Racconti gourmand. Sedici.
Lo conobbi a Parigi, in Italia non aveva avuto successo, ma vantava un’amicizia con André Breton e una assidua frequentazione dei fondi manoscritti delle biblioteche a cominciare da quello dell’Arsenal. Diciamo che era un artista affascinato dal fantastico e dall’insolito, distratto dalle passioni.
Nel breve tempo che vissi a Parigi c’incontravamo, quando ce lo potevamo permettere, alla brasserie Balzar, un’istituzione del Quartiere Latino, al cuore di quel triangolo costituito dalla Sorbonne, dal Collège de France e dalle facoltà di medicina e di legge. Ci teneva a prenotare sempre lo stesso tavolo, era convinto che fosse quello a cui si sedeva Albert Camus. A me andava bene, anche perché di tanto in tanto si accomodava in una saletta attigua Louis Malle con gli amici. Una volta, lo ricordo come se fosse oggi, accompagnato da Jeanne Moreau di cui ero perdutamente innamorato e alla quale chiesi un autografo che mi negò con un sorriso dandomi una sua foto di scena, se poi chiudo gl’occhi risento ancora l’odore del tabacco inglese della sua pipa, che immancabilmente accendeva al momento del caffè e del bicchierino finale. Avevo visto il suo Le feu follet (1963) mezza dozzina di volte, un film tratto dall’omonimo Fuoco Fatuo, di Pierre Drieu La Rochelle con le musiche di Eric Satie, una rivelazione che mandò a carte quarantotto tutte le mie convinzioni su quella che allora si chiamava incautamente la stagione post-dodecafonica.
Ad essere sincero devo aggiungere due circostanze, che l’omelette che mi facevo preparare dopo la zuppa di cipolle era sempre un perfetto “pesce d’uovo”, come la chiamavano i futuristi, infiocchettata da una cimetta di prezzemolo, ma sempre inspiegabilmente indigesta. Non me ne curavo, anzi siccome ogni volta rubavo un paio di posate, grandi, pesanti, di alpaca argentata con tanto di blasone, mi sentivo risarcito.
Ti ho raccontato di quella volta che…l’incipit del mio ospite era sempre lo stesso, una lunga parentesi tra il secondo e il dessert e proseguiva con una domanda, come in questo caso.
Hai mai conosciuto un urofilo? No. Sentiamo.
A Roma c’è un club di urofili molto riservato è composto per lo più da alti ecclesiastici e da alcuni esponenti della nobiltà nera che s’incontrano ogni tre, quattro settimane in un villino appartato di fine Ottocento, circondato da uno splendido giardino, sulla collina di Monteverde.
Gettato l’amo il mio ospite aspettava che lo implorassi di continuare.
Beveva un sorso di Beaujolais della casa e proseguiva. A turno questi ecclesiastici organizzano la cena, niente di particolare, un brodino, pesce o carne bianca, verdure cotte, mele al forno con gli amaretti o un gelato alla crema, che fanno preparare da un gruppo di suorine delle tante missioni che hanno sede a Roma. Cosa ben diversa è l’aperitivo. Le cene si svolgono di regola il venerdì, il martedì l’incaricato di turno manda un suo uomo di fiducia o il suo autista a comprare delle pagnotte di pane senza sale presso una famosa panetteria di Trastevere. Glielo fa tagliare a grossi tocchi e qui inizia il bello. Perché costui deve girare per tutta Roma e depositare tre o quattro di questi tocchi in ognuna delle vaschette che stanno alla base degli orinatoi nei Vespasiani.
Per farne che? Beh, il venerdì mattina presto ripassa per gli stessi orinatoi e recupera ciò che resta del pane, lo ripone in un contenitore e lo porta alle suorine. Queste lo parano, scartano quello troppo sfatto o sporco di cenere di sigaretta e di escrementi e lo sistemano su dei vassoi d’argento che ripongono al fresco. La sera al momento dell’aperitivo lo servono assieme alle bevande, Champagne Gosset, succhi di frutta, acqua minerale.
Ma tu come lo sai? Una volta, dopo molte insistenze e favori, riuscii a farmi invitare ad una di queste cene, debbo dire che mi divertii moltissimo anche se non ce la feci ad assaggiare questi strani appetizer. Ricordo che, cercando di essere il più discreto possibile chiesi a chi mi aveva invitato perché lo facessero. Mi rispose con un sorriso disarmante. È la nostra comunione laica. Poi, abbassando la voce, aggiunse. Una volta siamo riusciti ad avere del pane benedetto dal sorriso verticale di certe suore di un convento fuori città, una vera pioggia divina, ricca di profumi, assolutamente inebriante.
Qualche settimana dopo mi regalò di Brantôme Vies des Dames Galantes in un’edizione numerata del 1886, in Italia si trova nella traduzione di Alberto Savinio, ma io ricordo quella che ci passavamo sotto banco al liceo, maldestramente tradotta con Le signore compiacenti. Tornato a Milano contraccambiai con una copia di Tropico del Cancro di Henry Miller, autografata dal suo traduttore, Luciano Bianciardi e glossata dall’editore con la scritta: Questa edizione è destinata al mercato estero.
Altri tempi. Un consiglio ai giovani lettori, cercate la Storia di Florrie, di Havelock Ellis, un libro ideale per qualche giorno di pioggia e un bicchiere di birra. Chi sa, sa.
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