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Corso Food-Design a.a. 2011-12 – Design degli atti alimentari – (5 di 5)

(E’ possibile scaricare il testo integrale in formato PDF da questo link: Corso Food-Design a.a. 2011-12)

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L’alimento come oggetto sensoriale totale.

La soddisfazione nel mangiare un cibo non dipende solo dal sapore, dal modo in cui è preparato il piatto e dall’odore che emana, ma anche da ciò che ci aspettiamo da esso e dalle circostanze in cui lo consumiamo. Si può dire che all’esperienza orale si coniugano delle modalità sensoriali diverse: gustative, tattili, olfattive, termiche. Nella lingua inglese questa alleanza tra i sensi si avvale di un’espressione particolare, flavour (dal francese arcaico flaveur).

L’importanza dell’odorato negli atti alimentari è data per scontata, ma lo scopriamo solo quando esso viene a mancare. Con l’odorato gli uomini hanno appreso a costruire il valore di un alimento, tanto che l’eventuale disaccordo tra ciò che abbiamo in un piatto e il suo odore suscita quasi sempre diffidenza o rifiuto. Non a caso l’anosmia, la perdita della capacità di percepire gli odori, qualunque sia la sua origine, da trauma o per patologie di tipo neurologico come il morbo di Parkinson o l’Alzheimer, viene considerata un handicap terribile che trasforma gli alimenti in cose indifferenti. L’odorato, poi, nella formazione del gusto, interagisce sia con la temperatura degli alimenti che con la loro consistenza, quest’ultima, in particolare, modella la qualità della gustazione, essi possono essere molli o solidi, vischiosi o croccanti, fondenti, untuosi, liquidi, granulosi, vellutati, piccanti, astringenti, cremosi, ognuna di queste condizioni interviene nella formazione del processo gustativo, molte ricerche su questo tema mostrano come la consistenza spesse volte è una discriminante nella scelta di un alimento. In svariate culture la consistenza è addirittura al primo posto nell’apprezzamento di un alimento.

Presso i Gbaya’bodoe, un’etnia ad ovest della Repubblica Centroafricana, il verbo tam, che significa gustare, rinvia a tredici modi diversi di farlo, per la sola consistenza di molle ci sono ben dodici termini per esprimerla.

Presso i Dogons, una etnia del Mali, ci sono due verbi che indicano il mangiare. Uno si usa per i cibi a consistenza molle, come sono i cereali bolliti, l’altro, che possiamo tradurre con masticare, si usa per i cibi che appunto esigono una masticazione. In questa cultura la testura di un alimento decide spesso del suo apprezzamento.

Abbiamo già accennato all’importanza della sonorità di un alimento non solo per i pop-corn e le patatine industriali, ma per lo stesso pane, è la pressione della mano su di esso e il rumore della crosta che cede che determina l’acquisto di una pagnotta piuttosto che un’altra.

Così come abbiamo già visto l’importanza del colore. La soglia gustativa del sapore di base si altera se il colore standard di un alimento è alterato. Altro elemento chiave è la cerimonia che accompagna un piatto. Nei festini medioevali compaiono spesso dei piatti il cui unico scopo era di nutrire gli occhi. Nei pasticci si nascondevano, farfalle, uccelli, addirittura nani. È interessante il racconto di Walter Scott, Peveric of the Peak (1822), in cui compare un nano che aveva fatto dell’arte di rinchiudersi dentro i pasticci una professione. I cigni e i pavoni spesso erano portati a tavola rivestiti dei loro piumaggi e con i becchi colorati di polvere d’oro. I rombi adagiati su letti di lini ricamati, i crostacei montati a monumenti. Addirittura c’erano i cosiddetti entremets de paintrerie. Il pasto medioevale, iniziava con boudins, saucisses e frutta fresca, proseguiva con i potages e carni diverse bollite, poi venivano i rôts di carni bianche e selvaggina, oppure pesci se il regime era di magro. Gli entremets, come suggerisce il nome, in principio erano delle preparazioni alimentari che si servivano durante i tempi morti di un pasto, come quelli per lo sbarazzo dei tavoli tra una portata e l’altra, oggi sono sinonimo di dessert. Si mangiavano soprattutto con le mani e accompagnavano gli entremets éleveés e gli entremets de paintrerie. C’erano delle corti che divennero famose per questi entremets come quella di Borgogna o dei duchi di Savoia. Erano delle grandi e complesse architetture in materiali diversi al cui interno o tutto intorno venivano sistemati dei cibi. Molte di queste costruzioni, con scene di caccia, mitologiche o silvestri costituivano dei veri e propri gruppi scultorei, con fontane, castelli e scene di genere, come per esempio San Giorgio che uccide il drago. Spesso costituivano l’intermezzo tra la colazione e gli spettacoli del pomeriggio e della cena. (Cfr., Liliale Plouvier, L’Europe se met à table, Bruxelles 2000.)

Insomma, fin oltre il Rinascimento la dimensione ostentativa degli alimenti era essenziale come e più del sapore. Oggi, la glaciazione, che inaugura la nuova cucina a cavallo tra la fine del Novecento ed oggi, spinge, come abbiamo visto, verso una dimensione segnica, cioè, verso l’estetizzazione delle preparazioni alimentari prese di per sé, verso la loro affabulazione retorica caratterizzata dagli stilemi del post-moderno e dell’arte contemporanea. L’aspetto formale, e cerimoniale in particolare, rappresenta uno dei caratteri della cucina cinese che da tempi molti lontani ha coltivato la multisensorialità dell’esperienza gustativa. Ricordiamo che la cucina cinese, insieme all’occidentale e all’indiana, è uno dei tre grandi archetipi che hanno influenzato tutte le altre cucine nel mondo. Un bravo cuoco cinese deve saper gestire allo stesso modo il sapore, l’odore e la visione, organizzandoli secondo una dialettica culturale antichissima e molto rigorosa.

In Estremo Oriente si arriva addirittura a de-odorizzare dei prodotti per evitare che certi aromi siano sopraffatti da altri. Le marinature, al contrario, sono usate prevalentemente per aromatizzare – attraverso la macerazione – gli alimenti che ne sono privi, come le carni o i pesci. Lo stesso taglio di un alimento molte volte ha il solo scopo di esaltare un colore. Non a caso nella cucina cinese si distinguono più di duecento tipi di taglio e ogni taglio ha un valore simbolico ed estetico canonizzato dalla tradizione. La stessa idea di disordine è considerata uno sfondo possibile o una cornice che può valorizzare l’ingrediente principale.

In Giappone, la cucina delle grandi occasioni prevede che il piatto prima di essere gustato deve essere visto e meditato, fino al punto che la preparazione di un piatto inizia con la scelta del vasellame, cioè, in chiave semiotica, con la scelta del suo campo operativo.

Junishiro Tanizaki (1886-1965) uno dei più grandi scrittori giapponesi, nel Libro d’ombra (1933) (In’ei raisan), scrive che “un piatto di ceramica non è da disprezzare, ma alla ceramica fanno difetto la qualità dell’ombra e quella profondità che hanno solo le lacche. La ceramica, poi, al tocco è pesante e fredda, permeabile al calore e inadatta agli alimenti caldi. Meglio le lacche, “che sono leggere e dolci compagne dell’occhio.” In questo libro Tanizaki, tradizionalista, decadente e feticista, dedica molte pagine a quella che lui definisce la dimensione morale dei piatti, cioè, alla perfetta fusione tra colore, consistenza e sapore. Una fusione di sensazioni che ha lo scopo d’innalzare l’oscurità della materia alla preziosità del gusto.

Per venire più vicino a noi, l’impiego dello zafferano nella cucina magrebina e giudeo-cristiana riflette l’importanza dell’aspetto visivo dei piatti. Il gradimento visivo è in Medio Oriente un modo di partecipare alla commensalità. Il colore verde, il colore di Maometto, è portatore di benessere, cioè, di baraka. L’espressione deriva dall’ebraico berakhah o bracha, la benedizione usualmente recitata nel corso delle cerimonie. Da qui l’abitudine degli ebrei sefarditi di privilegiare il verde dei legumi e dei piatti per augurare la prosperità, soprattutto nel corso del sabbat, la festa del riposo, nella quale tra l’altro è bandito il nero. Questo ci dice anche perché sulla tavola del sabbat sono assenti gli alimenti anneriti dalla cottura. Regola che ricompare nei menu di fine anno e della pasqua.

Avviciniamoci ancora di più alla gustazione. A differenza degli altri sensi il gusto esige d’introdurre in noi una particella di mondo. I suoni, gli odori, le immagini nascono e rimangono fuori di noi, la gustazione implica una sorta d’immersione in noi.

Scrive Anthelme Brillat-Savarin (1755-1826) nella sua Fisiologia del gusto, “Il piacere della tavola appartiene a tutte le età, ad ogni condizione sociale, ad ogni paese e ad ogni giorno.

Esso ha il vantaggio di associarsi a tutti gli altri piaceri e resta l’ultimo a consolarci della loro perdita.” Come abbiamo già osservato il gusto è un prodotto della storia e dunque dei modi con i quali gli uomini si situano nelle trame simboliche della loro cultura. A differenza della vista e dell’udito e come l’odorato, il gusto è il senso della differenziazione. Per sua natura, rinvia sempre ad una significazione e costituisce una conoscenza. In altri termini, se la vista e l’udito possono esserci indifferenti, non è così per gusto che in ogni caso e spesso nostro malgrado ci coinvolge e c’impegna.

Dopo Freud, noi possiamo dire che il gusto è un senso con il quale, attraverso la bocca, noi ci appropriamo del mondo, è il mondo che diventa oralità. Quella oralità che media il nostro venire al mondo! Una conferma indiretta di tutto ciò l’abbiamo quando pensiamo a come la sfera gustativa sia un serbatoio di metafore per giudicare la qualità dell’esistenza. Che il gusto sia il senso della percezione dei sapori del mondo non significa però che esso non sia determinato nella sua sensibilità dall’appartenenza sociale e culturale.

Abbiamo già notato come la stessa distinzione dei sapori è culturale e come i quattro sapori più uno con il quale noi distinguiamo il gusto, che di primo acchito ci appaiono come oggettivi e scientifici – salato, zuccherato, acido, amaro a cui di recente è stato aggiunto l’umami – in realtà non sono che un retaggio culturale.

Essi non sono cinque. Plinio (23-79 dell’era comune) nella sua storia naturale descrive ben tredici sapori base, Linneo (1707-1778), il grande naturalista svedese, ne elenca dieci e non tutti sono quelli elencati da Plinio.

Non lo sono nelle diverse culture del mondo – i cinesi ne enumerano cinque, in India sono sei, in Senegal il piccante, l’amaro e il salato sono una sola categoria.

Una cosa però è certa e per certi versi indisponente, nessun uomo ha potuto, può e potrà conoscere tutti i sapori disponibili. Non solo, degli alimenti disponibili in un certo momento storico, in una data società e il loro modo di prepararli scompaiono in continuazione sul filo della storia e con essi i sapori che avevano. Spesso nell’arco di una stessa generazione.

Lo stesso avviene con le bevande, nell’antichità i vini, di vitigni di cui oggi molte volte conosciamo solo il nome, erano tagliati con l’acqua dolce, con l’acqua di mare, il miele, il pepe, la resina di pino, le spezie più diverse.

Plinio descrive quaranta tipi di pere, dei sessanta tipi che esistevano al suo tempo, insieme a una dozzina di prugne, di melograni, e di un centinaio di mele. Intorno al 1850 in Provenza c’erano ancora ventotto varietà di fichi, oggi sono di meno di dieci.

Da tempo nessuno di noi può gustare la salsa più popolare dell’antica Roma, il garum, ottenuta principalmente dalla macerazione nel sale degli intestini di pesce. Una salsa vischiosa che deve il suo sapore e il suo aspetto alla putrefazione dei suoi componenti organici.

L’assafetida, un’ombrellifera dal forte odore agliato, importantissima nella cucina medioevale, è sparita dalle nostre tavole al seguito della sparizione degli ambienti in cui cresceva. Di contro, alimenti oggi popolari sulla nostra tavola, in realtà sono acquisizioni recenti, come il pomodoro, la melanzana, i piselli, i cavolfiori, il caffè, la cioccolata. In ogni modo le esperienze gustative sono difficilmente comparabili perché come abbiamo visto hanno una base soggettiva…de gustibus non est disputandum. Il gusto non ha un valore quantificabile, ma discriminativo e simbolico.

Più complessa ancora è la categoria del disgusto.

Lo definiamo da subito in chiave antropologica come una minaccia reale o simbolica del sentimento d’identità. Esso concorre ad istallare delle barriere simboliche che permettono al soggetto di porsi in maniera coerente all’interno delle ambiguità con le quali percepiamo il mondo. Per questo, in un certo senso, è irreversibile e senza appello, ha l’aspetto di un’alterità assoluta e, in quanto alterità, è di riflesso un sentimento morale che provoca repulsione.

La psicologia definisce il disgusto una reazione di difesa, l’azione con la quale si cerca di porre una certa distanza tra noi e il pericolo, in genere è condiviso dai membri delle stesso gruppo (sociale) ed è in grado di istituire dei legami culturali a partire da una separazione radicale.

In ogni caso non è un’anomalia della cultura, non è una fantasia individuale o collettiva, ma un principio culturale applicato ad un oggetto o ad una situazione. Tra l’altro,ha anche una funzione importante dal punto di vista dell’esperienza, perchè dove la conoscenza scientifica è carente il disgusto partecipa del principio di precauzione. Nel self – identità soggettiva – contribuisce a fondare e definire l’identità.

Va sottolineato che il disgusto non si pone mai in relazione al gusto. In esso l’oralità gioca una parte fondamentale, soprattutto nei sentimenti che inducono alla nausea o al vomito. Vale a dire è fondativo delle metafore che sottolineano il rigetto di qualcosa o di qualcuno.

Ancora una volta si costata come negli atti alimentari appare più importante il senso che attribuiamo all’alimento che l’alimento in sé, si rivela più importante il valore che gl’associamo di quello che l’alimento ha di per sé. In più, anche sul disgusto agisce l’evoluzione delle forme culturali che avviene nel tempo storico. Nessuno più va ai macelli generali per acquistare un bicchiere ancora caldo di sangue di vitello come ricostituente. Nessuno più considera pericolosa la fermentazione dei formaggi e non vive più l’inquietudine di veder passare il latte da liquido a solido, così come non considera la fermentazione come una forma subdola di putrefazione che corrompe la natura dei viventi e delle cose.

Un piccolo aneddoto su questo tema.

Quella che diventerà santa Margherita Maria Alacoque (1647-1690), una delle più grandi mistiche francesi, quando fu accompagnata in convento per diventare novizia avvertì le suore che non avrebbe mai mangiato il formaggio. Il risultato fu che gli fu subito servito come esercizio di mortificazione e lei nelle sue memorie scrive testualmente, “che non immaginava di dover subire una simile violenza. Che solo la vocazione l’aveva sorretta, perché nella notte che aveva preceduto questa prova aveva pensato seriamente di abbandonare la religione. Che aveva ceduto solo perché in essa aveva visto la mano del Signore. Questa è la stessa santa che da lì a qualche anno avrebbe scritto: Un giorno che Gesù mi si mise sopra con tutto il suo peso, egli rispose così alle mie proteste: “Lascia che ti usi a mio piacere perché ogni cosa va fatta a suo tempo. Adesso io voglio

che tu sia l’oggetto del mio amore, abbandonata alla mie volontà, senza resistenza da parte tua, in modo che io possa godere di te.”

Come abbiamo visto più volte c’è sempre un’ambiguità dialettica nell’apprezzamento soggettivo delle cose. Gli escrementi sono il culmine del disgusto, banalizzano la condizione umana e la rendono risibile. Non c’è ingiuria più crudele che non sia stercoraria. Eppure, da lunga data gli escrementi sono, nella cultura occidentale, anche un rimedio contro molte affezioni. In Plinio, per esempio, sono numerose le ricette mediche a base di escrementi con i quali si cura l’avvelenamento da funghi, la flatulenza, il mal d’orecchi. Claudio Galeno (129-200 circa), il più famoso medico dell’antichità greco-romana, diceva che solo l‘odore dispone a sfavore degli escrementi, di contro essi sono un ottimo rimedio in medicina, a partire da quelli umani, curano perfino le ferite che si sono infettate. I cataplasmi di merda fresca curano le angine, quella di neonato risolve i problemi della sterilità femminile. Il grande teologo della riforma protestante, Martino Lutero (1483-1546) che rende grazie a Dio nel suo scritto intitolato Discorsi a tavola, sostiene che gli escrementi della scrofa arrestano le emorragie, quelli del cavallo curano le pleuriti, quelli dell’uomo le ferite e le pustole nere. Nel terzo secolo a Roma, molti moralisti stigmatizzavano l’abitudine delle frivole dame romane a prepararsi delle maschere di bellezza con gli escrementi di bambini e di animali.

Una predica inutile, perché qualche secolo dopo si arrivò a distillare gli escrementi per farne una specie di eau de jouvence da passare sul viso e sul corpo.

Anche l’orina è utile. Nel medioevo la distillazione dell’urina serviva a far ricrescere i capelli, curare le infiammazione dentarie, cicatrizzare, lavare le mani, lisciare la pelle. Si noti che ancora oggi, nelle zone rurali d’Europa, alcune di queste credenze sono rimaste, soprattutto quella di curare le infezioni gengivali.

L’apoteosi l’abbiamo con Martin Schurig, medico tedesco che nel 1725 pubblica la Chylologia historico-medica. In questo libro affronta l’impiego terapeutico dell’urina, dello sperma, degli escrementi umani e animali, dell’humus estratto dai cadaveri. Non mancano i rimedi con l’acqua di “mille fiori”, servita calda ai malati tenuti a digiuno con problemi di costipazione.

Ricordiamo infine un libro che ebbe molto successo a suo tempo, fu addirittura recensito da Sigmund Freud, si tratta dei Riti scatologici di tutti i popoli, uscito nel 1913, di John Gregory Bourke. In questo libro si parla anche del Dalai Lama del Tibet, la massima autorità temporale del buddismo. I suoi escrementi fino a tutto l’800 venivano seccati, polverizzati e introdotti in piccole sacche da portare al collo come amuleti. Così come la sua urina veniva bevuta come rimedio a tutto.

 

 

Visione e gustazione del mondo.

Ogni cultura ha una Weltanschauung. Questa espressione mediata dalla filosofia tedesca è stata adottata anche dalla sociologia e dalla critica d’arte perché consente di esprimere con un termine oramai familiare un concetto complesso. Ma, ad analizzare bene questa espressione, sia pure a livello metaforico, accorda implicitamente alla vista un primato sensoriale.

In linea di principio sarebbe più pregnante riferirsi ad una gustazione del mondo se pensiamo a tutte le categorie alimentari che lo ordinano. Perché come abbiamo più volte sottolineato l’uomo non si nutre di alimenti differenti, si nutre di senso.

Mangiare è partecipare ad una cultura, condividerne il gusto e il disgusto, le preferenze e le indifferenze. Gli alimenti per essere consumabili devono infatti essere buoni a pensarsi, come sosteneva Claude Lévi-Strauss.

Gli uomini prelevano dal mondo naturale gli alimenti, ma lo fanno secondo categorie di senso e di valori arbitrari. Ci sono culture, non solo primitive come si potrebbe credere, che sono arrivate a sviluppare una gustazione del mondo che deriva dalla loro visione cosmologica.

Gli Hausas, una etnia della Nigeria del Nord, che conta più di venti milioni d’individui, giudica gli individui con il metro del gusto. Un bambino è un essere senza sale. Un uomo maturo deve essere caldo e speziato. I cibi caldi è profumati possiedono virtù erotiche. Le donne hanno un gusto che cambia secondo la condizione del ciclo mestruale. Una giovane donna vergine è una donna aromatica. Una donna incinta non deve mangiare cibi speziati per non diventare ancora una volta calda. Le giovani donne sono zuccherate, vale a dire piene di desiderio. La donna che allatta non deve avere rapporti sessuali per non rendere il latte troppo dolce. Le giovani spose devono prima maturare in dolcezza per poter essere colte. In questa etnia la metafora gustativa misura anche la dimensione morale. Un uomo che viene definito come uno che non mangia sale è un uomo bugiardo. Di contro, l’uomo che mangia il sale è uno che dice la verità.

In India, nella tradizione ayurvedica il corpo umano, come tutto quello che esiste nell’universo, è composto da cinque elementi, terra, acqua, fuoco, vento e vuoto. I sapori dell’ayurveda, che costituisce la medicina tradizionale utilizzata in India a partire dal quarto millennio avanti l’era comune (ayurveda significa scienza della vita), nascono dalla combinazione di questi cinque elementi. In questo modo, il sapore zuccherato è la combinazione della terra e dell’acqua. Il sapore acido deriva dalla combinazione di terra e fuoco. Il sapore salato dalla combinazione di acqua e fuoco. Il piccante dalla combinazione di vento e fuoco. L’amaro dalla combinazione di vento e vuoto, e l’astringente dalla combinazione di vento e terra. Questi sapori formano una teoria dietetica molto complessa che coinvolge il mondo come sapore di tutte le cose.

Le stesse caste sono identificabili a partire dagli elementi che compongono il gusto e classificano gli alimenti. Come insegna la tradizione, in India la casta identifica nei cibi la sua identità attraverso il loro sapore. Per questo uno dei doveri dei bramini, cioè, della classe sacerdotale, e di cuocere il mondo, vale a dire, dare ad esso un senso.

Per il pensiero cinese antico il corpo dell’uomo è in una risonanza rigorosa con le pulsazioni dell’universo. La carne del mondo e quella degli uomini sono in contatto. I cinque elementi che la compongono (legno, fuoco, terra, metallo ed acqua) corrispondono alle cinque stagioni (primavera, estate, fine estate, autunno, inverno), ai cinque colori (blu/verde, rosso, giallo, bianco, nero), alle cinque direzioni (est, sud, centro, ovest, nord), alle cinque viscere (bile, polmoni, cuore, fegato, reni) e, infine, ai cinque sapori (acido, amaro, dolce, acre e salato).

In questo modo la totalità del mondo sensibile e di quello invisibile non è altro che il risultato del complesso incrociarsi di tutti questi caratteri. Il legno si connette al verde e al sapore acido. Il fuoco, che esalta i caratteri dell’estate e che brucia ed esalta si connette al rosso e all’amaro. Il metallo, energia dell’autunno, si connette al bianco e all’acre. La terra è l’espressione dell’energia di centro, rappresenta un principio vitale, si connette al giallo e al sapore zuccherato.

Per la cultura cinese la cucina è, al tempo stesso, un’etica, uno strumento per gustare il mondo, e una dietetica, cioè un modo per pensare il cibo. In questa cultura nutrirsi finisce per significare l’arte di assorbire in modo razionale i sapori del mondo.

Nella cucina cinese parlare di sapore è un modo per mettere in relazione ciò che si mangia, l’epoca in cui si mangia, l’età che si ha, il clima, le circostanze della vita (matrimonio, lutto, separazione, ricongiungimento), le energie corporali, le viscere.

L’insipido nella cultura occidentale è considerato una sorta di grado zero del sapore. Di contro l’insignificanza ( che, tra l’altro, è il carattere “morale” della manna che gli ebrei furono costretti a mangiare per sopravvivere nella traversata del deserto), nella cultura cinese è il valore delle cose neutre, quelle cose che stanno nel cuore delle cose stesse. Essa indica la potenza del cambiamento incessante. In sintonia con questi principi Lao Tze o Laozi – che visse, secondo la tradizione, nel sesto secolo prima dell’era comune ed è ricordato come il fondatore del “taoismo” – scrive che il non-sapore deve essere il sapore del saggio. Nella cucina cinese l’insipido è ciò che non è imprigionato dal gusto. In questo modo il suo sapore sorge lentamente e da forza alla sensazione, a differenza degli altri sapori che compaiono all’istante e all’istante spariscono. L’insipido è, in sostanza, l’elogio della lentezza, in breve, è ciò che apre le porte che stanno alle spalle del gusto, è ciò che rinvia a se stesso, è ciò che mette una distanza tra noi e le cose che compongono il mondo, è un principio d’armonia.

Il gusto può essere inteso anche come un carattere. In questo senso in molte culture le relazioni tra i membri appartenenti a gruppi diversi sono spesso espresse utilizzando termini culinari. L’Altro è ridotto a stereotipo di ciò che mangia, spesso in una connotazione peggiorativa.

La cucina dell’Altro, del resto, è sempre connotata in modo negativo se l’altro ci è nemico, perché nel giudizio interviene il principio di contaminazione. Se lui ci è avverso allora la sua cucina è cattiva, anzi è la sua cucina a ridurlo così.

In sostanza, il contenuto e le forme del mangiare sono delle potenti marche identitarie, favoriscono la stigmatizzazione dell’altro. L’espressione di “esquimese”, per definire gli Inuits nella lingua amerinda dei loro vicini, significa mangiatore di carne cruda. Gl’inglesi e gli americani chiamano i francesi mangiatori di rane (froggies). I francesi, invece, li chiamano “rosbif”. Gli italiani sono dei “macaronis” e i belgi, dei mangiatori di “frites”. Gli americani chiamano i tedeschi “krauts”.

Anche tra i poveri del mondo le cose non sono differenti. I Gilani, una etnia iraniana, chiama i loro vicini araqi, che vivono in Irak, “mangiatori di pane d’orzo”. Questi chiamano i Gilani “mangiatori di teste di pesce”.

Nell’Afghanistan del Nord, si racconta una storiella, un uzbecho, un tajik, un afgano e un arabo si ritrovano a mangiare insieme. Ciascuno tira fuori quello che ha. L’arabo mangia del latte cagliato, l’afgano una lattuga e una cipolla, il tajik del riso pilaf. E l’uzbecho? L’uzbecho mangia di tutto, perché il ventre degli uzbechi sono bazar.

L’etnia Jats, del nord dell’India, sono chiamati “mangiatori di porcospini”. Gli Hazaras, un etnia che parla il parsi, di religione scita in una regione a maggioranza sunnita sono definiti come “quelli che mangiano gli animali morti”. Siccome lo vieta esplicitamente il Corano, è un modo di escluderli, con un insulto, dall’ortodossia.

In Messico chiamano xocochileros, “mangiatori di salsa di pimento”, quelli di etnia Mixteca che abitano una regione del sud e sono una delle più importanti popolazione pre-ispanica.

In breve ovunque nel mondo gli individui sono assimilati alle qualità proprie dei loro alimenti, la loro carne corrisponde alla materia simbolica che ne forma l’identità. Essi diventano ciò che mangiano.

In Julie ou la Nouvelle Héloïse (1761) un romanzo epistolare, considerato un prototipo di quello che sarà il romanticismo, Jean-Jacques Rousseau scrive: “In generale, penso che sia possibile trovare qualche indicazione del carattere delle genti nelle loro scelte alimentari. Gli italiani che vivono di molti erbaggi sono effeminati e docili. Voi altri inglesi, grandi mangiatori di carne, avete tra le vostre inflessibili virtù qualcosa di duro che s’imparenta alla barbarie… i francesi, distaccati e mutevoli, vivono di tutto e si adattano a tutti i caratteri. Julie stessa può servirmi da esempio perché nonostante sia sensuale e gourmande non ama né la carne né i ragoûts, né il sale e soprattutto non apprezza il vino.”

 

Se da una parte per molte culture l’alimentazione è legata al calendario, al clima, alle avversità e alla qualità del raccolto, dall’altra una importante parte del mondo occidentale conosce una sorta di metissaggio generalizzato. Il chi mangia si confronta con una tavola sulla quale si possono inventare i menu più strani. Come è stato osservato, la modernità è per chi può permetterselo un nuovo paese di Cuccagna. La globalizzazione, la concorrenza, la ricerca delle novità riempiono i magazzini di prodotti alimentari esotici. Prodotti che stimolano la fantasia dei residenti e la nostalgia dei migranti.

Va però anche messa in luce la forte spinta dei fast-food che nel mondo occidentale come altrove modificano la cultura del gusto. Essi tendono a ridurre il pasto ad una sorta di riflesso alimentare da soddisfare di corsa. Le famiglie non mangiano più insieme, ma ciascuno dei suoi membri tende a mangiare quando glielo consentono i loro impegni, in questo modo si de-valorizza e si de-connota la cerimonia della commensalità e si esalta la figura del mangiatore solitario tra la folla.

La vera differenza tra i gusti è poi banalizzata dai processi economici. Dappertutto nel mondo dominano gli stessi prodotti, con gli stessi sapori e le stesse consistenze. Tutto tende ad essere dolce e molle.

In questo tipo di cucina domina la velocità senza equivoci né complicazioni. La scelta dei piatti è ridotta e non ci sono sorprese. Da una parte aumentano i sapori legati all’amaro, dall’altro c’è una rincorsa ai sapori dolci per mascherarli. Gli esperti sostengono che il cibo sta diventando di una sensualità immediata e labile in cui è aumentata la stimolazione olfattiva ed è accresciuta la tattilità e l’estetica. La gente si ferma sempre meno per mangiare. Oggi si consumano i cibi mentre si guida, si guarda un film, mentre si cammina, si sta straiati nei parchi. Spesso si mangia utilizzando le sole mani.

Il sushi giapponese, contro tutte le aspettative, si è imposto in Occidente con il suo assortimento di pezzi di pesce crudo, senza altra preparazione che il taglio e la sistemazione in un piatto. Si mangia la pizza a Nuova Deli, o a Rio, gli hamburger a Pechino, i tacos a Strasburgo o a Roma. Le condotte alimentari dipendono sempre di meno dalle norme culturali, tendono a scollarsi dalle abitudini regionali e dai ricordi dell’infanzia. Mettono sempre più spesso gli individui di fronte ad un’immensa scelta di materie prime e di prodotti pronti ad essere consumati che basta far riscaldare.

Un immenso catalogo di C.A.N.I. domina la scena alimentare.

Queste condotte alimentari molto spesso diventano i teatri di tragedie planetarie. Dalla mucca pazza ai polli alla diossina, alle anatre portatrici d’infezioni polmonarie, ai coloranti tossici ai conservanti cancerogeni.

In altri termini, colui che mangia è sospinto in un angolo dove non c’è che un pret-à-manger di cui non conosce l’origine, né la storia, né la composizione reale. Per respingere l’ansia e la paura si lascia ingannare confidando nella fortuna e nel caso, nessuno legge le etichette. In questo modo si finisce per nutrirsi di alimenti senza storia e senza identità. Tutto questo comporta che il tratto simbolico degli atti alimentari è profondamente scosso. I giovani consumatori, in particolare, sono banalizzati da queste nuove frontiere del gusto, essi sono indotti a consumare prodotti il cui sapore gioca su soglie gustative standard sempre più ristrette. Sono privati di ogni sottigliezza gustativa e, di fatto, finiscono per essere orfani di aree di cultura materiale sempre più vaste, dunque, di ciò che lega il sapore al sapere. Il cibo indistinguibile di per sé non si identifica che per le sue etichette, per il suo nome e per il suo prezzo.

Un attento studioso della cultura dei sensi, Michel Serres, in un libro famoso, Les cinq sens (1985) scrive che l’America si è votato al cibo molle, saturo di grassi e di zuccheri, che costituisce un vero attentato verso le giovani generazioni, sia sotto l’aspetto nutrizionale che culturale.

Per ragioni mercantili e di produzione il gusto è stato trasferito dal cibo alle salse che lo condiscono e questo trasferimento agisce su due registri rozzi, il forte e il piccante, e sulle bevande di sapore zuccherato. Va notato, qui, un altro problema. I prodotti industriali, per assolvere alla loro missione di diffusione di massa, esigono una continua ed attenta re-definizione sensoriale, in termini di sapore, odore, aroma, testura, colore e presentazione. Ora, questa re-definizione dei prodotti finisce per produrre inevitabilmente un gusto di sintesi che appare più verosimile di quello vero. Un fenomeno in molti campi irreversibile per esempio per quanto riguarda i sapori fruttati.

Il gusto di essi, per usare un neologismo, si è artificializzato grazie agli aromi di sintesi che lo esaltano oltre ogni aspettativa naturale. Il piacere gustativo, in sostanza, passa per delle emozioni istantanee, semplificate, esagerate, violente ed effimere. Tutto il contrario dell’esperienza che si ha con i cibi naturali. In altri termini assistiamo ad una continua rincorsa ad aumentare la soglia gustativa del cibo pret-à-porter, a tal punto che recenti indagini su un gruppo campione di bambini americani ha portato alla luce il fatto che essi non sono più in grado di apprezzare sensorialmente alcuni frutti comuni come la mela o la fragola.

Oggi non siamo ancora in grado di valutare sul lungo periodo l’effetto dei C.A.N.I. Quanto ai prodotti naturali rimasti c’è una tendenza, soprattutto nei prodotti frutticoli, a ridurre le specie per limitarle alle più convenienti sul piano economico e alle più estetiche sul piano della forma.

In alcune scuole americane, a questo proposito si studia addirittura il design di questi prodotti.

Una decisione che scaturisce dal convincimento che i processi di estetizzazione degli atti alimentari e del food and bevarage in particolare creerà un’equazione tra bello e buono favorita anche dalla riduzione delle specie. “L’albicocca”, ha scritto, Michel Serres nel libro che abbiamo citato,”molto presto non avrà altro gusto se non quello della parola che entra in bocca per pronunciare il suo nome”.

Questo tema che lega gli atti alimentari alla globalizzazione può essere considerato anche sotto altri punti di vista. La progressiva fusione delle etnie e d’intere popolazioni, un tempo separate da barriere geografiche, linguistiche e culturali, tende infatti a segnare in modo irreversibile la modernità. In generale possiamo dire che le culture locali rischiano di soccombere sia davanti ai macro processi economici in corso, sia in virtù del potere di sincronia di massa dei sistemi mediali.

Il danno, da un punto di vista antropologico, è enorme perché la diversità è fondamentale per consentire l’evoluzione della specie e l’evoluzione culturale. Siamo di fronte ad sorta di collasso entropico che mescolando le culture ne riduce l’originalità ed elimina i particolarismi in un nuovo caos senza futuro. Tutto tende a livellarsi su certi modelli stereotipati che sono quelli del mondo industriale occidentale. In questo modo culture in origine diverse sono costrette a condividere consumi, prodotti culturali di massa, abitudini alimentari e linguaggi, collassando.

In questo contesto c’è un altro aspetto ancora più inquietante. L’omogeneizzazione non è uguale per tutti, ma frattura la società in gruppi di consumatori assolutamente artificiali, con il paradosso che, oggi, esistono maggiori differenze tra le subculture all’interno della stessa area metropolitana di quanto non emergono tra i consumatori di aree poste a grandi distanze. In questo modo nei paesi che subiscono una forte pressione dal colonialismo culturale delle merci prodotte dai paesi egemoni la popolazione non è più omogenea nella diversità, ma appare collegata o, per altri versi, giustapposta dai sistemi mediali. Elementi culturali delle élite sono diffusi verso le periferie sociali dove vengono reinterpretati, trasformati e ritrasmessi verso queste élite da dove sono nuovamente ridistribuiti. Oppure, elementi culturali delle periferie sociali sono trasmessi verso le élite da dove vengono ritrasmessi verso le periferie sociali. Il risultato di questo processo è stato definito métissage.

Gli elementi di cultura globalizzata sono facili da riscontrare nell’ambito alimentare, dove i cibi propri di alcune culture si sono installati nella dieta quotidiana di altre culture mescolandosi in esse.

Cosa vuol dire? Che in ambito alimentare la distinzione tra i modi di cucinare e le preferenze alimentari è diventata sempre più confusa. I sociologi francesi parlano di “gastro-anomia”. Cioè, di solitudine di colui-che-mangia e di impoverimento culturale dei prodotti in un mondo ricco di cibi standardizzati e sorretto da una pubblicità di marchio invasiva, senza alcuna certificazione sulla provenienza degli ingredienti. Questa pubblicità è quella più supinamente subita, con l’aggravante che il consumatore di C.A.N.I. rischia di diventare un soggetto senza storia e senza memoria.

Un soggetto che invece di essere guidato dal desiderio è vittima di un bisogno impulsivo-imitativo per cibi senza identità. Tutto questo naturalmente va a vantaggio delle nutrici-globali che sempre con più arroganza gestiscono il nostro futuro alimentare. Attualmente esistono almeno sei alimenti e due bevande globalizzati sono: i noodles (e gli spaghetti), gli hamburger, il sushi, il chili con carne, la pizza, il cuscus. A questo elenco si aggiungerà quanto prima, secondo le previsioni, la paella. Le due bevande sono: la “coca-cola” e le sue varianti, il caffè, il tè costituisce un caso a parte.

 

Non tutte le culture sono convinte che la propria cucina sia la più raffinata, ma tutte sono convinte che sia la più coerente dal punto di vista delle scelte alimentari. La cucina si trova così al centro delle identità culturali e sociali che ciascuna società si riconosce. In questo contesto i sapori e il loro apprezzamento si stratificano secondo la classe, il luogo, l’età, qualche volta addirittura secondo il sesso. In base al loro grado di conformità sociale, poi, questi sapori possono lasciare un margine all’iniziativa individuale più o meno grande, ma non possono tradire l’investimento emotivo che su di essi si è fatto. I piatti in questione devono poter essere riconosciuti ed amati.

Del resto il gusto non è mai definitivo, non è mai prefissato, ma è una postura provvisoria che si assume di fronte agli alimenti e è spesso sviluppato in modo deliberato da determinati ambienti.

Ci sono delle cronache che raccontano come gli antichi romani sapessero riconoscere al gusto i pesci pescati in determinate zone tra i ponti, che molti gourmet sapevano identificare il luogo di origine delle ostriche o dei ricci di mare.

Lu Yu (733-804), uno dei fondatori del rito del tè in Cina ed autore di una monumentale opera su di esso, si vantava di saper riconoscere a quanti metri della riva del fiume era stata presa l’acqua per prepararlo. In Giappone si racconta di amatori del tè che dopo aver cercato la sorgente d’acqua più idonea alla miscela che prediligono si fanno costruire nei pressi un “capanno del te” per poterlo apprezzare al meglio. John Blofeld (John Eaton Calthorpe Blofeld, 1913-1987), studioso di zen ed autore di un libro sul tè ha cercato di enumerare le caratteristiche di una sorgente d’acqua perfetta.

Le principali sono: L’acqua deve defluire tra le rocce o le pietre senza vegetazione. Non deve essere inquinata, quindi meglio l’acqua di montagna. Deve scorrere velocemente. Dev’essere raccolta di mattina presto, meglio se mescolata alla rugiada. Se pensiamo al tè che ci servono nei bar con l’acqua di rubinetto scaldata con il vapore noi vediamo la distanza che c’è con tra noi e la cultura giapponese su questo tema. Ma quello che più conta è: tutto ciò ha un senso? Assolutamente si, perché gli atti alimentari sono strutturati come un linguaggio. Una parola può trasformare un testo in una poesia. L’acqua può trasformare una bevanda in un’arte.

Più in generale, un alimento non è mai buono in assoluto, ma solamente per un palato particolare. La cucina dei gastronomi non è la migliore, ma soltanto quella che essi apprezzano. In questo senso essa può essere immangiabile o suscettibile di critiche è sempre una questione di educazione e di abitudini. Jean-Jacques Rousseau (1712-1778) nelle Confessioni scrive: “Non ho conosciuto e non conosco ancora pasto migliore di quello rustico composto di latticini, uova, insalata, pane e un buon vino di cantina”.

Anche l’acqua ha il suo sapore. Una ricerca dell’ONU sui profughi afgani in Pakistan ha messo in luce che una delle cose che più rimpiangevano nel loro esilio era l’acqua del loro paese natale.

Essi bevevano l’acqua sanitaria, come si chiama nei campi profughi l’acqua che distribuiscono le organizzazioni umanitarie, ma la trovavano insipida.

Gli Inuits mangiano crudi solo i pesci che conoscono, amano l’aorta croccante delle foche, la pelle di balena e le anatre residenti. Tutto il resto lo cuociono per renderlo appetibile.

L’alta cucina è sempre fondata sull’apprezzamento culturale e questo marca una distanza critica con ciò che serve esclusivamente a nutrire.

Nel racconto di Karen Blixen (1885-1952) “Il Pranzo di Babette” è illustrato in modo magistrale le differenze di gusto tra individui di culture diverse. Là dove i buoni puritani si limitavano a mangiare, uno tra di loro, il generale Löewnhielm passava di meraviglia in meraviglia senza riuscire a condividere la sua soddisfazione con gli altri commensali. Naturalmente la Blixen fa trionfare la commensalità. Nel suo racconto lo stile puritano dei commensali si trasforma a poco a poco in ammirazione per i piaceri della tavola anche se non ne arrivano a comprenderne l’aspetto estetico.

In quest’opera la gastronomia testimonia di una distanza ludica con ciò che è solo un alimento, di una volontà deliberata di produrre codici che leghino chi mangia alla capacità di giudicare e, in ultima analisi di entrare come parametro nel novero degli elementi che sono capaci di disegnare la stratificazione sociale ed identificare le classi.

 

La formazione del gusto nell’infanzia.

Fin dalla nascita il bambino reagisce con la mimica facciale ai differenti sapori con i quali viene a contatto. Le stimolazioni salate, zuccherine, amare o acide producono, ciascuna a suo modo, dei movimenti singolari del viso e questi movimenti sono comuni a tutti i bambini.

Le soluzioni acide, per esempio, provocano rossore, sbattimento delle palpebre, arricciamento delle labbra e aumento della salivazione. Di contro, le zuccherine rilasciano i muscoli del viso, fanno ritrarre gli angoli della bocca, accentuano la suzione e fanno affiorare un sorriso.

C’è un fatto curioso da notare. Le smorfie indotte dall’amaro e il rilassamento del volto indotto dal dolce si ritrovano a partire dai due anni di età non solo connesse al cibo, ma anche alle situazioni della vita corrente. È come se la percezione del dolce o dell’amaro diventasse una metafora dell’amarezza o della contentezza e, in un qualche modo, inglobasse la sua percezione del mondo.

In altri termini la percezione si presenta come un valore che ingloba i sentimenti.

Studi effettuati sulla relazione madre/figlio mostrano che queste reazioni sono rafforzate culturalmente dall’ambiente. La mimica, in sostanza, costituisce una sorta di comunicazione che diventa significato per gli altri e, di riflesso, per il bambino. C’è anche da osservare che il riflesso innato gusto-facciale è di breve durata e cede con il tempo il passo alle variazioni personali, culturali e sociali, perché, la sensibilità gustativa è molto diversa da individuo a individuo e da gruppo sociale a gruppo sociale. In genere i bambini piccoli rifiutano la mostarda, il sale, le olive o gli altri alimenti amari, salati o acidi. Apprenderanno ad amarli o a rifiutarli definitivamente secondo le indicazioni che riceveranno dalla comunità in cui cresceranno.

Questo atteggiamento coinvolge in modo particolare gli alimenti dal gusto deciso, come l’aceto, il pepe, i peperoni sott’aceto, le cipolle, il pompelmo, eccetera. Nelle culture dove l’alimentazione è molto piccante, come in Messico, si è visto che il bambino arriva da solo a questi alimenti, per emulazione degli adulti.

Possiamo dire che la socializzazione alimentare circoscrive e forma la sensibilità gustativa e stabilisce le basi di ciò che s’intende per disgusto. Apprendere a gustare un piatto consiste, dunque, nell’entrare in un registro culturale e condividerne i valori.

Il gusto alimentare non è solo un dato sociale e culturale, ma è una forma d’interiorizzazione delle cose che si amano e di quelle che si detestano, una memoria della propria infanzia. In questo senso la nutrizione contribuisce a socializzare sentimenti e valori.

Nella vita corrente un bambino entra in un sistema gustativo attraverso un sistema culinario proprio della sua famiglia e delle tradizioni sociali in cui è allevato, la cucina della madre diventerà così con il crescere la cucina di riferimento e di confronto.

Sarebbe istruttivo rileggere quello che Marcel Proust scrive a proposito delle madeleines, in Du côté de chez Swann. Gaston Bachelard (1884-1962), uno dei protagonisti della cultura francese del Novecento, in La terre et les rêveries de la volonté, scrive: “Allontanare il bambino dalla cucina in cui è cresciuto è condannarlo ad un esilio che lo allontana da sogni che non conoscerà mai”. E prosegue: “Felice l’uomo che nella sua infanzia non è mai stato allontanato dal focolare accanto a cui è nato”.

In questo contesto, naturalmente, hanno una grande importanza anche altri fattori legati ai processi di socializzazione come le amicizie, i legami parentali, i pasti consumati nelle refezioni scolastiche, perché costituiscono una trama culinaria che esprime un’identità culturale. Immerso nel suo ambiente natale il bambino impara non solo a riconoscere i sapori, ma a gerarchizzarli secondo i suoi gusti in una continua dialettica con esso. Studi effettuati e mai divulgati al di là della cerchia degli specialisti, per le pressioni dell’industria agro-alimentare, rivelano che la cultura alimentare dei fast-food costituisce una significativa rottura di questo sistema di cui è difficile valutarne le conseguenze sia sul piano della sensibilità alimentare che in generale sulla formazione di una identità soggettiva.

C’è una speranza in tutto questo perché nel bambino il gusto degli altri, se è valorizzato, lo invoglia, più che negli adulti, ad apprezzare gli alimenti che in passato aveva scartato. Il primo bicchiere di vino o di birra della vita non è mai percepito come gradevole, il gusto da questo punto di vista, non è un elemento di seduzione. Solo nel rapporto con gli altri avverrà la metamorfosi, il vino o la birra non cambiano di gusto, è il bevitore che cambia.

L’esperienza cucinaria distingue ciò che è buono da ciò che non lo è, essa di fatto forma un modello di apprezzamento che cambierà di poco nel corso della vita. Questa esperienza si costruisce soprattutto a partire da certi alimenti di base, come il riso, il mais, la patata, la manioca, eccetera, e da certi condimenti speziati, come l’olio, il burro, il curry, il limone, il pimento, la salsa di soia, lo zenzero, eccetera. Gli antropologi parlano a questo proposito di marche alimentari, di flavour principles, identificabili e capaci di definire la sfera culturale della cucina. In questo senso sono numerose nel mondo le culture che producono delle dominanti gustative, dei legami privilegiati di alimenti e sapori che segnano culturalmente le cucine.

Questo fare corpo della cucina con gli individui contribuisce in modo importante a determinare il sentimento dell’identità. Le due cose importanti che ogni migrante porta con sé sono la religione e la cucina, ma è solo la cucina che lascia da subito delle tracce sensibili della loro presenza. È stato anche osservato notato che molti sapori sono apprezzati e ricercati solo per non dimenticare i paesi d’origine. Gli ebrei algerini si riconoscono perché cucinano spesso il loro famoso ragout di interiora condite con aglio e paprika, così come si riconoscono per il menu del sabato a base di spinaci e purea di piselli, il piatto verde della benedizione. Così i prosciutti che un tempo in Andalusia si appendevano alle porte o alle finestre servivano a testimoniare l’appartenenza alla comunità cristiana. Così l’adafina degli ebrei sefarditi di Malaga che si cucinava il venerdì sera e si mangiava il sabato, giorno in cui non si può accendere il fuoco – per mantenere questo potage con carne e verdure caldo si doveva avvolgerlo in alcuni panni di lana e tenerlo in cantina, da qui l’origine del nome che in arabo significa tesoro.

Recenti studi di settore in Europa hanno messo in luce che si è venuto a formare, per i migranti, un vero e proprio mercato della nostalgia. In Francia è stato verificato che apprendere a mangiare secondo gli usi del paese d’accoglienza genera nei migranti di prima generazione dei veri e propri stati d’ansia che tendono a conservarsi nel tempo e, in qualche caso, medicalizzati. Possiamo dunque affermare, come sottolineano le arti, dal romanzo al cinema, che la cucina costituisce l’ultima traccia delle fedeltà alle proprie radici quando tutto il resto tende a sparire. Una radice festiva che attraverso la festa celebra le origini.

José Luis Sampedro, uno scrittore ed economista spagnolo, meglio catalano, visto che è nato a Barcellona, nel romanzo che lo ha reso famoso, Il sorriso etrusco, racconta di un vecchio che viene a Milano a trovare suo figlio perché sa che sta per morire. Un figlio con il quale ha un rapporto difficile e non si vedono da molto tempo. Ma qui succede qualcosa di sorprendente, una sera che la moglie del figlio è uscita il vecchio tira fuori una borsa con del cibo acquistato in un negozio di specialità spagnole e padre e figlio cominciano a mangiare e a parlare del loro paese d’origine.

Mangiano un migas, un piatto tipico dei pastori a base di pane duro ammorbidito nell’acqua e arricchito con un po’ di tutto quello che c’è, dalle uova, alle salsicce, alle sardine, alla carne affumicata, ai peperoni, eccetera, un piatto spesse volte arricchito con chicchi d’uva e fettine di melone. Oggi non c’è angolo di Spagna che non abbia la sua ricetta. Ebbene il migas riconcilia padre e figlio che finalmente si parlano e si capiscono. Per inciso, i migas sono un piatto derivato dalla cucina araba ed ebraica, nel diventare un piatto nazionale spagnolo si è arricchito, per distinguersi, di carne di maiale. Gli antropologi direbbero a questo proposito che i sapori privilegiati costituiscono un legame segreto e a-temporale che lega l’individuo alla tavola della sua infanzia, anche al di là della madre come figura nutrice. Questo perché mangiare è anche un modo per esprimere la sensualità dei costumi e il sapore del mondo, perché mangiare è prima di tutto un affare di gusto e di sensibilità culturali.

 

 

FINE