PROLEGOMENI A UNA DEFINIZIONE DI ARTE 2.
Facciamo un altro passo in avanti e consideriamo come la nozione di arte sia finita, nel tempo, con il particolarizzarsi.
L’espressione ars, in latino, traduceva l’idea greca della techne, una parola che ha uno spettro semantico molto vasto e che rinvia all’arte del saper fare secondo le regole.
Noi abbiamo separato le due parole. Con il primo termine indichiamo l’arte nel senso di “belle arti”. Con il secondo la tecnica.
In questo modo si è smarrito il sincretismo originario di artigiano ed artista.
Poi, nel Medio-Evo si cominciò a distinguere tra le arti liberali ( astronomia, grammatica, ecc.) e le arti meccaniche.
Nel corso del Rinascimento l’arte subisce una nuova trasformazione, il suo concetto diviene inseparabile da quella di opera.
Di fatto nel Settecento la separazione tra arte e tecnica è completamente consumata.
L’espressione di belle arti si comincia a definire in opposizione a quella di arti e mestieri.
Un’opposizione, tanto nostalgica quanto in malafede, per l’amore che rivela per le piccole cose di pessimo gusto o, se si preferisce, per la paura che esprime verso il “macchinismo”.
In ogni modo si rivaluta anche la tecnica, facendo diventare ciò che è servile, utile.
Infine, con la modernità l’arte abbandona la terra della pratica per salire al cielo della metafisica, là dove un tempo abitavano le religioni.
In questo modo, il genio e il suo prodotto, definito un frutto della creatività, finiscono per prendere il posto un tempo riservato ai santi e agli eroi.
Si potrebbe aggiungere che, con la rivoluzione industriale, di fronte all’industria e alla banca, l’arte esige di essere considerata una forma di culto da cui l’industria e la banca traggono un conforto per la loro anima, anche se in odore di feticismo.
Una inevitabile sbavatura dei processi di valorizzazione.
Arriviamo a noi. Da qualche tempo l’arte ha anche promosso, per così dire, la sistematica distruzione dei miti che essa stessa aveva creato.
Perché quest’ultima trasformazione? Per rassicurare se stessa, anche se può sembrare paradossale.
La spiegazione ce la suggerisce la psicoanalisi.
Al di là del principio di piacere, Sigmund Freud analizza il meccanismo ossessivo compulsivo del Da/Fort (qui/via) con cui il bambino, giocando, si compensa, vale dire, allontana da sé il giocattolo, cioè, il sostituto della madre, per il piacere di attirarlo/a di nuovo a sé.
L’arte, nella modernità, è divenuta così onnipresente che ha finito per pretendere d’inglobare tutto ciò che l’ha contestata o la contesta.
In che modo? Mettendo, per punizione, le opere create contro di essa là dove esse totalmente annientate, nei musei, affidando alle istituzioni il compito riabilitativo.
È per certi versi quello che è successo a Marcel Duchamp, anche se molti continuano a credere che la sua radicalità sia sopravvissuta all’internamento museale e altri che abbia volontariamente giocato il ruolo di un nuovo Candide.
Ma perché questa “punizione” delle opere ribelli?
Perché nell’arte c’è una cosa che non si può contestare a nessun costo. L’illusione della rappresentazione.
Torniamo a Duchamp e al suo primo ,ready-made, il portabottiglie.
È facile constatare che questo portabottiglie, una volta che è stato scelto da Duchamp tra i tanti delle bottiglierie parigine, non è più un portabottiglie.
Ma questo lo abbiamo detto, è l’artista che “fa” l’opera è l’istituzione che la legittima e la valorizza.
Vediamo alcune coppie di predicati e alcuni luoghi comuni.
Stile e singolarità. La singolarità nell’opera d’arte indica la sua unicità e la sua imprevedibilità valoriale. In questo senso la serie, che esalta il successo della tecnica, rappresenta la morte dell’arte, anche se non la morte dei processi di valorizzazione. La riproduzione, infatti, come l’imitazione, possono avere un senso simbolico, funzionale o propedeutico, ma non servono all’istituzione sul piano economico.
Per la filosofia, la banalità è l’essenza del “qualsiasi cosa”, ma essa vale solo sul piano della funzione. L’originalità, che rappresenta il contrario della banalità, non è soltanto un cominciamento, cioè un principio per il quale l’originale ingloba l’originalità, ma è anche la condizione logica della possibilità, cioè, un principio reale di produzione.
Il principio di originalità è, in sé, dialettico perché non solo scandisce lo spazio e il tempo della cultura con la discontinuità, ma è proprio grazie alla discontinuità che l’istituzione inaugura una continuità possibile.
Il reale e l’ideale. È a Platone che dobbiamo la definizione di opera d’arte da cui derivano tutte le altre, come una manifestazione sensibile dell’Idea, l’arte non ha mai perso la funzione di traghettatrice tra mondi diversi. La sua responsabilità nel generare le buone e le cattive passioni degli uomini, i processi di catarsi del senso o, per usare in modo riassuntivo un’espressione freudiana, l’arte non ha mai perso il suo potere di sublimare.
La dimensione esistenziale e metafisica dell’arte. Gli uomini hanno elaborato l’arte per non finire uccisi dalla filosofia, diceva Friedrich Nietzsche. Se osserviamo bene, in quasi tutte le culture l’origine delle opere d’arte è sacra, il loro uso crudele. In particolare nelle culture primitive essa viene sempre dall’altrove e, comunque, da una o più divinità.
È in questo senso che Sigmund Freud ha sostenuto che l’arte è il solo dominio nel quale la volontà di potenza degli uomini abbia mantenuto i suoi poteri e sappia come esercitarli.
Da qui, un’antica credenza che si può definire universale, quella di un potere magico delle arti.
Questo potere ci permette di formulare due spiegazioni sul perché in tempi remoti si dipingesse sulle caverne l’attimo in cui, l’animale cacciato, è colpito dalla freccia o dalla lancia.
La prima afferma che, l’animale per essere ucciso realmente, deve essere prima ucciso simbolicamente. La seconda che, la rappresentazione, allontana la vendetta del fantasma dell’animale ucciso.
In breve, con il sublime l’arte appare vittoriosa su tutto ciò che può schiacciare l’uomo: lo scacco, la sofferenza, la morte.
Un concetto che si riflette nella leggenda greca sull’invenzione dell’arte che dobbiamo alla figlia di un vasaio chiamato Dibutades. Questa ragazza fissò sul muro la traccia del contorno dell’ombra del suo amante prima che partisse per la guerra. Cosa ci suggerisce l’aneddoto? Che per la cultura greca la presenza dell’arte era qualcosa che s’imponeva al di là della vita.
Il passato dell’uomo, la sua storia, la storia della sua esistenza non vivono che in forma di tracce, materiali e immateriali, le tracce della memoria.
Degli uomini di Tassili – una parola che in berbero significa altipiano – nel Sahara algerino, il maggior centro di arte rupestre dell’Africa settentrionale, noi non abbiamo né i resti dei loro scheletri, né dei loro utensili, si sono conservate solo le loro magnifiche pitture.
Possiamo anche dire che l’arte testimonia il rifiuto di tutto ciò che è effimero, perché non è tanto la morte che spaventa la memoria degl’uomini, quanto l’idea di sparire.
Tuttavia, il tempo dell’arte non appartiene solo alla storia, ma anche a se stessa.
C’è un certo modo di vedere una silice preistorica o una statua antica che non è il modo della storia, ma lo stile dei processi anacronistici.
Questo modo fa evaporare le centinaia di secoli che ci separano dalla straordinaria e irripetibile esperienza della pittura, per fare un esempio, delle grotte di Chauvet, un paesino a cavallo tra il Limosino e l’Alvernia. La grotta principale di questo sito, lunga circa cinquecento metri, si trova all’interno della montagna e contiene numerose pitture rupestri risalenti all’uomo di Cro-Magnon, del primo paleolitico. Sono circa quattrocentocinquanta opere databili tra i trenta mila e i ventimila anni fa.
La stessa cosa non è possibile con la tecnica, perché il tempo mette in continuazione i suoi prodotti fuori dalla storia e a velocità sempre più crescente.
L’arte e il reale. Esistono tre modi di comprendere l’arte. Come rappresentazione, come creazione e come produzione. La rappresentazione esprime i legami di dipendenza dell’arte dal reale.
La creazione sottolinea la libertà sovrana dell’artista sulle cose del mondo. La produzione identifica l’opera come il risultato di un lavoro.
In questo modo la rappresentazione è un pensiero dell’arte post rem. La creazione è un pensiero dell’arte ante rem. La produzione un pensiero dell’arte in re.
Ancora, la rappresentazione fa dell’arte una realtà che deriva da un dato supposto reale. La creazione vi scorge le stigmate dell’origine assoluta. La produzione un risultato relativo.
Ora, se l’opera d’arte è un lavoro realizzato in un dato campo da un uomo con certi materiali e in determinate condizioni sociali, culturali e storiche, allora l’opera d’arte è ciò che unisce una società e un artista attraverso un codice.
Rispetto alla società l’arte può così avere tre funzioni differenti. Una funzione di giustificazione, vale a dire una funzione di riflesso di una realtà che giudica unica o sostenibile.
Una funzione di lotta, l’artista è un ribelle che si serve della sua arte come un’arma al servizio di una causa.
Una funzione di fuga, l’artista coltiva nel suo immaginario la volontà di esprimere, con le sue opere, il desiderio di separarsi da una realtà considerata oppressiva.
Dopo la rivoluzione industriale le due ultime funzioni hanno determinato l’arte del mondo occidentale, ma la prima ha avuto ed ha una dimensione universale.
Non ci sono Rimbaud ad Aden in Arabia, semmai ci vanno per diventare avventurieri. Non ci sono Malevic in Senegal.
In altri termini, si deve prendere atto del fatto che l’arte giustifica sempre, anche se spesso lo fa in negativo, la società che la produce perché essa ne veicola i valori e il senso.
Questa osservazione è importante per capire come davanti ad un’opera di una cultura che non conosciamo, si possa provare un sentimento di estraneità che interdice la relazione estetica.
A complicare le cose c’è poi il problema della tecnica, con la sua dimensione materiale (materiali, supporti, utensili) ed immateriale (il saper fare procedurale).
Questa dipendenza, nella modernità, dell’arte dalla tecnica è così forte che si può legittimamente parlare di un rapporto di determinazione.
In architettura, per esempio, è facile vedere come spesso la forma deriva dalla struttura e la struttura deriva dai materiali usati, così come, in modo più sottile, in musica la forma è suggerita dagli strumenti usati.
L’acciaio e il cemento consentono quello che il legno e la pietra interdicono. Le sonate di Mozart al clavicembalo, uno strumento che si pizzica, hanno tutta un’altra dimensione di quelle di Beethoven composte per il pianoforte che è uno strumento a corde percosse.
Lo stile, in breve, non è solo una questione creativa, ma anche di tecnica e gli effetti della tecnica non sono sempre semplici e diretti.
Ripartendo meglio la spinta delle forze, l’ogiva ha permesso la costruzione di edifici più alti, con muri più sottili, che possono essere svuotati senza rischi a favore delle vetrate. Un’operazione impossibile all’architettura romana.
Ma ci sono altri problemi, perché la tecnica può creare un arte.
È stato il caso del cinema.
Sarà, quanto prima, nell’ambito della cultura occidentale, il caso dell’immateriale informatico.
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