Politecnico di Milano, Anno Accademico 2011-2012
Cattedra di FOOD-DESIGN.
(Prima esercitazione, mercoledì 7 marzo 2012)
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L’IDENTITA’ SOGGETTIVA.
LOOKING THROUGH THE FOOD.
(Premessa)
L’espressione d’identità deriva dal latino idem che implica continuità e permanenza del medesimo. Nella storia delle idee è un concetto che è stato spesso usato per esaminare la permanenza nel cambiamento e l’unità nella diversità. Nella modernità invece l’identità è strettamente legata all’emergere dell’individualismo. Tradizionalmente si fanno risalire i primi studi sull’identità alla filosofia inglese, in particolare a John Locke e a David Hume. In ogni caso è solo a partire dalla seconda metà del ‘900 che il termine identità diventa d’uso comune sulla scia della psicologia, della psicoanalisi e delle scienze sociali, traboccando nella letteratura, nelle arti e, attraverso la “società di massa” , nel costume e nella vita corrente oltre che nella lotta di classe e nei pregiudizi razziali.
La tradizione sociologica della teoria dell’identità è legata soprattutto al’interazionismo simbolico e si sviluppa a partire dal pragmatismo americano sia con William James che Goerge Herbet Mead. Per James l’identità si rivela quando possiamo dire: “Questo sono realmente io!”
In altri termini quando il se – una capacità tipicamente umana – permette agli individui di riflettere su se stessi, di distinguere l’io dal Me, di interagire con la società nella quale l’identità è costruita, sostenuta e trasformata socialmente.
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In particolare l’identità soggettiva è l’insieme delle proprie caratteristiche auto-percepite. Costituisce un’identità fluida, difficile da circoscrivere, carica di ombre, di tenerezze, di agguati, con la quale dobbiamo fare in continuazione i conti. È anche tutto ciò che ci caratterizza, ci rende inconfondibili, ci consente di dare un senso all’idea di “Io”. Così, l’identità soggettiva serve sia ad identificarci che a discriminarci, producendo spesso degli stereotipi culturali che alimentano il pregiudizio, in essa convergono almeno tre rappresentazioni di ciò che siamo:
La nostra identità fisica, che si desume principalmente dal volto, dalla postura e dal sesso.
La nostra identità sociale, ovvero l’insieme di alcune caratteristiche quali l’età , lo stato civile, la professione, la classe di reddito.
La nostra identità psicologica, costituita dalla personalità che abbiamo, dalla conoscenza di sé, dallo stile di vita e di comportamento.
Sono identità che variano più o meno rapidamente e coscientemente. Più o meno indipendentemente da quello che noi vogliamo o siamo in grado di volere.
Va considerato che queste rappresentazioni dell’identità, anche se non coincidono, sono profondamene intrecciate tra di loro. Per esempio, il mio modo di vedermi è in larga misura il riflesso della maniera in cui mi guardano gli altri e della maniera in cui io so che gli altri mi vedono, con il risultato che molto spesso i giudizi che esprimiamo o riceviamo sono improntati sulla malafede, sulla cortesia, o godono di una benevolenza parentale ed amicale.
L’identità soggettiva indica anche la capacità degli individui di aver una coscienza dell’esistere e di “permanere” attraverso tutte le fratture dell’esperienza.
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È opinione condivisa che gli atti alimentari riflettono la nostra personalità.
Se gli alimenti che ingeriamo sono indispensabili alla vita, il nostro gusto, lo stile con cui mangiamo, les nos manières de table ci situano nel mondo e nella società.
La nostra identità, da questo punto di vista, si costruisce attraverso le abitudini dell’infanzia, i modi alimentari della classe alla quale apparteniamo o quella alla quale vorremmo appartenere, dalle nostre relazioni familiari.
Obiettivo dell’esercitazione è la realizzazione di un autoritratto che esprima
la nostra “identità soggettiva” o quello che riteniamo sia una rappresentazione di essa identificando noi stessi in un piatto, in un cibo, in un sapore, nel colore di qualcosa che amiamo mangiare o abbiamo mangiato, in un ricordo di una “madeleine” come ci racconta Marcel Proust in Alla ricerca del tempo perduto, quando in un biscotto rivive la sua Combray.
L’autoritratto può essere elaborato con il mezzo espressivo che si ritiene più opportuno, disegno, foto, fumetto, collage, rappresentazione elaborata per via elettronica.
L’elaborato dovrà essere presentato stampato su un foglio A4.
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“…il mio modo di vedermi è in larga misura il riflesso della maniera in cui mi vedono gli altri e della maniera in cui io so che mi vedono gli altri: normalmente si “chiede” ad altre persone di dirci chi siamo. A questo punto, però, veniamo a trovarci in una situazione abbastanza spinosa, perché di norma non domandiamo a tutti gli altri di definirci e di illuminarci sul nostro carattere, ma operiamo una selezione tra le persone che reputiamo deputate a tal compito: esse sono essenzialmente i nostri familiari e i nostri amici. In questo modo accade che coloro che dovrebbe farci conoscere le nostre peculiarità caratteriali, sono proprio quelle persone che tendono a presentarci la versione più gradevole e più accettabile della nostra personalità. Di conseguenza, spesso si vengono a creare delle situazioni improntate sulla malafede, perché l’immagine di me stesso che mi sono creato risulta più favorevole dell’immagine che ho delle persone esterne alla cerchia più intima dei miei conoscenti.”
Giovanni Jervis 1933-2009.
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