(E’ possibile scaricare il testo integrale in formato PDF da questo link: Corso Food-Design a.a. 2011-12)
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Vediamo in una prospettiva più antropologica, che cosa sono gli atti alimentari.
Questi atti costituiscono, da tempo, un complesso problema di antropologia culturale ed uno dei temi più controversi della cultura materiale e della storia sociale, non solo perché il soggetto di questi atti è l’uomo, ma anche perché, attraverso di essi, si possono delineare i cambiamenti e l’evoluzione degli stili di vita, così come i problemi dell’adattazione – intesa come la propensione all’adattamento verso certi caratteri di una cultura.
Attraverso l’analisi degli atti alimentari l’antropologia ha da tempo evidenziato alcuni aspetti funzionali del comportamento dell’individuo nei confronti del cibo che, in qualche modo, ne disegnano la personalità o il profilo di consumatore.
Il primo aspetto è costituito dalla pulsione classificatoria, l’individuo esplora il mondo alimentare e costruisce le sue rappresentazioni procedendo a riconoscere, nominare, ordinare, classificare e costruire categorie e regole. In genere, tutto ciò che non si adegua a questa pulsione è rigettato ai margini del sistema alimentare, dove regna il confuso. L’inclassificabile.
Il secondo aspetto è connesso al principio dell’incorporazione, deriva da alcune osservazioni di antropologia, soprattutto anglosassone, a partire dalla fine dell’Ottocento sulla così detta magia contagiosa dei primitivi. È una credenza che si può riassumere nella formula: uno è ciò che mangia. Questa formula nasce dalla convinzione che, il chi mangia assorbe per analogia i caratteri del mangiato assorbendone la sostanza. Caratteri che possono essere, indifferentemente, fisici, morali o simbolici.
Come ha illustrato Gilbert Durand, il fondatore, con Gaston Bachelard, dell’antropologia dell’immaginario, questo processo d’incorporazione può anche essere di natura simbolica, il succo, il sale, la fioritura dei lieviti sono, in molte culture, delle tappe del processo assiologico della coscienza di sé.
Ludwig Feuerbach (1804-1872) un grande protagonista della sinistra hegeliana, nel 1850 recensì uno scritto di Jakob Moleschott sull’alimentazione arrivando ad una sorprendente considerazione, dal punto di vista filosofico dell’epoca, che le condizioni di vita di un popolo possono migliorare se migliora l’alimentazione. Lo scritto di Jakob Moleschott, medico e olandese di nascita, protagonista di quella corrente di pensiero che si chiamava materialismo scientifico, s’intitolava Dottrina dell’alimentazione per il popolo – una curiosità, discriminato in Germania per le sue idee politiche, fu chiamato ad insegnare fisiologia sperimentale dall’università di Torino e, divenuto italiano, fu anche eletto senatore.
Feurbach, poi, nel 1862, ritornerà su questo tema dell’alimentazione con uno scritto intitolato, Il mistero del sacrificio o, l’uomo è ciò che mangia. La sua tesi possiamo riassumerla così.
Esiste un’unità imprescindibile tra psiche e corpo tale per cui il pensiero dell’uomo migliorerà quando sarà riuscito a migliorare la sua alimentazione.
Ma veniamo a qualcosa di più epigrammatico. Recita un antico proverbio contadino tedesco:
Man ist was Mann isst. Si è ciò che si mangia.
Il gioco di parole che si nasconde dietro questo proverbio ne cucina il senso, perché ist (è) si pronuncia come isst (mangia) e Mann (l’uomo) si pronuncia come man (si), in questo modo:
L’uomo è ciò che (l’uomo) mangia. Fino a che punto? Qui, rientra in gioco l’identità soggettiva, cioè, il self. In Nuova Guinea il bolo fecale, l’urina, il vomito e lo sputo sono parti del corpo, bisogna evitare che i nostri nemici se ne impossessino.
Nella psico-analisi freudiana la fase anale di sviluppo della libido ha una struttura analoga.
Il bambino acquista la coscienza di sé confrontandosi con il mondo a cui è restio a cedere il suo bolo fecale. La persistenza di questa fase nell’età adulta sviluppa, a grandi linee, una personalità ossessiva compulsiva.
Nel rito cristiano della comunione il senso di questo proverbio diventa apicale, il principio d’identità è preso alla lettera ed è espresso dal dogma della transustanziazione.
La conoscenza non è solo un processo della ragione, è anche stupore, scoperta benefica dell’immenso nel piccolo, della specie nel “es”. Noi esistiamo, in principio, nella forma di qualche aminoacido manipolato, tutto il resto è una conquista della capacità endogena del pensiero, della memoria, della conoscenza.
Torniamo ancora al proverbio “l’uomo è ciò che (l’uomo) mangia” e vediamone una variante interessante nell’ambito della cultura indiana.
Nella comunità di Bhubaneswar, la capitale dell’Orissa, una regione che si affaccia sul golfo del Bengala, ancora oggi sono molto forti i cerimoniali legati alle tradizioni alimentari, soprattutto per quanto riguarda i due temi classici dell’infezione e della santità. Cioè, in questa comunità ci si preoccupa di ciò che si mangia, di come lo si cucina e di chi lo cucina. Marito e moglie, per esempio, non mangiano mai insieme, soprattutto quando la donna ha le mestruazioni. Molti uomini adulti arrivano a prepararsi da soli il cibo ed è sconsigliato quello che noi chiamiamo il “pasto in famiglia”. In questa comunità non solo “voi siete quello che mangiate”, ma voi avete l’obbligo morale di “mangiare quello che siete” e, in un certo senso, le persone con le quali mangiate sono determinanti per la vostra identità morale e sociale, di conseguenza, le mancanze morali più gravi sono quelle legate agli interdetti alimentari e ai tabù che riguardano il cibo.
Torniamo alla cultura occidentale. Nelle fiction i romanzieri e i registi spesso disegnano i personaggi mediante la rappresentazione delle loro abitudini alimentari. James Bond è un buongustaio che ordina “martini” mescolati, non shakerati. L’ispettore Callaghan pranza sempre con hot dog. I due protagonisti del film Pulp Fiction, che sono sicari, vengono umanizzati per motivi di cassetta mostrandoli mentre discutono sugli hamburger del Mc Donald’s di Amsterdam.
Quanto ai personaggi femminili le “brave ragazze” cucinano con amore e non mangiano, come in Il pranzo di Babette o Come l’acqua per il cioccolato. Le “ragazze cattive”, invece, devono essere raffigurate come ingorde.
Ha un senso questo ? Alcune ricerche di mercato hanno dimostrato che le abitudini alimentari sono uno dei modi più comuni, anche se non ammessi, di conoscere gli altri. In breve, il giudizio espresso su una famiglia conoscendo la sua lista della spesa è sempre sostanzialmente corretto.
Lo stesso si può fare a partire dai loro rifiuti.
Analisi di mercato comparate negli Stati Uniti hanno dimostrato che le persone con una scolarità elementare e un basso reddito prediligono cibi e bevande dolci. Mentre le bevande della classe alta sono vino bianco, wodka e bloody mary come aperitivo. In termini psico-analitici si potrebbe osservare che chi fa lavori umili e guadagna poco ama i dolci perché sono compensatori e consolano. Ancora, negli Stati Uniti, carne, patate e caffè sono considerati cibi maschili. Riso, crostate e tè cibi femminili. In genere sono considerati femminili i cibi definiti leggeri.
Sempre negli Stati Uniti, pollo e arance sono valutati cibi neutri. Qual è il vero obiettivo di tali indagini? Se esiste una relazione tra cibo e classe sociale allora si può studiare il comportamento di quelle persone che vogliono cambiare la loro classe sociale modificando la loro alimentazione. Come dicono i pubblicitari sono quelli che abbandonano i tavoli di Pizza Hut per i ristorantini francesi!
Ci sono poi i cibi che rincuorano, sono quelli ricchi di amidi e non quelli dolci, come può sembrare.
Qui agiscono, però, altri fattori. I carboidrati amilacei come le patate i maccheroni e il riso sono metabolizzati molto più lentamente degli zuccheri ed hanno un effetto calmante sulle emozioni. I dolci sono assimilati più rapidamente ed accentuano lo stato d’animo.
Una nota di colore, sempre americana. Il novanta per cento delle ragazze al loro primo appuntamento non ordinano mai gli spaghetti perché ritengono che mangiare gli spaghetti non sia seducente.
Vediamo, adesso, l’assorbimento dei caratteri del mangiato passando per la definizione di magia.
Cominciamo con il definirla: La magia è l’insieme dei mezzi simbolici grazie ai quali l’uomo, in assenza di tecniche materiali dirette, ed indipendentemente dai meccanismi della causalità naturale, si sforza di agire sul reale per ottenere un vantaggio o respingere un pericolo.
James George Frazer (1854-1941), un importante antropologo scozzese, studioso delle forme di cultura e delle religioni, conosciuto soprattutto per il suo monumentale saggio Il ramo d’oro, la prima edizione è del 1890, è il primo studioso ad aver esplorato a livello mondiale i riti, i miti e i tabù. Nei paesi di lingua inglese Frazer è considerato l’autore che al pari di Karl Marx e Sigmund Freud ha contribuito a formare il pensiero del Novecento.
Frazer nelle sue ricerche distingue la magia imitativa o omeopatica, che procede per metafore. Ricordiamo che la metafora è una figura retorica che implica il trasferimento di un significato da un termine proprio ad un altro ad esso legato da un rapporto di somiglianza. E, la magia contagiosa che procede per metonimia,
La metonimia è una figura retorica più complessa della metafora, caratterizzata dalla sostituzione di un termine con un altro che abbia col primo un rapporto di contiguità. Nel linguaggio comune è una sorta di traslato, in termini più specialistici la metonimia fa si che si scambi: la causa per l’effetto. Ll’effetto per la causa. La materia con il soggetto. Il contenente con il contenuto. L’astratto con il concreto. Il concreto con l’astratto.
Scrive lo stesso Frazer: “Tutti e due i rami della magia, l’omeopatica e la contagiosa, si possono giustamente comprendere sotto il nome generale di magia simpatica, poiché ambedue affermano che le cose agiscano l’una sull’altra a distanza, per mezzo d’una segreta simpatia, mentre l’impulso trasmesso dall’una all’altra per mezzo di quello che possiamo concepire come una specie di etere invisibile (cioè, di un mezzo imponderabile ed invisibile), non troppo diverso da quello che è postulato dalla scienza moderna per spiegare come mai le cose possano influenzarsi fisicamente attraverso uno spazio che appare vuoto”.
Più in generale sul pensiero magico va osservato che esso costituisce un processo psicologico fondamentale che ha una grande influenza sulla formazione dei giudizi in materia di alimentazione.
Vediamo, allora di definirlo da un punto di vista fenomenologico. Nella sostanza è un processo psicologico che produce nel pensatore una coscienza ipertrofica della potenza e della oggettività degli stati soggettivi. È pertanto un processo che induce il pensatore magico ad una confusione tra la coscienza (che rappresenta il mondo interiore, l’interno) e la realtà (il mondo esteriore,l’esterno) così da proiettare lo spirito nella materia. Da qui la confusione dei simboli con le cose e la tendenza a fare del discorso figurativo una verità letterale (alla lettera), ad attribuire alle associazioni mentali il potere di causare degli effetti materiali.
Il pensatore magico attribuisce alle sensazioni e alle esperienze personali, in modo particolare alle emozioni (come sono il piacere o il disgusto), ai desideri (come l’invidia o le intenzioni ostili), o ai giudizi morali (come la colpa o la vergogna) il potere di scatenare delle conseguenze naturali di carattere fisico o biologico.
Tuttavia le costruzioni formali e i modelli che il potere magico consente agli antropologi di delineare vanno considerati anche nell’ottica di questa circostanza, che se definiamo il pensiero magico come una confusione tra il soggettivo e l’oggettivo, allora si può affermare che noi siamo davanti ad un pensiero magico tutte le volte che l’osservatore ha una concezione dei modi di funzionamento del reale più stretti di quelli dell’osservato.
In questo modo, il pensiero scientifico tende a considerare il pensiero religioso come magico e, passando alle credenze religiose, quelle più razionali tendono a considerare primitive quelle dove è più compromesso il concetto di reale. Questo significa anche che poiché non siamo non siamo sempre in grado di pensare il “realmente reale”, quando non possiamo farne a meno ricorriamo al “buon senso” che, paradossalmente è una forma subdola di pensiero magico.
Abbiamo visto la pulsione classificatoria e il principio dell’incorporazione, il terzo aspetto deriva dalla condizione dell’onnivoro. Questa condizione è in qualche modo una caratteristica acquisita della specie umana che, attraverso di essa, ha elaborato la natura complessa, biologica e culturale, degli atti alimentari. Da questa condizione deriva un fenomeno di difficile definizione e, al tempo stesso, suggestivo, il moralismo alimentare, vale a dire l’irruzione dei precetti morali nelle pratiche alimentari. Un fatto che va considerato come una pulsione esclusivamente umana. Con esso si tende in qualche modo a moralizzare il rapporto con il cibo formulando intorno ad esso dei giudizi.
Giudizi che spesso si trasformano in pretesti normativi, in regole di esclusione o d’inclusione, da cui derivano, per conseguenza, i sensi di colpa e la loro traduzione moderna nella forma di diete o di regimi.
Qualcosa di analogo è avvenuto per la sessualità da sempre sottoposta ai diktat della tradizione religiosa, ai precetti della morale, agli imperativi della legge, in una, a collassate spesso nell’angoscia. Il perché l’ha spiegato Freud. Dipende dal fatto che l’uomo l’ha intrecciata, inventando il tempo e dunque la coscienza della morte, a questa pulsione, come appare anche nella mitologia greca: Eros e Thanatos sono le due facce della stessa medaglia. Si confronti su questa argomento il saggio di George Bataille, Le lacrime di Eros.
A questo proposito può apparire molto curioso il fatto che, nella seconda parte del ventesimo secolo abbiamo avuto una liberazione sessuale, ma non una liberazione alimentare! Una spiegazione sta nella complessità dei due linguaggi, quello sessuale è di gran lunga più rozzo di quello degli atti alimentari e dunque più facile da ripensare.
Su questo tema va anche ricordato che anarchici e libertini – tra i quali spicca Giacomo Casanova (1725-1798) con le sue memorie raccolte nel libro, Storia della mia vita – hanno sempre considerano ridicolo il peccato di gola, un peccato che la chiesa cattolica ha inserito tra quelli capitali e con qualche ragione se consideriamo lo stretto legame di questa con la lussuria.
In questo senso, tardivo ed inascoltato è rimasto un documento, di qualche tempo fa, sottoscritto da un folto gruppo d’intellettuali francesi contenente un appello al Vaticano perché procedesse a “depenalizzare”, diciamo così, la gola e l’ingordigia…o, perlomeno, a ridurle a peccato veniale!
Proviamo ad approfondire meglio questi punti.
Come abbiamo visto, le ideologie alimentari, nel contesto degli atti alimentari, guarniscono il mangiato di miti, metafore e supposizioni che rendono difficili le esperienze meramente fisiologiche. Le analisi sul campo mostrano che colui che mangia si muove su tre direttrici.
Quella edonica o del piacere. Quella nutrizionale. Quella ispirata dalla spiritualità o, più precisamente, dalle istanze culturali intese come un’espressione degli stili di vita.
In questo modo, colui che mangia finisce per attribuire al mangiato il risultato dell’incontro di queste direttrici.
Per semplificare il paradigma freudiano è come dire che il piacere dei sensi è determinato dall’Es, le preoccupazioni per la salute e la qualità nutrizionale degli alimenti sono determinate dall’Ego, mentre i significati spirituali ed etici risiedono nel Super-Io. A seconda delle circostanze ciascuno di questi tre momenti può condizionare gli altri due e viceversa.
Nella modernità nella direttrice edonica va anche inclusa una componente estetica così rilevante che molte preparazioni alimentari vengono considerate delle vere e proprie opere d’arte. Vedremo meglio in seguito questo punto perché oggi esso si appalesa anche attraverso forme narrative che coinvolgono la semiologia e la letteratura oltre, ben inteso, l’arte visiva.
Questa componente edonica, poi, a partire dalla fine dell’Ottocento è anche divenuta un criterio di distinzione sociale. Una distinzione che non solo si distingue per il reddito di colui che mangia, ma che richiede notevoli competenze specializzate che richiedono una cultura di base, tempo, letture ed esperienza pratica.
Il problema della distinzione sociale si porta apprezzo anche molti temi legati alla direttrice nutrizionale e alle sue strategie. Un esempio: la continua ricerca dei dietologi di preparazioni alimentari che concilino il piacere alla salute o che aiutino a camuffare l’utile con il piacevole.
Il tema nutrizionale, poi, fa anche da ponte ai modelli spirituali con i quali si affronta il mangiato.
Come osserva l’antropologia molte di queste pratiche dietetiche possono essersi affermate in origine come misure sanitarie intuitive o pratiche profilattiche legate alla trasmissione di patologie infettive, come la relazione che lega i suini alla trichinosi. La trichina è un verme parassita degli uomini, le uova vivono nell’intestino e attraverso le sue larve infetta il sangue.
Ma c’è anche una spiegazione psicologica, perlomeno per spiegare la persistenza di queste pratiche.
Il desiderio dell’uomo di essere diverso dagli animali. Il desiderio di non dover ammettere di essere preda delle pulsioni. Così, prima d’ingerire un cibo lo puliamo, lo cuciniamo, lo prepariamo, interveniamo sulla sua messa in scena, sulla sua rappresentazione. Poi, sempre per elevarci al di sopra degli animali ci chiudiamo nei nostri tabù. Evitiamo di nutrirci di certe sostanze potenzialmente commestibili come la carne umana o quella di certi animali. Seguiamo procedimenti ritualizzati, un tempo addirittura offrendo sacrifici. Impieghiamo certi metodi di cottura. Attribuiamo un significato simbolico, metafisico o morale ai cibi approvati.
Le conseguenze di tutto ciò sono le più diverse, ricordiamo solo che le diete spartane o ascetiche sono finite per essere associate alla cultura e alla sapienza spirituale e morale.
Di contro, secondo il concetto moralistico della giustizia immanente – per cui chi pecca è punito – la disponibilità di cibo nelle culture contadine e primitive è considerato un segno inequivocabile della condizione spirituale. Se il cibo è abbondante gli dei sono con noi. Se il cibo scarseggia gli dei sono adirati e occorre rabbonirli con offerte.
Al riguardo l’antropologia ha osservato che pressoché tutte le funzioni fisiche rilevanti possono fungere da sacramento. In quest’ottica i cibi sono sempre stati percepiti come doni degli dei e quando, dopo l’offerta, erano mangiati, venivano vissuti come oblazioni.
Questo principio ci riconduce alla direttrice nutrizionale e ad una sua degenerazione moderna, il nutrizionismo. La scienza della nutrizione, in sostanza, tende da tempo a diventare un’ideologia.
Noi sappiamo che le proprietà biochimiche degli alimenti influenzano la salute. Il nutrizionismo è la convinzione che si possono fissare dei metodi – le diete – con i quali tradurre in pratica i vantaggi degli alimenti. Queste diete, soprattutto quelle pubblicizzate dai mass-media, si fondano su delle astrazioni, vale a dire concepiscono i cibi come entità formate da un certo numero di composti biochimici definiti sostanze nutritive. Composti che possono essere padroneggiati dissociandoli secondo l’antico principio politico del divide et impera.
Tutto ciò è irrazionale, perché parte dal principio che l’intero – non importa se è un piatto di lasagna o un’aragosta – diviene per miracolo la semplice sommatoria delle sue parti. È un’operazione, in sostanza, di tipo quantitativo, conforta con le sue tabelle e i suoi calcoli, ma serve a poco. Le differenze tra gli individui – statura, peso, metabolismo, età, condizioni di salute, processi corporali – sono spesso ignorate e possono diventare pericolose. La più semplice unità di misura nella scienza della nutrizione è la caloria, una misura dell’energia termica. Paradossalmente si può dire che il nutrizionismo concepisce gli alimenti come i capitalisti dell’Ottocento concepivano gli operai, entità che andavano valutate in base all’energia che se ne poteva estrarre.
Alla fine, come l’edonismo promette il godimento, lo spiritualismo assicura uno stato di grazia morale e metafisico, il nutrizionismo “garantisce” la salute e spesso di allungare la vita.
La forma di alimento e il mangiato.
Da tempo, nell’agro-alimentare, ma non solo, il problema non è più quello di offrire prodotti, ma di creare attraverso di essi del “senso”, o meglio, una “significazione” che consenta a chi mangia di sperimentare qualcosa di unico o, almeno, d’illudersi di farlo, esattamente come i grandi chef non vendono più solo pasti, ma opere d’arte che coinvolgono tutti i sensi del commensale e spesso la loro sensibilità estetica. In pratica attraverso il cibo nel mondo occidentale si è accentuata, a partire soprattutto dall’ultima decade del Novecento, una tendenza ad evocare emozioni, a stimolare l’immaginazione, a suscitare ricordi.
Oggi, chi si occupa di food-design è di fatto un creativo dell’immaginario alimentare.
Di questo processo progettuale molto si gioca sul piano dei segni immateriali e sul modo in essi si relazionano al mondo reale, in pratica sulle strategie di quello che è definito come concept foods.
In altri termini, da come si seleziona il nome di un prodotto, la storia che lo racconta, gli aspetti visivi, i sapori che evoca, le textures che lo strutturano, la sonorità che possiede, tutto tende ad un solo obiettivo, sedurre il consumatore sul prodotto che cambia perché il cambiamento fa parte delle moderne strategie alimentari di massa legate ai consumi, anche se questo cambiamento, a volte, può avere dei risvolti negativi sul processo delle intenzioni che guidano all’acquisto.
Qual è, allora, il problema chiave del food design o, meglio, quali sono i suoi limiti progettuali?
Tutto si concentra nella gestione dell’eventuale dissonanza tra la forma progettata e le reazioni cognitive ed emozionali dell’individuo. In questo senso, nel food design si deve tendere ad analizzare con la massima attenzione sia le risposte edononiche del soggetto-consumatore che gli esiti delle rappresentazioni mentali suscitati dal prodotto progettato. queste rappresentazioni, in genere, si producono nel momento in cui il soggetto-consumatore confronta ciò che vede con ciò che ha memorizzato o che gli suggerisce l’esperienza.
In questo modo, il food-design o, più in generale, il design nell’agro-alimentare finisce per articolarsi su quattro step: il prodotto di per sé, la grafica di presentazione, il packaging, il progetto di prodotto e l’eventuale progetto ambientativo nel quale viene inserito.
Qui il design è un congegno di gestione che agisce a livello delle strategie d’innovazione, di comunicazione e d’immagine della marca.
Di fronte alla standardizzazione dei prodotti dell’agro-alimentare, in parte imposta dalla globalizzazione, le marche ricorrono con sempre maggior frequenza a quelli che sono chiamati gli “assi di differenziazione” che sono certamente più simbolici ed affettivi.
Così, nell’ambito del nostro paradigma, costituito dal food–design, si definisce concept design tutto ciò che consente al produttore di creare senso e nuove significazioni che hanno il potere di trasformare il prodotto in un concept food.
Da quando la fame per molti paesi a capitalismo avanzato è un ricordo, la “risposta estetica” è la prima reazione di giudizio sul prodotto. Essa concorre a formare la predisposizione ad un piacere associato alla forma disegnata del questo prodotto, alle formazioni immaginarie che lo circondano e agli stati emozionali che si provano.
Nel complesso il concept design può anche indurre a nuove a nuove opinioni, a nuove credenze, a nuove rappresentazioni e influenzare le preferenze. Nella pratica gli stimoli estetici hanno l’obiettivo di favorire la formazione di una fantasia mentale che la psicologia definisce una rappresentazione. Dentro questa rappresentazione il food design agisce come un aggregato di unità significanti al quale i consumatori associano dei significati e delle interpretazioni. In genere, i prodotti alimentari sono percepiti dal consumatore secondo le quattro categorie chiave di buono, cattivo, industriale, naturale. In questo modo, per forzare i termini di un’espressione, si “confeziona” la memoria e le si consente di effettuare delle deduzioni e di prendere delle decisioni.
Il food–design – dal prodotto in sé allo scenario che lo contiene – consente dunque di estendere la percezione della rappresentazione del prodotto verso altre classificazioni che, in prima istanza, sono meno evidenti: il confort, la freschezza, la qualità.
In questo contesto, in cui il ruolo della percezione è primario, occorre ricordare che la vista è il senso più importante e, in particolare, il colore è una delle prime modalità ad essere elaborate dal cervello. La vista, tra l’altro, favorisce i processi di simbolizzazione e, per conseguenza, di estrapolazione di certe proprietà e sensibilità. Per esempio, l’intensità dell’aroma di limone tende ad aumentare quando aumenta la concentrazione del colore giallo.
Sempre in questo contesto, come è stato provato, anche il contenente – dal punto di vista della forma, del colore e della texture – gioca un ruolo formativo nella percezione del gusto.
Il test tipo, a questo proposito, è quello detto della zuppa. La stessa zuppa, servita in una tazza di terraglia o di terracotta, in una ciotola di porcellana, in una fondina, in un recipiente di vetro verde, cambia totalmente la percezione del suo gusto nei soggetti sottoposti al test, perché la dimensione visiva in chi l’assaggia si rivela un elemento determinante nella valutazione delle qualità gustative.
Ma perché i prodotti alimentari sono così suscettibili di agire sulle rappresentazioni mentali?
Tutto deriva dal fatto che i prodotti alimentari sono incorporati. Insieme alle medicine sono i soli beni di consumo che entrano nel corpo umano e i loro effetti sono praticamente irreversibili.
Gli individui sanno che la loro vita dipende da questi beni, così, finiscono per focalizzare su di essi gli eventuali tratti negativi della loro consumazione, adattando per reazione dei comportamenti irrazionali che possono essere in parte compresi “decifrando” quello che questi prodotti appaiono dal punto di vista della rappresentazione. Gli esperti rintracciano le motivazioni di questi comportamenti in quello che gli antropologi chiamano pensiero magico. Una forma di pensiero presente in tutte le culture basata sul meccanismo della rappresentazione e sul principio dell’incorporazione secondo il quale il passaggio di un alimento in un corpo implica un inevitabile transfert di proprietà fisiche, comportamentali, morali e simboliche. A questo proposito, alcuni test hanno dimostrato che un piatto preparato da una persona che, chi deve consumarlo ritiene ostile, può risultare disgustoso e perfino indigesto.
Due leggi sono sottese a tutto questo. La legge del contagio per la quale avvenuta la contaminazione questa rimane in ogni caso. La legge della similitudine secondo la quale per un riflesso di sopravvivenza il cervello interpreta gli oggetti per quello che sembrano.
In uno studio condotto su un gruppo di studenti universitari americani la maggior parte di essi ha dichiarato che gli appariva ripugnante mangiare del cioccolato che avesse la forma di un escremento di cane.
In materia di food-design esistono anche delle preferenze che sono innate. Per esempio, la legge della proporzione e dell’unità, elaborata al principio del Novecento dalla teoria della Gestalt, induce a preferire le forme che appaiono più simmetriche ed armoniose di altre. Non solo, troppa uniformità nella forma di un oggetto o di un prodotto genera noia. Un disordine che sia appena accennato stimola l’interesse. Una certa incongruità rispetto a ciò che già conosciamo attira l’attenzione.
In altri termini, anche per quanto riguarda il cibo, gli onnivori, prima di scegliere la soluzione che preferiscono o che li tranquillizza, sono attirati da ciò che appare loro curioso. Questo atteggiamento ha dato vita al paradosso dell’onnivoro, per il quale da una parte c’è un atteggiamento neofilo, che spinge a variare gli alimenti che si consumano o a desiderare di sperimentarne di nuovi, dall’altra, c’è un atteggiamento neofobico, rappresentato da una certa resistenza culturale a non poter mangiare che alimenti conosciuti, identificati, condivisi e valorizzati. In termini di design questo paradosso da vita ad una dissonanza cognitiva più o meno accettata, che richiama una teoria molto nota nel marketing, del bisogno di stimolo. Una teoria per la quale ogni individuo ricerca costantemente un livello ottimale di eccitazione nel quale si sforza di situarsi. Nella pratica, il confronto con un prodotto che non ci è familiare aumenta la volontà di provarlo, ma se l’eccitazione supera il livello ottimale della stimolazione scatta il meccanismo contrario, si diffiderà di esso. Il design del food deve dunque costantemente bilanciare con molta cura forma, colori e textures, anche perché, paradossalmente, una reazione di affettività può anche essere generata da un elemento dissonante.
In sostanza, da una parte il design tende a produrre un arricchimento del potenziale di stimolazione del prodotto alimentare, anche in termini di confronto con altri prodotti uguali, dall’altra, se gli attributi del prodotto non sono in grado di stimolare il ricordo, perché irriconoscibili o troppo innovativi, può prodursi una dissonanza cognitiva. Nel caso del cibo, se questa dissonanza è eccessiva, l’istinto di sopravvivenza spinge inevitabilmente l’individuo a sottolineare di esso soprattutto le conseguenze negative dell’incorporazione, fissandole sugli aspetti organolettici, igienici e nutrizionali. Alla fine, la percezione del rischio può indurre a pensare che questo cibo faccia del male, che abbia un gusto pessimo, che metta a disagio, che il suo consumo susciti riprovazione sociale, che non valga quello che costa.
Alla luce di queste considerazioni, si parla di design strategico quando esso favorisce la congruità tra la rappresentazione del prodotto che abbiamo davanti e ciò che questo prodotto rappresenta per la nostra memoria e le nostre emozioni. Siccome però l’innovazione è sempre portatrice di una certa incongruenza, questo design non deve farla apparire né troppo forte e né troppo debole.
Come abbiamo osservato una leggera incongruenza tra un nuovo prodotto e le categorie di questo prodotto che abbiamo nella memoria induce quasi sempre ad una valutazione favorevole.
Per riassumere:
– Il design, come progetto, favorisce le rappresentazioni mentali dei prodotti alimentari.
– L’immaginario alimentare funziona quasi sempre a partire dal colore e dalla forma.
– Il design è una sorgente d’inferenza per il consumatore. Vale a dire il design agisce come se fosse una conclusione tratta da un insieme di fatti e circostanze.
L’inferenza è il processo con il quale da una proposizione accolta come vera, si passa ad una proposizione la cui verità è considerata contenuta nella prima.
– Le rappresentazioni mentali che scaturiscono dal food-design partecipano alla formazione delle attese.
– Quando il design accentua la dissonanza cognitiva gli effetto di questa dissonanza tendono ad apparire (nell’ambito dei prodotti alimentari) esagerati e a generare inquietudine.
– La sensibilità estetica e le tendenze neofile favoriscono l’accettazione di un prodotto alimentare, anche se è poco noto.
La forma di sistema degli atti alimentari.
Nel contesto del nostro paradigma gli atti alimentari possono essere considerati anche come un sistema. In questa affermazione è implicita una conseguenza importante: ciò che lega gli atti alimentari al linguaggio è della stessa natura di ciò che lega il linguaggio agli uomini.
Vediamo a questo proposito un paio di analogie la cui comprensione è intuitiva. Tutti gli uomini imparano a parlare, ma parlano lingue diverse. Tutti gli uomini imparano a mangiare, ma mangiano (secondo) cucine differenti. Vale a dire, secondo un insieme di regole che, per l’essenziale, sono sempre percepite come implicite. Di queste regole, com’è facile intuire, non abbiamo una coscienza diretta quando le applichiamo, ma diventano evidenti quando sono trasgredite o ci allontaniamo dalla cornice metargomentativa nella quale compaiono.
Trasgredire queste regole, infatti, produce spesso degli effetti che vanno dal comico al disgusto.
Quando avviene ciò? Soprattutto quando si associano malamente alimenti culturalmente incompatibili, oppure quando si capovolge l’ordine con cui esse sono conosciute. Per questo, ci rendiamo ridicoli agli occhi degl’altri quando ignoriamo le regole della loro cucina e le regole cerimoniali che contraddistinguono i loro usi e i loro costumi conviviali.
In altri termini si può dire che gli uomini mangiano secondo una grammatica ed una sintassi, che molti addirittura paragonano ad una poetica, interiorizzata nell’infanzia.
In questa prospettiva la cucina si rivela ancora una volta un insieme di alimenti e di tecniche che rimanda ad un sistema complesso di norme, disposizioni e regole implicite volte a strutturare il comportamento e la rappresentazione degli alimenti e, più in generale, degli atti alimentari.
Cambiamo l’angolazione, il senso comune, per definizione, tende a definire ciò che è commestibile e ciò che non è commestibile in termini fisici, chimici, e tossicologici. In una tale ottica risulta commestibile tutto ciò che è, biologicamente parlando, mangiabile, cioè nutrizionalmente utile.
Di fatto, però, raramente è così. Se osserviamo le diete alimentari degli uomini vediamo che la varietà dei loro cibi è enorme, ma anche che questa varietà è lungi dal rappresentare tutto ciò che si può mangiare.
Richard Lee, un antropologo canadese che insegna in California, alla UCLA, Politiche della cultura, ha repertoriato, con l’aiuto degli indigeni che lo abitano, tutte le specie animali e vegetali del Kalahari, quella regione che si trova tra la Namibia e il Mozambico all’altezza del Tropico del Capricorno. La ricerca ha evidenziato il fatto che le specie animali, conosciute ed identificate, sono molte di più di quelle reputate commestibili e che, tra quelle reputate commestibili, solo una piccola parte è effettivamente mangiata. Ciò ci porta a concludere che, a dispetto del senso comune, non sempre tutto ciò che è biologicamente commestibile è, allo stesso tempo, culturalmente mangiabile…a cominciare dagli insetti per alcuni, per finire agli animali domestici per altri.
In uno studio pubblicato qualche anno fa dalla Human Relations Area Files (HRAF), una tra le più importanti organizzazioni internazionali nel campo dell’antropologia culturale affiliata alla Yale University, è stato rilevato che ci sono quarantadue culture che mangiano topi o roditori simili, molte di più delle culture che mangiano gli uccelli domestici come sono i polli!
Qui, va ancora una volta evidenziato il fatto che noi inevitabilmente procediamo a costruire e ad interiorizzare le categorie alimentari fino al punto che ogni trasgressione provoca una reazione di rifiuto che arriva fino al disgusto e che può anche tradursi in comportamenti ossessivi-compulsivi al limite del disturbo psicotico. Per questo la distinzione tra ciò che è commestibile e ciò che non lo è risulta approssimativa e grossolana. Di contro, l’alimentazione è governata da un sistema implicito di regole complesse che possono, all’apparenza, sembrare arbitrarie e che riguardano l’habitat, l’età dell’uomo, la sua salute, il sesso, le cerimonie, le circostanze, eccetera.
In questo contesto possiamo allora distinguere tra regole estrinseche e regole intrinseche.
Le prime, quelle estrinseche, concernono il rapporto tra gli atti alimentari e i fattori esterni di tempo, di luogo, di circostanza. Per fare un esempio, noi mangiamo secondo degli orari e questi orari regolano quello che mangiamo, mangiamo secondo il gruppo sociale a cui apparteniamo, mangiamo secondo l’epoca in cui viviamo e gli stili di vita che ci hanno educato.
Le regole intrinseche, invece, sono quelle che governano dall’interno gli atti alimentari. Dentro queste regole, poi, si può distinguere una dimensione diacronica e una dimensione sincronica di questi atti. La dimensione diacronica concerne la sequenza dei cibi che formano l’insieme dell’atto alimentare. La seconda, quella sincronica, rileva l’associazione dei cibi o, se si preferisc il loro essere in relazione che definisce l’atto alimentare.
In linea generale l’ordine degli atti alimentari tende, a secondo della cultura di riferimento, ad essere sincronico o diacronico. Nel caso di un ordine sincronico il servizio alimentare si effettua in una sola operazione. La sua cerimonia, tende così ad essere vissuta in una cerimonia di tipo spaziale che si organizza intorno ad un buffet o ad un tavolo comune nel quale tutti i piatti con gli alimenti cucinati sono esposti in un ordine più o meno coreografico. Rappresenta la forma più antica di convivialità in quasi tutte le culture.
Nel secondo caso domina l’ordine temporale e, di conseguenza, tutti mangiano la stessa cosa nello stesso momento secondo ritualità prestabilite.
A partire dall’Ottocento, nel mondo Occidentale, c’è anche il caso di una combinazione tra l’ordine sincronico e quello diacronico, come nel servizio alla francese. Questo servizio precede quello detto alla russa, dove i convitati sono serviti individualmente di ciascun piatto secondo un certo ordine stabilito in precedenza. Tenuto conto del clima che si ha in Russia appariva la soluzione più ovvia perché il cibo non si raffreddasse troppo sostando sui tavoli prima di essere consumato.
In seguito si è anche rivelata una soluzione pratica ed economica. L’ordine di servizio dei piatti portati in tavola è conosciuto se c’è il menu, altrimenti è ignorato dagli ospiti, da qui, per cortesia, l’abitudine a confezionarlo soprattutto nelle cerimonie ufficiali.
Da un altro punto di vista, quello dell’igiene, sono state le osservazioni sul modo di diffondersi della peste di Marsilio Ficino (1433-1499) – filosofo e umanista – che decretarono l’inizio della scomparsa del vasellame comune a tavola. E, dunque, del progressivo abbandono dell’ordine sincronico e a credenza.
Ma torniamo agli atti alimentari e al meccanismo dell’incorporazione. A cosa servono le loro regole? Sostanzialmente, a tutelare chi mangia dall’imprevisto. Il colui che mangia, infatti, non ama gli imprevisti quando è a tavola, sia per quanto attiene il modo di cucinare il cibo che per le aspettative che si è costruito su ciò che si aspetta di mangiare e che sono acquisite culturalmente.
Gli italiani, che li adorano, vedrebbero con orrore vedersi servire degli spaghetti al pomodoro per la prima colazione.
In altri termini, le categorie in questione non hanno nulla a che vedere con i problemi nutrizionali e biochimici. A Parigi si può mangiare, sulla riva sinistra, una zuppa di cipolle accompagnata da un bicchiere di Chablis, alle tre del mattino, usciti da una discoteca… ma, quella stessa zuppa, due ore dopo, alle cinque del mattino, apparirebbe subito indigesta e fuori luogo, suscitando disgusto e dubbi sull’educazione dell’ospite.
In molte regioni dove ancora esistono delle culture tribali, come in Africa, nel Sud-est Asiatico, in Australia, in Oceania, i guerrieri e i cacciatori si astengono dal mangiare determinati animali, come sono le lepri o i ricci, per non incorporare la paura che nell’immaginario collettivo li contraddistingue e che si trasferirebbe in loro. Le donne incinta evitano di mangiare la carne di maiale per non trasmettere al figlio in grembo i caratteri di questo animale ritenuto stupido e sporco.
Tutte queste forme di credenza implicano l’inevitabilità della trasmissione di certi caratteri fisici, mentali e morali di ciò che si mangia a colui che mangia.
Come abbiamo accennato, gli antropologi definiscono questa credenza con il nome di principio di incorporazione ed esso è un carattere tipico del pensiero magico. Frazer parla di legge della contaminazione, la sua formula recita, once in contact always in contact. Il contatto trasmette sempre qualcosa, lascia delle tracce, infetta con un essenza che si crede incancellabile e che non sempre dei riti ad hoc possono togliere.
Va da sé, su questo punto i riti delle culture primitive sono pittoreschi ed inefficaci. I riti delle culture moderne, di contro, sono più contenuti e, in genere, altrettanto inefficaci. Per esempio, nella cultura dei paesi industrializzati è diffusa l’illusione che il male che uno si infligge mangiando cibo spazzatura può essere eliminato con un’ora di palastra.
Nell’archetipo del contagio, il contatto alimentare è in genere considerato tra i più inquietanti, perché è vissuto come una sorta di contatto totale. Penetra all’interno di colui che mangia e diviene parte del suo corpo, della sua identità. Questi pregiudizi, sotto forme diverse, sono presenti anche nell’uomo moderno, come mostra questo esperimento compiuto su un gruppo di studenti universitari americani. Ad un certo numero di essi fu fornito il profilo di una tribù immaginaria, che, tra le altre cose, aveva come alimento principale della sua dieta la carne di cinghiale.
Ad un altro gruppo fu fornito lo stesso profilo, ma con la variante che questa tribù mangiava di preferenza colombi e tortore. Fu poi somministrato loro un test sull’opinione che essi si erano fatti delle due popolazioni così descritte, gli appartenenti della prima tribù risultarono coraggiosi, mentre quelli della seconda furono definiti pacifici. Dove risiede l’importanza di questo principio d’incorporazione? Nel fatto che, se pensiamo di essere ciò che mangiamo, allora inevitabilmente finiamo per esercitare un controllo sui nostri comportamenti alimentari e, allo stesso tempo, cerchiamo di esercitarlo sugli altri.
La stessa condizione di onnivori, da un punto di vista tecnico, implica una certa libertà da una parte e tutta una serie di limitazioni dall’altra. Queste limitazioni sono, in principio, derivate da considerazioni nutrizionali, perché non siamo in grado di recuperare da un solo alimento ciò che ci necessità per vivere, ma inevitabilmente subiscono nel tempo un processo di simbolizzazione che le fa entrare nel nostro bagaglio culturale con tutta la loro dimensione metaforica.
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Occorre chiarire meglio questo punto. Se il processo di simbolizzazione è astratto, non sempre lo sono i suoi effetti. Il simbolico, infatti, ha anche una dimensione normativa, partendo da questa constatazione Pierre Bourdieu (1930-2003) sociologo di formazione filosofica, ha elaborato il concetto di violenza simbolica. Una violenza dolce e spesso invisibile che svolge un ruolo importante all’interno delle relazioni umane e sociali. Noi siamo abituati a riconoscere solo alcune forme di violenza, in genere sono quelle rozze che derivano dal potere economico, militare, criminale, o da ideologie reazionarie, come il razzismo, l’omofobia, la violenza contro le donne, eccetera, ma – scrive Bourdieu – c’è una forma di violenza che si esercitata essenzialmente attraverso le vie puramente simboliche della comunicazione e della conoscenza. È una violenza, tra l’altro, che intreccia il suo potere con l’economia dei beni simbolici tra i quali, per quando ci riguarda possiamo includere i valori culturali promossi dai processi di simbolizzazione degli atti alimentari.
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Varietà e innovazione, dunque, non sono solo l’espressione di una necessità biologica, ma anche della nostra evoluzione culturale. Così, la complessità del linguaggio riflette, per altri versi, la complessità degli atti alimentari. Il paradosso di questa situazione è che ogni novità può rappresentare tanto un rischio, quanto una necessità, che un piacere, sia reale che immaginario.
In questa prospettiva, ci sono due atteggiamenti fondamentali che caratterizzano gli atti alimentari.
Quello neofilo e quello neofobico. La familiarità con un alimento comporta, in genere, soddisfazione, ma anche monotonia. L’onnivoro, insomma, è costantemente preso tra le lame di una forbice. Sicurezza e monotonia, oppure, varietà e pericolo.
Si può anche dire che, la tensione che risulta da questa situazione costituisce uno dei motori del comportamento di colui che mangia. Un comportamento che abbiamo definito più volte complesso perché tessuto, o se volete, condito di considerazioni reali e di circostanze immaginarie.
Una alternativa di questo tipo è assimilabile alla figura concettuale elaborata da Gregory Bateson detta del double bind.
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Bateson (1904-1980) è un antropologo americano che si è occupato anche di psichiatria e cibernetica. Il double bind – in italiano doppio legame – è un termine che lui ha coniato per indicare un vicolo cieco o una contrarietà in cui si trova un soggetto, nella fattispecie uno schizofrenico, quando non è in grado di rispondere coerentemente a due ordini di messaggi contraddittori. Nello schizofrenico, in genere, il doppio legame da vita ad una risposta psicotica che rivela la sua incapacità a risolvere ogni contrarietà. Eccoti un soldino, dice la mamma al bambino, ma non spenderlo! Oppure, dice lo schizofrenico all’amico ha cui ha regalato una cravatta rossa e l’altra blu. Hai messo la cravatta rossa, lo sapevo che quella blu non ti sarebbe piaciuta!”
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Questo doppio legame sembra essere stato risolto dall’uomo con la cucina.
In questo senso la cucina o, meglio, le arti cucinarie, appaiono come una soluzione culturale di notevole profilo sociale.
Abbiamo visto che gli atti alimentari sono molto di più che un insieme di tecniche, di regole e di ingredienti, essi costituiscono un sistema complesso di cerimonie, spesso all’apparenza arbitrarie, che governano il nostro comportamento. Da questo punto di vista è proprio la varietà di questi atti che consente d’istituire un sistema cucinario allo stesso tempo vario e familiare.
Se osserviamo gli atti alimentari si può concludere che, spesso, di fronte ad un prodotto inabituale colui che mangia mette in campo delle strategie per integrarlo nella sua familiarità cucinaria.
Di contro, molte strategie cucinarie sono indirizzate ad introdurre il maggior numero possibile di varietà (o, varianti) anche e soprattutto quando è limitato il numero degli alimenti a disposizione.
Un esempio, in Portogallo ci sono, dice un proverbio, più di trecentosessantacinque modi di cucinare il baccalà, vale a dire, il merluzzo seccato e salato. Uno per ogni giorno dell’anno. Forse è un’esagerazione, ma duecento modi almeno sono descritti nei libri di cucina.
I criteri di scelta, come abbiamo visto, sono sia di ordine biologico che di natura socio-culturale, ma va notato come le regole cucinarie, la loro grammatica e la loro sintassi sono così tanto interiorizzate da sembrare incoscienti, da essere pensate come se fossero universali.
Nella prospettiva dell’interiorizzazione delle regole cucinarie ci sono due modelli contrapposti.
Il primo ci mostra come, in genere, nelle società tradizionali o chiuse regna l’eteronomia.
Le regole degli atti alimentari sono esterne rispetto al soggetto, provengono dalla cultura e dalla tradizione, dai modi di fare. Sono regole univoche e vincolanti, sia in maniera esplicita che implicita, molte delle quali derivanti da precetti religiosi, come quelle legate al digiuno o alla proibizione di mangiare determinati alimenti – le carni, per esempio – nei giorni di penitenza.
Ancora fino alla prima guerra mondiale e nonostante il disincanto della borghesia in Europa c’erano per i cattolici più di cento giorni all’anno interessati da questo fenomeno.
Il secondo modello, caratteristico delle società progressiste o aperte in rapida trasformazione si distingue invece per il carattere dell’autonomia. Va osservato che questa autonomia tende, in molte circostanze, addirittura all’anomia, cioè, a banalizzare ogni forma di regola, soprattutto se impositiva.
Qui siamo in presenza di situazioni che possono facilmente diventare di natura ansiogena e dare vita a dei comportamenti alimentari di tipo paradossale spesso accentuati se non addirittura stimolati dai messaggi mediati dalla comunicazione di massa, come sono quelli pubblicitari che fanno capo alle grandi filiere dell’industria e della distribuzione dell’agro-alimentare.
In genere questa spinta anomica viene vissuta da colui che mangia come una destrutturazione delle abitudini alimentari, molto più accentuata tra la popolazione urbanizzata, un’anomia che si rivela come un assopimento delle spinte culturali alla gestione soggettiva degli atti alimentari.
Un tempo, nelle società tradizionali la preoccupazione maggiore in materia di alimentazione era, ed è, come oggi nel mondo non-industrializzato, la disponibilità e la quantità. Di fatto, per migliaia di anni la quasi totalità del tempo di vita gli uomini lo hanno spese nelle attività di caccia e di raccolta.
In chiave antropologica l’agricoltura si può definire una pratica recente, che non ha completamente cancellato l’inquietudine di colui che mangia. Sulla scala dell’evoluzione, infatti, il periodo temporale che contraddistingue la stagione delle certezze alimentari non dura da più, come dicono i sociologi, di un battere di ciglia.
Sembra inverosimile, ma all’interno di un lasso di tempo brevissimo, diciamo di soli cinquanta o sessanta anni, si è poi sviluppata nelle culture industrializzate una dimensione squisitamente qualitativa delle preoccupazioni alimentari. Oggi, insomma, per molti, il problema non è più che cosa mangeremo domani, ma che cosa sceglieremo di mangiare. Questa evoluzione corre parallela alla nuova composizione della società, passata dal ruralismo all’inurbazione metropolitana, caratterizzata dal nascere di stili di vita in rapida e continua trasformazione.
Per fare il caso italiano, alla fine della seconda guerra mondiale quasi il trenta per cento della popolazione abitava nelle campagne, oggi questa percentuale si è ridotta a meno della metà.
Va anche notato come nel settore terziario, caratteristico del mondo occidentale, più del sessanta per cento della popolazione impiegata è femminile e che questo settore è oggi la condizione di classe più diffusa. Tra le altre cose questo settore è contraddistinto da un abbassamento del fabbisogno energetico degli individui e dal corrispettivo crescere dei consumi alimentari di natura superflua o legati al prestigio, cioè, ai consumi estensivi, impiegati per esibire uno stile di vita.
Questo tema dei consumi estensivi è stato trattato per la prima volta in La teoria della classe agiata, di Thorstein Veblen (1857-1929) la cui prima edizione risale al 1899.
In termini percentuali si valuta che il consumo alimentare, espresso in calorie, è sceso di almeno un terzo rispetto ai primi anni del ‘900. Anche la sensibilità alimentare è cambiata. Un tempo era dominata dalle abitudini delle classi popolari. Oggi è dominata dai ceti medi, che richiedono cibi a forte valore aggiunto, anche se dubbi da un punto di vista nutrizionale il problema non è più la fame.
Tra i valori aggiunti c’è ne sono alcuni con un forte richiamo emotivo, come è quello legato al mito salutistico. Ma che cos’è una sana alimentazione? Fino a mezzo secolo fa la risposta si argomentava intorno all’aggettivo nutriente. Oggi, invece, la risposta è strutturata intorno al concetto di equilibrata. È un’evoluzione che rispecchia le nuove mitografie della società occidentale nella quale i modi, gli stili di vita e le condizioni economiche sono radicalmente cambiati. A questo va però aggiunta la circostanza che i prodotti alimentari consumati sono divenuti sempre di più di natura industriale, sempre più pre-confezionati.
Che cosa comporta questo? Che gli alimenti, che si sono trasformati in prodotti industriali, sono sottoposti a delle lavorazioni di cui non siamo più a conoscenza o, se ne siamo a conoscenza, non siamo in grado di giudicarle considerata la complessità delle tecnologie impiegate. Così, una distanza reale e una distanza immaginaria si è istallata tra noi e questi prodotti che conosciamo solo dopo che sono stati lavorati e in qualche modo “marchetizzati”.
In altre parole, per usare un’espressione gergale della sociologia dell’alimentazione, sono diventati dei C.A.N.I. (Composti alimentari non identificabili).
Abbiamo visto che per secoli gli uomini hanno attribuito una grande importanza all’affermazione di essere quello che mangiavano, oggi, se non sanno più quello che mangiano, che cosa diventeranno?
Se poi i nostri comportamenti alimentari dipendono sempre di meno dalle norme e dalle tradizioni culturali apprese e sempre di più dalle mode o dall’emulazione verso gruppi di riferimento, spesso immaginari, non è difficile dedurne che siamo in presenza di situazioni che inevitabilmente producono degli stati ansiogeni, sia pure sotto forme diverse da quelle che un tempo erano indotte dalla fame, forme che favoriscono quello che gli psicologi definiscono, disordine alimentare.
La sociologia classifica questa nuova situazione alimentare come una cacofonia dietetica, vale a dire, dominata da una cattiva (kakos) armonia.
In teoria, colui che mangia è nella condizione di scegliere liberamente secondo la sua fantasia e le sue possibilità economiche, nella pratica, invece, è sistematicamente contrastato dalle sollecitazioni che gli giungono attraverso la pubblicità, i mass-media e l’esempio del suo gruppo ideale di riferimento. Sollecitazioni spesso contraddittorie che in genere nascondono delle intenzioni strategiche volte all’affermazione dei prodotti che promuovono.
Va notato che una tale cacofonia, alla lunga, genera pregiudizi che producono degli stereotipi culturali, alimentano dei luoghi comuni senza fondamenti culturali o nutrizionali. Per fare un esempio conosciuto, fino a poco tempo fa il nemico pubblico numero uno nell’alimentazione degli occidentali era lo zucchero e le sostanze zuccherate, oggi, invece sono i lipidi, cioè le materie grasse. Siamo passati, in un paio di generazioni, da un atteggiamento saccorofobico ad uno lipofobico.
Questi atteggiamenti vanno attentamente seguiti perchè si trascinano dietro molte istanze di tipo morale o estetico, il più delle volte improntate all’esclusione o alla costruzione di regimi alimentari immaginari.
Torniamo ancora una volta all’ansia. Dietro questa patologia non si nascondono solo dei disturbi alimentari classici, come la bulimia, l’anoressia e il vomiting, ma anche gli attacchi di panico.
Come abbiamo osservato, nel corso di centinaia di migliaia di anni di evoluzione l’organismo umano ha appreso a distinguere le sostanze commestibili da quelli che non lo sono, perché pericolose, dannose o inutili. Questo apprendimento è stato memorizzato dagli uomini che hanno poi provveduto a selezionare tra le sostanze commestibili, quelle più gustose e digeribili ed hanno imparato a conservarle e a trattare molte di esse mediante la cottura e il condimento.
Nel corso del tempo questo apprendimento, per ragioni sia endogene che esogene, si è progressivamente codificato subendo una continua e complessa evoluzione culturale. Sul piano antropologico tutto questo comporta il fatto che nutrirsi significa convivere con l’eredità e i caratteri della tradizione alimentare. Caratteri che, nella pratica, vengono replicati da ogni madre, in ogni famiglia e in ogni comunità.
Ogni generazione, dunque, riceve il cibo già pensato da quelle che l’hanno preceduta e se ne alimenta sulla base della fiducia che ripone nell’autorità della tradizione, esattamente come il bambino si affida alle cure dalla madre.
Il cibo, per riassumere, è trattato socialmente e rappresenta il primo imprescindibile rapporto di fiducia che ogni essere umano intrattiene con la sua storia, la sua famiglia, e la comunità di appartenenza. In questa prospettiva i disturbi alimentari appaiono come un atto di rottura di questa fiducia che ha pesanti ripercussioni sul mondo emotivo, relazionale e sociale che circonda l’individuo e, come ogni atto di rottura, comporta e genera ansia.
In altri termini i disturbi alimentari esprimono la difficoltà del soggetto che ne è interessato a regolare (gestire) il rapporto fra appartenenza e differenziazione, fra dipendenza e autonomia, di fatto essi rivelano la stessa matrice strutturale dei disturbi fobici, come l’agorafobia, la claustrofobia e l’ipocondria, collocandosi, insieme all’attacco di panico, accanto ad essi.
Consideriamo, per comprendere meglio le implicazioni culturali di questo meccanismo ansiogeno, la nozione di territorio, è stata nel corso dell’Ottocento un’idea connotata da un importante e forte contenuto politico. Oggi, che molti valori della politica si sono banalizzati, sono nati altri processi assiologici come quelli dell’autenticità, della veridicità, della purezza, della tradizione e dell’identità, che costituiscono dei valori che si trasmettono localmente.
Di riflesso, nei processi alimentari è aumentato il peso dei contenuti simbolici. Vale a dire, di certi valori morali, di certe pratiche di costume, di certi stili di vita che hanno contribuito a cambiare i gusti e il significato della loro immagine archetipica. Per fare un esempio. Il recupero della polenta e del caminetto in certe regioni del nord Italia come simboli di un nuovo modo di vivere i valori della famiglia e del luogo in cui si abita anche in chiave politica.
Le trasformazioni che stiamo esaminando sono recenti. A cavallo tra le due guerre mondiali la definizione di buona cucina era lapalissiana, si diceva che essa era buona quando tutti i suoi ingredienti avevano il gusto di ciò che erano. Questa buona cucina era una cucina di donne e di origine determinata. Era una cucina pittoresca che sapeva di provincia, che esaltava la rusticità e la semplicità. Soprattutto era una cucina che faceva da filiera tra il piccolo mondo domestico e i grandi valori civili e religiosi.
Oggi l’accento si è spostato dall’alimentazione, come espressione di una tradizione gastronomica, all’alimentazione come espressione nutrizionale e dietetica.
Va notato che questo accento sulla salute rimanda a dei problemi che in qualche modo coinvolgono, anche se alla lontana, la vita e la morte, dunque, a dei problemi che appaiono morali. Questi, però, hanno per loro natura un risvolto di tipo sanzionatorio che rimanda ai temi classici della purezza, dello sporco, dell’errore, del pentimento e dell’espiazione. Come si può costatare al centro di tutto questo troviamo ancora una volta la problematica della contagio per incorporazione. Se noi siamo quello che mangiamo dobbiamo padroneggiare tutto ciò che mangiamo se vogliamo diventare quello che vogliamo essere.
Di recente è stato elaborato un test la cui domanda chiave è: Secondo il vostro giudizio in quale, tra i paesi seguenti, la percentuale di decessi dovuti alla cattiva alimentazione è maggiore?
I paesi indicati erano Francia, Stati Uniti, Giappone e Tibet. Circa il quaranta per cento delle risposte indicavano gli Stati Uniti, il quindici per cento la Francia, il sette per cento il Giappone e il sei per cento il Tibet. Il resto a cento è costituito dai non so rispondere.
Se si riflette su questi dati si constata che il rischio di mortalità a causa dell’alimentazione non era pensato in ragione alla carenza di cibo, ma ad un suo eccesso. In particolare il cibo più pericoloso risultava la carne a cui si attribuivano anche i rischi connessi all’obesità. Di contro, la frugalità risultava un fattore di grande importanza per l’alimentazione ed è il motivo per cui il Tibet veniva indicato come un paese sano.