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Che cos’è la poesia?

Che cos’è la poesia?

(Questo testo è dedicato a A.A.)

 

 

Non sempre e non tutti i lessemi

sono solubili in una rappresentazione. 

Bernard Rosenthal.

 

a – La funzione perduta dell’ocra. 

Il parlare puro è la poesia, dice Martin Heidegger, essa non rappresenta, nomina, dunque chiama e chiama la prossimità, la dimensione dell’Altro allocata nel cuore dell’assenza.

Allora, perché questa tace il lessema fatale?  Perché essa ïnganna come “composto”, frutto sfatto di un compò.nere che l’etimo avvicina pericolosamente al mettere ordine, familiare alle baionette.

Qui, infatti, il significante, come lo scoiattolo in gabbia, rinvia in perpetuo ad un altro significante che scompare.  Punto di crisi del senso o culto delle mandibole oranti?

Nel buio del quotidiano questo punto – dubitativo – è la “pace della sera” è “la neve alla finestra”, è una lingua di ocra spalmata su una tavoletta.

Chi conosce gli artifici sa bene che il pianto della creatura – questa pietra nera del San Michele – è appena un lampo dopo la “striscia ininterrotta di unghiate lunga chilometri” che i viaggiatori di un traballante imperiale vedono visitando le grotte di Rouffignac nel Périgord.

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Se nell’ocra – come sostanza – si tratta di intendere un discorso al di là del discorso del soggetto, ben venga il corpo dipinto.  Ma siamo sicuri di questo intendere o, per caso, tutto si riduce alla volontà di uscire dalla lingua per il conforto delle parole?  Quante, se settemila lessemi vi sembrano molti?

Tutto sommato questo conforto appare reale ma non è innocente, è piuttosto un trou insaziabile nella sua materna illusione.  Un buco analitico grazie al quale tutti i fraintendimenti sono possibili come effetto della voce.  Essa consente il privilegio dell’angoscia come esperienza esistenziale, l’attraversamento del niente, come rigore che si fa avventura orante del quotidiano.

Nell’ocra spalmata, all’ombra della roccia di Le Moustier, per la prima volta, l’apparato della simbolizzazione appare come un passaggio dall’essere all’essere delle cose, riconoscenza, identità ritrovata, Ereignis, come avvenimento che viene e si fa negativo.  Fiorisce nel duro inverno dell’ambiente glaciale e si mostra splendente come un’attitudine artistica. Per riuscirci scomoda la pazienza, il dolore, il travaglio, la fatica.

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Va aggiunto che, a differenza della lingua, l’ocra costituì da subito un’esperienza materiale, almeno fino a quando nel balbettio dell’oralità non si rivelò prepotente la piccola scienza che orienta verso il peccato della metafisica.  Dirà George Bataille, l’arte presuppone il possesso di utensili e l’abilità acquisita attraverso la mano.  Per intanto la nuda vita che pensa l’incondizionato, finisce ingannata.  Un modo di naufragare davanti alla siepe (potata) di Recanati.

Il colore dell’ocra è certezza sensibile, esperienza ferruginosa, ma come certezza è il contrario di quel prodotto della manifestazione del desiderio rinchiuso nella lingua.  Non abbiamo mai conosciuto il reale se non come avversità.  Esso scivola dappertutto, dalla pelle delle illusioni – si deve pur campare con la poesia – al suolo violaceo dell’habitat, come casa dell’essere, in cui regna la spaesatezza (Heimatlosigkeit).

Ma con l’ocra s’instaura anche un dominio conoscitivo che ci porterà all’arte prima, alla scrittura dopo, ingannandoci sulla natura della poesia che come ente (Heidegger) non è né arte, né scrittura.

Lo sapeva bene quel giovane in camicia bruna che chiese al maestro di “essere e tempo”: “Quando scriverà un etica?”

Non è curioso che nessun manuale parli dell’ocra sul dito di Platone puntato (minaccioso?) al cielo della metafisica nella Scuola di Atene di Raffaello?  E poi, perché Eraclito, giunto tardi, guarda altrove?

 

In attesa, la poesia è ascolto subdolo, che nella Lichtung diviene desiderio, trasforma il poeta in pastore di un gregge sui pascoli estatici dell’ek-sistenza.  Greggi destinate al mattatoio.

Ecco perché in gioco non è mai la verità che la poesia costruisce tessendo il simbolico con l’immaginario.  Ecco perché tace.  La scelta dell’ocra, invece, è rifiuto, spesso inconsapevole quanto ostinato, di quella negazione della negazione che permette al “dipinto” il ritorno alle sorgenti del significante.  Alla fine è il qualche cosa che la terra porta con sé, la ragione del suo fascino.

Il sapiente André Leroi-Gourhan però richiama la nostra attenzione su questo, se il “dipinto” come soggetto diventa oggetto, parete, foglio, solco graffiato nel pagus, non risulta in maniera chiara che l’ocra sia stata utilizzata per le ferite degli animali.

L’animale, l’Altro che vede diversamente.  Il solo essere che non è offeso dalla luce della radura perché i suoi occhi non “sono trappole (educate) ad accerchiare la sua libera uscita.”

Eppoi, l’ocra viene prima della pastorizia con il suo regno di povertà.  Perché allora i poeti, si domanda Hölderlin?  Per rintracciare la svolta a favore dei loro fratelli.  Dei minori del pensare poetante a cui sono destinati gli stazzi dell’inganno.  In un’altra occasione, per l’amico Demetrio Stratos scrivemmo: Aulo Gellio nelle Noctes atticae dava al luogo detto Mons Vaticanus l’etimologia di vagire, che designa i primi balbettii della parola.  Su questo Mons, infatti, si strutturò a religione l’isteria degli sciamani, e per causa.

Nell’intervallo di tempo è pittura parietale o mistero, come nelle pallottole d’ocra impastate di schegge di selce ritrovate a Arcy-sur-Cure.

Non è difficile, oggi, individuare post festum la traiettoria dell’isteria seguendo la traccia dell’ocra come poesia.  Perché per il suo colore diventa il principale simbolo paleolitico della vita.  En passant, le sciocchezze di molti artisti sulle virtù, salvifiche per analogia, dell’arte moderna come si vede affondano nella corteccia dell’innocenza perduta.

Un passo ancora.  Agli eroi e ai poeti spetta di affrontare la rottura del simbolico, che si acclara anteriore alla parola e che la parola cuce al testo (Starobinski).  Ma se il cucire rinvia nell’etimo al mezzo (con.sùere), l’ocra è meglio, è più attaccaticcia della parola.

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In questo senso il testo diviene un’analogia.  Come il reale appare senza fissure, ma non estraneo alla parola che lo evoca.  Così, tra lingua e “dipinto” nasce un conflitto sul piano del “principio di realtà”, entrambi aspirano a divenire il nome di ciò che appare.  Il nome della rappresentazione immaginaria che si allucina.  Usando le parole di Jacques Lacan diciamo che nell’ocra si trovano cose che non sono mai quelle che si sono cercate.  Nella poesia si ci accontenta.

Questa fatica del vivere il niente che non esiste, perché non esiste, trova sempre un conforto nell’ordine che maternamente ci mostra il mondo esterno come se fosse costruito sul reale.

In altri termini, il brivido della lingua è contenuto nel ciò che desideriamo eretto su un fondo supposto come assente.  Come dire, il reale si mostra sempre come un impossibile.  Il ritorno nel reale è l’altro volto del buco nel reale.  Non è facile per la poesia questo bagno nella lingua della madre.  Per la poesia, non ci sono né un panorama parietale, né uova filosofiche, tutt’al più l’esperienza del corpo del significante, questo Altro come l’Altro del linguaggio.

 

L’ocra è anche un intercapedine tra la parete e l’abitare della parola, la muta testimone del destino dell’e-sistenza e della reificazione di questa e-sistenza pensata come senso o poesia che si può pensare separata dall’essere.  Non basta tacerlo, nella poesia poetata, a differenza dell’ocra, c’è anche quel fastidioso occultamento dell’essenza della tecnica che si apre come dominazione.  Questa poesia, che non riconosce l’organico, è  la materia organica del potere, la spina di pesce del gerarchico, una fisiologia del corpo ridotto a scaffale per lo spirito (Heidegger).  Così, come la poesia getta l’individuo nella menzogna della parola o della figura sfigurata dalla domesticazione, l’ocra lo trattiene e lo pensa come “cura”.

Oggi lo sappiamo, l’uomo di Cro-Magnon ammucchiava palle e raccoglieva fossili e ocra.  Diverranno monili e piaghe religiose, stimme.  Diverranno poesia partorita da un “arte magica” che non riuscirà mai più a tornare all’anarchia dell’arte per l’arte, alle ragioni della sua fondazione.

Con l’ocra, per l’ultima volta nella storia dell’uomo, la fenomenologia della forma smette di essere un ammucchiare palle e, camminando sulle acque del sacro, crea un messaggio.  Non è impossibile interpretarlo, basta osservare i campioni dell’arte povera.  Da qui la svolta.  Da qui il bisogno di agire sulla totalità.  La forma che diviene messaggio consente alla follia d’inserire un senso nell’apparato simbolico, ma soprattutto nella mutevolezza e nell’aleatorietà, punto di partenza della grande illusione che fa della bocca il congegno percettivo del significato.  Se questo sembra esagerato ricordatevi ciò che affermò a suo tempo Salvador Dalì: La mâchoire est notre meilleur instrument de connaissance philosophique.  In un quaderno di appunti scolatici ho ritrovato questa annotazione: L’origine delle mascelle risale a più di quattrocento milioni di anni fa.  Essa ha portato ad una radicale trasformazione delle forme di vita a cominciare dai vertebrati che da filtratori di fango si mutarono in veri e propri carnivori.  Il termine sapienza – passando per il latino volgare – è connesso a sapore, avere gusto e, quindi, senno.  Il sapiente non divora e non inghiotte, ma assapora e mastica lentamente, sia una pietanza che la vita.  Medita senza cadere nell’agire esasperato, riflette e si meraviglia.

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b – Abitare la polvere. 

Dissertare per disertare.

Una splendida parola d’ordine se in mezzo non ci fosse il desèrere.

 

La poesia – se il progresso poetante è collegato al progresso simbolico del linguaggio – è ciò che rimane dalla lavorazione dei chopper, una forma di polvere, perché essa – la polvere – è contemporaneamente ipotesi e sintassi che conferisce fissità e duttilità al senso e una ragione al grafismo.

Lo ripetiamo, la mano sta alla scrittura come la mandibola al linguaggio.

La loro mobilità è ciò che modella il pensiero.  Va da se, non si può entrare nella Joyce Tower vantando le virtù poetiche di un’ascia bipenne, tutt’al più conviene il rasoio di Occam o un churinga.  Guai a ignorarlo, magia e dopobarba a Dublino sono dalla stessa parte sugli scaffali dei supermercati, vicino ai rognoni!

Ma perché i churinga?  Essi rappresentano l’ultima espressione della poesia visiva non condannata dal tempo (perché nulla invecchia come il nuovissimo), dopo si scherza con il sacro, dunque con i chiodi dell’alienazione e i legni dei cruci-verba.  Queste tavolette rappresentano il culmine della mobilità verbale, che è tutt’altra cosa di uno spruzzo di acrilico con qualche lessema allessato.

In questo contesto la loro mobilità è una forma di magia materiale, non ha niente a che fare con l’ingenuità famelica del reale, piuttosto è rappresentazione dell’astratto, dunque, una forma di realismo pratico.

 

Intermezzo.  Anche il matrimonio di Eléonore de Nieuwerve et de Ritthem con Henri van Waes era stato trascritto su un ramo secondario dell’albero genealogico, tuttavia mancava ancora qualcosa, un collegamento con il Lord of Sommelsdijck, governatore di Namur, con il quale erano imparentati tramite il Conte de Fallais, governatore di Limburg.  Chiuse la scatola e guardò indecisa il cielo.  Durante la notte era piovuto, adesso era di un brillante blu cobalto.  Un tempo perfetto per far suonare le sue tavolette ronzanti.  Da un paio di giorni la sua collezione si era arricchita di un antico rhombus in avorio che proveniva da Creta e di due churinga costruiti dagli Aranda, aborigeni dell’Australia centrale, una cultura di cacciatori raccoglitori, che si perforavano il setto nasale e consideravano la verginità una colpa a cui rimediare in cerimonie femminili segrete, culminanti con la lacerazione dell’imene per mezzo di cunei di legno rituali.  Il suono dei rhombus è molto vario ed è definito roboante, Helga gli preferiva quello dei churinga o bullroarers, come erano chiamate le tavolette australiane.  Il loro suono era simile ad un bisbiglio, facile da padroneggiare, per ottenerlo bastava far roteare più o meno velocemente le churinga nell’aria attaccate ad una corda.  Richiamavano gli spiriti saggi, i sogni e le rappresentazioni.  Si preparò velocemente dei sandwich e mise delle scarpe basse, c’era un angolo nel Platzspitz quasi sempre deserto e con pochi alberi.  Prima di aprire lo studio aveva un paio d’ore di libertà.  Qualche volta aveva accarezzato l’idea di pitturarsi il volto con il sangue mestruale e l’ocra prima di farli volteggiare, come fanno gli Aranda, ma non poteva permetterselo, le si riconoscevano altri mezzi per entrare nel mondo dei sogni, che poi fossero più efficaci non ci avrebbe giurato.  In ogni caso i bisbigli delle sue tavolette ronzanti le erano di aiuto per rilassarsi, poi, nel rientrare, si sarebbe fermata al Café Schober per un tè accompagnato da un paio dei loro squisiti tartufi allo Champagne.  Le piaceva il suo stile retrò, i mobili laccati in avorio, le tende di sangallo rigorosamente candide.  Le ricordavano un’altra pasticceria della sua giovinezza, Gerbeaud, sulla Vörösmarty tér, a Budapest.

(Da, G.E.S., Quelle della via Paal, Budapest, settembre 1956.  Il ritorno del rimosso).

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De lana caprina.  Nella poesia si confrontano la polvere, la storia e il realismo.  Come traghettarle nella vita corrente?  La storia, qui, è come il cristallo, il realismo è privo di oggettività.  La polvere è il segno che si dissocia dall’accadere, perché è accoglienza.  Lo sapeva bene Robert Filliou che la toglieva dalle tele del Louvre, ma non dalle statue.  Il marmo ama il maquillage della polvere.  Con l’ocra l’arte ha mostrato i limiti della soggettività empirica, con la polvere quelli del concepire la storia, una porta rotante per gente che viene e gente che va.  Restano due weg, la piscina del trascendente, ma quale impudicizia per un poeta mettersi in costume da bagno!  I sentieri dell’idealismo kantiano.  L’invenzione oscena di un a-priori predicativo in cui la scrittura si articola senza mai eliminare la differenza che separa il pensare dall’esserci.  In breve, i poeti del circolo Pickwick si riuniscono solo se a presiedere c’è la menzogna che non mette mai all’ordine del giorno le contraddizioni.  Una: quella che si risolve in una tensione tra il “dicibile” è l’intenzionalità.  Meglio l’abbandono lirico, poco importa se crociano.  Che si risolve nello stare vicini, gli uni a proteggere l’espressività estetica.  Gli altri l’impegno teorico.

Peccato che nella Foresta Nera ci sia stato qualcuno che abbia ricordato come anche di domenica vale la differenza tra Poesie e Dichtung.

Per Heidegger, infatti, il dire preesiste all’iniziativa dell’uomo che lo raggiunge solo se si apre all’ascolto.  Non c’è scelta tra la polvere e la follia metafisica.  Il poeta può mettersi pantaloni bianchi con la balza, sfidare con i denti una pesca, farsi la scriminatura dietro la testa, diventare visivo, visuale, sonoro, tragico, poco conta, è condannato a evocare l’originario.

Lo diciamo senza enfasi.  Che cosa c’è d’incomprensibile nelle undici tesi su Feurbach?

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La debolezza ama la vicinanza di quartiere (Nachbarschaft, gli heideggeriani mi perdoneranno l’impertinenza!) tra poesia e pensiero, quella mediazione culturale che è strumento linguistico di classe o discorso sugli alberi, nell’ironia brechtiana.  Peccato che i poeti non abbiano mai risolto se conviene prima stupirsi o interrogarsi.

In ogni modo Heidegger aveva una sua convinzione, traduciamola: Pensare è limitarsi a un solo pensiero che un giorno si fermerà nel cielo del mondo come una stella.  (da, Wenn das frühe Morgenlicht still über den Bergen wächst…)

Perdio!  Dovevamo saperlo che quel brillio laggiù era quello di un fiammifero che accendeva un forno nella casa del pane.

E noi, folli, a invocare una storia sociale, il realismo delle rose!

 

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