Parte seconda.
IED
Laboratorio di antropologia culturale. Esercitazioni di adhocism e bricolage.
Cominciamo con l’affordance.
Con affordance si definisce la qualità fisica di un oggetto che suggerisce a un essere umano le azioni appropriate per manipolarlo.
In altri termini possiamo definire l’affordance come la caratteristica di una “cosa” (materiale o immateriale, oggetto o idea, azione o immagine) atta a, che suggerisce qualcosa, che è predisposta a, che si presta per quel che vediamo di essa…
Ogni oggetto possiede le sue affordance, così come le superfici, gli eventi e i luoghi.
L’affordance, in sostanza, si situa in un processo di relazione tra una “cosa” ed un soggetto, determinando in quest’ultimo una azione cognitiva attivata da qualche “convenzione culturale” che questa “cosa” contiene o la relazione prevede.
In sostanza è un principio di possibilità e probabilità di prestazione.
Ad esempio in un sistema semaforico il colore prevede un’azione conseguente (rosso = stop / verde
= via libera / giallo = prepararsi a fermarsi).
Va però chiarito che un simbolo non è una affordance mentre alcune rappresentazioni simboliche producono affordance.
L’aspetto esterno di una caraffa d’acqua – con manico laterale e beccuccio – permette all’utilizzatore di dedurne intuitivamente le funzionalità, anche senza averla mai vista prima.
In quest’ultimo contesto il termine affordance può essere tradotto con “invito a”; questo concetto non appartiene né all’oggetto stesso né al suo utilizzatore, ma si viene a creare a seguito della relazione che si instaura fra di essi.
È, per così dire, una proprietà “distribuita”.
L’affordance può riferirsi sia a qualità naturali che culturali.
Una affordance poi non è ciò che noi chiamiamo una qualità “soggettiva” di una cosa, così come non è nemmeno ciò che noi chiamiamo una proprietà “oggettiva” di una cosa.
Di fatto una affordance dovrebbe eliminare la dicotomia tra soggettivo e oggettivo e aiutarci a comprendere la sua inadeguatezza.
Ne consegue che più alta è l’affordance, più sarà automatico ed intuitivo l’utilizzo di un dispositivo o di uno strumento.
Ad esempio, l’aspetto di una maniglia dovrebbe far intuire al meglio e automaticamente come la porta vada aperta: se tirata, spinta, o fatta scorrere (una porta che si apre automaticamente al passaggio ha una scarsa affordance, poiché è molto poco intuitivo il suo funzionamento).
Tra gli oggetti con un’ottima affordance vi sono, ad esempio, la forchetta o il cucchiaio, strumenti che nel corso dei millenni sono stati affinati dall’uomo fino alla forma odierna, estremamente intuitiva e di semplicissimo utilizzo.
Il termine è stato introdotto negli anni’70 dallo psicologo statunitense James Gibson che lo ha poi sviluppato nell’opera Un approccio ecologico alla percezione visiva.
Vediamo adesso che cos’è l’ISO.
L’ISO (International Organization for Standardization) definisce l’usabilità – intesa come efficacia – l’efficienza e la soddisfazione con le quali determinati utenti raggiungono determinati obiettivi in determinati contesti.
In pratica definisce il grado di facilità e soddisfazione con cui si compie l’interazione tra l’uomo e uno strumento (console, leva del cambio, interfaccia grafica, ecc.)
Va però detto che il termine di usabilità non si riferisce a una caratteristica intrinseca dello strumento, quanto al processo di interazione tra classi di utenti, prodotto e finalità.
Il problema dell’usabilità si pone quando il modello del progettista (ovvero le idee di questi riguardo al funzionamento del prodotto, che trasferisce sul design del prodotto stesso) non coincide con il modello dell’utente finale (ovvero l’idea che l’utente concepisce del prodotto e del suo funzionamento).
Il grado di usabilità è più alto quando più i due modelli (il modello del progettista, e il modello dell’utente) collimano.
Le principali caratteristiche di un sistema usabile sono:
Efficacia, Efficienza, Soddisfazione, Facilità di apprendimento, Facilità di memorizzazione, Sicurezza e robustezza all’errore.
Passiamo avanti.
L’hacking è un concetto moderno ma tra l’adhocism e l’hacking ci sono delle affinità.
L’hacking è uno dei termini più conosciuti legati all’informatica avendo accompagnato, fin dall’inizio, lo sviluppo delle tecnologie di elaborazione e comunicazione dell’informazione.
Sebbene venga usato principalmente in relazione all’informatica, l’hacking non si limita ad un particolare ambito tecnico, ma si riferisce più genericamente ad ogni situazione in cui si faccia uso di inventiva e immaginazione nella ricerca di conoscenze.
La parola hacking deriva dal verbo inglese to hack, che significa intaccare.
In ambito informatico, si può definire l’hacking come l’insieme dei metodi, delle tecniche e delle operazioni volte a conoscere, accedere e modificare un sistema hardware o software.
Chi pratica l’hacking viene identificato come hacker.
Il suo obiettivo è solitamente quello di acquisire un’approfondita conoscenza del sistema su cui interviene, per poi essere in grado di accedervi o adattarlo alle proprie esigenze.
Tale atteggiamento assume maggiore rilevanza se si considera che di frequente le informazioni tecniche e le potenzialità di un sistema non vengono interamente rese note dal produttore, o addirittura in certi casi vengono volutamente occultate e protette (per motivi industriali e commerciali o per tutelarne la sicurezza e l’affidabilità).
Il termine hacking nel gergo informatico è spesso connotato da un’accezione negativa, in quanto identifica una tipologia di operazioni e comportamenti illegali.
Tuttavia l’hacking comprende in realtà una serie di attività perfettamente lecite, svolte anche a livello professionale: i sistemi informatici vengono infatti sottoposti a specifici e costanti test al fine di valutarne e comprovarne la sicurezza e l’affidabilità (i risultati di questi test non possono comunque provare l’assoluta robustezza del sistema, ma soltanto il fatto che in un ristretto periodo di tempo chi ci ha lavorato non è riuscito a scoprire alcuna vulnerabilità).
L’opinione pubblica spesso associa al termine hacking la pratica di accedere illegalmente a sistemi altrui, allo scopo di carpire dati riservati o danneggiarne il funzionamento: tale pratica è più propriamente denominata cracking (che si può tradurre in questo contesto come intaccare con l’obiettivo di rompere, distruggere), sebbene utilizzi metodi e tecniche hacker.
Tipologie di hacking
Incremento di prestazioni (hardware)
Rimozione di limitazioni al funzionamento
Alterazione della struttura di un programma
Aggiunta di funzioni ad un programma
Nel mondo dell’arte s’incontrano con il bricolage e l’adhocism alcune tecniche o pratiche sviluppate nel corso del Novecento, come sono il collage, l’assemblage, il combine painting e in qualche modo il frottage.
Il gioco dal punto di vista del bricoleur.
E’ un esercizio singolo o collettivo a cui si dedicano bambini o adulti, per passatempo, svago, ricreazione, o con lo scopo di sviluppare l’ingegno o le forze fisiche.
Il gioco è anche una pratica consistente in una competizione fra due o più persone, regolata da norme convenzionali, e il cui esito, legato spesso a una vincita in denaro (posta), dipende in maggiore o minore misura dall’abilità dei contendenti e dalla fortuna.
Il gioco in antropologia culturale come forma di svago ha sempre avuto importanza storica in ogni epoca e cultura, come è stato evidenziato da autori quali Johan Huizinga e Roger Caillois.
Ma oltre al lato puramente ludico il fenomeno del gioco presenta una grande varietà di aspetti e possibili approcci – sociologico, filosofico e psicanalitico – fino a diventare una forma di situazione tipica della realtà quotidiana.
Come è stato notato, all’interno di una stessa area geografica o nel passaggio da una cultura a un’altra il gioco può subire profonde variazioni, passando da funzioni rituali o religiose a semplice intrattenimento.
È il caso degli indovinelli, nell’antica Grecia, costituivano una sfida con esiti anche mortale, o del labirinto, che nel Medioevo cristiano riproduceva i percorsi dei pellegrinaggi religiosi, mentre già nel Rinascimento era diventato un elemento decorativo dei giardini, della complicità sociale tra uomini e donne, un luogo d’intrighi.
Una possibile classificazione dei giochi è quella che li suddivide in giochi d’azzardo, di competizione, di simulacro o di ruolo, di vertigine o di provocazione: alcuni giochi di società infatti comportano penitenze e pegni da parte di chi perde; sono anche chiamati jeux idiots quelli che
hanno come fine quello di creare imbarazzo o disagio nei partecipanti (gioco della verità, passatella, gioco della torre) o il metterne a repentaglio l’incolumità fisica (roulette russa).
Uno stesso gioco può avere, in ambiti diversi, differenti fini: il ripiglino, diffuso in Europa come gioco infantile, ha presso molti popoli (Inuit, Australiani) valore comunicativo e artistico.
Il gioco dell’aquilone ha conservato a lungo funzioni apotropaiche nel Sud Est asiatico e in particolare in Corea.
La teoria dei giochi ha avuto origine nell’ambito dell’economia, ma si è poi ampiamente sviluppata nell’ambito matematico, sulle basi del calcolo delle probabilità, soprattutto in relazione alla ricerca operativa.
In essa sono prese in considerazione le situazioni di competizione o di conflitto, in cui a determinare il risultato concorrono le azioni di due o più persone (o gruppi di persone), dette giocatori, con interessi contrastanti, più, eventualmente, il caso.
Tipici esempi di tale situazione sono i giochi di carte, in cui norme precise fissano le possibili azioni dei giocatori, il ruolo del caso, e il risultato che ne deriva; ma le applicazioni della teoria dei giochi hanno un campo molto più vasto, pur con le inevitabili inesattezze derivanti dal costringere una situazione reale in uno schema matematico: in economia, nell’industria, in situazioni militari ecc.
La principale caratteristica dei giochi è che ciascun giocatore conosce le possibili azioni degli altri giocatori (con i risultati che ne conseguono), ma non sa quale sarà la loro scelta: di qui la difficoltà della decisione.
In generale in un gioco ciascun giocatore è chiamato a fare più ‘mosse’ successive.
Si può però immaginare che un giocatore decida fin dall’inizio quali scelte fare nel corso del gioco, tenendo conto delle situazioni che si possono presentare.
La linea d’azione così fissata prende il nome di strategia.
In psicologia il gioco acquista significati diversi in relazione all’età, al sesso, ai contesti culturali.
L’interesse di psicologia e pedagogia quasi esclusivamente per il gioco nell’età infantile si spiega con la rilevanza di esso nei processi di orientamento, definizione e sviluppo delle funzioni percettivo-motorie, mentali e sociali caratteristici di questa età.
Le teorie sul gioco evidenziano soprattutto aspetti particolari di esso, che tuttavia risultano utili alla sua comprensione come fenomeno complesso e di non facile definizione.
Rifacendosi alla teoria biogenetica di Ernst. H. Haeckel (è stato un biologo, zoologo e filosofo tedesco vissuto a cavallo tra Ottocento e Novecento) è stata proposta, da molti psicologi, una spiegazione ‘ancestrale’ del gioco, per cui il bambino adotterebbe via, via tipi di gioco che rispecchiano nel medesimo ordine le attività espresse dall’uomo nel corso dell’evoluzione della specie.
Secondo altri, il gioco sarebbe un mezzo mediante il quale il bambino sprigiona l’eccesso di energia psichica accumulata, ovvero costituirebbe una forma di ‘esercizio preparatorio’ delle attività del soggetto adulto, oppure una specie di ‘esercizio complementare’ atto a confermare abitudini utili, ma tendenti a estinguersi se non esercitate nell’attività ludica.
Per la teoria catartica della psico-analisi o, se volete, freudiana, il gioco avrebbe la funzione di liberare l’individuo da tendenze o istinti incompatibili con le esigenze della vita sociale.
Altre teorie, più vicine alla sociologia, hanno pensato al gioco come un fattore di conoscenza, di esperienza, di rinforzo, di divertimento ecc.
La principale caratteristica delle ricerche psicologiche degli ultimi decenni del Ventesimo secolo è la rinuncia a una spiegazione unitaria ed esaustiva del significato psicologico del gioco.
In gran parte per l’influenza dei risultati dell’etologia, viene riconosciuta l’esistenza di forme distinte di gioco: ciascuna di esse assolverebbe diverse funzioni psicologiche, utili alla crescita fisica e psichica dell’individuo, oltre che all’adattamento e alla sopravvivenza della specie.
La psicologia ha anche evidenziato come le varie forme di gioco infantile siano finalizzate a sviluppare e strutturare i meccanismi di autocontrollo delle funzioni senso-motorie e cognitive: saltare, fare le capriole eccetera, permettono di autoregolare le funzioni motorie.
In particolare i giochi ripetitivi, come tirare la palla in un canestro, consentono di affinare la coordinazione senso-motoria attraverso processi di retroazione e correzione che divengono gradualmente automatici.
I giochi di manipolazione e di costruzione di oggetti favoriscono l’impiego di schemi mentali e dell’immaginazione.
Il gioco di finzione (gli oggetti assumono funzioni e ruoli simbolici: per esempio un oggetto d’uso ordinario che si trasforma in astronave) contribuisce a sviluppare le funzioni simboliche.
Infine i giochi sociali attivano le relazioni interpersonali, i ruoli e le gerarchie.
Maggio 2014.