SOCIOLOGIA DELLA COMUNICAZIONE
(PARTE SECONDA)
La velocità e i numerosi cambiamenti tecnologici, intervenuti a partire dalla seconda metà del secolo scorso, ridisegnarono un mondo costituito da realtà separate le une dalle altre, e dai caratteri specifici e definiti.
Realtà delimitate da confini sia reali che simbolici, confini ben delineati e difficili da ridurre a un unico paradigma.
Nota bene: Un paradigma rappresenta un modello di riferimento o, meglio, una matrice disciplinare che delimita il campo, la logica e la prassi della ricerca nell’ambito di un argomento scientifico, in questo caso il concetto di società.
In altri termini, per molto tempo la coincidenza di territorio, cultura, lingua e popolo – che si intravede dietro questo modello, sostanzialmente ideologico e politico – ha rappresentato una delle più importanti motivazioni per la nascita e la costruzione degli Stati nazionali.
Un modello che ritroviamo sia alla base di molte opere letterarie, artistiche e musicali, che di molte analisi politiche, economiche e sociologiche, che hanno alimentato rimpianti, nostalgie e rivendicazioni di ogni genere.
Con la fine del ventesimo secolo è in modo piuttosto accelerato c’è poi stato un importante sovvertimento del rapporto tra gli spazi nazionali, i territori e gli spazi sociali.
Questo sovvertimento – in molta parte dell’opinione pubblica – ha generato la convinzione che i linguaggi, le pratiche culturali, le relazioni sociali, i patrimoni simbolici, i manufatti sono radicati non già nello Stato nazionale ma in luoghi e in comunità geograficamente ben definiti.
Va aggiunto che fuori dall’Europa storica i violenti conflitti etnici che sono scoppiati hanno rivelato come la forma di Stato nazionale è un coacervo di gruppi etnici diversi, quasi sempre in polemica o in conflitto tra di loro.
Gruppi spesso assimilabili a “comunità immaginarie” più che a un tessuto di comunanze sviluppate e omogenee.
In questa prima parte di secolo è facile costatare come molti Stati sono attraversati da tensioni separatiste, altri sono messi in discussione da realtà locali in concorrenza tra di loro altri ancora sono minacciati, soprattutto sul piano economico, da autorità sovra-nazionali.
Ha scritto il filosofo e sociologo tedesco Jürgen Habermas: Uno dei principi più importanti elaborati negli ultimi due secoli dello scorso millennio – vae a dire la nozione di sovranità della coppia Stato/Nazione – è stata messa in discussione e si è differenziata frantumandosi tra autorità locali, regionali, nazionali, globali.
Le nuove e massicce forme di migrazione, i nuovi sistemi di comunicazione digitale, le strategie finanziarie globali, i nuovi assetti politici, sono paradigmi che hanno attraversato i vecchi confini e generato pratiche socioculturali inedite che hanno dato vita a forme di multipolarità territoriale.
Nella storia del mondo occidentale questi paradigmi sono sempre esistiti disposti in aree più o meno vaste e contraddistinte dagli stili di vita, dalle relazioni sociali, dagli orientamenti ideologici, dai sistemi simbolici, dai manufatti e dagli artefatti, ma avevano una caratteristica: quella di poter essere iscritti in un unico schema di comprensione e di elaborazione più o meno condiviso o accettato.
E’ sufficiente riflettere sul ruolo attivo e organizzativo delle religioni, a partire dalla chiesa cattolica, così come il ruolo giocato dai grandi imperi o, nello specifico dalle tradizioni.
Oggi tutto è diverso.
Le idee si sono globalizzate, come gli stili di vita e la propensione all’esotico.
Le ragioni sono molte a partire dai sistemi di comunicazione di massa in tempo reale, dalle nuove tecnologie di trasporto, dai movimenti reali – spontanei o forzati – di grandi masse, dal fascino dell’infosfera che spinge centinaia di migliaia di individui a immaginare le nuove Bengodi, i nuovi paesi di Cuccagna, le nuove Calicut dello spettacolo.
Che li spinge a sognare nuove patrie e nuove opportunità di vita e di lavoro.
Individui che fuggono guerre, carestie, persecuzioni religiose, repressioni politiche, disastri climatici e ambientali.
Individui su cui fa presa – in forma globale e multilocale – una circolazione vertiginosa di immagini, idee, oggetti, usi, consumi e costumi che inverano quella che nel 1968 fu chiamata la dittatura della forma di spettacolo.
Tutta questa dislocazione di vissuti, progetti, merci, sogni e la concomitante coesistenza di mutazioni culturali e sociali, di difficile definizione, ha di fatto svalutato il paradigma che presupponeva uno stretto rapporto tra cultura e territorio.
Sono processi invia di sviluppo e ancora incontrollabili perchè riguardano l’intero pianeta.
Processi che hanno fatto conoscere in ogni angolo della terra la facilità e la comodità dei collegamenti, la velocità di circolazione delle informazioni, i vantaggi della mobilità, la varietà e la ricchezza dei consumi, tutte cose che sono sempre esistite, ma un tempo limitate alle élite, a cominciare da quelle imprenditoriali e finanziarie.
Questo non significa che tutti sono nomadi, così come è vero che solo un numero ridotto di individui vive oggi sino in fondo i processi della globalizzazione.
Infatti, molta parte dell’umanità è ancora dominata dai processi localistici radicati e diffusi da per tutto, spesso degradati o limitanti.
Tuttavia, le élite del pianeta – politiche, finanziarie, manufatturiere, militari, religiose, culturali e scientifiche – s’identificano tra di loro ogni giorno di più, assumendo come modelli di vita i processi (a loro vantaggiosi) della globalizzazione.
Che cosa comporta tutto questo al di là dell’epifenomeno del nomadismo di élite?
Che le differenze – spesso profonde e devastanti – che affliggono il mondo assumono fisionomie, percorsi, esiti assolutamente diversi dal passato.
Soprattutto, queste differenze fanno saltare le contrapposizioni binarie, come sono quelle tra culture dominanti e sub-culture, tra centro e periferia, sminuendo la visibilità tra colonizzatori e colonizzati.
Dal punto di vista dell’identità i nuovi confini socio-culturali si spostano in continuazione senza alcuna linearità.
C’è poi da osservare che un tempo le diversità culturali andavano incontro all’assimilazione o al rifiuto, oggi, invece, si manifesta nei loro confronti una volontà mimetica.
Gli avversari dell’Occidente tendono a imitarne gli stili di vita e a volere i beni e le tecnologie che l’Occidente produce, feticizzandoli.
Possiamo dire che non solo i prodotti digitali, i beni di consumo e i divertimenti sono globalizzati, ma anche – a livello degli stili di vita – la passività politica, il consumismo, la sottoistruzione, così come, a livello abitativo, le bidonville, i campi profughi stabilizzati, gli accampamenti legati agli stati di eccezione come sono quelli militari o climatici.
D’altro lato, scrive Arjun Appadurai – un antropologo inglese di origine indiana – appena le forze innovatrici provenienti dalle aree metropolitane sono portate all’interno di nuove società, tendono, in un modo o nell’altro, a subire un processo di indigenizzazione.
Questo processo riguarda la musica come i stili abitativi, i procedimenti scientifici come il terrorismo, gli spettacoli come i prodotti alimentari di massa.
In altri termini si da il caso che singole culture possono riprodursi o ricostituire la loro specificità sottoponendo le forme culturali transnazionali a un processo di indigenizzazione.
Come ha notato il filosofo e sociologo polacco Zygmunt Bauman, i processi e i prodotti culturali oggi tendono a svincolarsi dalla loro aderenza ad uno spazio definito, perdono la loro identità territoriale, divengono mobili e a volte liquidi.
Più che la campagna è la città che subisce questi processi di globalizzazione.
Li sperimenta nei suoi ritmi di vita, nelle relazioni tra i gruppi – sociali, generazionali, etnici e sessuali – che la abitano.
Oggi, la pluralità culturale della città si manifesta nella costante presenza di localismi e nella continua elaborazione urbana del rapporto tra il locale e il globale.
Il tessuto urbano fornisce lo sfondo, i materiali e le occasioni per la celebrazione di rituali propri di ogni gruppo sociale che vuole affermare sia la sua diversità che il proprio inserimento nel contesto in cui si trova a vivere.
In questo contesto, poi, i mezzi di comunicazione di massa svolgono un’azione di moltiplicazione, immettendo gli eventi e i loro protagonisti nella rete (culturale e digitale) che congiunge i diversi luoghi in cui risiedono i gruppi emigrati dalle stesse patrie e figli della stessa lingua.
È facile intuire come tutto ciò alimenti, musiche, vestiario, produzioni artistiche e artigianali, esperienze cucinarie che possono nascere sia come rimpianto, sia come rivendicazione di una identità lontana.
In queste condizioni la cultura – da quella di élite a quella popolare a quella diffusa dai mezzi di comunicazione di massa – ha cambiato completamente tempi, modi e luoghi della sua produzione.
Essa può ancora conservare qualcuna delle sue radici, ma deve assimilare anche i nuovi paradigmi transnazionali e deterritorializzati che l’affiancano, le si sovrappongono o la penetrano.
Così,i confini della colonizzazione continuano a essere in principio territoriali e economici, ma successivamente vengono mescolati, sovvertiti, resi opachi dalla produzione di un immaginario – nella forma spesso di un orientalismo esotico – e da forme di comunicazione sempre più efficaci.
I
n questo contesto lo studio della cultura è cambiato. Ora è proiettato su i nuovi paradigmi aperti dai processi di globalizzazione.
Per esempio non è più molto importante lo studio della cultura per aree geografiche specifiche, mentre si è sviluppato il dibattito sulle diaspore, sugli esili, sui movimenti migratori.
Ancora, sono nate delle ricerche sul ruolo della memoria nella formazione dei nazionalismi, sono stati fatti degli studi sui modelli di articolazioni metropolitana di centro e periferia e sulla crescente difficoltà a applicare i “diritti umani” davanti alla relatività delle culture.
Per concludere, voler studiare le nuove interrelazioni tra cultura e territorio implica porre l’accento sui processi del nomadismo contemporaneo sia a livello globale che a livello locale, con particolare attenzione alla vita corrente, ai sogni, alle speranze e ai vissuti.
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Da almeno un ventennio a questa parte la definizione più comune di informazione è quella di “dati” più “significati”.
Dati dotati di significato, che devono rispettare i significati del sistema scelto, il codice e/o il linguaggio in questione.
Va osservato però che i dati che costituiscono un’informazione possono essere dotati di significato indipendentemente dal destinatario dell’informazione.
Va anche aggiunto come lo sviluppo dei sistemi di comunicazione e di informazione ha conosciuto, soprattutto a partire dalla seconda metà del Novecento, una grande accelerazione, destinata ad avere, in questo secolo, importanti ripercussioni sull’economia, la politica, l’industria manufatturiera, oltre che sul costume, la cultura, gli stili di vita, i conflitti militari.
Si ritiene che questo sviluppo stia trasformando le stesse basi biosociali della conoscenza e del pensiero umano.
Va ricordato che tra le caratteristiche specifiche dei new–media di questo secolo c’è quella di essere auto–promozionali, vale dire, capaci di promuovere se stessi, generando dei miti che alimentano l’immaginario collettivo, suscitando attese spesso impossibili da realizzare.
In questo contesto le tecnologie dell’informazione e della comunicazione ( in inglese Information and Communication Technology, ICT), sono l’insieme dei metodi e delle tecnologie che realizzano i sistemi di trasmissione, ricezione ed elaborazione delle informazioni.
Da un punto di vista storico è a partire dalla fine della seconda guerra mondiale che l’uso della tecnologia, nella gestione e nel trattamento delle informazioni, ha progressivamente assunto un’importanza strategica crescente sia per le istituzioni che per i singoli.
Oggi l’informatica – cioè i congegni digitali e i programmi di software – e le telecomunicazioni – costituite dalle reti telematiche – sono i due pilastri su cui si regge la società dell’informazione.
È complesso dare una definizione univoca delle ICT, in generale possono essere considerate come una risorsa essenziale delle organizzazioni, all’interno delle quali è sempre più importante riuscire a gestire in maniera rapida, efficace ed efficiente il volume crescente di informazioni.
In questo senso sono considerate come uno strumento strategico in grado di mettere a disposizione ed elaborare dati e informazioni qualitativamente evoluti.
Più in generale, il fine ultimo delle tecnologie dell’informazione è la manipolazione dei dati tramite la conversione, la conservazione, la protezione, la trasmissione, il recupero, con l’aiuto del computer e delle tecnologie a esso connesse.
Con l’espressione tecnologia dell’informazione si indica l’uso della tecnologia nella gestione e nel trattamento delle informazioni, in particolare per quanto riguarda l’uso delle tecnologie digitali, che consentono di creare, memorizzare, scambiare e utilizzare “dati” nei più diversi formati: numerico, testuale, video, auditivo, iconico e altro.
La trasmissione di informazioni tra calcolatori connessi fra loro, realizzata a partire dagli anni ’60 del secolo scorso, costituisce poi un fenomeno di grande portata pratica e concettuale.
Vale a dire testimonia la progressiva convergenza e integrazione di informatica e telecomunicazioni.
Questi due settori in passato si sono sviluppati indipendentemente l’uno dall’altro, perché le telecomunicazioni utilizzavano soprattutto tecnologie analogiche.
Poi, a partire dagli anni ’70 le tecnologie informatiche hanno cominciato a essere mutuate dalle telecomunicazioni. Infine, dalla metà degli anni ’80, anche grazie alla diffusione dei personal computer, e iniziata la rivoluzione digitale applicata al campo audio-visivo.
La successiva diffusione della telefonia cellulare, contemporanea alla digitalizzazione delle reti telefoniche e di tutti i media di comunicazione (voce, video, immagini, documenti) ha portato all’ integrazione e alla globalizzazione di tutte le reti.
La tecnologia dell’informazione comprende oggi le reti di comunicazione, i sistemi di elaborazione (qualunque sia la loro architettura) e la multimedialità.
“Le ICT sono dispositivi che comportano trasformazioni radicali, dal momento che costruiscono degli ambienti in cui l’utente è in grado di entrare tramite porte di accesso (possibilmente amichevoli), sperimentando una sorta di iniziazione.
Non vi è un termine per indicare questa nuova forma radicale di costruzione, cosicché possiamo usare il neologismo RIONTOLOGIZZARE per fare riferimento al fatto che tale forma non si limita solamente a configurare, costruire o strutturare un sistema (come una società, un’auto o un artefatto) in modo nuovo, ma fondamentalmente comporta la trasformazione della sua natura intrinseca, vale a dire la sua ontologia.
In tal senso, le ICT non stanno soltanto ricostruendo il nostro mondo: lo stanno riontologizzando”.
(Luciano Floridi, La rivoluzione dell’informazione).
Possiamo dire che le ICT stanno costruendo un nuovo ambiente informazionale nel quale i nativi digitali trascorreranno la maggior parte del loro tempo e questo è quello che più interessa le scienze sociali.
Ritorniamo sulla relazione dei new–media con gli individui.
É diffusa l’opinione che le conseguenze dello sviluppo dei sistemi di comunicazione siano sostanzialmente ambivalenti.
Alcuni ritengono che l’aumento delle informazioni e l’accresciuta velocità nella circolazione dei messaggi, tanto a livello micro (su scala locale), quanto a livello macro (su scala planetaria), non significano in modo automatico un miglioramento o un peggioramento nella qualità della vita individuale o della società.
Al contrario, altri ritengono che i sistemi di comunicazione e di informazione abbiano portato a un inquinamento culturale e mentale che sta provocando un degrado dell’ambiente simbolico umano, degrado che corre parallelo a quello dell’ambiente fisico e materiale e che altera il modo di produrre e l’organizzazione economica della società.
In breve, lo sviluppo dei new–media può generare, soprattutto nell’opinione pubblica meno scolarizzata o anagraficamente anziana, grandi paure e nuove illusioni.
In questo contesto i new–media possono essere considerati degli apparati sociali nei quali sono incorporate tecnologie per la comunicazione a distanza.
La loro funzione principale è quella di connettere e/o di comunicare con il maggior numero possibile di individui e di istituzioni, riducendo al minimo i tempi di diffusione dei messaggi.
Nel corso di questo ultimo mezzo secolo essi hanno di fatto consentito il moltiplicarsi di contatti fra culture lontane, accrescendo gli scambi a livello planetario, e quindi sono stati un indubbio fattore di sviluppo, anche se ciò non esclude che ci siano fattori ambientali che possono ostacolare o distorcere la loro funzione o inquinare l’identità delle culture più deboli.
Il primo fattore ambientale di una certa rilevanza è costituito dal capitolo della disuguaglianza sociale.
La mancanza di istruzione e le condizioni di vita precarie (spesso al limite della sopravvivenza) in molti paesi – definiti del terzo o del quarto mondo – escludono ampi settori della popolazione dalla fruizione dei new–media.
Per di più, molti mass-mediologi sostengono che lo sviluppo dei sistemi mediali e l’affermarsi di quella che viene chiamata la società dell’informazione non contribuisce a ridurre il gap esistente tra paesi ricchi e paesi poveri, ma porta a un suo aggravamento, generando nuove e più insidiose forme di diseguaglianza sociale e di ritardo culturale.
Un altro possibile ostacolo alla funzionalità dei new–media è costituito dal fatto che in linea generale in tutti i paesi, compresi quelli definiti democratici, essi subiscono, in una forma o in un’altra, condizionamenti da parte degli ambienti politici, economici, finanziari e militari, e spesso sono sottoposti a forme di controllo più o meno esplicite da parte di strutture più o meno legali e riconosciute.
Va aggiunto che i new–media, che abbiamo definito come apparati sociali, sono organizzati in base a routine formalizzate e dunque sono soggetti a quel fenomeno che in sociologia viene chiamato goal displacement, cioè, a una distorsione degli scopi primari per il quali sono stati costituiti.
Le ragioni classiche di questa distorsione possono essere le più diverse, vale a dire economiche, strategiche, tattiche, politiche.
Tra queste ragioni una delle forme più subdole di goal dispacement, perché inavvertita anche da chi ne è un attore, è la cosiddetta auto-referenzialità.
In cosa consiste?
Nel fatto che sempre più spesso coloro che hanno a che fare coi new–media – giornalisti, dirigenti, professionisti dei vari campi della comunicazione – invece di rivolgersi al pubblico finiscono per dialogare tra di loro o con quei pochi che hanno un accesso privilegiato alle fonti della carta stampata e delle televisioni, come sono i leader politici, i grandi manager, gli intellettuali, insieme ad altre categorie di personalità ritenute, non importa se a torto o a ragione, influenti, dai campioni sportivi ai divi dello spettacolo.
Questa auto–referenzialità dei new–media spicca nella sua evidenza se si considera l’importanza attribuita agli eventi e al modo di formarsi delle priorità comunicative (in fatto di temi etici, economici e sociali) e alla costruzione delle agende politiche (di chi governa e di chi sta all’opposizione).
Con la conseguenza di uno scollamento tra le élite del potere e l’opinione pubblica.
Tra gli effetti paradossali, prodotti dall’espansione dei sistemi di comunicazione, vi è anche quello per cui quanto più cresce la quantità dell’informazione diffusa dai new–media, tanto più si appanna, si confonde o diminuisce l’attenzione del pubblico.
In altre parole, più i new–media allargano l’area della comunicazione, meno riescono a farsi sentire e più perdono di autorevolezza.
Si tratta di un fenomeno di saturazione che molti spiegano utilizzando la legge dell’utilità marginale che è alla base di molte analisi economiche classiche.
In ogni modo, oggi, il valore aggiunto dei new–media, come è illustrato dal funzionamento dei mercati pubblicitari, è relativo alla loro capacità di attirare l’attenzione.
Come rilevano le indagini di mercato, il pubblico è in fuga dall’ascolto dei programmi televisivi e dalla lettura dei quotidiani.
Anche se questo calo non è strutturale è tuttavia progressivo e si manifesta in tutti i sistemi mediali giunti a una certa soglia di sviluppo.
Di più, questo calo sembra irreversibile fuori dagli stati d’eccezione, come sono le catastrofi natali, le guerre, i grandi appuntamenti sportivi, eccetera.
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Vediamo un po’ di storia.
A partire dalla prima metà degli anni ‘80 il sistema dei media è andato incontro a un cambiamento importante e rapido.
Per verificarlo è sufficiente ricordare che sino ad allora, in quasi tutti i paesi del mondo occidentale, vi erano soltanto pochi canali televisivi, spesso monopolio di Stato e in bianco e nero.
L’introduzione della televisione a colori, avvenuta in quel periodo, apparve da principio solo come un miglioramento tecnologico, in analogia con quello che successe nel cinema con l’introduzione della pellicola a colori.
Più o meno nello stesso periodo in cui fu introdotto il colore vi fu l’esplosione della videoregistrazione e l’arrivo sul mercato dei primi compact disc.
Ciò portò alla nascita di un nuovo settore di consumo mediale, quello del home video.
La conseguenza sul piano strutturale di queste innovazioni fu di portare a una convergenza e a un uso combinato delle diverse tipologie di produzione audiovisiva, diminuendo fortemente i tempi di circolazione dei prodotti comunicativi e riducendo di molto l’intervallo che separa la produzione dal loro consumo.
Tra le innovazioni tecnologiche di quegli anni va ricordato anche il telecomando, che è più di una comodità, avendo determinato la nascita dello zapping.
Tutte queste innovazioni produssero una trasformazione degli assetti formali dei media.
Per esempio, negli Stati Uniti nacque la CNN, un canale televisivo che trasmette soltanto informazioni, ventiquattro ore su ventiquattro.
Oltre a rompere il preesistente sistema oligopolistico, dominato da alcune grandi compagnie televisive, la CNN introdusse un modello nuovo di gestione delle informazioni, quello della televisione tematica a flusso continuo che diffonde i programmi via satellite o via cavo e si finanzia tramite abbonamento.
In Europa ebbe fine il monopolio statale dell’audiovisivo e si affermò un modello misto di coesistenza tra radiotelevisione pubblica e radiotelevisione commerciale.
La pubblicità, che sino ad allora aveva avuto un’incidenza relativamente ristretta, s’impose come una componente centrale del palinsesto televisivo, investendo il vissuto quotidiano degli spettatori con i suoi stilemi e le sue metafore.
Era un nuovo linguaggio visivo che contribuì a alimentare un inedito e complesso immaginario collettivo che a sua volta diede vita a nuovi modelli culturali.
Nonostante fosse considerata, soprattutto dal mondo della cultura, come una forma di manipolazione e di persuasione occulta, la pubblicità divenne una tra le forme più originali di espressione della sensibilità e della cultura postmoderna…ma lo divenne a spese dei consumatori e della loro capacità di giudizio.
Con il risultato che ancora oggi una affascinante signorina in mutandine mi induce a consumi inutili e a fidelizzarmi verso prodotti di massa di cui potrei fare a meno!
In sostanza, il cambiamento sistemico, sviluppatosi nell’ultimo decennio del ventesimo secolo, portò a un modo diverso di considerare il mezzo televisivo e a mettere in questione il concetto stesso di comunicazione di massa, così com’era stato inteso in precedenza.
La comunicazione di massa, in senso classico, è la forma culturale che ha caratterizzato la società industriale di fine Ottocento e dei primi decenni del Novecento, quando i media non-cartacei di fatto non esistevano o erano fruibili solo da una élite.
Tra l’altro, è importante ricordarlo, la comunicazione di massa è stata una delle componenti che ha favorito la nascita dei dispotismi politici che hanno caratterizzato il Novecento.
Spetta poi a Marshall McLuhan (1911-1980) il merito di aver intuito per primo le nuove implicazioni sociali della nascente comunicazione elettronica di massa.
Ricordiamo da subito una delle sue celebri e controverse tesi secondo la quale è il mezzo tecnologico che determina i caratteri strutturali della comunicazione, producendo effetti pervasivi sull’immaginario collettivo e indipendentemente dai contenuti dell’informazione che si sta veicolando.
In sostanza per McLuhan, the medium is the message, il mezzo è il messaggio.
Al suo nascere la televisione era stata considerata nient’altro che un perfezionamento della radiofonia, una scatola dei suoni a cui veniva ad aggiungersi l’immagine.
McLuhan dimostrò che in realtà la televisione era un medium del tutto diverso.
Non solo perché incorpora una tecnologia nuova, ma perchè comunica in base a una logica mediale sua propria.
Il modo che McLuhan usava per esprimersi, aforistico e spregiudicato, costellato da enunciazioni paradossali, fecero sì che venisse amato e sostenuto da una schiera di seguaci entusiasti, quanto avversato aspramente fino ad essere considerato, da molti rappresentanti del mondo accademico, alla stregua di un ciarlatano.
Ciò portò a non poche incomprensioni delle sue teorie e a molti litigi.
Gli studiosi di comunicazione ricordano, a questo proposito, la spregiudicatezza con cui egli attaccò Wilbur Schramm (1907-1987), considerato allora come il maggior esponente della communication research.
Un filone di ricerche empiriche, sviluppatosi nelle università americane fin dagli anni quaranta del secolo scorso, che aveva portato a elaborato importanti conoscenze sui meccanismi della comunicazione di massa.
McLuhan sosteneva che la televisione, essendo un mezzo freddo, vale a dire povero di informazioni, in quanto comunica essenzialmente attraverso le immagini, richiede per funzionare la collaborazione dello spettatore, che deve poter attribuire un significato a ciò che vede sullo schermo, a differenza della radio, un medium caldo, che ha bisogno solo di essere ascoltata.
Da questa osservazione McLuhan, in contrasto con la tradizione di studi sulla comunicazione di massa, ne deduceva – con una capriola logica – che la televisione, malgrado l’apparenza, è un dispositivo interattivo.
Dal canto suo, Schramm sosteneva che il pubblico non è completamente passivo, come affermava la cosiddetta Bullet Theory, o teoria ipodermica, di ispirazione behaviorista, ma sa essere attivo e capace di reagire, a uno stesso messaggio, in molti modi, a volte inaspettati.
Vediamo in breve che cos’è la Bullet Theory.
Questa teoria detta anche teoria dell’ago ipodermico (dall’inglese Hypodermic Needle Theory) è una teoria che considera i mass-media come dei potenti strumenti di persuasione che agiscono direttamente sulla massa dei loro fruitori, considerati soggetti passivi e inerti.
Essa rappresenta uno dei primi tentativi di comprendere il funzionamento della comunicazione interpersonale in maniera sistematica.
Fu molto popolare soprattutto negli anni Quaranta del secolo scorso sulla base delle ricerche della psicologia comportamentale (behaviorismo).
Per queste ricerche, infatti, la comunicazione (dei mass-media) è assimilabile a un processo diretto di stimolo e risposta.
Traducendo alla lettera, il termine bullet significa proiettile, il messaggio mediale in questa teoria è considerato come un proiettile che colpisce in modo diretto un soggetto – un target, un bersaglio – che ha poche possibilità di opporsi.
In altri termini, si riteneva che il messaggio “sparato” dal medium venisse “iniettato” direttamente nella coscienza del ricevente senza che questi potesse evitarlo e senza che se ne rendesse conto.
La Bullet Theory, che fin dall’inizio appariva molto schematica, ha oggi solo un valore più che altro documentario. Il concetto di target usato ancora oggi in pubblicità, per indicare i destinatari di un annuncio, deriva da questa teoria e ne sottolinea la grande popolarità che aveva raggiunto.
La Bullet Theory si sviluppò negli Stati Uniti soprattutto tra le due guerre mondiali (1920-1930), tra i suoi divulgatori ricordiamo in particolare Harold Lasswell, uno dei teorici della communication research una disciplina che rappresenta, più che una teoria argomentata, un’ideologia che si respirava in quegli anni intorno agli effetti dei media.
Occorre tener presente che in quel momento l’Europa era vittima dei grandi assolutismi politici e le masse erano assolutamente inconsapevoli del reale potere dei mezzi di comunicazione di massa, potere che invece spaventava molto gli uomini politici americani.
Per riassumere. Prendendo il nome dall’immagine dell’ago ipodermico (utilizzato per le iniezioni), questa teoria afferma che i messaggi colpendo gli individui, in modo diretto e immediato, sono in grado di modificare, gestire e controllare opinioni e comportamenti.
In altri termini, la teoria dell’ago ipodermico (o, teoria del proiettile) postula un forte effetto/potere dei mass-media su un’audience passiva e indifesa, manipolata dalla propaganda e dagli interessi (politici e economici) più o meno occulti.
Così, se una persona è raggiunta da un messaggio di propaganda, questa può essere facilmente manipolata e indotta ad agire secondo il messaggio ricevuto e senza averne una piena consapevolezza.
Ritorniamo a McLuhan.
A più di mezzo secolo dalla pubblicazione della sua opera più famosa e completa, Understanding media (1964), molte delle tesi sostenute da questo autore appaiono sorprendentemente attuali, soprattutto se riferite alle reti dei computer e alle nuove prospettive della comunicazione interattiva.
L’idea più sorprendente e funzionale di McLuhan è stata quella dei media come protesi, ossia come un’estensione del sensorio umano nell’ambiente e, insieme, un mezzo di interazione con esso.
In sintesi Mc Luhan sosteneva che la comunicazione elettronica rende immateriale il nostro corpo, dilatandolo nell’etere con le nostre idee e che questo fenomeno è in grado di generare (come effetto collaterale) nuove forme di conflitto sociale.
Un’altra geniale idea di McLuhan, largamente ripresa in seguito, è quella secondo cui la comunicazione elettronica, considerata la sua velocità e la possibilità di far circolare le informazioni quasi in tempo reale, rende il mondo un “villaggio globale“.
Vale a dire, la velocità con cui circolano le informazioni, le persone e le merci, di fatto lo rimpicciolisce.
Tra gli interpreti più originali di McLuhan ricordiamo Derrick de Kerckhove (che di McLuhan è stato assistente e collaboratore).
De Kerckhove considera i media elettronici come psicotecnologie che stanno modificando il nostro modo di percepire l’ambiente e di pensare le relazioni fra ciò che riteniamo interno e ciò che riteniamo esterno.
Sviluppando il tema del villaggio globale de Kerckhove ha anche descritto l’avvento di una intelligenza connettiva basata su un nuovo brain–frame (o, schema-mente), che rende obsoleti i limiti sia dell’individualismo che del collettivismo così come sono pensati dalle scienze sociali e dalla filosofia ottocentesca.
Questo tema di un’intelligenza collettiva/connettiva superindividuale generata dalle reti mediali interattive è stato affrontato anche dal francese Pierre Lévy, che ha cercato di razionalizzarlo e di presentarlo come il progetto ideale di nuovi legami sociali senza ostacoli.
Pierre Lévy (1956) è uno studioso di scienze sociali e si occupa dell’impatto delle reti digitali sulla società.
È stato allievo di Michel Serres e Cornelius Castoriadis, si è specializzato a Montreal ed è il titolare di una cattedra sull’intelligenza collettiva all’università di Ottawa.
Può essere definito un esperto delle implicazioni culturali dell’informatizzazione e degli effetti della globalizzazione.
Lévy sostiene che il fine etico di Internet dovrebbe essere soprattutto lo sviluppo dell’intelligenza collettiva, un concetto già introdotto da altri filosofi-informatici.
In una intervista Lévy ha dichiarato:
“In primo luogo occorre rendersi conto che l’intelligenza è distribuita dovunque c’è umanità, e che questa intelligenza può essere valorizzata al massimo mediante le nuove tecniche digitali, soprattutto mettendola in connessione.
Oggi, se due persone distanti fisicamente tra loro sanno due cose complementari, per il tramite delle nuove tecnologie, possono davvero entrare in comunicazione l’una con l’altra, scambiare il loro sapere, cooperare. In breve e per grandi linee questa in fondo è il nocciolo dell’intelligenza collettiva”.
Quanto alla tesi che il computer sia una protesi della nostra mente e che sia possibile, in un futuro più o meno prossimo, collegarlo a essa in modo da potenziare le nostre facoltà sensoriali e intellettive, è suggestiva e per ora utopica.
In passato questa tesi è stata sfruttata e resa popolare dalla letteratura di fantascienza, un filone letterario inaugurato da uno scrittore considerato un caso a sé, Philip K. Dick, che ha affrontato il tema dei simulacri, dei cloni e dei cyborg, e ha inaugurato la fantascienza cyberpunk.
Oltre a rimpicciolire emotivamente il mondo reale, i new-media digitali, cambiando la nostra concezione dello spazio, consentono la possibilità di creare nuovi luoghi, come le comunità virtuali, che pur non avendo come base una contiguità territoriale generano ugualmente delle relazioni di prossimità.
Luciano Floridi ha definito l’infosfera come “lo spazio semantico costituito dalla totalità dei documenti, degli agenti e delle loro operazioni”.
Dove per “documenti” si intende qualsiasi tipo di dato, informazione e conoscenza, codificata e attuata in qualsiasi formato semiotico.
Gli “agenti” sono qualsiasi sistema in grado di interagire con un documento indipendente (ad esempio una persona, un’organizzazione o un robot software sul web).
Quanto al termine “operazioni” include qualsiasi tipo di azione, interazione e trasformazione che può essere eseguita da un agente e che può essere presentata in un documento.
Va infine segnalata la convergenza multimediale tra video e computer, anche se per ora il computer rimane – soprattutto nelle aree non-urbane – un artefatto usato di preferenza nel lavoro e nella vita attiva, mentre lo schermo televisivo continua a essere la scatola mediale che presiede al divertimento e al relax.
In ogni modo, anche se con ritmi più lenti del previsto, l’affermarsi di quella che molti definiscono la società dell’informazione, e che altri preferiscono invece definire società digitale o società in rete, sembra gradualmente proseguire.
Lo dimostra il crescente numero a livello planetario di possessori di personal computer, di tablet e di smartphone, che secondo un dato del 2015 sarebbero più di tre miliardi nel mondo.
Gli utenti attivi di Internet, cioè coloro che passano almeno un’ora alla settimana collegati alla rete, erano 327,5 milioni nel 2000, secondo alcune stime sono oggi (2019) più di tre miliardi e mezzo, vale a dire quasi la metà della popolazione mondiale.
Un paio di anni fa alcune rilevazioni della Società Nielsen hanno messo in luce che il rapporto degli utenti di lingua inglese con Internet sta cambiando.
Si valuta che le app (ricordiamo che app è l’abbreviazione della parola inglese “application“), ossia le applicazione software rappresentano più dell’80 percento del tempo trascorso su Internet mobile.
Quasi tutti gli intervistati hanno dichiarato che è più comodo scaricare le app che collegarsi a un browser come Chrome, Internet Explorer, Firefox, eccetera.
Se questa tendenza si confermerà il web è destinato a diventare un insieme di comunità chiuse, molto diverso dall’idea di rete immaginata qualche anno fa.
Questa tendenza era stata intuita dalla rivista Wired che nel 2010 annunciò, con un criticato articolo di copertina: The Web is Dead, come si poteva stare un giorno intero su Internet senza stare un minuto in rete.
Vale a dire, si poteva leggere i giornali, trovare indicazioni stradali, consultare il meteo e intervenire sui social network senza aprire un browser.
Per quanto riguarda l’Italia, nelle aree metropolitane si trascorre più tempo navigando sullo smartphone (circa 250 minuti al giorno) che connessi a Internet (circa 80 minuti).
Ancora, il 60 per cento di chi ha meno di venticinque anni naviga solo con un device mobile.
Negli Stati Uniti la popolazione adulta trascorre l’equivalente di circa sei mesi all’anno nell’infosfera.
Stiamo dunque passando da una fase, in cui l’attività di connessione e di accesso alle reti che erano appannaggio solo di ristrette élite tecnocratiche o contro-culturali, a una fase in cui entrano in scena fasce sempre più ampie di pubblico che, negli Stati Uniti, arrivano a comprendere più dell’80 per cento delle famiglie.
La rapidità di questa evoluzione, anche se ancora fortemente squilibrata, può essere meglio compresa se si considera che alla radio occorsero circa quaranta anni per raggiungere un pubblico di cinquanta milioni di ascoltatori, alla televisione occorsero tredici anni per diventare popolare, mentre a internet sono bastati solo quattro anni.
In ogni modo le difficoltà nell’accertare quale sia l’influenza dei media sul pubblico ha portato i sociologi della comunicazione a distinguere tra gli effetti cognitivi della comunicazione e quelli persuasivi.
Questa nuova prospettiva di ricerca è stata di fatto aperta dagli studi sul cosiddetto effetto di agenda.
Il termine agenda indica l’insieme dei temi (in inglese issue, in francese enjeux) a cui si attribuisce priorità nei processi di policy making.
Secondo questa teoria, il più importante effetto dei media non è tanto quello di influenzare l’atteggiamento del pubblico pro o contro le alternative che un problema può avere, quanto piuttosto di rendere questo problema più visibile e quindi metterlo all’ordine del giorno e farlo considerare rilevante sia dall’opinione pubblica che dalla politica.
Ciò viene chiamato agenda setting, o predeterminazione dell’agenda politica.
Apriamo una parentesi.
Uno tra i contributi più originali sugli effetti della comunicazione è costituito dalla teoria della spirale del silenzio.
Questa teoria fu elaborata negli anni Settanta del secolo scorso da Elisabeth Noelle-Neumann, docente di scienza della comunicazione e fondatrice, nel 1947, dell’Istituto di demoscopia Allensbach (Institut für Demoskopie Allensbach) di Magonza in Germania.
Questa teoria tratta in modo particolare l’analisi del potere persuasivo dei mass–media.
La tesi di fondo è che i mezzi di comunicazione di massa (ieri la televisione, oggi la rete e i social), grazie al notevole potere di persuasione che hanno su chi ne usufruisce e quindi, più in generale, sull’opinione pubblica, sono in grado enfatizzare opinioni e sentimenti prevalenti o convenienti, mediante la riduzione al silenziodelle opzioni minoritarie e/o dissenzienti.
In particolare la teoria afferma che una persona singola è disincentivata dall’esprimere apertamente un’opinione – che percepisce essere contraria all’opinione della maggioranza – per paura di riprovazione e di isolamento da parte di questa maggioranza.
Questo fa sì che le persone che si trovano in tale situazione sono spinte a chiudersi in un silenzio che, a sua volta, fa aumentare la percezione collettiva (non necessariamente corretta) di una diversa opinione della maggioranza, rinforzando di conseguenza, in un processo evolutivo, il silenzio di chi si crede minoranza.
Questa teoria ha avuto un notevole impatto sulla scienza della comunicazione, in modo particolare sullo sviluppo del dibattito sui poteri di persuasione dei media, in contrasto con le scuole liberali che sostenevano che l’effetto di essi sul pubblico non fosse rilevavate e che comunque fosse gestibile.
In estrema sintesi la tesi centrale della teoria detta della spirale del silenzio può essere riassunta così: Il costante, ridondante e caotico afflusso di notizie da parte dei new-media col trascorrere del tempo può sviluppare un’incapacità nell’opinione pubblica a selezionare e a comprendere i processi di percezione e di influenza dei media stessi.
Nel corso delle sue ricerche, Noelle-Neumann ha anche dimostrato che le persone posseggono una specie di senso statistico innato, grazie al quale riescono a capire quale è l’opinione prevalente e, in questo modo, a conformarsi a essa senza tradire la propria.
Oggi le indagini sul campo hanno provato che i new-media non promuovono da soli la spirale del silenzio (in quanto fenomeni simili sono stati riscontrati anche in società dove i mass-media non sono diffusi), ma sono in grado di accentuare in modo significativo la paura dell’isolamento e quindi il processo di adattamento all’opinione generale.
C’è poi da sottolineare uno degli effetti collaterali che conseguono alla spirale del silenzio.
È l’esercizio, da parte dei mass–media, di una pervasiva funzione conformativa di omologazione e di conservazione dell’esistente, che di fatto li spinge a svolgere un ruolo ostile al rinnovamento delle sensibilità, dei gusti e delle opinioni.
Per riassumere , secondo Noelle-Neumann gli individui si trovano da almeno mezzo secolo a questa parte immersi in uno stato di isolamento – definito pluralistic ignorance – per il quale sono indotti a cercare di comprendere se il loro punto di vista sia condiviso da altri, prima di esprimersi pubblicamente.
Se questi individui trovano delle conferme alla loro opinione, la sostengono apertamente, mentre tendono a tacere in caso contrario.
Si innesca così, anche non volendo, un processo a spirale in cui, di volta in volta, gli uni si zittiscono e gli altri parlano più forte finché non si raggiunge un punto di equilibrio.
Da questo punto di equilibrio scaturisce poi un clima rappresentato dall’opinione dominante.
I new-media in questo processo svolgono un ruolo essenziale perché sono essi che forniscono rappresentazioni e narrazioni delle tendenze che si vanno affermando.
Ma è chiaro che tutto ciò è anche in relazione con il grado, maggiore o minore, di pluralismo dei mezzi di comunicazione.
(Cfr.,La spirale del silenzio – Per una teoria dell’opinione pubblica. Roma, 2002).
Ritorniamo al tema dell’agenda setting.
In una democrazia pluralistica l’agenda politica si dovrebbe formare entro dei forum di discussione aperti e pluralisti, forum di cui possiamo osservare una loro parodia nei talk–show, spettacoli a basso costo nei quali gli opinion leader e i rappresentanti degli apparati politici competono fra loro e interagiscono con i new–media, cercando di stabilire a quali temi vada attribuita la priorità e di affermare una rappresentazione a loro favorevole del clima d’opinione.
Va ricordato che la qualità di una democrazia, oltre che dal pluralismo dei mezzi di comunicazione, dipende anche dal mantenimento della distinzione dei ruoli tra coloro che informano e i politici.
Quando questa distinzione tende a scomparire, la capacità di tematizzazione dell’informazione viene meno, mentre il grado di auto-referenzialità del sistema di governo aumenta favorendo un distacco fra élite politica e cittadini.
In questo senso, l’influenza che i new–media hanno sulla politica varia anche a secondo del contesto sociale e politico dell’ambiente in cui operano.
Nei paesi dove sono al potere i regimi autoritari, o dove è in corso una transizione alla democrazia, il giornalismo e i new–media hanno quasi sempre svolto o svolgono una importante funzione democratica e contribuito positivamente al ristabilirsi delle libertà civili.
Viceversa, nelle democrazie consolidate l’interazione fra new–media e politica tende a produrre effetti involutivi.
C’è poi da rilevare che nelle democrazie consociative, che si basano su dei sistemi elettorali proporzionali, tende a generarsi il fenomeno della auto–referenzialità.
Nelle democrazie maggioritarie, e in particolare nei regimi presidenzialisti, invece, la politica-spettacolo genera spesso forme di campagne negative basate sullo scandalismo e sull’attacco personale degli avversari che, a loro volta, diffondono cinismo e portano al rifiuto della politica da parte di larghi settori dell’opinione pubblica.
Tra gli elementi strutturali che caratterizzano l’evoluzione attuale delle democrazie mediatizzate, due in particolare vanno segnalati.
Il primo è costituito dall’uso sempre più frequente dei sondaggi d’opinione, non soltanto nell’imminenza delle campagne elettorali, ma in occasione di ogni evento o congiuntura di un qualche rilievo.
Questo crescente ricorso ai sondaggi assume la forma di una continua interrogazione del corpo elettorale e di una ininterrotta messa in discussione del consenso e degli equilibri di potere, che dà luogo al fenomeno delle campagne elettorali permanenti.
Il secondo elemento, che si intreccia a questo primo aspetto, è quello della formazione di apparati sempre più massicci di consulenti ed esperti di comunicazione e di campaigning, che devono essere considerati come un tipo nuovo di attore politico, differenziato sia dagli apparati dei new-media che da quelli dei partiti o dei leader.
Su questi temi una linea di interpretazione critica che si potrebbe definire neo-tocquevilliana (da Tocqueville) è stata sviluppata in Francia da Pierre Bourdieu, il quale, già in un saggio del 1973, aveva affermato provocatoriamente che l’opinione pubblica non esiste e che le indagini d’opinione, lungi dall’essere obiettive, sono un simulacro della volontà popolare, costruito con la scusa di dare la parola alla gente e utilizzato poi (questo simulacro) come instrumentum regni.
Un punto di vista non dissimile è stato sostenuto negli Stati Uniti da Benjamin Ginsberg, un filosofo della politica docente alla John Hopkins University nel Maryland, secondo cui quella attuale è un’età in cui dominano le opinioni delle masse manipolate.
Per Ginsberg, tra le masse e i leader viene a formarsi una specie di circolo vizioso: i politici, interessati a assecondare il pubblico, con i sondaggi ne catturano l’immagine per poi usarla come una loro risorsa di potere.
Su questo tema, in particolare, Bourdieu ha insistito molto nei suoi ultimi scritti, accusando la televisione di cedere alla logica commerciale della misurazione dell’audience e di piegarsi alle esigenze demagogiche di quello che chiama il plebiscito commerciale. …
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Alcune considerazioni conclusive.
Le straordinarie potenzialità offerte dalle tecnologie della comunicazione, per essere sfruttate appieno, devono essere considerate sia in relazione ai rischi connessi che a un loro inappropriato utilizzo.
Il timore che la tecnologia possa sfuggirci di mano è sempre in agguato e ha radici profonde: basti pensare al mito di Prometeo o a delle figure come il Golem o Frankenstein.
Diciamo che da qualche tempo a questa parte non sono solo il nucleare, l’inquinamento ambientale, la chimica e la manipolazione genetica a rivelarsi pericolosi, ma possono diventarlo anche le tecnologie digitali e alcuni fenomeni culturali spesso sottovalutati, come la cosiddetta esplosione informativa.
Per comprendere queste paure dobbiamo considerare anche le loro proporzioni.
Mentre la Biblioteca di Alessandria, con i suoi circa settecentomila rotoli di papiro e pergamena, conteneva tutto il sapere del mondo occidentale antico, il patrimonio librario della Bibliothèque Nationale de France che occupa oggi oltre 400 chilometri di scaffali, è solo un frammento delle nostre conoscenze.
Questa moltiplicazione delle informazioni, divenuta esponenziale con Internet e la telefonia cellulare, sta generando due fenomeni ancora incontrollati:
– l’anoressia informativa
– e il suo contrario, l’obesità informativa.
In entrambi i casi il crescente proliferare dell’informazione riduce la capacità dell’uomo di assimilare in maniera razionale la conoscenza, spingendo, soprattutto i giovani, a assorbire in maniera ossessiva, e spesso acritica, informazioni non nutrienti.
A ciò va aggiunto il cosiddetto sporco digitale, cioè le tracce che lasciamo sulla rete tendono progressivamente a diventare indelebili.
Ad oggi i motori di ricerca registrano tutto, ma non esiste un processo condiviso che elimina dalle liste dei motori le informazioni non più attendibili o invecchiate.
Anche strumenti rivoluzionari e apparentemente democratici, come l’enciclopedia online Wikipedia, vanno usati con cautela perché è la massa dei lettori che decide circa la veridicità dell’informazione, ma questa massa, come è oramai evidente, tende il più delle volte a riportare solo fatti banali e dati ritenuti oggettivi, eliminando giudizi e opinioni.
Questo processo di gestione del consenso finisce per creare un’unica base condivisa e massificata di conoscenza, eliminando le differenze, le ambiguità, le incertezze, la criticità.
Ecco perché da occasione democratica Wikipedia si sta mutando, per chi non sa già o non ha dimestichezza con le informazioni, in uno strumento di omogeneizzazione culturale.
Per gli studi sociologici ogni analisi delle nuove tecnologie della comunicazione non dovrebbe assolutamente prescindere da come l’uomo ha reagito e si è adattato a esse.
Questo perché le tecnologie sono da tempo indissociabili dal cammino dell’uomo verso la conoscenza e l’affrancamento dalle forze della natura.
Un tale potenziamento delle capacità umane, infatti, si trascina dietro aspetti fortemente problematici.
Oltre ai benefici immediati e osservabili – maggiore velocità e capacità di calcolo, possibilità di accedere a enormi quantità di informazioni – possono subentrare effetti collaterali che, alla lunga, rischiano di vanificare i benefici conseguiti.
Non è raro che l’espansione di una funzionalità possa tradursi in una atrofizzazione di un’altra, soprattutto a livello dell’esperienza sensoriale.
In passato, se l’uomo non era in grado di usare una specifica tecnologia, si limitava a non utilizzarla, o la faceva usare da chi n’era capace.
Con le tecnologie digitali, questo non è più possibile, non soltanto per la pervasività di tali tecnologie, vale a dire che tendono costantemente a diffondersi in ogni aspetto della vita corrente, ma anche e soprattutto, per la loro percepita necessarietà.
Oggi Internet è considerato un diritto e il cosiddetto – divario digitale – la separazione fra chi può accedere alla rete e chi no – viene ritenuta una nuova forma di esclusione che deve, almeno a parole, essere contrastata a ogni costo, con attenzioni e investimenti importanti nel campo dell’istruzione.
Nel mondo occidentale dimenticare ha un’accezione prevalentemente negativa.
Colui che dimentica è, per definizione, distratto, poco attento alle cose, svogliato, forse addirittura malato.
Ma per le neuro-scienze non è necessariamente così.
Se non si dimenticano i concetti obsoleti, non c’è spazio per le nuove idee.
In linea generale, se non scordassimo positivamente o attivamente alcune esperienze, o perlomeno se non fossimo in grado di contrastare i ricordi, non sempre potremmo apprendere qualcosa di nuovo, correggere i nostri errori, innovare vecchi schemi.
Per fare buon uso della memoria è quindi necessario sia saper ricordare sia saper dimenticare.
Dimenticare, in buona sostanza, è importante tanto quanto saper accumulare informazioni, tanto quanto saper alleggerire la mente dai suoi fardelli, ogni qualvolta questi tendessero a diventare eccessivi.
Si può quindi parlare di una vera e propria auspicabilità dell’oblio, soprattutto nella società attuale, dove il bombardamento informativo è divenuto in alcuni campi eccessivo.
Il medium digitale poi è doppiamente pervasivo.
È presente in modo sempre più diffuso negli spazi della vita corrente, come il lavoro, lo studio, la politica, il divertimento, la sessualità, la religione.
È un fenomeno che ha fatto emergere un’identità digitale che ci renda riconoscibili e unici anche all’interno di questa sfera e ci consente di costruire relazioni virtuali con altre identità digitali.
Va aggiunto che questo uso delle tecnologie digitali, di fatto, non consente solo un’estensione e un potenziamento delle nostre capacità mentali, ma in prospettiva consente un vero e proprio sdoppiamento della nostra personalità di cui non siamo in grado di valutare gli effetti.
Oggi i siti personali possono avere vita propria, possono venire consultati da terzi senza che i proprietari siano in quel momento collegati online, possono raccogliere automaticamente le informazioni, segnalare eventi, rispondere a richieste esterne.
L’esempio più popolare è quello delle nuove tecnologie vocali che permettono ai computer o alle segreterie telefoniche non solo di parlare e leggere i messaggi, ma anche di capire quello che gli chiediamo.
Oppure alle tecnologie di personalizzazione che consentono di lasciare tracce in ambienti digitali pubblici, consentendo all’utilizzatore di essere riconosciuto, di riprendere il lavoro fatto fino all’ultimo collegamento, di ricordare le preferenze manifestate.
Tutti questi contenuti richiedono un luogo personale di archiviazione che potremmo chiamare personal digital space i cui aspetti innovativi non sono legati tanto alla dimensione tecnica, quanto alle potenzialità del sistema rese disponibili nella forma di uno strumento conoscitivo.
Potenzialità che consentono di realizzare una vera e propria memoria estesa, a complemento e integrazione di quella fisiologica.
In breve, ogni riflessione sulla comunicazione digitale non può prescindere da questa trasformazione dei recettori dei messaggi comunicativi.
Il personal digital space, come abbiamo già sottolineato, consente anche il cosiddetto dimenticare consapevole, risparmiando alla memoria lo sforzo di memorizzare informazioni in quel momento non rilevanti.
A questo proposito il fenomeno dei siti personali è ancora relativamente poco diffuso, anche se la sua componente più narcisistica, il blog, è oramai un congegno di massa.
I blog, infatti, sono utilizzati soprattutto per rendere disponibili i punti di vista di chi li gestisce invece di essere usati per organizzare la propria conoscenza per un facile riutilizzo.
Dobbiamo anche rilevare, giunti a questo punto, un altro fatto significativo:
In una società che sembra trasformare tutto in virtuale, la dimensione corporea è ritornata a essere centrale, quasi per una sorta di bilanciamento fra aspetti immateriali e aspetti materiali.
Anche la crescente importanza – soprattutto in sede di management – della comunicazione extralinguistica e in particolare del cosiddetto linguaggio del corpo (per fare un esempio) va in questa direzione.
Il luogo più interessante ed esplicito dove questo recupero del corpo sta avvenendo è nel mondo dell’arte con la performance.
I casi sono molti, alcuni estremi come le chirurgie plastiche pubbliche di Orlan pseudonimo di Mireille Suzanne Francette Porte o le performance di Stelarc, pseudonimo di Stelios Arkadiou, un artista australiano naturalizzato cipriota e considerato l’esponente teorico dell’estetica “postumana”.
Le stesse abitudini giovanili di comunicare tramite il corpo, non tanto vestendosi in un certo modo, ma utilizzando in maniera diffusa tatuaggi e piercing, sottolineano questa dimensione.
L’utopia cyborg di fondere la tecnologia con il corpo – che ha visto nel Futurismo una lucida e anticipatoria concettualizzazione – sta uscendo dalle avanguardie artistiche e dall’impegno politico per diventare linguaggio quotidiano.
Concludiamo questa parte del nostro corso.
Abbiamo esaminato a grandi linee il paradigma esplicativo dell’evoluzione della comunicazione dal punto di vista delle scienze sociali.
In altri termini, il modello di riferimento o, meglio, la matrice disciplinare con cui la sociologia affronta le interconnessioni (interazioni) che strutturano la vita corrente e le forme della comunicazione oltre il face-to-face.
C’è un punto critico che qui deve essere sottolineato e che abbiamo fissato all’inizio del Novecento.
La straordinaria mutazione seguita al diffondersi dell’elettricità, delle reti materiali e immateriali e dei congegni ad essi correlati può essere definita antropomorfa, perché ha coinvolto il rapporto tra corpo, mente ed esperienza della realtà, con esiti che ancora ignoriamo e con metamorfosi che continuano a rendersi palesi e a sorprenderci.
Marshall McLuhan (1911-1980) diceva che la storia della comunicazione umana a partire dal congegno voce si può definire composta da tre fasi.
– Una fase predominata dalla forma orale (dall’oralità).
– Una fase dominata dalla scrittura.
– Una fase dominata dall’elettricità o meglio dai suoi artefatti.
La prima è durata circa 250mila anni. La seconda circa 2500 anni. La terza, appena iniziata ha poco più di un secolo di vita. Tendenzialmente sarà molto più breve della seconda.
A proposito della fase dominata dall’elettricità McLuhan commenta:
Nell’era della meccanica avevamo operato una estensione del nostro corpo in senso spaziale. Oggi, dopo un secolo e passa di impiego tecnologico dell’elettricità, abbiamo esteso il nostro sistema nervoso centrale in un abbraccio globale che abolisce tanto il tempo che lo spazio.”
È come dire che tutte le forme di esistenza della modernità sono state unificate da un vettore spaziale-iconologico – cioè, strutturato sulle immagini – che ha finito per rappresentare il senso stesso del mondo.
Questo vettore è caratterizzato dal fatto di essere un potente strumento di sincronia di massa.
La sincronia è un concetto elaborato da Ferdinand de Saussure (1857-1913), il fondatore della linguistica, per indicare la capacità di un linguaggio di costruire un senso.
Occorre non sottovalutare il fatto che i linguaggi non-umani, animali o artificiali, servono a comunicare, non a costruire paradigmi cognitivi sensati (fondati sui processi di simbolizzazione).
Parlando dei modi di connessione abbiamo visto che il modello di connessione che di fatto ha inaugurato il Novecento è stato un congegno straordinario, la radio, che ha dato vita ai primi importanti fenomeni di sincronia di massa.
Il carattere innovativo di questo modello di connesione sta nel fatto che il cuore della comunicazione non ha più al centro lo scambio comunicativo tra due o un piccolo gruppo di soggetti, ma il diffondersi rapido dell’informazione come una merce/prodotto da uno o più centri organizzati verso una moltitudine di consumatori.
Per mostrare l’efficacia di questo fenomeno di sincronia va ricordato l’impatto sui radioascoltatori di una trasmissione radiofonica, La guerra dei mondi di Orson Welles (1915-1985), realizzata negli Stati Uniti da questo giovane regista ventitreenne nel 1938, la vigilia di Halloween, la festa che noi chiamiamo di Ognissanti.
Una curiosità. C’è nel Van Nest Park, a Grover’s Mill, nel New Jersey, un monumento commemorativo eretto nell’ottobre 1998 nel luogo di atterraggio dei marziani secondo la trasmissione radiofonica,
In altre parole quello che fino ai primi del Novecento era affidato all’affabulazione di poeti, cantori, scrittori, eruditi, divulgatori comincia a essere distribuito su larga scala prima dalla radio e poi dalla comunicazione filmica, televisiva, e infine televisivo-informatico-personalizzata.
Apriamo una piccola parentesi su come la sociologia definisce la multimedialità.
Diciamo che è la compresenza di più strutture comunicative sullo stesso supporto informatico che moltiplica i piani di lettura e, per conseguenza, i processi interpretativi.
Per estensione si parla di contenuti multimediali quando un’informazione si avvale di molti media, immagini in movimento (video), immagini statiche (fotografie), musica, grafi e testo.
Wikipedia è l’esempio più popolare di questa multimedialità.
La multimedialità non va però assolutamente confusa con l’interattività.
L’equivoco, in genere, nasce dal fatto che la multimedialità è in genere interattiva, cioè, consente all’utente di interagire con essa.
Che cosa vuol dire?
Che si può comunicare con il mouse o la tastiera e ricevere delle risposte.
Perché è importante la interattività?
Perché essa indica che un sistema non è fisso, ma varia al variare dell’input dell’utente o, meglio, varia in base al “potere cognitivo” di costui.
In questo modo si riproducono le differenze culturali tra gli utenti dei sistemi informatici e spesso si accentuano.
La maggior parte dei sistemi e dei congegni della modernità sono interattivi.
In linea di principio, anche una lavatrice lo è, perché di fatto modifica il suo programma in base alle nostre richieste.
Il sistema interattivo per definizione è il computer.
Mentre non era interattiva la televisione analogica, per questo il suo consumo era definito una fruizione passiva.
La televisione digitale, invece, può essere interattiva e la sua attualità dipende proprio da questo, di essere suscettibile di feedback.
Va sottolineato che mentre l’interfaccia della lavatrice è un pannello di comandi attraverso il quale i suoi programmi entrano nel mondo di chi la utilizza.
L’interfaccia digitale è una porta attraverso la quale l’utente è messo in contatto con il cyber-spazio.
In altri termini siamo in presenza di una nuova e assolutamente inedita dimensione del fenomeno migratorio: dall’habitat fisico all’infosfera.
Afferma Luciano Floridi: Quando gli immigranti digitali saranno sostituiti dai nativi digitali il corso dell’e-migrazione sarà completato e le future generazioni si sentiranno sempre più deprivate, escluse, svantaggiate e povere, ogni qual volta si troveranno disconnesse dall’infosfera.
Si può dire che la comunicazione digitale permette oramai una simultaneità intercognitiva delle esperienze che ha dato vita alla rimediazione (remediation) della realtà.
Floridi parla di una ri-ontologizzazione.
In un certo senso è come dire che i new-media sono reali e che l’esperienza che attraverso essi si acquisisce è il soggetto stesso della rimediazione.
Ritorniamo al tema della connessione.
Che cosa va rilevato dal punto di vista fenomenologico?
Che essa dipende dai metodi, dalle forme, dalle tecniche con cui questa connessione si effettua che la comunicazione stessa evolve anche a dispetto delle attese degli utenti.
Evolve anche e soprattutto “con” e “per mezzo” dei meccanismi socio-economici che con essa interagiscono.
In linea generale va notato un fatto a cui non siamo – da un punto di vista sociale preparati – che nell’ambito dell’universo digitale le disparità economiche hanno un impatto minore delle disuguaglianze cognitive.
Se osserviamo la storia di questo ultimo secolo vediamo con chiarezza gli effetti di massa che tutto ciò ha generato tra i consumatori-utenti:
* Imitazione massiccia degli stili di vita delle élite dello spettacolo e del potere economico.
* Imitazione degli atteggiamenti divistici dello star–system.
* Uniformazione del modo di pensare il proprio corpo e il proprio modo di abbigliarsi sviluppando una sorta di conformismo creativo.
* Assimilazione, il più delle volte inconscia, dei messaggi che orientano i consumi e le opinioni politiche ed etiche.
Queste nuove forme di comunicazione hanno anche trasformato il modo di pensare il tempo.
Il presente che viviamo si è dilatato e in esso non si coglie più il fluire della “temporalità”, cioè, del divenire.
Per di più, viviamo un tempo visuale che fatica a diventare tempo storico.
Con quali conseguenze?
Che le strutture narrative, che un tempo contribuivano alla costruzione del senso, si sono affievolite, mentre il progredire delle frontiere digitali – va di pari passo con le trasformazioni dei meccanismi cognitivi e degli artefatti legati alla visione.
In breve, il nuovo dominio del tempo e dello spazio amplia i poteri della mente, nello stesso movimento con il quale altera il fluire della coscienza conferendogli una dimensione visuale.
Sotto un altro aspetto è come se la contingenza legata alla visualità avesse preso il posto della narrazione (story-telling). Cioè, del fluire del narrato.
Più concretamente, l’avvento del world wide web (www) ha segnato l’inizio di un’era di cui non sappiamo ancora tracciare in modo attendibile il divenire.
Diciamo che i new-media – a ragione della loro struttura comunicativa – modificano profondamente la nostra percezione della realtà e della cultura senza per altro che gli uomini lo percepiscano nel momento in cui queste modificazioni avvengono.
Lo intuì Marshall McLuhan (1911-1980), che lo sintetizzò in una formula efficace:
Il medium è il messaggio o, meglio, sul piano metaforico, il massaggio.
Il titolo del libro a cui questa formula fa capo è: The medium is the massage, McLuhan lo scrisse con Quentin Fiore nel 1967.
Alcuni dicono che il mezzo è divenuto il massaggio a causa di un errore del tipografo che entusiasmò McLuhan, che lo lesse come “mass.age”.
Più verosimilmente, considerati gli studi di McLuhan, è ricavato da un’affermazione di Thomas S. Eliot, nato in America, ma stimato come uno dei poeti inglesi più famosi del Novecento.
Eliot in un suo saggio critico scrisse che il poeta si serve del significato come un ladro di serve del pezzo di carne che lancia al cane di guardia per distrarlo e entrare in casa.
Per analogia possiamo dire che credere che un sito Internet trasmetta contenuti piuttosto che “forme di mutamento” è come pensare che lo scopo del ladro sia sfamare il cane di guardia.
In realtà noi siamo massaggiati (circuiti) dai media e in qualche modo plasmati da essi.
In altri termini, i new–media ci condizionano e contribuiscono a modellare il nostro modo di pensare.
Non va dimenticato che per McLuhan, IL CONTENUTO DI UN MEDIUM E’ UN ALTRO MEDIUM.
McLuhan è l’autore più famoso di quella che è stata definita la Scuola di Toronto, a cui hanno dato il loro contributo Harold Innis, Walter Ong, Joshua Meyrowitz e molti altri.
Il fatto che la comunicazione visuale di massa sia diventata una merce preziosa rende estremamente importante lo studio delle strategie con cui vengono prodotti e diffusi i messaggi, specialmente quando lo scopo di questi è d’influenzare i comportamenti dei destinatari.
Per la sociologia i mass–media vanno dunque considerati dei nuovi, potenti e in parte incontrollabili agenti di socializzazione, come lo erano ieri la famiglia, gli amici, le piazze, i teatri, la stampa popolare.
Incontrollabili soprattutto dal punto di vista della loro capacità di manipolare l’opinione.
Questa socializzazione dipende sia dalle strategie intenzionali (come sono quelle contenute nelle trasmissioni radiofoniche, cinematografiche, televisive e in Internet…)
Sia da effetti indiretti (come la massificazione dei consumi e degli stili di vita che scaturiscono dalla pubblicità mascherata da informazione o occulta, com’è quella dei telefilm, dei reality show, dei serial.
Alcuni ritengono che queste nuove forme di socializzazione siano diseducative perché si concentrano sul solo vedere svalutando gli altri sensi.
Altri, fatalisti o ottimisti, poco conta, ritengono che ci aspetta un futuro all’insegna del visuale o, meglio, di una visual culture.
Nei paesi della fascia temperata del pianeta e, in particolare, in quelli ad industrializzazione avanzata, i bambini stanno davanti alla televisione, ai computer o alle tablet per più di quaranta ore la settimana. (Dato del 2016)
Cosa comporta questo?
Un’accentuarsi della difficoltà a distinguere la realtà dalla finzione.
Una disumanizzazione dell’Altro da sé.
Il fatto che ci sia tanta violenza sul piccolo schermo induce il bambino ad una vera e propria indifferenza empatica per i problemi altrui.
Come tutti hanno avuto modo di costatare, nel mondo degli adulti ci si commuove per gli avvenimenti di una fiction e si resta indifferenti mentre sullo schermo delle news scorrono scene di fame o di violenza. Per di più questi adulti non hanno alle spalle una storia televisiva come quella dei loro figli.
Un’accentuata difficoltà a distinguere tra gli oggetti – in particolare quelli animati – e le persone, che induce a pensare di poter trattare le seconde come se fossero cose.
Un accrescimento dell’aggressività (che può essere connessa ai nuovi paradigmi della velocità).
In altri termini, di come si ricompone il tema della estetizzazione della società e dei nuovi valori che promuovono l’etica del simbolico e la formazione dell’immaginario.
Il punto di partenza è il superamento della civiltà della televisione – un congegno sostanzialmente passivo che ha relegato lo spettatore a semplice consumatore o adoratore di merci – per arrivare a una società nella quale il computer è il simbolo di una nuova stagione di forme e strategie interattive.
La rete, in sostanza, è destinata a diventare uno strumento di nuove aggregazioni socio-culturali basate sia sugli interessi che sulle affinità di coloro che sapranno gestirla.
Qui c’è una considerazione da fare.
Se non saranno alterati eccessivamente (da un punto di vista economico) i parametri per accedere al web, in questa nuova visione sociologica delle reti i rapporti sociali riacquisteranno una parte di quel potere che hanno perduto con l’affievolirsi delle ideologie nel corso del Novecento.
Sotto l’aspetto delle architetture cognitive sembra che tutto tenda a far si che l’informazione diventi il “vero” ambiente (assimilabile alla forma di un neo-luogo) in cui si muovono gli uomini e le idee.
Un ambiente in cui sarà determinante, per stabilirne il valore, l’importanza che acquisteranno i congegni che veicolano i messaggi informativi.
Un’idea già avanzata da McLuhan che affermò come i media moderni possano essere equiparati a delle forme ambientali in cui vive l’uomo che essi stessi modellato.
L’ambiente digitale, in buona sostanza, è un nuovo medium e sembra, paradossalmente, che l’uomo abbia realizzato un modo di vivere nelle sue fantasie e nei suoi sogni.
Del resto, quando l’informazione viaggia alla velocità dell’elettricità, il mondo delle tendenze, delle immagini e delle voci diventa il mondo reale, o se si preferisce, lo specchio del mondo che conosciamo.
Ma perché questa nuova configurazione del mondo diventa il mondo reale?
Perché nel sistema delle comunicazioni via web l’intervallo temporale tra lo stimolo e la risposta, tra chi trasmette e chi riceve è collassato.
Da tutto questo deriva una nuova interdipendenza, che si realizzerà pienamente entro la fine del ventunesimo secolo, tra le tendenze sociali, economiche, culturali e politiche.
Una interdipendenza che renderà tutto apparentemente incerto (liquido) e certamente complesso, facendo crescere la necessità, poco importa se reale o solo immaginaria, di nuove forme di sicurezza non solo sociale.
Sotto un altro aspetto, tutto si presenta accelerato e, per questo, vissuto in modo sempre più precario e aggressivo.
C’è continuamente meno spazio tra l’azione e la reazione, tra gli stimoli e le risposte del pensiero connettivo, con la conseguenza che si sta formando una sorta di contiguità tra il pensiero che pianifica e l’azione.
La rete finisce così per diventare una sorta di moltiplicatore, sia positivo che negativo, di tutti i processi reattivi prodotti dal comportamento collettivo.
Dalle attività legate al commercio, al loisir, agli affari, allo sport e, non da ultimo, al terrorismo.
In pratica è come se dicessimo che l’inconscio collettivo sta scivolando o, se si è ottimisti, evolvendosi verso un inconscio connettivo.
Un inconscio dove non domina più il simbolico, ma ciò che è condiviso nel web.
Questo globalismo planetario che sta delineandosi come il nostro futuro si fonda soprattutto su due fattori, il multiculturalismo e la condivisione dei destini.
Come dicono i poeti e i visionari di questa nuova realtà: Una farfalla sbatte le ali in Cina e in Europa trema una montagna.
Una tale condivisione dei destini è un punto importante per le scienze sociali perché ridefinisce l’individuo dal punto di vista delle sue responsabilità sociali, economiche, ecologiche e etiche.
In altri termini si sta sviluppando un nuovo paradigma intorno al tema della responsabilità civica e pubblica, perché globalità significa anche estensione delle responsabilità.
Non per caso nel tempo della velocità elettrica siamo tutti più vicini con il risultato che spesso il problema del mio vicino è anche il mio problema, sia che si parli di politica che di diritti umani, di economia, guerra o privilegi.
Da questo stato di cose si genera per reazione l’atteggiamento nby – not in my back yard, non nel mio giardino.
In che cosa consiste?
Nel riconoscere come necessari, o possibili, gli oggetti o le circostanze che stanno alla base del contendere, ma allo stesso tempo nel non volerli nel proprio ambiente o nel proprio territorio a causa delle eventuali controindicazioni o disagi di cui sono portatori. …
Per concludere la “nuova modernità” si sta dunque configurando secondo tre direttrici fondamentali:
– L’interconnettività globale, vale a dire planetaria.
– Un’accelerazione mai conosciuta nell’evoluzione degli stili di vita.
– Una serie di trasformazioni ecologiche globali dovute all’interazione dei fattori evolutivi, sociali, culturali, economici e tecnologici.
Tutto questo riuscirà compatibile, osservano gli organismi internazionali, se:
– Miglioreranno le condizioni di vita. Ancora oggi più del venti per cento della popolazione globale vive in condizioni di povertà estrema.
– Se cresceranno le aspettative di vita alla nascita e se si saprà gestirle.
(L’aumento della vita media, infatti, crea dei forti problemi sociali ed economici, come dimostra in Italia la discussione sulle pensioni d’anzianità.)
– Se saranno risolti il problema dell’alfabetizzazione e quello dell’emancipazione delle donne e dei più deboli in genere.
– Se sarà realizzato un accesso diffuso ed economico ai mezzi di comunicazione.
– Se crescerà sia sul piano quantitativo che qualitativo il “prodotto interno lordo” dei paesi
industrializzati e se si svilupperanno le forme della democrazia nei paesi delle zone povere.
– Se le tensioni sociali – soprattutto quelle legate ai nuovi flussi migratori – non si trasformeranno in un rifiuto al cambiamento.
– Infine, ma non da ultimo, se non proseguirà a questa velocità la rottura degli equilibri naturali e climatici.
FINE SECONDA PARTE