Sostanza, segni e simboli.
Le regole di un menu non sono in se stesse
più o meno insignificanti delle regole del verso,
a cui un poeta si sottomette.
(M. Douglas)
Esamineremo alcune relazioni tra la sostanza alimentare, il gusto, i segni e l’immaginario partendo da questa considerazione: il nostro cervello è un congegno insaziabile che divora in continuazione, rielaborandoli, glucosio, segni e senso.
Che cos’è il glucosio (o glucoso) è presto detto. Rappresenta il composto organico più diffuso in natura, sia libero sia sotto forma di polimeri, vale a dire di macromolecole.
È la fonte di energia più diffusa in natura.
In assenza di forme di vita che lo sintetizzino può formarsi dalla formaldeide.
Quindi è probabile che esistesse già quando nacquero i primi sistemi biochimici primitivi.
Nella modernità, tra questi tre “alimenti” (glucosio, segni, senso), ce n’è uno che ha preso il sopravvento sugli altri due: sono i segni.
Nel secolo scorso e nella prospettiva del food–design lo intuirono per primi i futuristi, senza però
rendersene appieno conto.
Per esempio quando definirono la pastasciutta una “assurda religione gastronomica italiana”, denunciandone l’apoteosi segnica che la circondava.
Dal fatto che oggi negli atti alimentari tutto tende a trasformarsi in segno ne conseguono due circostanze:
– l’immaginazione diventa sempre di più uno degli stimoli formativi del gusto.
– la dimensione culturale dei segni modifica la relazione tra la sostanza delle cose e la tradizione da cui nasce.
In questo modo, l’origine e la natura del “mangiato” finiscono per essere de-valorizzati rispetto agli elementi formali che lo accompagnano ed acquista un’importanza sempre maggiore l’arte di manipolare e comunicare questi elementi.
Non solo, si compie anche una importante metamorfosi, questi elementi o aspetti formali avvolgono i segni con un valore etico derivato da quello estetico.
Una sorta di corto circuito per il quale ciò che è bello è anche buono.
Lo si percepisce sul registro della qualità dove da tempo i parametri tradizionali che la definiscono appaiono superati e si è alterata, anche nostro malgrado, la scala della loro importanza.
Forma, colore e struttura appaiono sempre più determinanti nella formazione del gusto e dell’innovazione cucinaria, di più, questi tre fattori coniugandosi con le cerimonie conviviali hanno dato vita ad un vero e proprio teatro gourmand.
È un teatro capace di rielaborare la sostanza del desiderio dentro la forma letteraria dei simboli, come nel caso della giovinetta Meret Oppenheim, servita a tavola in più di un’occasione ai suoi scapoli immaginari o come nel “cannibalismo” dei futuristi o di certo cinema americano degli anni ’20, dove tutte le ragazze sono sugar o honey.
In ultima analisi il gusto, la dove appare svincolato dalla sua millenaria guerra contro la lesina, si è rivelato avido di metafore, immagini, figure retoriche, finendo per collocare le parole sopra i sapori e le sensazioni.
La scena alimentare è ora il luogo dove i nuovi commensali non vedono che segni la dove gli affamati un tempo non vedevano che desideri o, per altri versi, questa nuova cucina semiotica rovescia ciò che a suo tempo aveva osservato Claude Lévi-Strauss:
Essendo buona da pensare non occorre che sia anche buona da mangiare.
Sulle tavole della socialità questo eccesso della dimensione simbolica dilata la significazione – cioè, la relazione tra un significante e un significato – e il senso e crea nuove dimensioni del gusto, soprattutto, fa lievitare la posizione della comunicazione a livello di espressione di questo.
In breve la comunicazione del “mangiato” è diventata essenziale all’esperienza di colui che mangia ed essa avviene a spese di ciò che un tempo era l’alimento di per sé, direttamente nell’immaginario.
Anche il sapore degli alimenti ha subito una svolta perché è sempre più inseparabile dal legame sociale che crea la commensalità e l’ostentazione del loro consumo.
Un legame che si vincola al contesto attraverso il segno inscritto in una cornice metargomentativa, quella del senso gourmand.
Così nella modernità il mondo del senso e quello dei sensi appare sempre più intrecciato con il segno, tanto che ne deriva una pratica alimentare che fa della parola una “cuciniera” della sensibilità culturale, dove, scriveva Piero Camporesi, la res coquinaria si trasforma in una ermeneutica totalizzante della storia.
Vale a dire in un metodo interpretativo del mondo che si pone come senso.
Dentro questa cornice il teatro gourmand appare come un teatro dell’esperienza dello spazio alimentare e, al tempo stesso, di quella comunicazione che mette in “forma” l’alchimia del gusto, tra ciò che in esso è frutto dell’estetica e ciò che gli deriva dalla dissoluzione dell’ars magirica.
(Ars magirica è l’altro nome del libro di Apicio De re coquinaria. Significa “l’arte del cuoco” da mageiros, una figura complessa nella cultura greca a cavallo tra officiante, macellaio e cuoco. Ritorneremo su questo tema.)
Di più, questo teatro gourmand è un enorme catalogo di analogie.
Un tempo le amanti erano dolci come il miele, oggi le banche sono affidabili come la cucina d’antan.
Per riassumere diciamo che il teatro gourmand – del ghiottone o buongustaio – domina il processo permanente della signifazione dietro il quale si condensa l’identità del “mangiato” e il ruolo degli attori sociali, con il risultato di dare una forma alle parti variabili degli atti alimentari e di prefigurarli “all’ordine dell’interazione” (Erwin Goffmann) a cui appartengono.
(All’ordine dell’interazione in modo molto grossolano è un espressione sociologica che significa due cose soprattutto, che negli atti alimentari è presente un certo livello della realtà sociale – oggi in continua crescita – e che questa realtà sociale ha per il soggetto che mangia un senso, uno scopo che si traduce in una forma dell’ordine sociale. L’ordine dell’interazione, tra l’altro, è il titolo di un libro di Goffmann.)
Questa forma delle parti variabili degli atti alimentari – capace di comunicare – ha per gli attori un carattere normativo, in pratica costituisce un modello di organizzazione che la distingue dalla semplice consumazione alimentare.
Di più, ha una funzione d’iniziazione per gli attori che, per suo tramite, si possono, con un neologismo barbarico, “performare”, possono “vivere” la tavola e la sua liturgia.
In questo modo è inevitabile una drammatizzazione sia pure teatralizzata degli atti alimentari che fa emergere le implicazioni sociali della recitazione, il ruolo degli attori e le loro competenze.
Per riassumere: Mettersi a tavola significa sempre più entrare in una rappresentazione, perché colui che mangia condividendone la retorica si identifica con questa.
L’immaginario alimentare, del resto, non si limita alla “gustazione”, al piacere orale, ma attraverso essi tende a rivelare tutta una serie di valori, quali un’identità, il ruolo dell’alterità, le vie che conducono alla simbolizzazione della scena alimentare.
Questa scena nel suo significato primario, fu portata alla luce da Lévi-Strauss con la formula del triangolo culinario.
Appare chiaro come il “commensare” rappresenta, in tutte le epoche e in tutte le culture, una delle forme materiali più vitali del legame sociale, tanto che il suo significato rituale e simbolico tracima sempre ben oltre il bisogno, dando vita ad una liturgia della commensalità, che qui possiamo intendere come l’apice cerimoniale delle forme della convivialità.
Al centro della commensalità c’è la tavola, nelle sue diverse espressioni, come un oggetto inscritto in un ambiente ed attrezzato per uno scopo, come riflesso culturale della natura e della qualità dei cibi, come luogo d’incontro e di scambio.
Si può dire con il gergo della psico-analisi che paradossalmente il problema, sul piano simbolico, non è mai il mangiare, ma il saper mangiare nel “nome del padre che si fa legge”.
Facciamo finta di niente, ma tutti noi sappiamo che o si mangia la minestra o si salta dalla finestra.
Solo a questa condizione la commensalità è nomos – la legge positiva degli uomini che si contrappone alla physis la legge di natura – nutre, aggrega e crea coesione, così come, allo stesso tempo, la comunità che esprime (questa legge) si forma, si ritrova e si riconosce.
Verticalizzandosi, poi, la commensalità invera rendendoli visibili la gerarchia, l’ordine, i ruoli, i ranghi, le forme del potere, le posizioni amicali e familiari, il distacco e, insieme, il bello, il gusto, la capacità di cogliere le nuances del sublime ed esprimere gli stili di vita.
Essa è unificante e trascendente, esprime la follia festiva e struttura le forme sociali, rivela le libertà di dicembre e l’interdetto. Diventa la Calicut delle passioni e garantisce la stabilità delle relazioni umane, così come, allo stesso tempo, può rivelare la crisi di tutto ciò.
Vale a dire, può annunciare la crisi delle tradizioni e la glaciazione della scena alimentare (per usare una efficace espressione di Jean-Paul Aron), rivelare l’asepsi delle pratiche cucinarie, i nomadismi del consumo, le crisi identitarie, i radicamenti reazionari ad un territorio, la necessità di sensazioni forti o smemoranti.
Va notato, en passant, che la funzione simbolica del cibo appartiene anche al mondo animale, dove non è difficile constatare come spesso esso sia preso in comune e diviso.
Tra gli insetti sociali, per esempio, è un legame biologico che serve a costruire la loro società. Negli uccelli è un legame maternale condiviso. Tra i mammiferi che vivono in gruppi è uno strumento che gerarchizza la loro struttura sociale.
Tra gli uomini gli antropologi stimano che il fenomeno della simbolizzazione alimentare sia comparso circa cinquecentomila anni fa. Questa data corrisponde grossomodo a quando la preparazione del cibo ha cominciato a svolgersi intorno ad un fuoco e si è diffuso il suo consumo in gruppo.
Sono elementi che hanno favorito lo svilupparsi di una radice a viso, funzionale della convivialità e, di conseguenza, il nascere di luoghi privilegiati – com’è nell’immaginario l’idea di “focolare” – da adattare alla cucina e all’incontro.
A causa delle dinamiche sociali è anche realistico immaginare come la scelta degli alimenti, che non poteva essere indifferente, ha prodotto da subito le prime ineguaglianze o, se si preferisce, la costituzione delle prime élite.
L’ineguaglianza ha poi agito da volano sui processi di simbolizzazione, accentuandoli.
Come ha osservato Lèvi-Strauss, l’umanizzazione corre parallela alla cucina del simbolico.
In altri termini, da subito il banchetto è apparso carico di contenuti magici e comune a quasi tutte le culture appare l’abitudine di dividere con le divinità gli animali uccisi. Un’abitudine che, giocoforza, si è andata rafforzando in presenza di avvenimenti eccezionali come le nascite o le morti.
Questa cucina del simbolico ha due livelli.
Il primo è quello dell’incorporazione, vale a dire, dell’ingestione di valori positivi o negativi legati al cibo.
Il secondo è quello in cui il valore simbolico degli alimenti si costituisce in una sorta di legame tra coloro che mangiano insieme, perché la commensalità si manifesta sia come azione del cibo sull’individuo che come processo di condizionamento e di controllo delle scelte alimentari.
La cucina di maiale nel medioevo europeo ha espresso la funzione di simbolo distintivo nei confronti del mondo islamico e degli ebrei.
La cultura del vino è servita a marcare il distacco dalle regioni del sidro e della fermentazione dei cereali, divenute da un punto di vista religioso aree protestanti.
Dentro questa dimensione le pratiche conviviali sono una vera rappresentazione del cum vivere, anche ai suoi livelli più materiali.
Ci sono molte culture in cui condividere un pasto significa contrarre un legame o un impegno. In Libano, una terra nobile attraversata da guerre secolari, il “diritto del sale” è il diritto dell’ospite a essere sfamato e protetto. Ciò che unisce però può anche separare, a cominciare dagli dei.
I greci offrivano loro le ossa lunghe, il grasso, che brucia bene e le viscere. I romani uno spezzatino di avanzi. Nel symposion i greci coltivavano l’arte di bere, i romani gli preferivano dividersi le carni.
Molte culture nel banchetto hanno ricercato, attraverso la possessione dionisiaca, l’erotismo, la profezia, la poesia.
Altre, l’ascetismo e la legge.
Bere nella stessa coppa ha significato per secoli stringere alleanze, annunciare la fratellanza, così come impegnarsi davanti agli dei.
La commensalità spesso invita all’oblio, ma sa circondarsi di regole. Rispettarle – si suppone – distingue il coltivato dal barbaro.
I legami simbolici che essa crea sono possenti, ma possono essere disfatti, in un attimo, dalla perversione.
Se il cibo abbonda la tavola è il luogo della disponibilità, se il bere abbonda l’ebbrezza favorisce la confidenza o la congiura.
Intorno alla tavola si stringono spesso patti scellerati, si tradisce, si stipulano alleanze più o meno tacite, soprattutto, si recita.
Un tempo era lo spettacolo dei diseredati che si accalcavano intorno a questa tavola che misurava il potere della sua rappresentazione, oggi è essa stessa il luogo di un teatro gourmand che, in qualche modo, realizza l’invito di Jean-Jacques Rousseau a fare spettacolo con gli spettatori.
La sua forma ancora oggi decide il posto che in essa si occupa, rivela i ruoli e la qualità della cerimonia.
Quella rotonda è con il pane e il vino il fondamento eucaristico del nostro immaginario, i fasti e le feste che la storia ha inventato intorno ad essa mostra la dimensione del suo significato simbolico.
FINE