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IED Esercitazioni workshop

IED – Cattedra di antropologia culturale. 

Anno accademico 2014-2015.

WORKSHOP. 

Lunedì 11 Maggio dalle 15.00 alle 17.00_Seminario teorico su: “Cos’è il Food Design”

Mercoledì 20 Maggio dalle 12.00 alle 16.oo_Revisione e presentazione delle esercitazioni

RULES OF GAME

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La partecipazione alle esercitazioni è libera.

 

La frequenza ai due incontri del workshop da diritto a un punto di credito.

 

Si può partecipare al massimo a due esercitazioni.

 

A ogni esercitazione possono partecipare fino a tre studenti. 

In questo caso ai tre migliori risultati saranno assegnati tre punti per studente che verranno aggiunti al voto finale.

 

Agli studenti che partecipano individualmente e si classificano entro i primi tre migliori risultati la partecipazione oltre a tre punti può valere, se lo desiderano, anche come esame orale.

 

Non sono ammesse deroghe. 

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ESERCITAZIONE NUMERO UNO.

Il gioco dell’Oca.
(Jeu de l’Oie, Juego de la Oca, Game of the Goose, Gans Spiel)

Il gioco è una sofisticata espressione della praxis che riconcilia il cambiamento e la persistenza.  La libertà e la regola.  L’emotività dei sensi e la forza creatrice della ragione.  Eraclito intuiva nella phusis il gioco del tempo.  Friedrich Schiller (1759-1805) vede nel gioco una categoria estetica fondamentale.

In una prospettiva fenomenologica il gioco è un miscuglio di caso (libertà) e di necessità (regole) il più delle volte come dispositivo materiale (la forma del gioco in sé) e simbolico (le regole che ne consentono il divenire e possiedono una propria finalità).

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Roger Caillois distingue quattro tipi di gioco.  L’agôn, cioè la competizione, l’insieme dei giochi di lotta.  L’aléa, cioè il gioco d’azzardo, l’unico che gli animali non conoscono.  Mimecry, (da mimetismo in inglese), i giochi di simulazione – “illusione” deriva da latino ludere, giocare.  Ilinx, il gioco d’acqua in greco, i giochi di stordimento e di distrazione.

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Sessantatre caselle disposte a spirale, in forma ellittica o ovoidale, su una tavola, due dadi a guidarci nel cammino – di solito dall’esterno verso il centro, la mèta, detta il “giardino dell’oca” – insidie, inganni, incontri, trabocchetti ci attendono su di esso: nulla di più semplice, nulla di più misterioso.  È il gioco dell’oca, uno dei più antichi giochi di percorso che nel Rinascimento, insieme ai labirinti vegetali, i giardini, laicizza le illusioni della fede come tortuosa via di salvazione.  La maggior parte degli studiosi sostiene che la tavola più antica sia quella del “Dilettevole gioco di Loca” di Carlo Coriolani, stampata a Venezia nel 1640.

L’iconografia e le storie del gioco dell’oca sono diverse e mutano secondo le tradizioni locali e le cronache della petite histoire.

In genere c’è un ponte alla casella numero sei, una locanda alla diciannove, un pozzo alla trentuno, un labirinto alla quarantadue, una prigione alla cinquantadue, un pericolo mortale alla cinquantotto.  Ci sono due caselle, la ventisei e la cinquantatre che contengono due dadi, due enigmi, altre che raffigurano oche.

Da un punto di vista grafico i giochi più belli sono quelli del diciottesimo e del diciannovesimo secolo, è facile riconoscerli, hanno delle arcate che indicano l’ingresso e l’uscita nel giardino.  L’obiettivo del gioco è chiaro, arrivare per primi alla fine del percorso, evitando le caselle che ci rallentano o ci arrestano e cercare di passare per quelle favorevoli.

Per molti è un semplice passatempo, per altri nasconde una natura esoterica, possiede un linguaggio occulto, è un pellegrinaggio, un viaggio al centro del nostro cuore.

Oggi le caselle sono i simulacri delle difficoltà dell’uomo, delle sue speranze culturali, politiche, sociali, legate alla vita corrente.

quanto all’oca nell’antichità ha sempre avuto una complessa valenza simbolica e cucinaria, era apprezzata dai Greci e dai Romani.  In Inghilterra celebra il 29 settembre, giorno dell’arcangelo Michele, chi la mangia non troverà difficoltà a pagare i suoi debiti.  Di essa non si butta niente, dalle piume alla carne, al fegato, alle zampe che abbrustolite erano un ghiotto spuntino dell’antica Roma.  Nel ‘700 si festeggiava con essa l’arrivo dell’inverno mangiando l’oca a San Martino, l’11 novembre.
Nel simbolico era associata alla consultazione della sorte, aveva una valenza divinatoria, gli Egizi la veneravano e il suo geroglifico “ka” lo spartiva con l’imperatore.  Quattro oche in volo verso i quattro punti cardinali celebravano l’arrivo di un nuovo faraone e l’inizio di una nuova era.  Sono state le vigili guardiane del tempio e della casa, difesero Roma avvertendo i suoi soldati dell’assedio dei Galli.  Con il cigno è il simbolo della Grande Madre.  Gli antichi popoli gaelici chiamavano dell’oca la sapienza degli dei.  I mastri costruttori di cattedrali adottarono la sua zampa come simbolo di creatività.  Aveva fama di grande camminatrice ed è forse per questo che Federico II adottò per le sue truppe il “passo dell’oca” ed è forse per questo che il gioco ad essa dedicato ci aiuta a percorrere l’oscuro labirinto che è il simbolo drammatico del nostro tempo.

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“Una cosa diventa buona da mangiare solo quando è buona da pensare”.

 (Claude Lévi-Strauss)

Obiettivo dell’esercitazione è quello di scegliere un tema legato agli atti alimentari e di costruire un “gioco dell’oca” nel quale si rifletta la sua storia culturale e cucinaria, le sue particolarità, ciò che in esso è permesso e ciò che in esso è proibito, la sua identità e le sue ragioni.

 

Il gioco dell’oca deve essere realizzato su due fogli A3, uniti e cartonati e munito di istruzioni per il gioco. 

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ESERCITAZIONE NUMERO DUE.

IL PANE ALL’INIZIO DELLA SUA STORIA. 

Gli uomini del neolitico che abitavano la“mezzaluna fertile” avevano a loro disposizione molti cereali e grani, oltre che erbaggi, leguminose e frutta allo stato selvatico, che impararono a riconoscere e a trasformare in brode e in pani dopo averli macinati tra due sassi.  (Pani schiacciati, soprattutto gallette, dal celto kalet, duro, la stessa radice di pietra di silice o incavati per contenere com-panatici)

Molte di queste brode sono arrivate fino a noi come testimonia, per esempio, il porridge inglese.  Brode, le madri di tutti i cibi, dicono i russi, che hanno dato vita alle minestre acide con la fermentazione lattica, come nella “zur” polacca o alla birra con la trasformazione alcolica.

Più tardi, i cereali dalla “mezzaluna fertile” arrivarono anche in Europa che già conosceva gli sfarinati brodosi o gli impasti di ghiande e castagne.

È provato che bastano intorno ai duecentocinquanta gradi per ottenere un pane addolcito dalla cottura, rispetto all’amaro dei semi della pianta cruda.  Un pane che ha anche il pregio di conservarsi per un certo tempo.  La masticazione e la saliva fanno il resto, trasformando la massa masticata in destrosio e dunque in fonte di energia.

Oggi possiamo dire che gli uomini scoprirono quasi subito il valore dei cereali e li “addomesticarono” allo scopo di migliorarne la qualità.  Poi, con il neolitico, i cereali e la loro cultura si diffusero in Europa, ma è solo intorno a cinquemila anni fa che la cultura dei pani divenne una pratica comune.

Il rinvenimento di resti di pane è un fatto molto raro. Una scoperta eccezionale è avvenute nel 1976 nella stazione neolitica di Twann/Douanne (Berna), sul lago di Bienna. Qui è stata rinvenuta una pagnotta di forma circolare, carbonizzata e raggrinzita, che ha dimostrato come fin dal quarto millennio prima dell’era comune in Europa si producesse un pane fatto di farina di frumento e grani.  Il pane dell’Europa preistorica aveva forme di lievitazione primitive.  L’uso del lievito, caratteristico dell’Egitto, si diffonderà in Grecia in epoca storica e diventerà comune nel resto d’Europa solo durante l’età romana.

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Pane di Twann/Douanne. Si tratta di una pagnotta, ben conservata, dal diametro di diciassette centimetri, alta cinque centimetri, presumibilmente all’origine di circa trecentocinquanta grammi di peso.

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Nota.  Si attribuisce agli egiziani l’invenzione del pane lievitato.  Una conseguenza dell’uso dell’acqua del Nilo non bollita per la panificazione.  La più antica rappresentazione di un pane è in documento Sumero datato duemila anni prima dell’era comune, pressappoco degli stessi anni è la prima menzione di un pane lievitato.  Compare nel Codice di Hammurabi.  Uno dei forni più antichi è stato scoperto a fianco di un’abitazione a Catal Huyuk in Asia Minore, risale a circa ottomila anni fa.  I primi a sviluppare un’arte della panificazione furono i greci che confezionavano più di settanta tipi di pane ed introdussero dal quinto secolo prima dell’era comune il mulino a tramoggia.

Al centro di numerose simbologie il pane è presente nell’antico rituale egiziano dei morti.  I Romani lo portavano in processione nelle cerimonie dei defunti.  Gli ebrei portano dodici pani diversi il giorno dello Shabbat al tempio di Dio, sono i pani di proposizione (shew-bread).  Nel cristianesimo prima del Cristo c’è il profeta Eliseo che moltiplica i pani che poi finiscono al centro dell’Eucarestia.  Giovanni definisce Gesù pane di vita, i cristiani pane della parola di Dio la predicazione.

Nell’antico Egitto il dono dei cereali e del pane fu attribuito al dio Ptah.  Nella cultura ebraica il pane è all’origine di numerosi codici civili e sociali.  Il culto greco più antico e famoso intorno al pane lo si ritrova nei Misteri Eleusini in onore di Demetra.  Il Cristo dei cristiani dice: “Mangiate io sono il pane…”, il pane che aveva moltiplicato nel miracolo con i pesci.  Fu cantato da Omero, Orazio, Giovenale e Plauto.  È onorato nei Canti dell’Edda della letteratura nordica e dai poeti medioevali.  Riempie l’Europa di toponimi fino all’inverosimile villaggio bernese di Chät und Brot.

Da il nome al luogo di nascita di Gesù, Beit Lehem.

Una curiosità.  La tradizionale baguette francese è uno dei simboli dell’identità nazionale.  Il 26 brumaio dell’anno secondo (15 novembre 1793) un decreto della Convenzione stabilisce che tutti i francese devono mangiare lo stesso pane: «La richesse et la pauvreté devant également disparaître du régime de l’égalité, il ne sera plus composé un pain de fleur de farine pour le riche et un pain de son pour le pauvre. Tous les boulangers seront tenus, sous peine d’incarcération, de faire une seule sorte de pain : Le Pain Égalité».

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Scopo dell’esercitazione è la realizzazione di un “pane neolitico” sul modello di quello di Twann/Douanne.

Questa è la ricetta.

 

Preparazione del lievito.  Con ottanta grammi di farina integrale, un po’ di olio di noci, sale ed acqua di sorgente realizzate un impasto mescolandolo con cura, eventualmente rimboccandolo con un po’ di farina, fino a quando non diviene un bolo morbido che non attacca alle dita.  A questo punto lasciatelo riposare per tre giorni in una tazza, coperto con un panno, in un luogo buio e ad una temperatura non inferiore ai 16 gradi.  Passato questo tempo impastatelo con un altro po’ di farina e lasciatelo, sempre nello stesso modo, riposare per altri due giorni.

 

Preparazione del pane.  Sciogliete il lievito in un po’ d’acqua di sorgente, aggiungeteci della farina integrale e un pugnetto di grano saraceno in grani, pulito e ammollato in acqua per qualche ora.  Impastate il tutto a lungo fino ad ottenere una pasta molle ed elastica.  Infarinatela.  Copritela con un panno umido e lasciatela riposare al buio per un giorno a venti gradi.  Rimpastatela usando dell’altra farina e cuocetela.  Per farlo procuratevi un sasso da fiume liscio e il più possibile arrotondato.  Ungetelo con olio di noci e mettetelo in centro all’impasto – appoggiato su una placca da forno unta – dopo averlo scaldato su una fiamma finché non ha raggiunto un’alta temperatura.  Il tempo di cottura varierà in proporzione alla grandezza del sasso e alla temperatura che ha raggiunto.  (Potete integrare la cottura aiutandovi con il forno caldo.)

Appena il pane è cotto, sistematelo, sollevandolo dal piano di appoggio, e avvolgetelo in un panno spesso affinché, raffreddandosi, non diventi duro.

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ESERCITAZIONE NUMERO TRE.

LOOKING THROUGH THE BREAKFAST.

Man ist was Mann isst.  Si è ciò che si mangia.

 

L’dentità soggettiva nelle scienze sociali è l’insieme delle proprie caratteristiche auto-percepite, costituisce un’identità fluida, difficile da circoscrivere, carica di ombre, con la quale dobbiamo fare in continuazione i conti.  Essa, però, è anche tutto ciò che ci caratterizza, ci rende inconfondibili, ci consente di dare un senso all’idea di “Io”.  In questo modo l’identità soggettiva serve sia ad identificarci che a discriminarci, producendo spesso degli stereotipi culturali che alimentano il pregiudizio.

Di contro l’identità oggettiva, che non necessariamente coincide con quella soggettiva, è la questione sulla quale convergono almeno tre rappresentazioni di ciò che siamo:

La nostra identità fisica, che si desume principalmente dal volto, dalla postura e dal sesso.

La nostra identità sociale, ovvero l’insieme di alcune caratteristiche quali l’età , lo stato civile, la professione, la classe di reddito.

La nostra identità psicologica, costituita dalla personalità che abbiamo, dalla conoscenza di sé, dallo stile di vita e di comportamento.

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Sono identità che variano più o meno rapidamente e coscientemente.  Più o meno indipendentemente da quello che noi vogliamo o siamo in grado di volere.

Va anche considerato che queste due rappresentazioni dell’identità, anche se non coincidono, sono profondamene intrecciate tra di loro.  Per esempio, il mio modo di vedermi è in larga misura il riflesso della maniera in cui mi guardano gli altri e della maniera in cui io so che gli altri mi vedono, con il risultato che molto spesso i giudizi che esprimiamo o riceviamo sono improntati sulla malafede, sulla cortesia, o godono di una benevolenza parentale ed amicale.

L’identità soggettiva indica anche la capacità degli individui di aver una coscienza dell’esistere e di “permanere” attraverso tutte le fratture dell’esperienza.

In filosofia è stato John Locke (1632-1704), nel Saggio sull’intelligenza umana, ad affrontare alla radice il tema dell’identità soggettiva in un’epoca in cui entra in crisi la vecchia rappresentazione metafisica e religiosa dell’anima intesa come un’ancora che ci tiene legati al senso del mondo e del suo divenire attraverso il tempo.

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È opinione condivisa che gli atti alimentari riflettono la nostra personalità.  Se gli alimenti che ingeriamo sono indispensabili alla vita, il nostro gusto, lo stile con cui mangiamo, les nos manières de table ci situano nel mondo e nella società.

La nostra identità, da questo punto di vista, si costruisce attraverso le abitudini dell’infanzia, i modi alimentari della classe alla quale apparteniamo o quella alla quale vorremmo appartenere, dalle nostre relazioni familiari.

Dal “Man ist was Mann isst” a “Dimmi quello che mangi e ti dirò chi sei”, il passo è breve, a tal punto che certe teorie psicosomatiche parlano della bulimia, dell’obesità e dell’anoressia come segni di una incapacità ad esprimere i sentimenti, in particolare quelli di ostilità e di collera verso gli altri o verso se stessi

Obiettivo dell’esercitazione è la realizzazione di un autoritratto che esprima – attraverso il posto della prima colazione, come la prepariamo, quello che mangiamo – la nostra “identità soggettiva” o quello che riteniamo sia una rappresentazione di essa.
Utilizzare, come formule espressive, solo se stessi e gli elementi che compongono la propria sfera domestica.

 

L’autoritratto può essere elaborato con il mezzo espressivo che si ritiene più opportuno, disegno, foto, fumetto, collage, rappresentazione elaborata per via elettronica.

L’elaborato dovrà essere presentato stampato su un foglio A4.

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ESERCITAZIONE NUMERO QUATTRO.

Il pane e le briciole.

Congegni, forme e pasta sfoglia.

 

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L’obiettivo dell’esercitazione è quello di progettare, usando pasta sfoglia industriale e/o pasta fillo (phyllo) un complemento di arredo, preferibilmente una lampada o un vaso porta-oggetti. 

L’armatura può essere realizzata con stecchi di legno e la pasta può essere colorata, ma ogni artificio sarà considerato penalizzante.  Invece, la possibilità che il prototipo sia “funzionante”

sarà considerato un vantaggio. 

Sfruttare la cottura in forno e lo zucchero velo per dosare il colore.  La quantità massima di pasta da usare non deve superare i due chili.

 

L’assemblare è la forma moderna del tutto ed essa domina sull’espressione artistica.

(Bernard Rosenthal)

Nel realizzare questo progetto lo studente deve riflettere più che sull’oggetto d’uso (rappresentazione di una funzione) sulla nozione di congegno.

Un congegno, in sé, non è solo l’esito del co-ingegnare , ma è anche un modello linguistico ed un insieme di strategie del sapere.  In altri termini, un congegno è il comporre con ingegno, e di conseguenza, ordinare con arte.

Martin Haidegger chiama apparato (Ge-stell) il raccogliersi di quel disporre che esige lo svelamento del reale nella forma dell’ordinare.  In questo modo esso fa i conti con la prassi che orienta il senso.

Una lampada in pasta sfoglia è ancora una lampada o lo è solo per analogia con quelle realizzate con altri materiali?

Un vaso porta-oggetti deve per forza contenere oggetti?

Scrive Gottfried Leibniz (1646-1716): Creare vuol dire eliminare il possibile.  Sfidare il mondo dell’irriducibile singolarità.

Se i materiali tradizionali inducono, a ragione della loro natura, ad un pro-durre impositivo che in qualche modo inibisce la poiesis, qualche chilo di pasta sfogliata è in grado di ricondurre la techne alla dimensione di ciò che vuol dire disvelare il senso?

Ancora, quale sfondo (Bestand) deve pensare la techne?

La fatalità di una lampada è d’illuminare e la tecnica che la pensa è la ragione del suo scopo, ma una lampada in pasta frolla quali altri scopi nasconde o, meglio, sconnette?

Il destino di un vaso non è quello di cadere in frammenti?  La perfezione di una cosa – osserva Aristotele – si misura alla necessità del suo stato.

Su questo Heidegger è perentorio: Ciò che salva è anche ciò che sconnette.  Gli atti tecnici, infatti, sacrificando la funzione diventano ars, si mutano nell’inspiegabilità come fine, cioè, come valore estetico.

Dunque, l’obiettivo di questa esercitazione è di pensare la tecnica, ma non tecnicamente.

Pensarla al di là di una visione meccanica e finalizzata avventurandosi in quello che oggi molti definiscono come design narrativo, come espressione di un fare che presuppone il sapere.

La forma che è divenuta forma determina la natura della forma che lo diverrà. 

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ESERCITAZIONE NUMMERO CINQUE.

Saperi, Sapori.  Le spezie. 

“La langue, sauce piquante.” 

(Gilles Deleuze)

Nella cultura medioevale europea e più ancora nella storia della cultura orientale le spezie sono state una fusione di sensazioni con le quali gli uomini hanno cercato d’innalzare l’oscurità della materia alimentare alla preziosità del gusto.

Tuttavia, dietro questa immagine suggestiva s’intravvedono, nella lunga storia degli atti alimentari, antiche allegorie – come quelle che aureolano la cannella, la cassia, il cardamomo, la curcuma – lo sviluppo delle rotte commerciali – le spezie sono state per secoli la merce che fece crescere in modo esponenziale i traffici marittimi da e per l’Asia maggiore e l’Africa – si scorgono guerre mercantili, battaglie corsare, ostentazione degli stili di vita.

Una libbra di zafferano, al tempo in cui Taillevent era mastro cuciniere alla corte di Carlo V,

intorno alla fine del quattordicesimo secolo, costava quanto un cavallo (la libbra medioevale corrisponde a circa trecento grammi).  Un pugno di noci moscate quanto una coppia di buoi.

Taillevent stesso, che serve i potenti, ne fa un largo uso, in particolare è generoso con una poudre fine di sua invenzione, una specie di curry.

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L’Ottocento europeo, bigotto e riformatore, che temeva il solfureo delle spezie, le relegò ad un ruolo secondario ed anche la loro storia fu raccontata in modo inesatto, destinandole a mascherare con il sapore e il colore l’inevitabile putrescenza degli alimenti.

Nel Medioevo il colorante più costoso e diffuso a corte era lo zafferano, che dava ai cibi nuance giallo oro.  Con il legno di sandalo si tingevano di rosso le purea.  Era anche molto usato il verde di molte erbe, come gli spinaci, o il blu-violetto che si otteneva dalle more.  Altri coloranti più popolari erano il prezzemolo, l’acetosa, le foglie di vite, il ribes, il grano verde,  il tornasole, un colore estratto da certi licheni, polvere di lapislazzuli.

Oggi sappiamo che hanno proprietà antisettiche e antibiotiche di primaria importanza e che molte culture lo avevano intuito anche ignorando l’esistenza dei batteri.  Lo possiamo dedurre dai molti documenti in cui esse compaiono come le protagoniste di ricettari, diete, trattati di farmacologia, preparati di diversa natura per la cura delle affezioni intestinali, stomacali, delle vie respiratorie e del desiderio sessuale.

In quest’ottica l’attività cucinaria può anche essere considerata come una tecnica per combattere batteri e funghi o, meglio, una strategia di coabitazione intelligente tra uomo e microrganismi.

 

Scopo dell’esercitazione è di preparare un mix originale di spezie da testare per aromatizzare una focaccia (vedi più avanti la ricetta base). 

La scelta delle spezie è libera e deve essere contenuta tra tre e sei.  Lo studente dovrà presentare la focaccia accompagnandola con una busta chiusa nella quale dovranno essere elencate le spezie usate e la loro quantità espressa in grammi.)

 

Ricetta base per la preparazione della focaccia.

Mettete trecentocinquanta grammi di farina setacciata in una terrina, aggiungeteci otto grammi di sale fino, una tazza di acqua tiepida (nella quale sono stati sciolti otto grammi di lievito di birra) e due cucchiai d’olio d’oliva extravergine.  Lavorate l’impasto usando dell’altra farina per non farlo attaccare ai lati del recipiente.  A questo punto integrateci il mix di spezie selezionato.  Quando l’impasto è uniforme copritelo con un panno umido e lasciatelo lievitare al fresco per almeno tre ore.  Stendete l’impasto infarinato su una teglia ricoperta con carta da forno.  Bucherellatelo con una forchetta e mettetelo in forno, caldo, per almeno dodici minuti, fino a quando i bordi non saranno dorati.

Una nota tratta dalla tradizione.  Il gradimento visivo in Medio Oriente è un modo di partecipare alla commensalità.  Il colore verde, il colore di Maometto, è portatore di benessere, cioè, di baraka.  L’espressione deriva dall’ebreo berakhah o bracha ed è la benedizione usualmente recitata nel corso delle cerimonie.  Da qui, l’abitudine degli ebrei safarditi di privilegiare il verde dei legumi e dei piatti per augurare la prosperità, soprattutto nel corso del sabbat, la festa del riposo nella quale è bandito il nero, questo spiega il perché sulla tavola del sabbat sono eliminati gli stessi alimenti anneriti dalla cottura.  Regola che ritroviamo anche nei menu di fine anno e della pasqua.

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FINE.