie studiano i legami sociali elementari.

 

Il primo a rendersi conto dell’importanza di questi legami fu Georg Simmel che esaminò l’importanza di certi micro-fenomeni sociali come sono i segreti, l’amicizia, l’ubbidienza, la lealtà, la fiducia.

 

Oggi le microsociologie hanno come campo d’interesse i comportamenti, i ruoli, le interazioni sociali, i conflitti, le identità e il modo di formarsi dei processi decisionali.

Tra gli studiosi di queste microsociologie segnaliamo anche George Gurvitch (1894-1965), un sociologo russo, naturalizzato francese che studiò in particolare la funzione del fattore tempo nelle scienze sociali.

 

Qui, però, prenderemo in considerazione soprattutto gli studi di Alfred Schütz (1899-1959), uno dei primi ricercatori che si pose il problema di indagare le relazioni tra gli individui, nell’ambito della vita quotidiana.

 

Schütz era nato in Austria, ma dovette emigrare in America a seguito delle leggi razziali tedesche dopo l’annessione e lì, anche per motivi personali, si dedicò all’analisi del comportamento collettivo.

 

L’opera a cui noi faremo riferimento uscì nel 1932, s’intitola La fenomenologia del mondo sociale, è uno studio nel quale, partendo dalle ricerche di Max Weber, sviluppa le problematiche dell’agire sociale.

 

Egli definì la vita quotidiana, come l’insieme di azioni, di rapporti, di conoscenze e di credenze familiari all’interno dei quali, per così dire, scorre ciò che conta sul piano individuale e segna, con l’esperienza, l’esistenza degli individui.

Si tratta di quel insieme di relazioni che, il più delle volte consideriamo o passano per scontate, come salutare un conoscente, prendere un appuntamento, uscire in compagnia di amici per una cena, telefonare per informarsi sulla salute di un parente ammalato, avvertire casa per un improvviso contrattempo, mettersi d’accordo per andare ad un concerto, eccetera…

 

Come Alfred Schütz ebbe modo di dimostrare questi rapporti costituiscono il cemento dell’esperienza sociale di cui cogliamo l’importanza quando entrano in crisi o attraversiamo uno stato di eccezione – come furono per lui le leggi sulla razza.     

 

Esaminiamo brevemente e sotto questa luce alcuni caratteri della vita quotidiana.

 

Il primo di essi è la routine.
Costituisce il carattere più evidente della vita quotidiana e, per molti versi, anche il più sorprendente quando lo andiamo a focalizzare.
Questo carattere esprime la ripetitività e la prevedibilità delle azioni, dei comportamenti e dei pensieri.

 

La prevedibilità, in particolare, agisce sul comportamento abbassando il livello d’interesse dell’osservatore e/o dell’attore sociale e, così agendo, favorisce soprattutto un risparmio di energie.
Ma non è così semplice.

La ripetizione e la prevedibilità dei comportamenti possono finire per stimolare risposte automatiche o stereotipate, che abbassano il nostro grado di attenzione verso ciò che ci circonda. 

 

Perché ripetizione e prevedibilità sono così importanti per la sociologia?

Perché quando ripetitività e prevedibilità finiscono per invadere massicciamente il tempo della vita quotidiana noi siamo in presenza di vissuti che tendono inesorabilmente a deteriorarsi.

 

O, come dicono i filosofi sociali, siamo davanti ad una alterazione del quiora che induce ad una sorta di smarrimento sociale e, spesso, nei casi più gravi, a forme di angoscia e di disagio psichico.  

 

I processi interattivi generano anche un altro fenomeno, le tipizzazioni.

 

La tipizzazione agisce come uno strumento di previsione del comportamento.
È come dire, capovolgendo un proverbio popolare, che l’abito, a dispetto del nostro senso critico, fa il monaco.

La tipizzazione può essere involontaria, ma il più delle volte è il risultato di una scelta consapevole tra i vari modelli di comportamento che l’esperienza sociale ci fornisce.

 

Perché affermiamo che è consapevole?
Perché ciascuno di noi sa bene che ad ogni passo della nostra giornata come della nostra vita sociale siamo costantemente osservati, e qualche modo interpretati e giudicati.

Perché ciascuno di noi sa che gli altri reagiscono nei nostri confronti secondo il loro modo di essere, che si esprime attraverso il loro modo di interpretare e vivere le situazioni sociali.

 

Un altro aspetto importante dell’interazione sociale e quello che la lega ai processi della rappresentazione. 
Gli individui, infatti, non solo sono coscienti delle azioni e delle reazioni che questi processi comportano, ma, in genere, sono consapevoli anche dei loro effetti.  

 

Secondo Erving Goffman (1922-1982) a causa della consapevolezza che gli individui hanno di influenzare con le proprie azioni l’opinione che gli altri danno della situazione alla quale essi stanno partecipando, questi stessi individui finiscono (inevitabilmente) per comportarsi come se recitassero una parte, come se fossero attori su un palcoscenico.  
Come se vivessero dentro una rappresentazione teatrale o uno spettacolo.   

 

Goffman è un sociologo di origine canadese, ma è vissuto negli Usa ed ha studiato a Chicago.

Lo diciamo perché a Chicago ha operato una delle scuole di sociologia urbana più prestigiose degli Stati Uniti.

 

Uno degli scritti più importanti di questo studioso, uscito nel 1956, s’intitola, La vita quotidiana come rappresentazione.

Con questa opera, Goffman, introduce nella sociologia il concetto di prospettiva drammaturgica.

 

Il suo campo di ricerche principali sono stati gli aspetti trascurati della vita quotidiana, quelli che appaiono banali, ma che possiedono, in sé, una forte carica recitativa. 

Sono aspetti che, nelle società complesse, come quelle del mondo Occidentale, sono divenuti oscuri ed equivoci e che, sempre di più, vengono usati per offrire agli altri un’immagine in qualche modo valorizzata di noi stessi.

I sociologi americani definiscono queste situazioni, come abbiamo detto, face to face, perché rappresentano le piccole situazioni della vita di tutti i giorni.

 

Per analizzarle Goffman immaginò la vita quotidiana come se fosse un gioco di rappresentazioni.
Un gioco nel quale l’identità dell’individuo – che nella lingua inglese è definita con l’espressione

 

di self – coincide di volta in volta con le maschere che costui indossa sul palcoscenico della vita corrente.

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Prima di procedere spendiamo due parole sull’espressione di self, un’espressione con la quale nella lingua inglese si identifica l’identità dell’individuo nelle relazioni face to face. 

 

È un concetto molto usato anche in psicologia e in psicanalisi, da cui è stato mediato. 

Didier Anzieu, un decano della psicoanalisi francese ha scritto qualche tempo fa un libro divenuto un classico sui confini del self, intitolato, Le moipeau, (L’io-pelle). 

 

Perché è importante la nozione di self? 

Perché gioca un ruolo decisivo nel rapporto che noi abbiamo con il nostro corpo e il corpo degli altri. 

Non solo, perché il self caratterizza anche il modo con cui noi percepiamo la sostanza corporale con la quale siamo fatti e che non si limita a un po’ d’acqua, lipidi, aminoacidi, eccetera. 

 

La nostra esperienza della vita quotidiana ci dice che la percezione della nostra sostanza corporale cambia di contenuto davanti ai nostri occhi quando supera i limiti del self. 

In questo modo il self si è rivelato un concetto molto importante per studiare il gusto e il disgusto e il modo di percepire la prossimità con gli altri. 

 

Facciamo qualche esempio.  noi non abbiamo disgusto della saliva che si trova nella nostra bocca, ma se la raccogliamo in un bicchiere molto difficilmente riusciremo a rimetterla in bocca e  inghiottirla.  Perché? 

Perché quando le nostre secrezioni superano il limite del nostro iopelle ci diventano estranee, e simmetricamente, quelle degli altri ci provocano disgusto più si avvicinano a noi. 

 

É come se le vivessimo in modo intrusivo, è come se dovessimo difenderci da esse. 

La stessa cosa si può dire per il sangue, a noi non da fastidio succhiare il nostro sangue, che esce da un dito che ci siamo feriti affettando del pane, ma se questo sangue lo raccogliamo con una garza, difficilmente avremmo poi il coraggio di succhiarla. 

 

Di contro, il self diventa tollerante con le relazioni di vicinanza derivate da un’attrazione emotiva. 

 

Nelle relazioni intime il self diventa spesso un acceleratore dell’intimità, come nel caso della saliva del bambino che non è ripugnante agli occhi della madre, così come non lo sono le secrezioni dei nostri partner sessuali, ma che, attenzione, tornano ad esserlo se l’intimità viene spezzata da una separazione o da un litigio. 

 

Con il self, tra l’altro si possono spiegare anche molti dei meccanismi del feticismo, che trasformano la distanza e la familiarità degli oggetti che appartengono al soggetto amato.

(Test delle magliette dei giocatori di pallacanestro.)

 

In questo senso l’intimità come la tenerezza contaminano positivamente gli oggetti avvicinandoli a noi, facendoli diventare familiari, esattamente come il disgusto li allontana. 

 

L’identità soggettiva s’intreccia con un altro grande tema che abbiamo visto, quello della contaminazione e serve a completare il paradigma della prossemica, intesa come quel capitolo della semiologia che studia il significato del comportamento umano (gesti, posizioni, distanze posture) dal punto di vista dei processi comunicativi. 

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In questo quadro la vita di tutti i giorni è analizzata come una scena sulla quale si recita, una scena con i suoi attori, il suo pubblico, le sue quinte, dove spesso gli attori contraddicono quello che hanno detto davanti ai riflettori.

Su questa scena gli attori si mettono in gioco, si presentano, si alleano, si scontrano s’ingannano, mostrano la loro capacità d’impersonare un ruolo, s’immergono o prendono le distanze dalle situazioni che li coinvolgono 

 

Occorre persi una domanda.

Gli individui sono coscienti di recitare una parte sociale?

 

Per Goffman lo sono sempre, anche se non sempre ne sono totalmente consapevoli.  

 

In certe occasioni questa recitazione è assolutamente partecipata, in altre è come una parte recitata mille volte, che diventa quasi automatica, in altre ancora è recitata di malavoglia.

 

C’è poi da considerare ancora una cosa, come l’Altro o gli altri giudicano chi sta recitando. 

 

Questo perché, in base a come chi sta osservando valuta la spontaneità, o se volete, l’abilità, o la qualità della recitazione dell’altro o degli altri suoi interlocutori, ne tira delle conclusioni che, a sua volta, influenzeranno il suo modo di comportarsi.
Come in una partita a ping-pong, ogni tiro a sua volta provoca una reazione di tiro, che a sua volta provoca una reazione…e così via….

 

Passiamo ora ad un altro argomento chiave del discorso sociologico: i gruppi.

 

Da qualche tempo a questa parte i gruppi sono studiati da una specifica disciplina chiamata analisi  gruppale.

Il riconoscimento dell’importanza dello studio dei gruppi lo dobbiamo, per quanto ci riguarda, soprattutto ad uno psicanalista inglese, Wilfred Ruprecht Bion (1897-1979), che a sua volta lo riprese dagli studi di Maxwell Jones (1907-1990) sulle piccole comunità terapeutiche.

 

Come abbiamo visto per le masse, un gruppo non si riduce alla somma delle coscienze e delle volontà individuali che lo compongono, anzi, è più facile il contrario, che il gruppo trasformi l’individuo che ne fa parte.

 

In sociologia si definisce gruppo sociale un insieme di persone che entrano in qualche modo in rapporto reciproco, sulla base di valori o interessi comuni.

 

Oppure, in una forma più articolata:
Un gruppo è un insieme d’individui che interagiscono fra loro influenzandosi reciprocamente e che condividono, più o meno consapevolmente, interessi, scopi, caratteristiche e norme comportamentali. 

 

Che cosa distingue un gruppo da una folla o da una comunità di persone?

Il fatto che nella folla, nella comunità o, più in generale, in un’aggregazione di persone, come è, per esempio, un grande ufficio, una scuola, un quartiere, non esiste un’interazione diretta tra tutti gli individui, o, più semplicemente, questi individui non costituiscono un insieme organizzato.

 

Prima di procedere con i gruppi distinguiamoli subito da un’altra figura della topografia sociologica, le categorie sociali.

Le categorie sociali rappresentano dei gruppi impropri o degli pseudogruppi.

Esse sono, in genere, il risultato di una costruzione teorica deliberata mediante la quale gli studi sociali raggruppano idealmente o teoricamente in una stessa unità individui con caratteristiche comuni, al fine di poterli monitorare.

 

Quanto agli aggregati, essi costituisco dei semplici gruppi casuali.

Rispetto ai gruppi veri e propri gli aggregati mancano di una struttura, sono limitati nel tempo e soprattutto mancano di quella qualità delle relazioni interpersonali che costituiscono l’essenza dei gruppi.

 

Vediamo le tre caratteristiche che distinguono un gruppo.
– I membri del gruppo interagiscono tra di loro in modo strutturato secondo le norme o i ruoli che il gruppo si è dato.

– I membri del gruppo hanno la coscienza di essere un gruppo o, meglio, maturano un sentimento di appartenenza al gruppo che, tra l’altro, funziona da barriera nei confronti degli estranei.

– Il gruppo è percepito come un gruppo da parte di chi non ne fa parte.  Vale a dire il gruppo ha un’identità esplicita e assolutamente percepibile dall’esterno.

 

Quanto ai gruppi in sé possiamo distinguerli in molti modi.
La classificazione più importante è quella tra gruppi primari e gruppi secondari. 
    
I gruppi primari sono anche detti piccoli gruppi.
Il loro carattere principale è la forte integrazione, tipica, per fare un esempio, delle famiglie o delle bande.
Per definizione i gruppi primari sono costituiti da pochi individui.

I gruppi secondari o grandi gruppi sono gruppi composti da un numero elevato di membri.
Sono gruppi nei quali le relazioni interpersonali appaiono neutre e, spesso, il rapporto tra il singolo e gli altri membri è di natura strumentale, cioè, funzionale ad uno scopo.

 

L’esperienza sul campo ha dimostrato che appena il numero dei membri di un gruppo supera la mezza dozzina c’è una tendenza, che si può definire spontanea, alla formazione di sottogruppi, dove le affinità sono più forti.

 

Quando, poi, il numero dei membri di un gruppo secondario supera la dozzina è molto probabile che all’interno del gruppo si formi un portavoce o che un membro lo coordini.

A questo proposito si è constatato che in qualsiasi gruppo, prima o poi, emerge la figura di un leader.

La velocità con cui questa figura si forma è proporzionale alla grandezza del gruppo.
Più il gruppo e grande e prima si costituisce una leadership.  

 

Nella leadership si possono distinguono tre stili:

Quello autoritario, quello democratico e quello improntato al “laissez-faire”. 

 

Nel primo caso la struttura è molto gerarchica e si caratterizza per la direzione degli ordini che influenza il comportamento del gruppo, sempre dall’alto verso il basso.
Questi ordini, in genere, non sono mai messi in discussione, cioè, si subiscono.

 

La struttura dei gruppi che possiamo definire democratici è caratterizzata dal consenso della maggioranza, vale a dire da un’accettazione consensuale dei programmi del gruppo.

 

La leadership dei gruppi improntata al laissezfaire si caratterizza dalla mancanza di una vera dirigenza.  In questi gruppi la leadership si limita, in pratica, a far emergere e a gestire le iniziative dei sottogruppi.

 

Ricordiamo anche una particolare forma di gruppo, i gruppi di riferimento.

 

Sono quei gruppi che s’ispirano all’opera di altri gruppi, in questo senso possono essere gruppi di riferimento positivi o negativi.

Quelli positivi, in genere, si possono definire ed appaiono dall’esterno come una specie di gruppi ideali.

Quelli negativi, invece, sono gruppi di riferimento con i quali prima o poi emergono delle tensioni che possono anche alimentare delle situazioni di conflitto.

È più raro, ma anche i gruppi negativi possono avere dei riferimenti non reali o tra virgolette, ideali.

 

In generale i gruppi di riferimento negativi compaiono in quei gruppi che si formano per reazione contro l’ambiente in cui vivono, per i motivi più diversi, sia materiali che ideologici, come nel caso delle sette sataniche, delle bande di tifosi o nelle organizzazioni criminali.

Per esempio il mito di Al Capone o delle famiglie mafiose americane.

 

Nella democrazia rappresentativa, come dovrebbero essere le democrazie moderne, una forma di gruppo di una certa importanza è il gruppo di pressione.

 

Questi gruppi sono anche detti gruppi d’interesse. 

In genere sono strutturati nella forma del collettivo che si mobilita per difendere specifici tornaconti, anche ideali, come sono per esempio i gruppi ambientalisti.

 

Quando i gruppi di pressione sono organizzati e la loro azione è diretta in modo specifico ad agire sui centri di potere, con lo scopo di influenzare pubblicamente determinate scelte politiche, economiche o etiche, si definiscono lobby.

 

Questi gruppi di pressione organizzati sono tipici dei paesi di lingua inglese, in cui la corruzione (sotterranea) è severamente sanzionata e le lobby sono, in qualche modo, istituzioni formali accettate, se non altro come un male minore che si vede e che si può contenere.

 

Il tema dei gruppi nelle scienze sociali è legato a un altro grande tema, quello delle gerarchie sociali.

 

Qui, non abbiamo il tempo per approfondire i motivi, oltre a quelli economici, per i quali  nelle società si formano le gerarchie, anche perché questo è più un argomento di antropologia e di politica che di sociologia generale.

Alla sociologia compete piuttosto lo studio della posizione sociale di un individuo o di un gruppo all’interno di un sistema di relazioni che formano la struttura sociale di una società.

Questa posizione si definisce status.

All’origine questa espressione apparteneva al linguaggio giuridico.  Oggi, negli studi sociologici è connessa al concetto di ruolo.

Il ruolo esprime l’aspetto dinamico (o esecutivo) dello status
Il termine di status, oggi s’impiega soprattutto per indicare il prestigio assegnato a ciascuna posizione nell’ambito della stratificazione sociale.

Gli status, poi, possono essere ascritti o acquisiti dalla persona.

Quelli ascritti sono quelli presenti al momento della nascita.

Quelli acquisiti sono gli status ottenuti nel corso della vita, in genere, si ritiene, per meriti specifici, dunque, sono spesso, nell’ambito delle democrazie, più importanti di quelli ascritti.

Per quando riguarda i modelli della stratificazione sociale diciamo che le due configurazioni più importanti sono i modelli chiusi  e i modelli aperti.

In un sistema sociale chiuso i confini tra status e status sono chiari e definiti, appaiono, da un punto di vista storico, come se fossero congelati.

In quelli aperti, invece, il confine tra gli status può variare con il successo personale, la fortuna, il caso, l’iniziativa o l’intraprendenza personale.

 

Nella società occidentale va anche costatato, a partire dalla seconda metà dell’800, una costante trasformazione dei ceti in classi. 

Questa metamorfosi costituisce uno degli effetti della rivoluzione industriale e delle forme di democrazia che in essa si sono sviluppate. 

La rivoluzione industriale, di fatto, contribuì a ridurre ogni differenza sociale ai soli fattori economici e all’effettivo controllo della ricchezza.

 

I suoi esiti sono ben visibili all’interno delle due classi che si affermarono come le due sole classi protagoniste della storia della modernità, la borghesia e il proletariato.

 

Va però notato come, da alcuni decenni a questa parte, nei paesi dell’area temperata del pianeta, le classi si stanno disfacendo nella loro forma storica per ridisegnarsi su altri valori, come sono quelli della conoscenza e dell’accesso all’informazione e all’educazione. 

 

Tutto ciò da e darà vita ad altre forme di conflitto tra le quali, di una certa importanza, saranno

– quelle di natura generazionale che coinvolgeranno i cosiddetti nativi digitali,

– quelle tra i localismi,

– quelle legate all’equa redistribuzione delle risorse naturali, come da tempo è il caso del petrolio e di recente dell’acqua o del controllo climatico.   

 

A questo proposito ricordiamo che i paesi della fascia temperata del pianeta terra costituiscono un terzo della popolazione mondiale e consumano i due terzi dell’energia totale prodotta.

In un rapporto del 2006 delle Nazioni Unite sulla distribuzione del benessere economico si afferma che l’uno per cento della popolazione mondiale detiene il quaranta per cento del patrimonio finanziario e immobiliare mondiale, pari a 125mila miliardi di dollari, mentre il cinquanta per cento della popolazione mondiale accede solo all’uno per cento della ricchezza planetaria.

È indubbio che, in questo scenario, uno degli obiettivi delle scienze sociali dovrebbe essere quello di contribuire a rielaborare degli stili di vita che consentano di riequilibrare questo stato di cose prima che sia troppo tardi.

 

 

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