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Prolegomeni a una definizione di arte

Prolegomeni a una definizione di arte.

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L’arte non è un fatto che si constata, ma un concetto che va elaborato e che si presenta, sotto l’aspetto fenomenologico, strutturato (articolato, connesso) con le forme storiche gestite dalle istituzioni da cui riceve un senso.

Perché è difficile pensare l’arte di per sé, cioè, senza pensare l’opera?

Perché in essa agiscono due difficoltà.

La prima deriva dal fatto che il concetto di arte nel corso del tempo ha subito considerevoli e costanti “ripensamenti”.

La seconda perché questo concetto di arte è assente in molte culture, anche se in esse esistono dei manufatti che potrebbero essere definiti artistici.

 

In termini gnoseologici non possiamo riconoscere delle opere d’arte senza conoscere il concetto di arte.

Per paradosso noi potremmo essere circondati da oggetti artistici senza riconoscerli come forme d’arte, è il caso dell’arte africana, dal punto di vista degli africani, quando fu scoperta dai cubisti.

 

Oggi, per inciso, le cose sono cambiate ed in Africa ci sono molti paesi dove, avendo elaborato un’idea di arte, si producono oggetti d’arte. Peccato che il più delle volte questa idea di arte è sulla falsariga delle poetiche occidentali.

 

C’è un’altra difficoltà. Il concetto di arte è, in qualche modo non formulabile a partire da una qualunque idea di opera d’arte.

 

Per la storia dell’arte si valuta che essa nacque nel paleolitico superiore, alla lettera “l’età della pietra antica”, la stessa stagione in cui si sviluppò il primo embrione di tecnica.

È un periodo lunghissimo che va da due milioni di anni fa a circa ottantacinquemila anni fa.

 

Sul piano antropologico si ritiene che l’arte riguarda il mondo intero, dando per scontato che si possa assimilare il mondo occidentale al pianeta.

 

Sul piano concettuale, resta il fatto che le arti della tradizione classica sono sempre state definite con una classificazione di comodo, semplicistica ed incompleta, nonché arbitraria.

In altre parole, il mondo dell’arte è indefinito e indefinibile.

In ogni modo sarebbe impossibile enunciare delle proposizioni generali su di un genere che si nutre delle sue stesse contraddizioni le quali contribuiscono alla sua ricchezza e soprattutto costituiscono la sua fittizia singolarità.

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Platone aveva definito l’arte come il bello che risplende nel mondo sensibile.

Con questa definizione, per secoli l’Occidente ha cercato di definire l’arte e, di conseguenza, ciò che non è arte.

Così, nei secoli, il bello ha finito per essere per gli artisti quello che la verità è stata per i filosofi.

Il fine ultimo che da un senso alla loro opera.

La circostanza che l’aggettivo estetico, anche nel linguaggio comune, equivalga a bello, è in qualche modo paradossale, perché l’estetica, in sé, dovrebbe essere la teoria dell’arte.

 

Nella Poetica Aristotele introduce nell’arte l’idea di sublimazione. A cosa mirava? A far passare il principio che l’imitazione della natura e la sua sublimazione nell’arte trasforma in piacevoli le cose ripugnanti, come se l’arte fosse un’alchimia che muta in oro il piombo della vita.

L’imitazione oggi non esiste più, è stata sostituita da un potere magico che attribuiamo a certi luoghi. Tutto ciò che compare in essi è portatore di una poetica. Sono i musei e le istituzioni che li gestiscono.

In questo modo, negli anni ’60 del secolo scorso il bolo fecale che un artista, Piero Manzoni , ha sigillato in una scatola, ha acquisito un grande valore e si è mutato in oro.

Di recente anche i rifiuti urbani o industriali sono stati spesso innalzati dalle istituzioni a monumento delle contemporaneità, mostrando come tutto si tiene in fatto di processi di valorizzazione.

Naturalmente questo vale anche per la scrittura o per la musica.

Per esempio i futuristi introdussero delle macchine di produzione dei suoni e dei rumori a imitazione di quelli delle macchine industriali.

Erano un modo per andare oltre la rottura definitiva della scala tonale operata dalla dodecafonia.

In altri termini, le poetiche della modernità, corrotte dai processi di valorizzazione mercantile, tendono a far si che la forma sublimi il contenuto e il segno si muti in icona.

I paradossi sono istruttivi.

Per noi occidentali una crocifissione, a dispetto del soggetto, può essere affascinante. Non lo sarà mai per un buddista.

Il criterio del bello non può essere considerato un elemento che determina un’opera d’arte se non all’interno di una cornice storica e culturale ben definita.

Dentro questa cornice, poi, ci sono in continuazione delle rotture, dei tagli, degli sfaldamenti estetici, come ci sono delle coupure epistemologiche.

Francisco Goya non esitò a sfidare il suo tempo e a dipingere l’orrore. Victor Hugo non si preoccupò di esaltare come eroi dei personaggi mostruosi. Les fleurs du mal (1857) di Charles Baudelaire sono sostanzialmente un ossimoro, essi introducono nella poesia il grottesco, l’estraneo, il terribile.

 

L’Ottocento europeo, nonostante tutte le sue contraddizioni, si può dire che prepari il Novecento alle avanguardie, ad una pittura che sostanzialmente rifiuta la prospettiva e ad una musica che mescola i suoni ai rumori – anche artificiali – senza ricorrere ad una sintassi poetica.

 

Ma che cosa intendiamo per opera?

Non è una cosa, la cosa in genere è immediata e indeterminata. Non è un oggetto. L’oggetto è la cosa formata con un fine. L’opera è l’assunzione nell’oggetto del lavoro di un soggetto, più o meno asservito.

Su un altro versante, poi, l’opera è una rappresentazione.

Per dirlo in modo poetico, un’opera, seppellita nella sabbia, mutilata dal tempo, o offesa dagli elementi atmosferici, resta comunque un’opera.

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Ciò non esclude che la condizione di “oggetto” sia peculiare di alcune forme di opera, in particolare nelle arti plastiche.

Di contro, una poesia, una esecuzione musicale un film non sono degli oggetti.

Oggi, nell’arte si ammettono tutte le forme di rappresentazione per il semplice fatto che il mondo delle opere da tempo ha preso a rivaleggiare con il mondo delle cose e degli esseri.

 

Nella cultura si ritiene che l’opera d’arte classica è, in genere, un oggetto sensibile, e essa si conosce solo con la vista e l’udito.

Il gusto, l’odorato e il tatto, per definizione, tendono a distruggere o a trasformare la sostanza di cui è fatto l’oggetto che definiamo opera d’arte.

Da qualche tempo, però, questi tre sensi compaiono sempre più spesso come elementi poetici del discorso artistico.

 

Questo antico primato sostanziale della vista ha da tempo inscritto una distanza tra l’io e l’opera che l’ha trasformata, da un punto di vista soggettivo, in un’icona che esige rispetto ed ammirazione, che la muta in qualcosa di sacro, dunque, di venerabile ed intoccabile.

 

Che cosa ne discende da tutto questo?

Che il rispetto fino alla venerazione ha finito per essere, nella cultura occidentale, la fonte comune dell’estetica e dell’etica.

Ma come non si dovrebbero trattare gli uomini alla stregua di cose, non si può immaginare di ridurre l’opera a cosa.

Qui va osservato che l’eticità nell’arte occidentale non risiede nel contenuto dell’opera, ma è la conseguenza di un riconoscimento, che qualcosa è un’opera d’arte. Essa, infatti, non è solo percepita come una rappresentazione è anche un’apparizione che sorge dal mondo ed impone, al senso del mondo, la sua presenza più o meno forte.

In modo più poetico Paul Klee sosteneva che l’arte non è solo qualcosa di visibile, ma è ciò che rende visibile.

Di fatto, l’arte, attraverso il potere delle istituzioni, pone l’individuo – creatore o spettatore – in una posizione di confronto con un mondo che non è né quello della filosofia, né quello della tecnica e che non comprende nei suoi processi di valorizzazione.

 

Da qui l’idea salvifica di metamorfosi. L’espressione di metamorfosi è più pertinente di quella di cambiamento perché nella “méta.morphose” compare il termine greco di “morphè” (forma).

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Cambiamo punto di vista.

L’arte, in sé, non può essere considerata una categoria determinata, con la quale si possono catalogare i generi e le opere, è piuttosto, il risultato di una storia complessa dal punto di vista della sua epifania.

C’è anche da considerare che, da un punto di vista antropologico, il concetto di arte nel mondo occidentale è il risultato di una ablazione, vale a dire, di rimozione di qualcosa da un intero.

In pratica, da una totalità sociale (di cui sono una parte integrante) degli oggetti plastici o degli avvenimenti ritmici sono isolati per poter essere definiti come opere d’arte.

In questo modo, inevitabilmente, ciò che costituiva una dimensione della società diventa una sua parte.

Nell’arte antica le opere erano inseparabili dalla loro dimensione magica e religiosa e di riflesso tecnica e estetica, perché erano dei fatti sociali totali.

Oggi la visione puramente estetica della modernità le ha invece ridotti a fatti sociali parziali.

 

Questo ridursi dell’arte a fatti sociali parziali segue le vicende degli uomini. Quando gli uomini importanti muoiono entrano nella storia, quando le statue, che sono state venerate come fatti sociali totali, muoiono, entrano nell’arte.

Va da sé, l’espressione “muoiono” significa che vengono spogliate da tutte le altre dimensioni della mondanità, a cominciare da quella religiosa.

In molte culture africane le maschere devono danzare, altrimenti portano sfortuna.

Nella vetrina di un museo una maschera africana non danza più, è diventata un’opera d’arte.

Questa morte è una sorta di assunzione di ciò che essa rappresenta sotto l’aspetto estetico.

Così, la crosta di sangue secco che spesso le ricopre, agli occhi dei visitatori dei musei si muta in colore, queste maschere smettono di essere dei feticci.

Cosa implica tutto ciò?

Che tutte le forme di rappresentazione appaiono come una ablazione e tra di esse la rappresentazione estetica è, tra queste trame, la più funzionale alla costruzione del simbolico.

In questo modo, nei musei sotto l’azione delle istituzioni gli dei diventano statue, gli already made si valorizzano, perché in questi recinti sacri tutti gli altri sguardi sono esclusi o risultano inconcludenti. Come nella favola, è lo sguardo del visitatore-bambino a riconoscere la nudità della rappresentazione che si è fatta re.

Nei musei, poi, l’opera perde il carattere della totalità e si svapora il suo significato, ma non il suo valore, perché è lontana (ablata) dalle illusioni che l’avevano vista nascere.

 

Un vaso etrusco nel Museo di Tarquinia o un vaso greco agli Uffizi di Firenze non sono dei vasi che valgono di meno perché hanno perso le loro funzione, anzi, valgono di più, perché le figure che li decorano acquistano l’immortalità degli eroi che rappresentano.

Costituiscono, una volta che sono in un museo, delle forme di valore diverso e controllotato.

 

Ci sono poi forme d’arte che hanno strani percorsi.

Prima che l’arte primitiva avesse i suoi musei, figurava nei musei di storia naturale o di etnografia.

Cosa suggerisce questa circostanza? Che la cultura, anche se definita primitiva, era stata da subito riconosciuta, mentre così non lo era per ciò che essa rappresentava nel processo di valorizzazione artistica. L’opera d’arte, a differenza della tecnica, è autoreferenziale, le sue finalità sono contenute in ciò che essa è. Non serve se non ad essere quello a cui è destinata nei processi di domesticazione.

Spesso, infatti, quello che le istituzioni chiamano arte era, in principio o altrove, sottomesso ad un fine diverso. I tori della grotta di Lascaux nella valle del Vézère, in Francia, erano figure magiche.

Le sculture del Partendone ad Atene avevano un significato religioso. Le porcellane cinesi della dinastia Ming costituivano un’espressione della sapienza tecnica dell’Oriente. Le statue di Luigi XIV avevano un significato politico.

La torre Eiffel, invece, ha un significato simbolico, celebra il centenario della rivoluzione francese e lo celebra con un monumento la cui forma fallica ci ricorda che un tempo spettava ad Eros contrapporsi a Thanatos, la morte.

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Per concludere. La gestione della metamorfosi da parte delle istituzioni fa di più che rappresentare l’arte, la istituisce.

 

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