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Corso Food-Design a.a. 2011-12 – Design degli atti alimentari – (4 di 5)

(E’ possibile scaricare il testo integrale in formato PDF da questo link: Corso Food-Design a.a. 2011-12)

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Qualche considerazione storica sul gusto.

Il cosiddetto fattore gustativo non era sconosciuto nell’antichità. Plinio, per esempio, è attratto dai sapori e ai quattro canonici (acido, salato, dolce, amaro) aggiunge il sapore acquoso, tipico dell’anguria, dell’aneto, del sedano e del finocchio.

A proposito del vino, Galeno, un medico greco del II secolo, afferma che i vini vecchi, molto apprezzati nell’antichità, acquistano un gusto di drimus. Un espressione che è stata variamente interpretata e sul cui significato sono state fatte molte polemiche. Di recente, André Tchernia, un archeologo specializzato in scienze sociali, parlando di vini romani ha sostenuto che drimus significa piccante, un’espressione che era usata anche per l’aglio, la cipolla, la senape. Nel caso dei vini significa “maderizzato”, cioè, ha acquistato il sapore di quei vini che i francesi chiamano “vins de voile”, cioè ossidati, come la manzanilla o il vin jaune du Jura.

Un diffuso interesse sul gusto si sviluppa alla fine del Medioevo. Sono numerose le opere, soprattutto del XII secolo, intitolate De saporibus. Opere che corrono parallele alla letteratura cortese e spesso mettono insieme l’amore con la cucina e la dolcezza del vivere.

Le tesi sul gusto in questo periodo hanno un tratto innovativo e proclamano la sua sovranità su gli altri sensi, cioè, la sovranità degli aspetti materiali della vita corrente su quelli intellettuali. La stessa Ildegarda di Bingen, santa, grande mistica e naturalista tedesca, nel suo libro sul giardino della salute (1150) dice che il gusto è il principe dei sensi, proclamando una continuità tra corpo e spirito.

Nel XV secolo, gli umanisti mettono al centro di molti dibattiti il piacere di mangiare e il gusto degli alimenti. Lorenzo Valla (1405-1457), romano di nascita, un grande umanista italiano che molti considerano come un precursore di Lutero, che voleva conciliare il cristianesimo con i piaceri della vita, nel suo libro intitolato De Voluptade definisce il piacere un bene supremo che deve accompagnare l’uomo, insieme al gusto, nella sua strada verso la civiltà. Un altro umanista italiano Antonio Beccatelli (1394-1471) detto il Panormita (era nato a Palermo), autore di un libro molto osée per l’epoca, l’Hermaphrodita, arrivò ad elogiare il formaggio – anche per le sue metafore – esaltandone il gusto e il piacere di mangiarlo.

Per venire più vicino a noi ricordiamo Joseph Berchoux (1760-1839), giudice e poeta, nel 1801 pubblica un poema che ottenne da subito un grande successo intitolato La Gastronomie, recuperando una vecchia parola greca gastronomos, alla lettera “legge del ventre”. Berchoux inizia il suo poema legando il gusto al tempo, alle sue stagioni e alla qualità dei prodotti. Non per niente il sottotitolo di questo poema è “l’uomo dei campi a tavola”. Egli vanta il piacere della tavola riprovandone gli eccessi. “Una zuppa fumante”, scrive” è il felice presagio di un pasto eccellente, che deve essere untuoso e odoroso, con i suoi succhi vegetali che lo colorano e lo profumano.”

Non manca una nota politica, perché se il gusto regna attorno ad una tavola feconda afferma l’uguaglianza, il benessere e il piacere.

Nel 1825 esce in Francia, senza indicazione dell’autore, un libro intitolato, Physiologie du goût. Il sottotitolo recita, Meditazioni di gastronomia trascendentale. Il suo autore morirà un paio di mesi dopo, è Anthelme Brillat-Savarin (1775-1826). Era stato avvocato, medico, deputato all’Assemblea Generale e sindaco della sua città natale, ma sarà ricordato solo per questo suo lavoro che fu subito apprezzato da tutti. Egli cerca – anche con osservazioni “scientifiche” per i tempi – di definire il gusto per esaltare la sensualità del vivere. Honoré de Balzac celebra questo libro come uno dei più importanti del suo tempo, le riedizioni e le traduzioni che si sono succedute lo confermano.

Importante a questo proposito è la rilettura che ne fa un grande semiologo, Roland Barthes (1915-1980), nel 1975 – l’edizione italiana di questa rilettura è del 1978 – perché sottolinea un aspetto chiave della fisiologia del gusto, la forma di desiderio che contraddistingue l’uomo. In questo contesto gli animali sono mossi dalla “meccanica” dell’istinto!

 

Il gusto (lat. gustus), è il senso con il quale si percepisce il sapore di un alimento. L’aggettivo di gusto è gustativo, ma per metonimia esso indica il sapore stesso. Acido amaro, dolce e salato (più, in alcune circostanze, il metallico) sono i quattro sapori base della nostra cultura. ppaiono come se avessero un fondamento oggettivo, ma non è così. Torneremo su questo punto.

Cominciamo con l’osservare che nel linguaggio comune il gusto è anche sinonimo di appetito.

In estetica, invece, il gusto si identifica con il giudizio grazie al quale si riconosce la bellezza di qualcosa. Per Voltaire il gusto – come osserva nel suo Dictionnaire philosophique – Est le sentiment prompt d’une beauté parmi les défauts et d’un défaut parmi les beautés.

Siccome l’arte e la bellezza non sono co-estensive, cioè, non vanno oltre quello che è il loro significato proprio, il giudizio artistico non deve essere confuso con il giudizio estetico. Va anche notato che questo senso – in questo senso – indica il primato del soggetto sull’oggetto apprezzato.

Un’analisi sociale di un certo spessore di che cos’è il gusto appare per la prima volta in Occidente con Balthasar Gracián (1061-1658). Questo grande saggista spagnolo sosteneva che la sensibilità dell’uomo di mondo non è limitata alla cultura dello spirito ma pratica anche una cultura del gusto con la quale sfida le apparenze e la menzogna.

Per quanto riguarda il gusto come giudizio estetico, invece, il riferimento principe è a Immanuel Kant (1724-1804). Per questo filosofo il gusto si distingue radicalmente da quelli che sono gli enunciati logici. Questi si muovono per sottomettere la singolarità all’universale, il gusto, invece, è più che altro un arricchimento della sensibilità che agisce sull’esperienza. In altri termini, per Kant, il gusto sfugge alla deduzione, cioè, ad ogni procedimento che lega la conclusione alle sue premesse! Vale a dire, i gusti non si possono discutere.

In pratica, attraverso il gusto il giudizio non scaturisce da una analisi concettuale di ciò che riteniamo sia il suo contenuto e, soprattutto, appare estraneo ad ogni teoria della conoscenza.

Per Kant, il giudizio che si manifesta attraverso il gusto tende alla realizzazione della comunità umana o, meglio, è fondativo di ciò che è in comune in una società. In questo senso ha un forte potere di sintesi.

Si può anche dire che esprime, allo stesso tempo, il soggettivo e l’oggettivo, il singolare e l’universale, l’armonia e l’intesa che stanno alla base del processo immaginativo.

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Il gusto, da qualche anno a questa parte, appare polarizzato. Da una parte assistiamo al fenomeno della “mcdonaldizzazione” dei consumi e dunque dell’omologazione del gusto. Dall’altra abbiamo casi di recupero e salvaguardia delle tradizioni alimentari locali in base alla specificità del gusto dei prodotti coinvolti in queste operazioni. Sono i nuovi giardini zoologici che molti chiamano presidi. Questi interventi avvengono secondo modalità bottom up, oppure attraverso operazioni di marketing il cui target è rappresentato soprattutto dai ceti urbani medio-alti secondo strategie top down.

Top down e bottom up sono due espressioni che indicano due metodologie adoperate per analizzare situazioni problematiche e per costruire ipotesi adeguate alla loro soluzione.

Il top down richiama l’immagine di una piramide con la cima top in alto e la base down in basso. Il metodo prevede di partire dal top e scendere verso il basso. Il bottom up può essere immaginato come una freccia in cui la coda, bottom, è la parte bassa e la punta verso la quale ci s’indirizza l’obiettivo, up.

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Al concetto di gusto si connettono: la sensazione, la percezione, il senso, la significazione, l’emozione. Vediamone brevemente alcuni caratteri.

La sensazione (lat. sensatio) è l’impressione ricevuta per l’intermediazione dei sensi.

Presa di per sé costituisce un fatto elementare proprio degli organismi superiori. Per meglio dire, è il risultato dell’azione di un’eccitazione sull’organo recettore del senso, dei muscoli o delle viscere che, attraverso i nervi, trasmette l’eccitazione ad un centro nervoso.

Le sensazioni sono inevitabilmente qualificate, vale a dire, sono ricevute dal soggetto come piacevoli o spiacevoli. In altri termini, non esistono sensazioni neutre. Aristotele (384-322) definiva la sensazione come l’atto unico e comune del sensibile e del senziente. Per la filosofia moderna la sensazione è il momento primo e immediato del rapporto dell’essere con il mondo, dunque, il primo stadio della coscienza. In questo senso la sensazione è sinonimo di coscienza sensibile. Nel linguaggio comune la sensazione è pensata come un’impressione fisica globale e diffusa.

La percezione (lat. perceptio, raccolto) era, in origine, una bella espressione rovinata dagli autori cristiani, che ne hanno fatto l’azione di ricevere lo “spirito” o il “corpo del cristo”. In principio la percezione era identificata con la conoscenza. Perceptio traduce in latino la katalêpsis greca, l’essere raccolti in sé. Cartesio (1596-1650) identifica la percezione con il pensiero. Ancora oggi la percezione di un pensiero è il suo pensiero. Baruch Spinosa (1632-1677) chiama percezione ciascuno dei tre modi della conoscenza (per sentito dire, per deduzione, per induzione). La percezione, su un altro registro, è anche l’attività con la quale l’organismo interpretare il mondo esteriore. In questo senso, la percezione aggiunge alla sensazione l’attenzione (cioè l’interesse) e la comprensione. David Hume (1711-1776) il fondatore dell’empirismo, distingue due tipi di percezione: le impressioni che toccano direttamente i sensi e le idee che ne derivano.

Il senso (lat. sensus, azione del sentire), nell’ordine del sensibile è la funzione per la quale un organismo superiore riceve le impressioni degli oggetti esteriori. I cinque sensi tradizionali sono la vista, l’udito, l’odorato, il gusto e il tatto, essi sono stati spesso rappresentati per mezzo dell’allegoria nella pittura classica europea. In qualche modo esprimevano l’attaccamento alla sostanza delle cose. Il primato, non ammesso, della cultura materiale sulle illusioni della metafisica. Per i materialisti costituiscono il modo più efficace di pensare le forme del desiderio.

Il senso, nella cultura occidentale, è comunemente inteso come sinonimo di sensualità, di concupiscenza, ed è significativo il fatto che questa accezione è sempre piuttosto negativa.

Per i moralisti è perduto chi non controlla le passioni, chi non si trattiene. In Gottlob Frege (1848-1925) il senso è ciò che determina il suo referente. Il referente, in linguistica, è l’entità a cui fa riferimento un segno o, su un altro versante, la realtà, la situazione che una data comunicazione linguistica esprime o alla quale rinvia. Va da sé, un’espressione può avere un senso senza avere un referente, così come sensi diversi possono avere lo stesso referente.

Il senso, poi, ordina lo spazio ed indica i lati di una cosa – nel linguaggio comune diciamo, rigirare un oggetto in tutti i sensi – oppure la direzione – il senso del vento, il senso proibito, il senso unico.

In matematica non si può confondere il senso con la direzione. Secondo Gilles Deleuze (1925-1995) il senso non sta né nel reale, né nella coscienza dell’attore né nel linguaggio. Esso è la quarta dimensione della proposizione, il ciò che esprime. Corrisponde a ciò che gli stoici chiamavano evenimento. Corrisponde all’evento e deriva da evenire. Cioè, da avvenire.

Lo stoicismo è una corrente filosofica che risale al terzo secolo prima dell’era comune. Il nome deriva dal portico dipinto, stoà poikíle, dove Zenone teneva le sue lezioni. In breve sono i filosofi dell’etica, definita come una forma di autocontrollo nella vita.

Per Deleuze, dunque, di conseguenza, non si può dire che il senso esiste, ma solo che insiste o sussiste.

La significazione (lat. significatio, annuncio, indicazione, senso di una parola) da un punto di vista logico è ciò che rinvia ad un segno o ad un insieme di segni, in altre parole, è l’atto di significare.

Vale a dire è un sinonimo di senso e di referenza. In psicologia la significazione è il contenuto rappresentazionale di un segno o di un insieme di segni.

Per Ferdinande de Saussure (1857-1913) è la relazione reciproca di un significante e di un significato, di un segno in un contesto sistemico particolare.

L’emozione (lat. emotus, da emovere) si può definire come l’insieme degli stati affettivi o, più precisamente, l’insieme delle manifestazioni complesse ed organizzate della vita effettiva, che spesso possono manifestarsi accompagnate da turbe fisiologiche come l’impallidire, l’arrossire, l’accelerazione del polso, le palpitazioni, il tremore, l’incapacità a parlare, l’agitazione.

La psicologia, un tempo, distingueva l’emozione estetica dall’emozione morale che si preferisce chiamare sentimento. In ogni modo le emozioni non sono mai avvertite indipendentemente dal loro contesto sociale e culturale. A questo proposito non va assolutamente dimenticato che si possono incontrare sentimenti o emozioni che esistono in una cultura e non in un’altra. Sono, generalmente, condizioni di melanconia e di tristezza come il saudade de portoghesi, il dor dei romeni o lo spleen degli inglesi.

Il saudade o lo spleen sono sentimenti conosciuti, il dor, invece, merita una spiegazione. È quel sentimento che fa piangere i rumeni davanti alla mamaliga o alla musica. La mamaliga è una specie di polenta che serve ad accompagnare molti piatti, in particolare, le cipolle dorate in padella, le uova, il formaggio e il pesce salato. Il dor, in buona sostanza, è la laboriosità, come riservatezza ed espressione della vita semplice. La parola deriva da docor e desiderium, che si riflettono nei canti e nelle ballate. L’istituto del folclore romeno ne ha raccolti più di sessantamila, la forma più famosa di essi è la doinà che descrive la malinconia dei pastori, la vita errante, l’amore, la rivolta e il dolore della morte. La rivolta contro l’invasore turco che essi fermarono in Transilvania.

Per riassumere, la cognizione (intesa come la conoscenza vera e diretta) è l’elemento costitutivo maggiore dell’esperienza emozionale. La caratteristica di questa esperienza è l’esperienza del piacere e del dolore, intrinsecamente legata all’aspetto attrattivo o repulsivo degli avvenimenti.

Le espressioni e i comportamenti emotivi di queste esperienze sono di due tipi, esaltativi o inibitivi.

Va infine osservato che queste esperienze emozionali sono presenti in modo importante nelle condotte alimentari e interagiscono direttamente per attivare o disincentivare i consumi.

Con esse è possibile costruire un mercato delle ideologie degli atti alimentari, esattamente come si fa con altre espressioni del sentire, per esempio, lo sport. Nella fattispecie: Il sapore di un cibo è il risultato di alcune modalità sensoriali (gustazione, visione, odorato, consistenza al tatto, ecc…) e della significazione che prendono queste percezioni. Il passaggio dalla sensazione alla percezione è, negli atti alimentari, fondamentale ed esso è determinante per comprendere il ruolo giocato dalle emozioni. Grazie all’apprendimento, poi, si stabiliscono delle regole che fanno da ponte tra quello che noi siamo dal punto di vista della nostra fisiologia e quello che diventiamo dal punto di vista culturale e sociale.

 

I filosofi hanno discusso a lungo sul fatto se la percezione della bellezza doveva essere intesa come innata o frutto di una educazione. Allo stesso modo si è discusso sul gusto. Per esempio, il bambino possiede o non possiede un senso innato che gli permette di distinguere da subito un cattivo gusto e dunque di rifiutare il piatto che gli viene proposto? Soprattutto, che cos’è il gusto di un cibo? Perché i sapori della nostra infanzia ci accompagnano per tutta la vita?

Sono alcune delle domande iniziali di chi s’interroga sulle abitudini alimentari, proprie e degli altri.

L’espressione di gusto è polisemia, nel linguaggio comune si parla di buono e di cattivo gusto e con questo s’investono i campi più diversi dell’apprezzamento, da quello sociale a quello artistico, così come si parla del gusto di vivere, come del gusto amaro di una rinuncia.

Per quanto riguarda gli atti alimentari è conveniente distinguere il gusto come modalità sensoriale, dal gusto che deriva da un apprezzamento polisensorale.

Non va dimenticato che, come esperienza gustativa il gusto è, da un punto di vista filogenetico (cioè, dei processi evolutivi) una modalità sensoriale arcaica. Quanto alla sua ontogenesi, vale a dire, dal punto di vista dello sviluppo dell’individuo, è una modalità precoce. Infatti, ha un posto funzionale nella nostra specie, attraverso la madre, a partire dal quarto mese di gravidanza.

Vediamo alcuni aspetti peculiari del gusto.

Uno. Nell’esaminare la funzionalità del gusto si riscontra una grande differenza interindividuale, senza che questa abbia un qualche significato patologico. Dal punto di vista del nostro organismo siamo tutti dotati per avvertire le finezze di un sapore e questa dotazione appare come una caratteristica che possiamo definire individuale. Essa si manifesta molto presto, a partire da un anno circa di età.

Due. Esiste un carattere innato che l’uomo condivide con molte specie animali, una preferenza per il dolce e un rifiuto per l’amaro.

Tre. La sensazione gustativa presenta una specificità funzionale in rapporto ad altre modalità sensoriali. Possiamo definire questa specificità come una connotazione edonica elementare per la quale tutte le stimolazioni sono percepite sia in modo cognitivo che affettivo.

Una tale tonalità affettiva va considerata profonda e viscerale ed essa gioca un ruolo fondamentale nel fare in modo che la gustazione non sia mai neutrale.

Quattro. La stimolazione gustativa, quando supera una certa soglia è all’origine di un curioso fenomeno, il riflesso gusto-facciale. Si tratta di una reazione mimica che varia secondo i differenti sapori (salato, dolce, acido, amaro) ed è identica, per lo stesso sapore, da un individuo all’altro.

Questa mimica è all’origine di un riflesso non intenzionale, dunque stimolo-dipendente. In sostanza può essere sempre provocato con una stimolazione adeguata.

Nel corso dello sviluppo il bambino s’appropria in qualche modo di questa mimica e la trasforma in un efficacie mezzo di comunicazione non verbale. Ricordiamo, en passant, che i bambini con malformazioni gravi del Sistema Nervoso Centrale (SNC) presentano le stesse reazioni comportamentali ai diversi stimoli gustativi di quelle dei bambini normali. Questa comunicazione precede l’apparizione del linguaggio orale e resta fissata per tutta la vita giocando un ruolo importante di comunicazione tra gli individui e adeguandosi ai codici sociali del gruppo.

In questo senso, la mimica del riflesso gusto-facciale gioca un ruolo importante nella comunicazione pubblicitaria (fotografica o cine-televisiva) degli alimenti pronti al consumo, come le creme, i gelati, gli yogurt, le merendine, la confetteria…

Vediamo altri due problemi. Esiste un “centro del piacere” nel SNC? Come sono trattate le informazioni sensoriali?

La risposta al primo problema è conosciuta da tempo. I dati neurofisiologici raccolti ci autorizzano ad escludere l’esistenza di un tale centro. Di contro, conosciamo bene le vie dell’informazione sensoriale, comprese quelle degli stati affettivi.

La risposta al secondo problema la troviamo sia negli studi di neurofisiologia che in quelli comportamentali.

Molte ricerche di laboratorio sugli animali hanno permesso di mettere in evidenza che se essi sono messi nella condizione di poter scegliere, imparano, in un tempo più o meno lungo, ad ottimizzare il loro piacere di mangiare combinando il profilo sensoriale dell’alimento ai vantaggi e agli svantaggi che gliene derivano.

Altri esperimenti compiuti con gli scimpanzé e i bonobo mostrano come ci sono nel loro sistema nervoso delle cellule che reagiscono alla semplice vista di un alimento che queste scimmie antropomorfe sanno che è buono per loro. Così, alla semplice vista di un frutto le cellule si attivano come se esso fosse già nella sua bocca. Siamo in presenza di un fenomeno legato ai meccanismi dell’apprendimento nel quale il soggetto anticipa le conseguenze dell’ingestione che egli prevede di fare in base a ciò che gli suggeriscono le esperienze anteriori.

Numerosi esperimenti sono stati anche condotti con le cavie per verificare il comportamento in situazioni di conflitto tra il piacere di mangiare un cibo e il disagio di doverlo andare a prendere in un luogo freddo rispetto alla tana (le cavie sono animali che fuggono le basse temperature) in modo da studiare i compromessi messi in atto. La reazione più comune, nell’esempio delle cavie, è quella di accelerare la velocità con la quale mangiano. Sono, fatte le debite differenze, gli stessi esperimenti che il marketing usa per definire la posizione di un supermercato nella topografia urbana e la posizione di un prodotto sugli scaffali.

Ricordiamo, en passant, che Jeremy Bentham (1748-1832), il filosofo dell’utilitarismo inglese che cercò di trasformare l’etica in una scienza esatta, introdusse nella sua analisi filosofica la nozione di “aritmetica del piacere”. Un concetto ripreso, oggi, da coloro che studiano il fenomeno dell’allostesia, termine con il quale si definisce il fatto che l’intensità di piacere/dispiacere evocato da uno stimolo alimentare può variare secondo lo stato energetico interno del consumatore. In questo senso, la sensazione edenica provocata da uno stimolo dolce, percepita come piacevole, si innalza se il soggetto è affamato e si abbassa se è rifocillato. Questo cambiamento di prospettiva nella sensazione gustativa si associa soprattutto all’olfatto e, in sub-ordine alla sensazione termica, e può essere sviluppata culturalmente – solo l’uomo mangia cibi caldi.

L’odore dell’aglio per chi sta aspettando un piatto di spaghetti saltati è molto appetitoso, lo stesso odore diventa disgustoso al momento del caffè o alla fine del pasto. Così come può risultare disgustoso, e questo dipende da fattori culturali, lontano dalle ore dei pasti.

Come abbiamo osservato, il gusto, come il sapore proprio di un piatto, è un insieme molto complesso. L’apprezzamento, infatti, non è legato solo al gusto, ma dipende anche dall’olfatto, che spesso “domina” o “indirizza” l’attività di degustazione. Non per caso, nell’esperienza comune, si dice che il raffreddore cancella il gusto dei cibi che si mangiano.

In ogni caso l’olfatto è un senso estremamente complesso e questa complessità si esprime con una modalità molto ricca, si è valutato che un individuo senza un particolare addestramento è in grado di distinguere da tremila a quindicimila odori differenti. A differenza del gusto, poi, non ci sono dei buoni o dei cattivi odori universali, perchè la reazione emozionale ad un odore è culturalmente appresa.

A fianco del gusto e dell’odorato nell’apprezzamento di un cibo può intervenire, come abbiamo visto, anche la percezione termica, la percezione della sua struttura, dei suoi volumi e perfino del suo suono – non riusciamo ad immaginare una purea che si spezza con quel rumore caratteristico dei biscotti e viceversa! Il suono di una patatina sgranocchiata, di un “biscotto” o di un “wafer” che si rompono, come suoni specifici di un cibo, sono così importanti da costituire un aspetto chiave di molti messaggi pubblicitari soprattutto quando s’intrecciano ai “rumori dell’amore”.

In breve, ciascuna modalità sensoriale obbedisce a delle regole che le sono proprie ed esse, sommandosi, costituiscono di più di una semplice addizione. Il risultato finale, che gli specialisti chiamano sinestesia, è un insieme che rappresenta, allo stesso tempo, un’interazione neurofisiologica e un’espressione sensoriale di questo insieme nel quale si compie il passaggio dalla sensazione alla percezione.

La sensazione è il messaggio, il segnale inviato dall’organo di senso. La percezione è la lettura di questo segnale, la sua traduzione, l’attribuzione di un significato a ciascun messaggio e all’insieme dei messaggi. La percezione, che è semiotizzante, vale a dire capace di coniugare espressione e contenuto, si realizza e si “educa” proprio grazie all’apprendimento e all’esperienza personale.

Qui l’apprendimento gioca un ruolo importante, ma a quale livello interviene? Esattamente tra ciò che noi siamo da un punto di vista biologico e ciò che noi diventiamo da un punto di vista culturale e sociale. Non dobbiamo dimenticare che l’individuo con la nascita è, da subito, investito di un doppio patrimonio, che non ha scelto, biologico e culturale, patrimonio che interagisce in continuazione su di lui contribuendo a formare la sua identità individuale.

In questo senso è semplicistico cercare di valutare un comportamento alimentare scindendolo tra innato e acquisito. A livello del gustativo l’apprendimento interviene fin dal principio sia per imparare a nominare le sensazioni (questo e dolce, questo è salato, ecc…), che per sperimentare la loro intensità. Infatti, non esistono scale d’intensità inscritte nell’individuo ed è solo l’esperienza che consente ad ognuno di definirle, ciò che è intenso per qualcuno e debole per qualcun altro, come quasi sempre avviene soprattutto per la sensazione del salato. Dunque, a lato di un apprendimento psicofisiologico, destinato a misurare la magnitudine di una sensazione, abbiamo un apprendimento culturale e sociale destinato ad educarci di fronte alle norme e alle consuetudini.

Va ricordato che nella vita corrente è raro che un individuo gusti dei sapori puri e soprattutto che compia questa esperienza da solo. In altri termini, l’attività di degustazione si effettua sempre all’interno di un contesto sociale e nell’ambito di un processo cerimoniale che definiamo commensalità. È un processo che si organizza intorno alla tavola sviluppando la convivialità e si verticalizza creando una gerarchia che ha il potere di condurre all’esperienza del sacro. In ambo le direzioni tende a gestire i fenomeni legati alla formazione del simbolico. Nell’uomo il contesto sociale e l’aspetto relazionale, tenuto conto dell’imperizia funzionale che fa capo all’infanzia prolungata, dipendono totalmente dall’ambiente. In questo contesto, giorno dopo giorno, apprendiamo a sperimentare i sapori che sono indotti dall’ambiente culturale che ci circonda: famiglia, membri del gruppo sociale, luogo nel quale cresciamo, informazioni ricevute.

Ancora, nello stesso processo con il quale apprendiamo una norma intorno ad un sapore, apprendiamo anche qualcosa sul nostro repertorio alimentare di riferimento, cioè, a definire un cibo in un contesto sociale e culturale assegnato.

Ogni cultura in ogni epoca definisce il repertorio di ciò che deve essere considerato un alimento dai suoi membri, sia che si tratti di alimenti da evitare o proibiti, sia che si tratti, ed è il caso più frequente, di alimenti preferenziali, con i quali si appongono i limiti e i confini della identità culturale percepita in rapporto agli “Altri”. In questo senso non deve sorprendere che le scelte alimentari degli Altri abbiano sempre un carattere peggiorativo, i francesi sono “mangiarane”, i tedeschi sono “mangiapatate” gli italiani sono “mangiaspaghetti”, eccetera.

L’alimento del resto non è mai un oggetto come gli altri, è per definizione mangiato, vale a dire, è introdotto in sé, incorporato, fatto diventare “io”. Occorre in qualche modo valutarne il rischio e accettarne le conseguenze, positive e negative che esse siano. Per questo Claude Lévi-Strauss ha scritto: “Un aliment ne doit pas être seulement bon à manger, mais aussi bon à penser”.

Apprendere quello che costituisce un alimento è una delle prime e più importanti forme di educazione culturale. In chiave antropologica le altre sono proteggersi, avere un attività sessuale, mantenere la temperatura corporea entro certi limiti, comprendere i meccanismi dell’interazione sociale. Questa educazione ci consente di far parte di una comunità e di riconoscere i suoi marcatori alimentari.

Un tale apprendimento ha una dimensione sociale e nella pratica si realizza in un contesto relazionale, interpersonale e, nello specifico dell’infanzia, tra due o più individui. In altri termini, accanto agli aspetti meramente cognitivi e accanto al carattere edenico innato della sensazione gustativa, va rilevata l’importanza del contesto affettivo ed emozionale nel quale s’inscrivono le condotto alimentari. Possiamo dire che il bambino è educato a mangiare attraverso il nutrirsi.

Per i genitori, soprattutto a partire dallo svezzamento, nutrire un bambino è una metafora del dare la vita tanto che le madri che vedono rifiutarsi un cibo lo vivono spesso come un rifiuto di esse stesse.

Di contro, essere nutriti per i bambini è molto di più che l’appagamento di un bisogno, l’atto esprime la realizzazione di un legame affettivo, l’occasione di uno sguardo, di un sorriso, di un confronto amoroso, l’esperienza vissuta di una complicità che spesso muta in un ricordo doloroso o felice. L’apprendimento al suo esordio è impositivo, ma diventa molto presto con la crescita e la conoscenza delle circostanze, un apprendimento per osservazione o per emulazione, esprimendo il desiderio di diventare come l’Altro da sé.

All’inizio le sue radici sono nella famiglia, poi si espande ai propri pari e ai propri coetanei per diventare, nelle società di massa e con la pubblicità, un apprendimento fondato sulle abitudini dei propri gruppi di riferimento ideali. Per integrarsi in società, in un gruppo di riferimento e perfino in una “banda” bisogna fare come gli altri, mangiare come gli altri, il contrario può rapidamente portare all’emarginazione e all’esclusione. Un fenomeno che in passato a fortemente marcato la mafia italo-americana e quella di origine ebraica.

C’è, infine, da osservare che l’apprendimento per osservazione è sempre più precoce perché l’osservare è sempre più importante e costituisce nella modernità l’anticamera della socialità.

Studi su questo aspetto dell’apprendimento hanno mostrato che esso ha inizio addirittura nella scuola materna. È dimostrato che gli adolescenti rifiutano a casa degli alimenti che invece consumano in comunità, è il caso delle carote bollite che immancabilmente fanno parte delle diete scolastiche. Da qui un tema irrisolto, qual è il potere dell’educazione e quale coercizione questo potere può esercitare sulle abitudini alimentari?

Si è constatato che le pressioni sugli adolescenti portano spesso al consolidarsi di conflitti e rifiuti che, in alcune circostanze, sono alla base dei disordini alimentari che esplodono in età adulta. Di contro, una buona atmosfera delle cerimonie conviviali consente un apprendimento più ragionato e intelligente del piacere alimentare. Questi processi sono condivisi, ma naturalmente ciascuno li vive dentro la propria storia, le proprie esperienze e i propri ricordi. Come dice un adagio pubblicitario, tutti gli adulti sono stati bambini, ma non tutti i bambini sono necessariamente degli adulti. I ricordi dell’infanzia, in questa prospettiva, sono inseparabili dal nido familiare, dai genitori, dal cibo ed essi non solo rappresentano una sorta di paradiso perduto, ma contribuiscono alla costruzione dell’immaginario. La parola chiave in questo contesto è la parola ricordo che gioca un ruolo capitale nell’apprendimento dei gusti, nella cultura degli atti alimentari, nell’educazione a ciò che valutiamo buono.

Inevitabilmente torna alla memoria Marcel Proust e la sua famosa madeleine. Questo scrittore è stato quello che meglio di ogni altro ha saputo tratteggiare nell’ambito del romanzo europeo “l’immenso edificio del ricordo” e le sue pratiche.

Alla luce di quanto abbiamo visto la cucina ad un certo punto della sua storia ha finito per diventare uno strumento di mediazione tra la natura e la cultura, una scuola di regole e di cerimonie, un esercizio di varianti e un’affermazione d’invarianti, in breve, una forma dialettica che armonizza la monotonia con la varietà. In sostanza i ricordi nell’ambito degli atti alimentari sono degli strumenti con i quali possiamo fronteggiare l’ansia che accompagna la nostra condizione di onnivori.

La cucina, poi, quando diviene ricerca estetica, come nelle tendenze della cultura occidentale di questi anni, fa del ricordo il fondamento dell’esperienza artistica. Per ironia, essa è la sola forma d’arte che bisogna distruggere per poter apprezzare…e forse è meglio così, vista la funzione del ricordo! Ma qual è la sostanza che lo compone? Sapori, odori, emozioni, cioè, atmosfere.

I ricordi, come i gusti, non sono mai neutri e tendono a persistere, fino al paradosso di riprodurre in continuazione nella nostra vita di adulti, sotto la forma struggente della nostalgia, il ricordo ossessivo delle atmosfere della nostra infanzia prolungata.

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Inciso. Abbiamo impiegato l’espressione di “infanzia prolungata”, la dobbiamo ad un antropologo ungherese, al tempo stesso uno dei più brillanti allievi di Freud, Géza Róheim (1891-1953). Per questo antropologo la cultura può essere considerata l’esito di un ritardo, di un rallentamento o di un freno del processo di crescita o di prolungamento della situazione infantile. Com’è noto la durata della gestazione è un elemento che rivela la complessità dell’organismo e della sua organizzazione biologica. La gravidanza delle scimmie antropomorfe è di diversi mesi più lunga di quella della donna. La gazzella africana due ore dopo la nascita è in grado di camminare e ha già scoperto l’atto della suzione per alimentarsi. Il cucciolo dell’uomo è naturalmente impotente per almeno una dozzina d’anni dal momento della sua nascita e socialmente incapace fin oltre la pubertà, come dimostrano gli studi sulla famiglia. In pratica il carattere dell’incompletezza dell’uomo al momento della sua nascita è quello più pronunciato tra i mammiferi. Cosa se ne deduce? Che nella storia dell’uomo l’ontogenesi ha un peso maggiore rispetto a tutti gli altri mammiferi, vuol dire che la parte di quello che si acquisisce per trasmissione culturale è assolutamente più rilevante di tutto ciò che possiamo definire innato. Da questo stato di cose si evince che un ruolo determinante nella vita degli uomini deriva dall’esperienza, perché con l’esperienza è possibile assecondare, contrastare, dirottare, modificare ciò che abbiamo ereditato biologicamente e culturalmente.

Da questi particolari caratteri della specie umana la psico-analisi ne deduce che l’età adulta non è separabile dall’infanzia protratta, ma ne costituisce l’esito. La nostra infanzia, insomma, può essere “superata”, ma non può essere “separata” da quell’insieme che chiamiamo vita. Va da sé che le istituzioni sociali e culturali risultano in qualche modo condizionate dall’infanzia protratta. La nevrosi, per esempio, ha come tratto caratteristico quella di essere una fissazione sul passato infantile dell’individuo, così essa si esprime come un ulteriore elemento di rallentamento.

In altri termini è un ostacolo per il soggetto che vuole investire sul presente. Questo spiega il perché il carattere più evidente della nevrosi è di essere anacronistica. Un anacronismo che s’invera in due atteggiamenti: la mera e acritica replica del passato. La deformazione del presente.

Queste considerazioni ci consentono di razionalizzare il fine dei processi di estetizzazione delle forme culturali, politiche, economiche, religiose e sociali della società, perché essi costituiscono un meccanismo di difesa volto a neutralizzare le tensioni libidinali ereditate dall’infanzia.

Paradossalmente, la differenza sostanziale – da un punto di vista morfologico – tra l’uomo e l’animale risiede proprio nel carattere infantile dell’uomo e uno degli effetti più visibili di questo è costituito dal carattere traumatico dell’esperienza sessuale. Poeticamente si può dire che il complesso di Edipo appare come un conflitto permanente tra i primi amori e gli amori che ci aspettano.

In chiave antropologica, nell’infanzia protratta l’Altro parentale si pone come uno schermo tra il bambino e la realtà, addirittura, compare nella prima infanzia come se fosse la realtà. In questo modo l’aggressività – fondamentale nell’habitat animale – come mezzo per sopravvivere nella lotta con la realtà può fissarsi sotto la forma di una pseudo-attività senza scopo, sotto forma di gioco, o come una pseudo-lotta nella quale l’Altro (parentale), il padre o la madre, i nonni, eccetera, figurano come degli pseudo-antagonisti. Nella modernità questo schema è aggravato dal fatto che le forme economiche e culturali costringono spesso le giovani generazioni ad una infanzia protratta artificiale. In questo senso l’aggressività, come la conosciamo dalle sue espressioni culturali, è un residuo antropologico molto vicino alla forma di nevrosi. Questa aggressività ha una natura maligna rispetto a quella degli animali, in cui compare in forma funzionale.

Ha sottolineato Freud a questo proposito come il gioco, una metafora dell’aggressività, nel fronteggiamento della coscienza dell’essersi con il reale, sposta la funzione della soddisfazione sulla ripetizione senza scopo. In queste circostanze la “cura” della nevrosi è quella di rianimare il passato e di metterlo a confronto con il qui-ora del soggetto. La rianimazione è dunque nella forma di una catarsi, di un rito di iniziazione. L’infanzia protratta, tra l’altro, costringe il soggetto adulto a conservare certi attitudini infantili. Lo si vede bene dove questa conservazione è più attiva, come di fronte alle forme di pericolo e di fronte alle forme alimentari. In questo senso, il pericolo, come il ricordo del cibo, infantilizza il comportamento adulto rivitalizzando l’angoscia. In pratica favorisce l’emergere di un comportamento di tipo nevrotico.