Politecnico di Milano, Anno Accademico 2011-2012.
Cattedra di FOOD-DESIGN.
Esercitazione numero undici.
Mercoledì 6 giugno 2012.
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Una torta di mele sulla sessantasei.
(An apple pie on the Route Sixtisix)
“Presi torta di mele e gelato: diventavano sempre meglio man mano che m’inoltravo nello Iowa, la torta più grossa, il gelato più sostanzioso”. Lo scrive Sal ( Salvatore Paradise, l’io narrante di Sulla strada di Jack Kerouac). Camion, autobus, chioschi, distributori di benzina, vecchi alberghi, c’è di tutto sul lungo “fiume” della Route 66 che attraversa l’America, questo grande paese che si specchia nelle torte di mele come gli abitanti di Combray nella madeleine di Marcel Proust.
Torte di mele che riflettono la sua identità segreta, as american as apple pie, dice il detto.
È l’unica cosa che Sal mangia per tutta la strada che lo porta verso Ovest. Una torta “nutriente e naturalmente squisita”. Una torta à la mode, come recitano i menu dei ristorantini francesi della provincia americana che reputano assoluta la combinazione tra l’asprigno della mele e il dolce del gelato. Un mito questo dei pomi che viene da lontano e che nasce nel Massachusetts, con Giovannino Semedimela (Johnny Appleseed). Di costui si racconta che girasse con le tasche piene di semi di questo frutto e li piantasse ovunque.
Una fetta di torta, dunque, e la vita che scorre on the road, tra malessere, rivolta, alcol e sogni. Sulla vita nel frattempo “la pioggia cadeva sferzante… la strada principale piena di fango…”, intanto, “le grandi pianure di artemisia scorrevano via veloci… orizzonti azzurri si aprivano nel cielo” gli occhi attratti da una “grande insegna al neon che mandava bagliori rossi”, oltre “il muro di nebbia”… “immersi in un sogno a fare i conti nel cuore della notte, a bordo di un’auto” mentre “una bellezza bionda seduta tra due uomini senza uno straccio addosso” faceva sbandare i camionisti.
Una vita vissuta tra bar, bordelli e locali jazz, ascoltando Benny Goodman e il grande Charlie Parker. È Kerouac, è il ritratto di un poeta che ha inventato la poesia americana moderna, di un uomo che ha raccontato solo cose vere, sul fondale il fragore dell’oceano, l’ultimo maledetto hotel, l’ennesima avventura raccontata di un angelo desolato, da un vagabondo di una stagione culturale che ancora porta le tracce del suo passaggio e di ciò che non sarà più la gioventù americana. Una gioventù che era nata sulle pagine del figlio illegittimo di un astrologo ambulante, Jack London, amico di ladri e contrabbandieri, pescatore di ostriche, cacciatore di foche, corrispondente di guerra, cercatore d’oro, scrittore di successo, socialista e cronista della rivoluzione messicana, ambientalista, puttaniere e padre della beat generation.
Nella cucina di lingua inglese le prime Tartys in Applis risalgono al tempo di Geoffrey Chancer (1343-1400), erano confezionate con mele, fichi, uva passa, un involucro di pasta frolla allo zafferano, niente zucchero e miele. Con la rivoluzione contro la corona inglese queste Tartys diventano americane e riflettono il melting pot di cui sono un’espressione. Ci sono le apple pie con la ricetta olandese che si mangiano con la panna montata, quelle svedesi che sono una variante antica della francese Tatin, la versione degli Amish, con cannella, burro, crema di latte. C’è la apple pie a doppio fodero, quella con la parte superiore a gratella, in pasta brisée, con la frolla alla margarina, con farine prive di glutine, quella con il liquore, le varianti con i diversi tipi di mela, dalla renetta alla Elstar, alle mele secche o sciroppate, con o senza le uova, con l’aggiunta di succo di limone o di anice, di pinoli o di mandorle. Come dice la tradizione ogni famiglia della provincia americana ha la sua ricetta segreta per questa torta da credenza nonostante gli ingredienti siano sempre pressappoco gli stessi, cambiano l’amore con il quale s’impasta la farina con il burro, i ricordi, i segreti, i sogni, la qualità delle lacrime che la bagnano, di gioia o di nostalgia.
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Scopo dell’esercitazione è di realizzare una delle tante “apple pie” mangiate da Sal nel suo viaggio attraverso gli States tenendo conto dell’affermazione di Claude Lévi-Strauss che il buono da mangiare, deve essere anche buono da pensare e buono da immaginare.
Non diamo una ricetta base perché ci sono molti siti americani dedicati a questo dolce e alle annuali gare per stabilire il migliore tra di essi.
(Per meglio giudicare la ricetta non occorre completare la pie con gelato, panna o altro.)
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