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Pensare oltre l’ostacolo della parola – LA MILITANZA VISIVA

Pensare oltre l’ostacolo della parola.

Museo della Carale.

Ivrea, sabato 26 ottobre 2013.

(Bozza dell’intervento. Non redazionata.)

 

LA MILITANZA VISIVA.

 

Partiamo da un ostacolo psicoanalitico che affiora dal carattere equestre del titolo di questo incontro e che in qualche modo minaccia di disarcionarci.

Quale?

L’evidenza per la quale la parola fa trou (buco). Lo fa nel sistema zimatico che la riduce a nodo gordiano nell’ambito di quel reale indicibile che è la rappresentazione.

 

Nel Tractatus Ludwig Wittgenstein lo aveva già detto. Il linguaggio è una raffigurazione di cose più che una nomenclatura.

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Per intenderci, se nella plasticità del visuale questo ostacolo è il rimosso, il cavallo è la denegazione.

Nel costatare che il rimosso è un ostacolo sottolineiamo che la verità – nelle vesti lacaniane de ça parle – quando un significante prende il posto di un significato è altrove.

 

Oppure, come sostiene Jacques Lacan, disons que l’objet qui ne sera jamais retrouvé, c’est la Chose, per il semplice fatto che sarà sempre rappresentata da un vuoto.

Su questo punto la vulgata psicoanalitica è inequivocabile, le signifiant fait trou.

 

La Chose, nella fattispecie è il nostro convitato di carta, la poesia visiva, cioè l’oggetto piccolo (a), qui inteso come causa del desiderio.

Se ricordo bene la clinica, nella poesia visiva ci sono due oggetti, l’orale e l’anale o, se preferite lo sguardo e la voce.

 

Detto questo, non ci resta che costatare come la parola, così “capitonnata” è, alla lettera, una risignificanza irriducibile alla particolarità della significazione.

Una significazione che si condensa in forma di ombra per meglio nascondere il balenare dell’aspetto che si sottrae al vedere.

Una sorta di Aufhebung, nei miei ricordi scolastici.

 

In particolare, questa parola che fa trou (buco) evidenzia una certa avidità scopica che la fa apparire – nel senso freudiano dell’espressione – come la sostanza della produzione poetica.

 

Baruch Spinoza, che non conosceva il nipotino di Sigmund, aggiungerebbe nella forma di un agire, perché c’è stato un tempo in cui la poeticità agiva per l’essere della lotta, tragica e fatale, senza causa e senza fine, per ritrovarsi nell’estasi che se déplace da ogni forma di religo.

 

Dunque la parola fa trou (buco) perché è sintomo, ma cosa rappresenta il sintomo in questo contesto?

In via provvisoria una formazione di senso che si compromette e precipita sul dettaglio del rimosso come un evento incoativo della jouissance, come un lavoro da tappezzieri alle prese con la tyche che modifica le figure della scrittura.

 

Attraverso il sintomo, come insegnò – sarà giusto un secolo – la “semiotica ristretta”, la parola affiora alla superficie del senso nelle vesti di un enigma del simbolico, dunque come una trappola che delegittima l’evidenza e con essa la superficie tessuta dalla parola.

Lo sanno bene gli analisti, se il sintomo parla lo fa per ingannarci.

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Proviamo a procedere con ordine, vale a dire, proviamo a dirimere per desumere.

 

Nel testo della Théorie de la Religion di George Bataille, stabilito da Thadée Klossowski, figlio di Balthus – una precisazione necessaria perché qui siamo in presenza di un felice caso di una genitura che è anche astrologica, cioè visiva – leggiamo che ogni animale è nel mondo come l’acqua dentro l’acqua.

D’acchito in questa affermazione si avverte un défaut (una mancanza).

Bataille dice mondo invece di natura.

Dice mondo perché mira a qualcosa d’altro che vediamo affiorare se pensiamo a ciò che è installato nel mondo come suo fondamento: il linguaggio.

 

Soffermiamoci a considerare questo punto.

Il linguaggio – dal miracolo di Lascaux in avanti – ci fa soggetti del mondo, ma non ci da la possibilità di vederci in questo modo.

Da qui il lavorio sulla lettera della poesia.

Un lavoro ingrato perché la sua chiaroveggenza vive solo per mezzo di ciò che essa condanna.

Ma perché lavoro?

Perché solo attraverso di esso l’esperienza è umanizzata e l’utilità diviene valore morale, che lo si voglia o no.

 

Se fossimo soggetti nel mondo che ci ri-guarda – usurpando un’espressione di Georges Didi-Huberman – non avremmo bisogno del pathos che ci guida al sintomo, a quel ritorno della verità che abbiamo imparato a patteggiare nell’ordine del simbolico.

 

Un ordine che – per restare nel recinto equestre – fa buco nel sapere delle immagini, perché questo sapere è ovvio, se queste immagini le intendiamo collocate sul nostro cammino come significanti senza significato.

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A questo punto l’economia del testo ci consente una piroletta.

Nella poesia visiva – soprattutto quella che da qualche tempo si confeziona con detriti e dettagli – l’intensità di quella che si definisce la forma poetica si rivela esteticamente come il ritorno del rimosso nella sfera del visuale.

Per maldicenza osserviamo, sarà per questo che Madame Bovary è stata condannata per i bianchi che la sua scrittura suggeriva!

Più seriamente, sono le evidenze dello Zeitgeist che rivelano il rimosso, dalle asce bipenni alle convulsioni verbo visuali dell’amico Sarenco.

In questa poesia visiva, infatti, la parola è quell’impensabile che nella sua vocazione di sintomo attraversa le immagini, bucandole.

In un’altra sede avremmo potuto, su questo punto, compromettere Friedrich Schelling introducendo una lettura propriamente tautegorica della figura in sé in opposizione all’allusione allegorica che invoca la sua intelligibilità come immagine.

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In ogni modo c’è dell’altro.

Il rimosso di cui stiamo parlando, rivelato dallo Zeitgeist, come la magia simpatica di James Frazer, ci consente di rappresentare quello che si desidera vedere e questa figurazione – pensata come un momento sintomale – accentua il fluttuare della rappresentazione rispetto alla cosa (Ding) parlata, esattamente come la lingua con la parole.

Su questo punto Martin Heidegger se la cava con una domanda. Chi traduce la traducibilità delle immagini salvandoci dalla rappresentazione?

Mettiamola così.

La soggettivazione delle immagini spinge a invitarle a parlare, parlando rivelano la loro oscenità, cioè la loro predisposizione all’incoerenza.

 

Resta una suspicione.

Che se le poème est voix – vale a dire un artefatto appartenente all’ordine della voce – c’è uno shifter – nella scivolosa denominazione che di esso ci da Otto Jespersen – che designa l’enunciazione, ma non la significa.

In sostanza appare come una ferita nella zoé – nella vita qua vivimus – operata dal linguaggio e dall’utilizzo del simbolo che il segno rimpiazza sognando di significare.

 

Vuol dire che, anche se ci rifiutiamo di distenderci sul lettino di Little Nemo, dobbiamo arrenderci alle menzogne dell’immaginario o al Nome-del-Padre.

Più drasticamente, alla condizione di soggetti alienati nel linguaggio, come scrive Mikel Dufrenne.

 

Per inciso. Tanto perché il gioco di ruolo richiamato dal fumetto di Winsor McCay produca i suoi effetti il nostro “piccolo nessuno” – grazie a Marcel Duchamp – lo conosciamo come l’Apolinère enameled (smaltato).

 

Che significa allora, se non vogliamo cadere dal lettino, l’affermazione che nella poesia visiva abbiamo due referenti che dovrebbero avvantaggiare contenuto e significato nell’ambito di una cultura del neo-ideogramma – come scrive Lamberto Pignotti?

 

Che dobbiamo cristianamente arrenderci a quelle immagini che fanno appello a un inconscio del visibile nel tentativo di esprimere – lo dico con le parole del lemma “poesia visiva” di Wikipedia – le pratiche di visualizzazione del materiale verbale che si fanno promotrici di un’intensificazione del segno grafico.

 

Anche se è passata tanta acqua sotto il ponte Mirabaud, molti c’hanno provato a partire dal carolingio Rabanus Maurus con il suo Liber de Laudibus Sanctae Crucis.

 

Dico così con invidia, i miei bigliettini di San Valentino non sono mai stati più belli dei suoi poèmes figurés.

Va da sé, sono in mala fede, coltivare l’enigma delle immagini è sempre stato più conveniente se l’obiettivo è cogliere ciò che eccede la semplice cognizione.

 

C’è da costatare, per sgomberare il campo dagli equivoci, che il lirismo visuale, di fatto sconosciuto a suo tempo, come scrive dei suoi calligrammi Guillaume Apollinaire, più che un esempio di poesia visuale sono un naufragio della strofa sul piano di galleggiamento della gutenberghiana riga del compositoio per i caratteri mobili.

Se ciò è corretto a Apollinaire non interessava garantire la connettività poetica tra motivi visivi, temi letterari e concetti.

Pensava al giardinetto sottomarino di Louise de Coligny Chatillon.

 

Questi calligrammi, per quello che voglia dire, nascondono un progetto cubista, perché la figura è già discorso e viceversa in un contesto dominato da una dissonanza tra ciò che nella pagina si apprezza nello spazio e quello che dipende dal tempo di lettura e che non è mai ricomponibile se, continuando a leggere la voce poesia visiva da Wikipedia, questa poesia nasce nel clima delle avanguardie degli anni settanta del ventesimo secolo e si pone come strumento d’analisi, azione e interpretazione della realtà.

 

Quanto a noi insistiamo sulla parola/sintomo perché significa considerarla uno scarto organico, cioè qualcosa che possiede una morphé, come le carte da gioco di Alice in Wonderland.

 

Del resto, sottoporre la parola a un compito che non le è proprio l’appiattisce in una allegoresi che la costringe in un significato ideologizzato e storicizzato da cui sfugge ciò che Bataille definì come il non-detto.

Per esempio, nella strana alleanza della parola con la visione non compare mai l’informe, dunque l’alterità che conduce, per le vie traverse del desiderio, all’euristica della figurabilità.

 

Chi ci ha seguito fino a questo punto è non ignora lo “zurück zu Freud” compiuto della psicoanalisi nella seconda parte del Novecento, può apprezzare l’equivalenza (come parità di valore) della poesia visuale con il babyish lacaniano, dal punto di vista di quei trébuchements si légiers che in questo parlare possiede la natura del visuale che si rivela sintomatico.

Altrimenti fa la fine del gracchio nella favola di Fedro, indossa le piume del contenuto ed è impallinato dalla forma.

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Per concludere riposizioniamo il punto da cui siamo partiti.

L’idea che una qualunque saldatura tra la parola e l’immagine corrisponde all’incontro che il soggetto fa con il trou (il buco) della rappresentazione, vale a dire con il trauma del fuori senso.

Da qui quello che Lacan ha definito un troumatisme, tanto per semplificare, l’impossibilità di una significazione.

Il significante, infatti, resta incomprensibile al soggetto, facendo stazionare il senso in attesa di un sapere che non arriverà mai, come la saggezza.

 

Se le dimensioni del simbolico – l’ordine del significante – dell’immaginario – in cui si installa il senso – e del reale sono distinte e indipendenti ( a due a due) la nominazione ci dimostra che esse tengono come insieme, ma ci sfugge il legame.

 

Nella metafora del nodo borromeo a tre anelli – che qui assumiamo come una figura princeps della poesia visiva – è impossibile dire quale sia il reale, quale il simbolico o l’immaginario.

Occorrono tre anelli per fare il nodo, ma è impossibile nominare quello che lo fa – il reale.

 

Per pensare oltre l’ostacolo della parola – comprendere ciò che fa nodo – la poesia visiva dovrebbe necessariamente affidarsi all’istituzione, cioè al Nome-del-Padre, ma questo equivarrebbe a tradirsi.

 

L’alternativa è restare nel limbo della militanza visiva, come degl’angeli immaginari, o precipitare sul significante che fait trou.

 

 

Ottobre 2013.