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LA VOCE e la traversata del fantasma

LA VOCE

e

la traversata del fantasma.

 

Vorrei cominciare o se preferite ricominciare con un aneddoto.

Stratos fu ricoverato una domenica mattina.

Il sabato sul tardi era passato da me.

Voleva che rileggessi con un lui un breve testo sulla voce che aveva preparato per Il piccolo Hans, una rivista di analisi materialista di area lacaniana, diretta da Sergio Finzi, allora molto popolare, credo abbia chiuso una decina di anni fa.

Mentre io controllavo il testo lui scherzava con il mio welsh terrier e commise l’errore – verso il quale per altro lo avevo messo in guardia – di minacciarlo di mangiargli la cena.

Fu morsicato all’interno della coscia.

Un morso da nulla.  Nelle sue condizioni – che tutti ignoravano – gli provocò un piccolo ematoma e un esame medico qualche giorno dopo.

Uno scrupolo che rivela come i medici nel suo caso agissero a tentoni.

In ogni modo questo morso, restituita la cena al terrier, ci portò a riflettere su un paio cose:

– sul ruolo della bocca – era da poco stato pubblicato in Italia Le geste et la Parole (Technique et langage) di (André) Leroi-Gourhan – o, meglio, dei movimenti della lingua in chiave evolutiva, movimenti prima alimentari e poi fonetici.

– sull’elasticità dei muscoli facciali e degli organi della fonazione e della mimica, a cui Stratos in quel momento era particolarmente interessato.

Come sempre la discussione finì poi sul tema della voce in una prospettiva fenomenologica.

In quegl’anni questa prospettiva equivaleva a una piroetta su  “idee per una fenomenologia pura” di Edmund Husserl, ma questa è un’altra storia.

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Dunque la voce.

La voce come sintomo, piuttosto che rappresentazione e, per conseguenza, linguaggio.

 

Sintomo invece che suono, invece che simbolo.  Sintomo che nasce dai semeia, dai segni “segnati” con i quali costruiamo le immagini di cose, una pragmata, tirando il greco per i capelli.

Lo aveva detto Aristotele nel suo triangolo semiotico, privilegiando le vocali, che sono un legame (desmos) che passa attraverso le lettere e forma i costrutti o, come nel caso di Demetrio Stratos, le ripudiate armonie.

La voce, un frutto dei fluidi interni, per chi crede nell’alchimia, o un esito del thumos, se vogliamo ritornare al sintomo nella sua fisicità respiratoria.

Per semplificare, se il canto è una morphé, la voce come sintomo è un’impronta in cui brulica il negativo, perché la voce ha le stimme di una metafora sociale.

In essa parla ciò che per il desiderio è la verità rimossa.

Parla nella forma di un dettaglio eccedente o di un resto inammissibile,

È inutile domandarsi se Stratos fosse cosciente di questo, perché lo sapeva di ritorno, come i marinai, i poeti, gli irriducibili.

Lo sapeva perché la voce per lui non significava, ma risignificava.

Era l’indicibile che non si dispiega sulla coazione a ripetere, era l’inganno che mantiene la promessa.

In questo contesto non abbiamo tempo, perciò vi chiedo un nonnulla di fiducia.

Era il lacaniano object petit a.

Con il gergo della cultura visuale possiamo dire che la voce per Stratos articolava, per mezzo di un significante astratto, un significato visibile.

Significato che il sintomo, secondo la vulgata lacaniana, muta in un punto di capitone.

Muta nei bottoni del materasso del senso approdando a una nuova significazione.

En passant.

Non ho usato a caso l’espressione di materasso, la sua radice araba, matrah, rimanda al luogo dove si getta qualcosa, spesso un corpo, che trattiene grazie all’azione dei bottoni e che spesso brulica di metonimie, sempre cangianti.

Come i lettori della Josephine di Kafka anche noi ci siamo domandati: Nella forma di uno squittio?

Si, o, se siete degli ortodossi, di un rimosso.

Mi piace pensare che la voce di Stratos è un tentativo di affrontare il ritorno del rimosso.

Ma questo ritorno del rimosso presuppone sempre una ferita pulsionale, la potete scorgere negli insetti di un reale impronunciabile che qualcuno debole d’orecchio chiama uno scioglilingua.

In ogni caso uno degli esperimenti vocali più belli di Stratos.

 

Ha scritto Lacan, la voce si confonde con il ronzante turbinio delle pulsazioni corporee, che sfuggono alla coscienza perché le precedono.

Da parte nostra lasciamo ad altri l’esercizio di frugare tra i motivi artistici, i temi estetici, i concetti, le fonazioni, gli exploit circensi e le forme sessuate della voce – che molti dicono indugi al blu se volge al femminile.

Nel breve tempo che ci è stato concesso vorrei invece richiamare l’attenzione sulla centralità causativa del vuoto che Stratos aveva illuminato mostrando la natura anidra della voce come sintomo.

Questa centralità è la ragione sintomatica della voce, la ragione del canto messo a nudo che rivela l’imbroglio di saperi avariati dalla forma di spettacolo.

Del resto, come cinicamente ci fa notare la psico-analisi, non c’è sapere che possa dire la verità e non c’è voce che possa dirla.

E allora?

Occorre portare il corpo nel sintomo come sua verità.

Un corpo senza figura arroccato su un vuoto, quello della socialità, che un giorno forgiò la voce e, asserisce Leroi-Gourhan, la colorò di giallo ocra, il principale simbolo paleolitico del pneuma.

Qui il concetto di sintomo va preso alla lettera, come ciò che cade tra gl’uomini per effetto del senso.

Sfidarlo con gli oggetti pulsionali materiali (il bolo fecale, il seno, il fallo, il flusso orinario) e immateriali (la voce, lo sguardo, il niente).

Stratos sapeva che i canti – come le immagini – sono portatori di crisi.

Sapeva che noi non siamo mai davanti a essi.

In altri termini, il sintomo rivela la sostanza incoativa della voce e ce ne mostra la natura metaforica, di struttura significante che si installa sul luogo del significato.

Questo ci consente di dire che la voce in Stratos esigeva di essere decifrata perché è partorita.

Ancora una volta prendiamo l’azione alla lettera, di forma desiderata o, se preferite fertile, stando all’etimo di fèrtus.

Ma la voce come sintomo per Stratos è anche lavoro, perché processo di senso e, dunque, per ritornare in analisi, sapere.

Eccoci di nuovo nei dintorni del castello di Howth, cioè al materasso del senso in forma di significazione, questa volta per dire che la voce lavora sulla de-figurazione.

Così operando produce dissomiglianze che i cattivi amici di Stratos si ostinano a chiamare performance scambiando il corpo che si fa testo per la carne, invece che per il significante.

Performance che dilettano i misuratori di prodigi vocali in odore di clinica patografica.

In Metrodora, in questo dono alla madre di Stratos noi, invece, non abbiamo visto che la tosse di Dora, un significante che la voce mette al posto del significato del canto.

 

Infine, Stratos con Joyce, non si può fare, perciò lo facciamo.

Il linguaggio dice la psicoanalisi fa presa sull’uomo e lo determina privandolo del contatto immediato con il mondo.

Se ciò è verosimile l’uomo è ontologicamente esposto alla parola dell’Altro.  Alle tensioni e ai tagli che gli infligge il linguaggio.

 

Su questo crinale la voce per Stratos è nostalgia mediterranea per l’indistinzione, nostalgia che s’invera in una ricerca di un senso che non è mai là dove c’è l’ascolto.

Eravamo amici perché eravamo compagni, forse dei più che zimbelli che errano, come si arguisce dal ventunesimo seminario, Les non dupes errent.

(lenonduperr, ovvero, le nom du père, l’orrore della legge)

Per questo possiamo asserire che anche lui deve essere salito con un pennello da barba, un rasoio di Occam e un cartoccio di rognoni sulla torre di Sandycove.

Là, dove l’ite, missa est si muta in un saper fare della jouissance.

Come c’è stato il lacaniano Joyce le symptôme a questo punto reclamiamo uno Stratos le sympôme, è quello che riporta il corpo del linguaggio alla voce, senza la scorciatoia del canto, cioè, della rappresentazione.

In concreto, la voce come sintomo è servita a Stratos paradossalmente più della tentazione per la melodia, è servita a esplorare certe sacche dell’immaginario contemporaneo, quelle dove si scoprono poteri inaspettati che manovrano i nostri desideri.

 

Lo sforzo di questa esplorazione è stato immenso e si è prestato a alcuni equivoci sulla natura del suo sfinimento.

Come notò molti anni fa Maurice Merleau-Ponty, per fare questo sforzo occorre pensare la voce al di fuori della vita organica, al di fuori del suo fascino di sguardo condannato alla tessitura.