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La società multietnica. I soggetti. Le forme della comunicazione. – Una nota sul concetto di identità nelle scienze sociali.

La società multietnica. 

I soggetti. Le forme della comunicazione.

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Una nota sul concetto di identità

nelle scienze sociali.

 

Nella cultura moderna il concetto di identità ha due aspetti, entrambi rilevanti.

Da una parte si riferisce al modo con cui l’individuo considera e “costruisce” se stesso come membro dei diversi gruppi sociali a cui appartiene, da quello etnico a quello dei conoscenti, degli amici, dei parenti con i quali vive, lavora, si confronta.

 

Dall’altra questo concetto riguarda le norme, gli usi, le abitudini che consentono a ciascun individuo di pensarsi, muoversi, relazionarsi con sé stesso, con gli altri, i membri della sua comunità che incontra vivendo.

 

In altri termini, nel processo di formazione dell’identità si possono distinguere due componenti.

La prima che possiamo definire di identificazione. 

La seconda che possiamo definire di individuazione.

 

Con la prima componente (quella di identificazione) il soggetto si immedesima con le figure con le quali si riconosce, si sente uguale, con le quali condivide o crede di condividere uno o più caratteri.

L’identificazione, in pratica, genera un senso di appartenenza.

Crea la coscienza di appartenere ad un noi, a una comunità, a una famiglia, a un certo ambiente, com’è nel vostro caso quello scolastico.      

Con l’individuazione, invece, il soggetto si confronta con gli altri e si distingue o crede di potersi distinguere per le proprie caratteristiche fisiche e morali, ma soprattutto per la sua storia e il suo vissuto.

Gli individui, dunque, non sono figure astratte, ma in qualche modo mediano le loro relazioni con il mondo attraverso il corpo e la persona.

 

Su questi temi c’è una recente disciplina, l’antropopoiesi (anthropos più poiesis) che studia il processo di costruzione e di definizione dell’identità umana attraverso la cultura. 

 

A differenza degli animali, l’uomo alla nascita è un essere culturalmente incompleto.

Non possiede se non in minima parte le informazione genetiche per sopravvivere.

Quelle informazioni che costituiscono il patrimonio genetico delle specie viventi e che consentono agli animali le risposte funzionali agli stimoli provenienti dall’ambiente in cui vivono.

La dimensione umana e sociale, in altri termini, si completa soltanto con l’acquisizione della sua componente culturale.

È un processo che ha al suo centro gli anni dell’infanzia e della giovinezza, ma prosegue per tutta la vita in una sorta di opera aperta più o meno significativa. 

 

Attraverso la modificazione del corpo e i rituali che lo riguardano (ad esempio le cerimonie d’iniziazione, come sono il raggiungimento della maggiore età, la laurea, il matrimonio, i lutti) l’individuo costruisce se stesso – o è convinto di farlo – come essere umano e definisce la propria identità rispetto agli altri individui, siano essi uomini, donne, bambini, anziani.

 

In questo contesto le differenze anatomiche (tra maschio, femmina o di soggetti che si sentono terzi rispetto a questa dicotomia) sono la base classificatoria – ereditata dal passato – più utilizzata per la definizione delle varietà culturali e sociali.

In particolare, la separazione, l’esclusione, la distinzione – tra le forme di sesso – è, fin dalla preistoria, realizzata attraverso simboli, pratiche e attribuzioni di ruoli, sia reali che immaginari.
Oggi c’è anche da considerare il fatto che, dalla complessità di un’epoca globalizzata e digitalizzata, ne discende che tutti noi, prima o poi, acquisiamo una sorta di identità multipla o polivalente che è considerata come la nostra nuova identità socio-culturale. 

Di questa identità gli aspetti emergenti e visibili dipendono dal contesto in cui ci troviamo e dal ruolo che assumiamo o che ci viene attribuito.    

 

Ritorniamo all’identità da un altro punto di vista, quella che  si esprime in base alle situazioni che attraversiamo vivendo.

Per semplificare, passando una dogana aereo-portuale quello che conta è la mia identità nazionale e il denaro che ho con me e non il fatto che io sia un insegnante di sociologia o quali siano i miei titoli di studio. 

Quando sono seduto dietro questa cattedra è il contrario.

 

Ricordiamo, a questo proposito che il sociologo polacco Zygmunt Bauman – famoso per le sue tesi sulla modernità e le nuove forme di cittadinanza – ha introdotto negli studi di sociologia il concetto di identità fluida. 

La fluidità dell’identità indica la progressiva perdita dei confini identitari statici (soprattutto culturali, religiosi, etnici) sia come individui che a livello di collettività, come avviene sempre più velocemente nella cosiddetta società post-moderna.

 

Con la teoria dell’identità fluida, tra l’altro, si spiegano anche alcuni aspetti del problema dei flussi migratori e delle identità fluide transnazionali che questi flussi vengono a creare.

 

In ogni modo, l’identità può essere vissuta in positivo o in negativo. 

Molti sono orgogliosi del gruppo con il quale si identificano e che da loro la coscienza di appartenere a una comunità. 

Altri tendono a rifiutare questa appartenenza e la relativa vicinanza che essa crea. 

Questi due atteggiamenti limite sono temperati da molte circostanze ed entrambi possiedono pregi e difetti.

Per esempio, una visione positiva della propria identità può spingere il soggetto a chiudersi in sé fino a considerarsi migliore degl’altri. 

Una visione negativa, invece, può spingerlo ad attribuire agli altri le qualità o le caratteristiche che considera negative e non si apprezzano.    

 

Esistono altri due aspetti dell’identità.  Quella soggettiva e quella oggettiva.

L’identità soggettiva è l’insieme delle caratteristiche auto-percepite. 

Come abbiamo già detto, nella contemporaneità è diventata un’identità fluida, difficile da circoscrivere, carica di luci e di ombre.

Un’identità con la quale dobbiamo in continuazione misurarci e di fronte alla quale tendiamo a smarrirci.

D’altro canto è anche tutto ciò che ci caratterizza, ci rende inconfondibili, ci consente di dare un senso all’idea di “chi sono”.

In questo senso l’identità soggettiva ha un aspetto bifronte. 

Contribuisce sia ad identificarci che a discriminarci. 

L’aspetto negativo dell’identità soggettiva è quando questa identità produce degli stereotipi culturali, che alimentano i luoghi comuni e il pregiudizio.

Di contro, l’identità oggettiva, che non necessariamente coincide con quella soggettiva, è il punto in cui convergono, tra le altre cose, tre rappresentazioni di ciò che siamo:

– La nostra identità fisica, che si desume soprattutto dal volto.

– La nostra identità sociale, ovvero l’insieme di alcune caratteristiche quali sono l’età, lo stato civile, la professione, la classe di reddito.

– L’identità psicologica, rappresentata dalla propria personalità, dalla conoscenza di sé, dallo stile di vita e di comportamento.

Sono identità che variano più o meno rapidamente e più o meno coscientemente. 

Variano indipendentemente da quello che noi vogliamo o siamo in grado di volere e di fare. 

 

Queste tre rappresentazioni dell’identità, anche se non coincidono tra di loro, sono profondamene intrecciate.  

Per esempio, il mio modo di vedermi e di considerarmi è in larga misura il riflesso della maniera in cui mi vedono e mi considerano gli altri e, questo punto è importante, della maniera in cui io so che gli altri mi vedono e mi considerano. 

 

Il risultato di questo processo è che molto spesso i giudizi che esprimiamo o riceviamo sono stereotipati  o alterati dall’ipocrisia, dalla malafede, dalla cortesia, dalla convenienza, oppure godono della benevolenza parentale ed amicale.

 

Un’altra configurazione dell’identità è l’identità personale.

Questa identità è considerata un aspetto di quella soggettiva.

 

Essa mette in evidenza la capacità degli individui di avere una coscienza del proprio Dasein, cioè, del proprio esserci – per usare un’espressione della filosofia tedesca.

E questa coscienza è ciò che ci consente di rimanere quello che siamo, sia attraverso il tempo di vita che attraverso tutte le fratture dell’esperienza.

 

Possiamo notare, en passant, che la malattia mentale è in qualche modo una perdita della coscienza dell’esserci, questa è la ragione del perché essa si rappresenta sempre come uno smarrimento dell’Io e la condizione della solitudine assoluta. 

 

Per concludere, osserviamo che nella storia delle idee è stato il filosofo inglese John Locke (1632- 1704), nel Saggio sull’intelligenza umana, a parlare per la prima volta di identità personale.

Locke è stato uno dei padri dell’empirismo inglese e un seguace della rivoluzione di Cromwell che portò all’impiccagione di Carlo primo d’Inghilterra nel 1649.

Questo filosofo e medico parlava dall’alto di un’epoca in cui era entrata in crisi la vecchia idea metafisica e religiosa dell’uomo come portatore di un’anima. 

Un anima intesa come un sostrato unitario e indivisibile, come qualcosa che resta immutato nell’uomo e permette la permanenza delle nostre esperienze.


Qui, con sostrato intendiamo l’insieme delle condizioni che costituiscono il fondamento di qualcosa, pur manifestando solo indirettamente la propria influenza.  Possiamo definirlo anche come background, humus, retroterra, sfondo.  In astratto è ciò che permane sotto il mutare apparente delle qualità e dei fenomeni, vale a dire è la sostanza. 

In filosofia il concetto di sostrato ci è trasmesso da Aristotele. 

È ciò che sta sotto, è la materia rispetto alla forma.  È la sostanza rispetto agli accidenti.  È il soggetto rispetto ai predicati che lo definiscono.     


Stiamo parlando di un periodo storico in cui le nuove correnti filosofiche, come sono l’empirismo, l’illuminismo, il materialismo, cercavano di elaborare il lutto e il senso per questa perdita dell’anima.

Un’anima considerata come un ponte gettato tra il tempo vissuto e l’eternità, vista come una garanzia dell’immortalità di tutto ciò che è umano.

 

Ma una volta che si rivelò come un errore della ragione obbligò gl’uomini a rivedere il proprio ruolo nel creato e a abituarsi a vivere nella caducità.

 

Abbiamo considerato il tema dell’anima perché il concetto di identità personale, in qualunque modo lo si consideri, implica il riconoscimento da parte dell’individuo di una fragilità della propria coscienza e di una discontinuità del vissuto che deve essere superata e compresa.

 

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Il volto.

 

Proviamo a esplorarlo.

Perché il volto è una sorta di leitmotiv della cultura visuale che inevitabilmente si riflette sui nostri processi empatici.

È stato detto che questi cento centimetri circa di superficie rappresentano la pagina visiva più esposta e predisposta alla lettura e all’interpretazione delle arti e della letteratura. 

Da un punto di vista culturale è solo con la fine del Medioevo che il volto apre le porte a un suo aspetto invisibile: il carattere della persona.

 

Le apre perché il volto diventa una Gestalten, una forma significante o, come in questo caso, una forma espressiva.   .

Questo non significa che prima di allora il volto non era descritto, raccontato o dipinto, ma pochi ne tentavano l’interpretazione.

In altre parole era tutt’uno con la persona e il suo aspetto.

 

Nella cultura pre-umanistica, cioè nel 13esimo e nel 14esimo secolo, la letteratura e la poesia più che sul volto si soffermano sul corpo vestito.

Si parla di sembianze, di abiti e di particolari del corpo, come sono gli occhi, la bocca, il colore della pelle, i capelli, la fronte, le guance rosate, il vitino da vespa, eccetera.

 

In una, il volto era osservato, ma come parte di un tutto e non era interpretato.   

 

Con la cultura umanistica l’apparenza fisica del volto si trasformò in un testo.

Un libro aperto sul quale si tenta di leggere l’anima, il carattere, le passioni.

In un certo senso è anche l’inizio di una nuova pseudo-disciplina, la fisionognica e, qualche tempo più tardi, di un genere pittorico che si rinnova, il ritratto.

 

Etimologicamente l’espressione di ritratto significa trarre a sé nel senso di riprodurre un effigie.  In genere si riferisce alla figura umana dipinta o scolpita e, quel che conta somigliante.  Altrimenti è un’effige, un simulacro o un’immagine.  

 

Diciamo subito che il ritratto, prima dell’arrivo della fotografia, era entrato da protagonista nella descrizione letteraria dei volti.

Un solo esempio.  Honoré de Balzac ha usato in più occasioni i personaggi delle tele del fiammingo Rubens (Pieter Paul, 1577-1640) per descrivere i suoi personaggi.

 

La fisiognomica è una disciplina che pretende di dedurre i caratteri psicologici e morali di una persona dal suo aspetto fisico.  Il termine deriva dalle parole greche natura (physis) e (gnosis) conoscenza. 

La fisiognomica fin dalla metà del ‘500 godette di una certa reputazione tanto che fu insegnata anche nelle università. 

 

Da un punto di vista storico il primo a cercare – applicando una sorta di metodo scientifico –l’espressione fisica dell’anima in un volto fu Giambattista della Porta (1535-1615) che visse nel cuore del Cinquecento italiano, fu filosofo, commediografo, umanista e alchimista.

Tuttavia bisognare aspettare Johann Kaspar Lavater (1741-18019 scrittore, filosofo e teologo svizzero, perché la fisiognomica cominciasse a diffondersi.

Nella collezione, che Lavater realizzò nel corso della sua vita, ci sono più di ventimila disegni, stampe e pitture di volti e di figure umane.

Per le sue indagini usava soprattutto le silhouette – gli Schattenriss  – con le quali cercava di portare alla luce quello che lui chiamava la scienza del carattere o, meglio, la “tipologia fisico-caratteriale”.       

Lavater usava i profili perché, a differenza del volto, visto frontalmente, essi permettevano di speculare meglio sulle caratteristiche del cranio, della fronte e del mento.

 

Una curiosità.  L’espressione di silhouette deriva dal nome di un ministro delle finanze francesi, Etienne de Silhouette, famoso per la sua parsimonia nell’amministrazione delle ricchezze dello Stato. 

 

Oggi tutto questo è anacronistico, ma Lavater ebbe i suoi estimatori, come Goethe, e i suoi avversari, come Georg Christoph Lichtenberg, fisico e scrittore tedesco, famoso per i suoi aforismi.

Questo non vuol dire che Lichtenberg non credesse al significato che le immagini di un volto potevano trasmettere, piuttosto era convinto che la leggibilità del volto fosse un’illusione.

A questo proposito ancora oggi sono di grande interesse i suoi commenti critici alle stampe di William Hogarth. 


William Hogarth (1697-1764)) inglese, è stato un pittore, incisore e autore di stampe satiriche inspirate dal teatro e dalla letteratura. 

“Ho voluto”, egli scrive, “comporre pitture su tela simili a rappresentazioni teatrali e, spero, che vengano giudicate con lo stesso criterio.  Allo stesso modo ho cercato di trattare i miei soggetti come farebbe un autore drammatico. In breve il mio quadro è il mio palcoscenico, e gli uomini e le donne sono attori che recitano una pantomima”.

 

In breve, Hogarth, si inserisce in un contesto culturale in cui con l’affermazione della borghesia e dei valori sociali di questa classe gli artisti inseriscono nei loro quadri una morale concreta e facilmente identificabile, unita al gusto del racconto e ad un’analisi attenta degli aspetti reali e quotidiani.


Per andare avanti osserviamo come non c’è museo o galleria d’arte al mondo il cui percorso – anche grazie alle illusioni generate dalla fisiognomica – non sia scandito da ritratti, soprattutto a partire dalla fine del Cinquecento.

Questi ritratti in genere disegnano attraverso le sale dei musei dei percorsi di vita scanditi dalle forme di decoro, dagli abiti e soprattutto dalle espressioni e dagli atteggiamenti che consentono, il più delle volte, di collocarli nel tempo. 

Il ritratto in sostanza è una costante dell’arte visiva e se abbandoniamo lo stereotipo con il quale lo riteniamo uno strumento di psicologia dell’anima, potremmo dire che esso si colloca all’origine stessa delle arti. 

 

Racconta Plinio nella Naturalis Historia che fu Butate vasaio di Sicione, che lavorava a Corinto, a realizzare le prime immagini fedeli alla natura.

Siamo nel settimo/sesto secolo prima dell’era comune.

La leggenda racconta che Butade riempì e plasmò con l’argilla il profilo del volto di un giovane amato da sua figlia e disegnato da lei contornandone l’ombra gettata da una lucerna sulla parete.

In questo racconto sono molto importanti due temi.

Che è una giovane donna ad aver inventato l’arte del ritratto e che esso aveva lo scopo di ritrarre – trarre a sé – catturare un ricordo, di un suo giovane amante che partiva per la guerra attraverso una rappresentazione.

Possiamo dire che il ritratto prese il posto della persona assente, divenendo un luogo di proiezioni di desideri.

Anche nell’arte contemporanea essi hanno conservato una grande popolarità sia tra gli artisti che i collezionisti.

Anzi oggi i ritratti sono stimati di più rispetto alla nascita delle avanguardie perché dovendo essi in buona sostanza trasferire delle somiglianze erano visti come un limite al potere dell’immaginazione.

 

Si da anche il caso contrario, più sottile e filosofico, di artisti, soprattutto nel ‘600, che si specializzavano nel ritratto con il solo intento di dipingere una cosa e dirne un’altra.

A questo proposito Leonardo Da vinci scrisse che “ogni dipintore dipinge se stesso” convinto che in fondo ogni ritratto e un autoritratto.

 

Fine.

Marzo 2017.